La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento

Luciana Rocchi - Istituto storico grossetano della Resistenza e dell'età contemporanea Onlus

Livio Dorigo, febbraio 2018, viaggio nei luoghi del confine orientale organizzato dalla Regione Toscana
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A distanza di 72 anni dal 10 febbraio 1947, trattato di pace (1) scelto quale data simbolo per ricordare le tragedie del “confine difficile”, a 15 dalla legge che ha inserito nel nostro calendario civile il “giorno del ricordo”, torna la denuncia di un silenzio troppo lungo. Eppure, scriveva un decennio fa Enzo Collotti, la storiografia italiana avrebbe potuto raccogliere stimoli importanti da studi rimasti circoscritti all’ambito locale, ma che già negli anni Sessanta avevano cominciato ad inscrivere «con rigore […] il problema della Venezia Giulia nell’orizzonte europeo e nella proiezione balcanica della politica italiana»(2). Rimane il vulnus di un ritardo, da cui ereditiamo ancora le tracce di un grumo di rimpianti e amarezze, malgrado l’ultimo ventennio ci consegni una fioritura di opere importanti, e la possibilità di un approccio capace di impedire alle memorie di coltivare rancori.

Le voci raccolte nel documentario appena prodotto La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento (3) ne danno testimonianza. È l’ultimo esito di un progetto che ha avuto come momento-chiave un viaggio sui luoghi, ma raccoglie l’eredità di un lavoro lungo un quindicennio, passato attraverso l’esplorazione di fonti documentarie, testimonianze ed esperienza diretta dei segni di memoria o di oblio, rimasti tra Istria e Venezia Giulia (4). A questa intersezione di storie diverse e di lungo periodo è universalmente attribuito il carattere di “complessità”, proprio di ogni segmento di storia, ma qui con qualche ragione in più. In un breve arco cronologico, in uno spazio limitato, si sono addensati gli esiti di fenomeni spiegabili solo recuperandone le radici plurisecolari e con il filtro di uno sguardo sullo scenario del Novecento europeo.

Con la conoscenza storica, si ripete con insistenza, è possibile dare una spiegazione alle ragioni di una geografia politica, che registra le infinite variazioni del “confine mobile”. Se ne può raccontare la storia con i documenti della diplomazia che stabilisce chi sta di qua e chi di là del confine, verificando su carte storico-geografiche le linee che separano, comparandole ai mutamenti di altre frontiere fra Stati dell’Europa del Novecento. Sulle carte i nomi sono un altro indizio: nell’Istria ora italiana ora jugoslava, oggi italiana, croata e slovena, una città è Albona o Labin, Pisino o Pazin, Parenzo o Porec. Si fa storia anche con opere della grande letteratura di confine, che dà voce con un altro linguaggio al vissuto delle popolazioni, al sostrato di sofferenze che le verità della diplomazia e della geografia non registrano. È particolarmente attuale un libricino di Guido Crainz, storico, precoce contributo all’iniziale lavoro di uscita dalla stagione delle rimozioni. Nel 2005 mise Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa nelle mani di lettori comuni e di insegnanti, dal 2005 chiamati per legge a introdurre nei curricoli il “laboratorio della storia del Novecento”, violenze di guerra fra Stati e guerra civile, un sistema concentrazionario plurale, le foibe e l’esodo, non come “libro di storia, [ma] quaderno di suggerimenti, di consigli di lettura”. Crainz proponeva testi della letteratura europea che spezzava “vecchie incrostazioni”, rischiando di generare la “insicurezza che può nascere quando si devono abbattere i muri di dentro”, scommettendo sul superamento della “paura della storia” (5).

