Gli ospedali di Siena nella Grande Guerra

Mauro Barni - Istituto storico della Resistenza Senese e dell'Età Contemporanea (Isrsec)

Implicazioni sociali e culturali delle patologie di guerra

Presidio ospedaliero militare della Misericordia di Siena durante la Grande Guerra
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Con l’entrata dell’Italia nella Grande Guerra e con l’arrivo di un numero crescente di feriti e di ammalati dal fronte, anche a Siena gli ospedali e i presidi medici, in buona misura antiquati ma validi, tanto per le malattie mentali quanto per quelle fisiche, si mostrarono ben presto assai utili anche se insufficienti. L’impianto sanitario preesisteva anche in senso qualitativo e assistenziale, per le sorprendenti compresenze di una storica Facoltà universitaria, di Confraternite e Associazioni su base volontaristica, della Croce Rossa e di una rete capillare di mutuo soccorso animato dalle Società di Contrada, e soprattutto dalle realtà ospitaliere come l’Ospedale di S. Maria della Scala, l’Ospedale Territoriale della CRI, validissimo presidio già al tempo della guerra di Libia, l’Ospedale Psichiatrico di S. Niccolò e l’Istituto “Pendola” per il recupero dei sordomuti, gli Ospizi per i vecchi e i disabili. Ne derivava una “potenzialità” anche edilizia, che la guerra avrebbe fatalmente riscoperto, requisito, valorizzato.

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Presidio ospedaliero della Croce Rossa in Piazza d’Armi durante la Grande Guerra

Nel quinquennio bellico più di un terzo dei ricoverati (2407 su un totale di 6871) furono militari arrivati dal fronte che complessivamente ascesero, durante tutta la guerra a ben 7858, tra soldati e ufficiali, in transito nei reparti dell’ingigantito sistema ospedaliero senese (anche con le ville di Castelnuovo Berardenga e della Suvera).

La vicenda della sanità senese durante il conflitto fu indubbiamente personalizzata e guidata da Remedi (1859-1923), preside di Facoltà di Medicina e Chirurgia, in un ruolo che riassumeva ogni impegno non solo universitario ma anche assistenziale, profuso al S. Maria della Scala. La sua dedizione alle attività sociale si era del resto già manifestata negli anni ’90 allorché aveva collaborato alla realizzazione e all’attività della Pubblica Assistenza. Nel 1915 col ruolo di consulente chirurgico degli Ospedali militari e della Croce Rossa per le provincie di Siena e di Grosseto e, con il grado di Maggior generale di Sanità della riserva, formò e diresse l’esemplare centro senese di accoglienza e di cura dei feriti e degli affetti da patologie contratte in guerra. E Siena seppe allora realizzarsi, grazie a questo apostolo laico, come una vera e propria città ospedaliera. In una relazione pubblicata nella Rivista ufficiale di Medicina militare, il Remedi dette conto delle attività, in particolare chirurgica, che personalmente diresse: “L’Amministrazione del Policlinico ridusse ad Ospedale di 300 letti i locali di S.M. Maddalena (R. Scuola normale e Convitto annesso) e questa Sezione Chirurgica, dipendenza della Clinica, io affidai al mio aiuto prof. Bolognesi, che mi fu valido collaboratore nella cura dei feriti che vi furono ricoverati (ben 2733 complessivi nel triennio: 2436 guariti, 10 deceduti prevalentemente per sepsi). Debbo far notare che, quando erano necessari interventi chirurgici gravi, i feriti venivano trasportati nella clinica».

Al di là della mera statistica, già di per sé assolutamente espressiva, il Remedi mirabilmente descrive le fasi di diagnosi e di cura messe a punto con originale preveggenza e i risultati ottenuti, assunti alla stregua di linee-guida per la cura delle lesioni chirurgiche traumatiche. Il suo contributo ha veramente arricchito la dottrina e la prassi terapeutica in chirurgia, grazie – purtroppo – alla dolorosa esperienza bellica, tramandando nuove direttive salvifiche atte a raggiungere in primo luogo le finalità ideali di “accrescere la resistenza dell’organismo, onde poter impedire ai microorganismi di svilupparsi e, se sviluppati, renderli al più presto inoffensivi”. Su questo teorema si sarebbero in effetti sviluppati l’impegno e il progresso chirurgico veri e propri. In un’epoca precedente alla scoperta e all’applicazione terapeutica di sempre nuovi farmaci antisettici ognor più sofisticati e alla efficace siero-vaccino-terapia (già peraltro introdotta anche in guerra grazie soprattutto all’opera di Achille Sclavo) e, ovviamente all’era antibiotica, il Remedi ritenne essenziale la conoscenza dei meccanismi cellulari ed umorali della infezione e dei presupposti della difesa antiflogistica e antibatterica, preliminare, fatte salve le urgenze, ad ogni atto chirurgico ed essenziale per garantire l’efficacia del bisturi a contenere la proporzione demolitoria. Così la mortalità al seguito di infezioni acute e croniche di ferite di guerra fu ridotta a poche unità.