Tante di queste fonti sono state un viatico al lavoro nella scuola, per incoraggiare la conoscenza e la coscienza di una storia indispensabile a formare cittadini italiani ed europei. Nel corso del tempo, si è aggiunta l’esperienza dei luoghi, tentativo di arricchire una pedagogia della memoria attraverso l’abbondanza o l’assenza di segni rimasti. Nelle città della Venezia Giulia e dell’Istria, gli studenti hanno scoperto monumenti e lapidi, segni della memoria collettiva, nel tempo mutevoli. Gonars, in Friuli Venezia Giulia, campo di concentramento per slavi, rastrellati a partire dal 1942 nella Slovenia, occupata dal regime fascista, è un ologramma della storia della memoria: un vuoto nella memoria dell’Italia, responsabile non come popolo ma come Stato invasore, riempito da pochissimi anni da una monumentalizzazione dell’area del campo; poco distanti, nel cimitero, tre memoriali: jugoslavo il primo, seguito, dopo l’esplosione delle nazioni, dal tributo sloveno e croato alle vittime. Questi campi sono solo un episodio delle violenze italiane nei Balcani, da tempo uscite anch’esse dall’elenco delle storie rimosse (6).

A Goli Otok, l’Isola calva, né Jugoslavia né Croazia hanno ancora riconosciuto il dovere della memoria per le violenze subite dai prigionieri, in maggioranza italiani, di un campo, voluto per isolare e punire la dissidenza dalla Repubblica jugoslava di Tito (7). A Basovizza, è in memoria delle foibe il monumento, grandioso nelle dimensioni e nella forma – un enorme patibolo –, destinato ad evocare simbolicamente il riconoscimento tardivo delle violenze subite da italiani (8).

Le pietre monumentali di Redipuglia, rappresentando generali e soldati dell’esercito italiano, schierati come sul campo di battaglia, sono la tappa che può iniziare o concludere il viaggio sui luoghi. A guidare visitatori abbagliati dalla spettacolarità, è uno storico, Franco Cecotti. Racconta di due monumenti: il primo, più sobrio ricordo consegnato alle famiglie dei soldati morti, il secondo, retorica esaltazione del morire in guerra, per offuscare i lutti privati con l’orgoglio delle morti eroiche. Tappa indispensabile, dice l’taliano d’Istria Livio Dorigo, per capire (e sentire) l’inutile strage: «per andare un po’ avanti e un po’ indietro nella linea del confine […] quanti uomini morti per niente» (9).

Dorigo nel 2009, anno del primo viaggio di studio per insegnanti, a Padriciano offrì una prova involontaria di quanto possano essere diverse e conflittuali le stesse memorie delle vittime. Due opposte narrazioni della profuganza non impedirono ai visitatori di percepire l’offesa subita dai profughi, privati di case e mobili, oggetti e spazi, per una promiscuità imposta dall’affollamento di tante famiglie. Vi aggiunsero una riflessione sulla memoria, trattata quasi sempre come grimaldello per forzare l’ingresso nel passato, come se bastasse ricordare per fare i conti con la storia (10).

Padriciano (foto di L. Zannetti)

Campo profughi di Padriciano (foto di L. Zannetti)

Lo abbiamo incontrato di nuovo, a Trieste, quando ha cominciato a prendere forma l’idea di un documentario diverso dal primo (La nostra storia e la storia degli altri. Il confine orientale nel Novecento), in cui il nostro testimone privilegiato racconta il tempo lungo della sua vita. Profugo nel 1947 da Pola, parla del viaggio della sua famiglia verso il Villaggio giuliano di Roma, fino al ritorno, a Trieste. Ma il tempo del racconto va oltre il suo vissuto sul confine: inizia dal Risorgimento, dal bisnonno democratico, volontario nel 1848 per la Repubblica di Venezia, e arriva alla descrizione di un’associazione istriana, dal logo che ha colori dell’arcobaleno. L’adolescenza nella Pola fascista, la rivelazione della vera natura del fascismo l’8 settembre, il battesimo dell’orrore della guerra con l’impiccagione di un italiano (la eseguono giovanissimi soldati tedeschi), lo spaesamento della famiglia, sbattuta fra le violenze nazifasciste e la prepotenza di capi partigiani slavi. Alle foibe, il suo discorso arriva con fatica: un tutt’uno con la profuganza, scelta dolorosa come può esserlo l’abbandono di tutto, compresa l’identità. Sono sue le parole scelte per il titolo del documentario. Livio Dorigo le ha pronunciate a margine della sua idea dell’Istria omogenea per cultura, oltre l’artificio di frontiere, e dell’immagine del Mediterraneo, “mare che unisce”, mentre spiega le ragioni di un rigoroso antinazionalismo. Di famiglia italianissima da quasi due secoli nell’area, lui stesso si dichiara fino in fondo italiano, per tradizione, lingua e scelte culturali. Ma il dolore dell’esilio, forte nel ricordo e mai scomparso, ha un suo stile, diverso da quello che affiora in altre testimonianze raccolte nel viaggio, distinguendosi soprattutto perché esprime con una convinzione contagiosa la speranza nel futuro di un’Europa solidale. Stessa proiezione su un futuro di dialogo fra culture scopre chi cerchi a Fiume i segni delle relazioni tra la minoranza italiana e maggioranza croata.

Quella di Dorigo è come altre una memoria individuale. Quella collettiva si è espressa quest’anno con rituali identici, ma accenti nuovi, rimodellata dall’attualità, carica di pericolose tensioni. Sono tornate memorie rancorose, fratture che sembrano voler riportare indietro, all’epoca dello scontro, e “mettere in secondo piano” gli storici. Un commento sulla stampa dello storico Giovanni De Luna conclude amaramente la ricostruzione delle tappe che hanno condotto all’istituzione e alla celebrazione del Giorno del Ricordo fino a quest’anno:

Nell’uso pubblico della storia era così allora ed è così ora: non tesi che si confrontano sulle fonti e sui documenti, ma argomentazioni che diventano nodosi randelli da brandire contro i propri avversari. E le vicende del passato sono degradate a puri pretesti (11).

Colpisce il dualismo fra la dimensione culturale di questo appuntamento civile e la liturgia celebrativa, quasi che la lunga strada percorsa dal gran lavoro sulla storia del confine difficile – scientifico, divulgativo, di pedagogia della memoria – non sia stata capace di incidere abbastanza da impedire un ritorno alla pericolosa semplificazione dello scontro su carnefici e vittime di foibe ed esodo.

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Ha stupito gli storici l’uso della categoria di “pulizia etnica” (12), come spiegazione delle violenze e degli infoibamenti senza distinguo o sfumature, in discorsi istituzionali di alto livello. Alcuni toni hanno quasi raggiunto lo stadio dell’incidente diplomatico con gli Stati balcanici, mentre alcune istituzioni locali in qualche caso si sono lasciate andare ad una politicizzazione esplicita. Sarebbe interessante oltrepassare la citazione di episodi e raccogliere dati, utili a capire il tempo presente, se e come stanno cambiando culture della memoria e strategie, quanto fecondo o più complicato è diventato il rapporto storia-memoria, se le attuali politiche memoriali hanno una reale funzione civile…

Guardando le cronache toscane, si trova grande varietà di forme nelle celebrazioni istituzionali. Ha prevalso l’invito a testimoni, nelle sale consiliari; è fatto normale, comune alla Giornata della Memoria, la presenza – residuale oggi, per la scomparsa dei testimoni – di ex deportati, politici o razziali. Per il Giorno del Ricordo, non sempre le istituzioni hanno badato a scegliere in modo da garantire rispetto per la solennità implicita nei luoghi delle cerimonie. A Pistoia, un’esperienza positiva: è stato l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea a proporre ed avere accolta dall’Ente locale una targa in ricordo dell’esodo. Il Comune di Siena ha fatto una scelta inedita e funzionale ad accrescere l’inquinamento delle ricostruzioni storiche, facendo prevalere altre, diverse ragioni: volendo unire memoria e ricordo, si sono mescolati deportazione ed esodo, Shoah e foibe, affidando per il 10 febbraio una lectio magistralis a Franco Cardini, storico noto per altri studi, non specialista dell’uno o dell’altro argomento. I consiglieri hanno ascoltato, dentro la lunga lezione, una (forse inattesa) severa contestazione verso chi ha usato la categoria di pulizia etnica.