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Virgilio Grassi

Il parallelo ruolo del Manicomio di San Niccolò fu rilevantissimo. Ne dette conto l’alienista primario Virgilio Grassi in un’ampia e documentata relazione sulla Rassegna di Studi Psichiatrici, che il direttore Antonio D’Ormea qualificò come contributo prezioso per la conoscenza dell’andamento a Siena della pazzia nell’esercito. Quel che più stava a cuore al relatore era il fatto che, in buona sostanza, non si ebbe “nessun aumento ospedalizzazione – manicomiale della popolazione civile durante il periodo bellico, ma anzi lo scemare di essa progressivamente”. Questo fenomeno, secondo il Grassi, “contraddiceva a tutti i timori della maggiore morbilità del sistema nervoso” che avrebbe dovuto “accompagnare e seguire le privazioni, le ansie e gli strapazzi fisici e morali di ogni genere dovuti al conflitto immane, non solo per i combattenti ma anche per gli altri”.

Con ogni probabilità a determinare questo fenomeno che appariva ben strano (ma non lo era) concorrevano altre cause d’indole sociologica. Da un lato infatti le famiglie operaie e contadine – aiutate dagli assegni di guerra meglio protette in guerra – “non sentirono più il bisogno di rinchiudere – come si soleva – molti giovani tranquillotti o troppo vivaci che prima rappresentavano un peso intollerabile per il magro bilancio domestico e ora dovevano rimpiazzare i richiamati. Dall’altro lato la Amministrazione provinciale, di fronte all’enorme aumento delle rette manicomiali, favoriva in ogni modo l’esodo e il non ricovero degli irregolari psichici in manicomio, sia con larghi sussidi specifici per l’assistenza famigliare anche con l’invio dei meno pericolosi a semplici istituti di mendicità o simili, nei quali il costo di degenza era notevolmente minore. Il beneficio di una presunta diminuzione della pazzia «si traduceva invece nel danno di una più trascurata cura di essa, con un deplorevole ritorno all’antico e con quanto vantaggio della eugenica (sic) è facile immaginare”.

Gli alienati militari (come li definiva il Grassi), ricoverati durante tutto il periodo di guerra, furono 809 mentre è imprecisato il numero dei morti. La maggior parte di loro “resultò affetta da forme ciclotimiche e amenziali, molti anche da demenze precoci (sebbene sulla diagnosi di demenza precoce già si facessero le dovute riserve), da epilessia e da difetti intellettuali. La maggior parte degli ospitalizzati fu trattenuta in manicomio da due a cinque mesi e molti ne uscirono guariti per ritornare al Corpo cui appartenevano, o migliorati e congedati dopo essere stati riformati dal servizio militare. I non migliorati, ovviamente riformati per deficit mentale, vennero trasferiti ai manicomi della Provincia cui appartenevano. Non mancarono casi di simulazione e altri che non presentavano una vera e propria alienazione mentale: di costoro alcuni furono restituiti ai Corpi cui appartenevano, altri, sottoposti per lo più a procedimenti giudiziari, passarono a luoghi di reclusione e di pena […]. Malgrado tutto, il servizio si svolse con sufficiente regolarità e non avvennero gravi inconvenienti dalla contemporanea presenza giornaliera anche di almeno 250 militari, verificatasi nel settembre 1917”. Vi fu qualche caso di evasione e di suicidio; ma purtroppo non pochi “matti” evasi dal fronte, erano stati trattati come simulatori non eccezionalmente condannati a morte e fucilati sul posto.

L’articolo è tratto dalla relazione di Mauro Barni al Convegno dell’ISRSEC “Siena nella Grande Guerra: la società e l’economia”.

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