Anche la Toscana ha accolto profughi (13), conserva segni di questo e di altri fatti, noti e studiati o da approfondire. La memoria dei luoghi è come altrove specchio di un complicato intreccio. Meno fitta che altrove è la mappa dei campi di internamento per slavi, allestiti dall’Italia durante la guerra fascista; più tardi, furono i campi di raccolta ad ospitare esuli giuliani e istriano-dalmati, talvolta in spazi già utilizzati come campi di prigionia, talvolta nel centro delle città, come a Lucca.

Si è molto arricchita la bibliografia sulla Toscana negli anni. La disseminazione degli esiti dei progetti rivolti alla scuola ha dimensioni importanti. Il documentario, ultimo strumento per la didattica, ha già avviato il suo cammino.

NOTE
1 Firmato a Parigi, conclude la seconda guerra mondiale ridisegnando il confine orientale. Sarà definitivo l’abbandono di terre istriane e dalmate, provvisoria l’istituzione del territorio libero di Trieste, zona A con amministrazione anglo-americana, zona B jugoslava. Definitivo nel 1975, con gli accordi di Osimo, il passaggio della zona B alla Repubblica di Jugoslavia.
2 E. Collotti, Introduzione, in T. Sala, Il fascismo italiano e gli slavi del sud, Tipografia Adriatica, Trieste 2008, p.11.
3 Regia di L. Zannetti, consulenza storica di L. Bravi e L. Rocchi, produzione Regione Toscana, ISGREC e ISRT, 2019.
4 Dal progetto Per la storia di un confine difficile: l’alto Adriatico nel Novecento (Regione Toscana-rete toscana degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea) sono nate la summer school per insegnanti nel 2017, altre iniziative sul territorio e, nel febbraio 2018, il viaggio di studio per 50 studenti e 25 insegnanti toscani.
5 G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005, pp. 3-5.
6 Cfr. C. Di Sante, Italiani senza onore, Ombre corte, Verona 2005; E: Gobetti, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), Carocci, Roma 2007.
7 Cfr. C. Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra in Jugoslavia, Ombre corte, Verona 2007.
8 Troppo ampia la bibliografia sulle foibe per una scelta. Si rinvia al documentatissimo sito dell’Istituto storico del Friuli-Venezia Giulia https://www.irsml.eu.
9 Intervista a Livio Dorigo di Luca Bravi e Luigi Zannetti, Trieste, 9 febbraio 2018.
10 C’è una letteratura ricca di riflessioni su memoria individuale-collettiva e su costi e benefici delle politiche della memoria della Repubblica italiana, prodiga negli ultimi decenni di date per un calendario civile giudicato utile, ma troppo fitto. Non pochi storici si sono cimentati su questi argomenti tirandone conclusioni diverse. Non è il più recente, ma quello che appare a chi scrive più interessato a scavare sulla data di cui si tratta qui è G. De Luna, La repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011.
11 G. De Luna, La storia utilizzata come un randello nel confronto politico, “La Stampa”, 10 febbraio 2019.
12 Nel sito web dell’Istituto regionale del Friuli-Venezia Giulia associato al Parri nazionale una sintetica spiegazione delle ragioni per cui sarebbe errato parlare di pulizia etnica. In Istria fu la categoria di “nemico del popolo” a guidare le violenze ordinate dai comandi delle brigate titine, mentre per le foibe giuliane “… l’obiettivo del governo jugoslavo non era quello di cacciare gli italiani dalla Venezia Giulia, ma di mobilitarli a forza nella lotta per l’annessione della regione alla Jugoslavia. Questo perché Stalin aveva esplicitamente chiesto ai rappresentati jugoslavi di corroborare le loro rivendicazioni territoriali con il consenso della popolazione, anche italiana. Naturalmente, non occorreva che tale consenso fosse spontaneo. Le stragi quindi, oltre all’intento punitivo, ne avevano altri due: decapitare la società della sua classe dirigente, fedele all’Italia, ed intimidire la popolazione italiana, affinché non si opponesse all’annessione”.
13 C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il campo di Fossoli e i “centri di raccolta profughi in Italia (1945-1970), Ombre corte, Verona 2011.
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