Reagire alla crisi, progettare il futuro.

Alessandro Affortunati

La nascita del distretto industriale pratese. Intervista con Gabi Dei Ottati

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Anni addietro ebbi modo di intervistare la professoressa Gabi Dei Ottati, collaboratrice del professor Giacomo Becattini, sul problema della nascita del distretto industriale a Prato. L’intervista apparve su Azione sindacale. Periodico della CGIL di Prato nel numero del 1° marzo 1992. Oggi che la struttura socioeconomica della città ha subìto profonde trasformazioni, ci sembra utile riproporre il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

 Superata la fase della ricostruzione, il sistema produttivo pratese conobbe un periodo di intenso sviluppo e fu quindi investito, alla fine degli anni Quaranta, da una crisi molto grave che durò, all’incirca, sino al ’52. Quali ne furono le cause?

 A Prato la ricostruzione fu molto rapida: la città venne liberata nel settembre ’44 ed un anno dopo la capacità produttiva dell’industria locale era già tornata ai livelli prebellici. Successivamente, l’elevata domanda di prodotti tessili e le commesse dell’UNRRA favorirono un processo di sviluppo che, fra il ’45 ed il ’48, portò quasi al raddoppio del numero degli addetti. Il gruppo dei lanifici a ciclo completo era ancora l’asse portante del sistema, disponendo di più della metà dei macchinari esistenti nell’area ed occupando circa i 3/5 della manodopera, anche se le aziende impannatrici e terziste si erano moltiplicate nel periodo precedente alla crisi. I lanifici a ciclo integrato producevano essenzialmente per l’esportazione, mentre le ditte più piccole lavoravano soprattutto per il mercato interno. Per conseguenza, in fase di alta congiuntura, questi due modi diversi di organizzare la produzione potevano convivere senza problemi. La crisi colpì dapprima le imprese minori che, verso la fine del ’47, cominciarono a risentire del calo della domanda interna (un fenomeno in parte fisiologico, dopo una fase di forte espansione della domanda stessa, ed in parte attribuibile ai provvedimenti deflazionistici varati dal governo ed alla concorrenza delle aziende del Nord), e si estese poi alle imprese più grandi. Queste ultime collocavano tradizionalmente gran parte della loro produzione in India ed in Sudafrica. Prima della guerra, esse operavano in quei paesi in regime di oligopolio e, applicando la strategia dell’intesa, avevano stretto degli accordi per trarre il massimo vantaggio da tale situazione. Ma la nascita di un’industria tessile locale spinse l’India ed il Sudafrica ad adottare delle misure protezionistiche che ne favorissero la crescita. L’adozione di queste misure ebbe per Prato conseguenze gravissime in quanto si tradusse nella perdita dei suoi principali mercati esteri. Altri mercati (Est europeo e Cina) furono perduti per motivi politici. La crisi fu poi acutizzata dagli oneri fiscali gravanti sulle imprese, dall’esaurirsi delle commesse dell’UNRRA, dal mancato rimborso dei danni di guerra e, soprattutto, dalla svalutazione della sterlina (settembre ’49) che causò ai lanifici maggiori un danno consistente, sia in termini di riduzione dei crediti sia in termini di ordinazioni annullate.

 La risposta degli industriali alla crisi consistette nella smobilitazione delle fabbriche. Perché venne imboccata questa via?

 La crisi pose ai grandi industriali il problema della sottoutilizzazione degli impianti cui essi reagirono prendendo come modello l’impannatore e quindi affidando ad imprese terziste alcune lavorazioni che in precedenza si svolgevano all’interno dei loro stabilimenti. Senza dubbio gli imprenditori percepirono i vantaggi immediati che la smobilitazione assicurava loro (riduzione dei costi, aumento della flessibilità della produzione). Più difficile è stabilire se da parte padronale vi fosse la volontà di attuare un disegno che antivedeva gli elementi positivi di più lungo periodo insiti nella dis-integrazione dei lanifici a ciclo completo. Certo è che allora la cosa fu vista da tutti come un ripiego.

 Quella della smobilitazione era una scelta obbligata?

 Diciamo che, nelle condizioni date, la smobilitazione fu per gli industriali pratesi la scelta più logica, in quanto una parte del sistema produttivo locale era già organizzata sulla base di aziende medio-piccole e nell’area esisteva una vocazione all’imprenditorialità che era congrua ad una ulteriore polverizzazione del sistema stesso. Fu questa trasformazione che, accrescendone la flessibilità, permise poi alle industrie pratesi di rivolgersi a mercati che richiedevano prodotti di qualità migliore.

 Il sindacato avanzò delle proposte concrete per risolvere la crisi? Elaborò al riguardo una strategia realistica o si limitò a polemizzare contro i licenziamenti?

 Il sindacato fece il suo mestiere lottando contro i licenziamenti, ma non seppe elaborare delle proposte originali per uscire dalla crisi. Da questo punto di vista esso palesò senz’altro dei limiti, riconducibili ad una cultura ancora legata a vecchi schemi. Piuttosto va sottolineato che un programma per risolvere la crisi fu approvato dalle categorie economiche cittadine e dal consiglio comunale di Prato. Questo programma (alla cui elaborazione prese inizialmente parte anche la locale Unione industriale, che però ritirò poi la sua adesione) consisteva in una serie di proposte da presentare ai ministeri competenti. L’iniziativa del comune fallì, nel senso che le proposte formulate non vennero accolte dal governo, ma servì a compattare, in nome della difesa degli interessi di tutta la città, le forze sociali, politiche ed economiche in un momento particolarmente grave. L’iniziativa non fu quindi inutile: essa rappresentò, al contrario, un fatto importante per il nascente distretto industriale pratese.

 Che cosa si deve intendere per distretto industriale?

 Molto succintamente, si può definire il distretto industriale, di cui ha parlato per primo Alfred Marshall riferendosi ad alcune zone dell’Inghilterra vittoriana, come una forma di organizzazione economica che (ove ricorrano in una stessa località determinate circostanze, concernenti la tecnologia, la natura della domanda e l’ambiente socio-culturale) permette ad una molteplicità di imprese specializzate di modeste dimensioni di raggiungere un alto grado di flessibilità produttiva, realizzando economie di scala e di varietà a livello di area anziché di singola azienda.

 La smobilitazione fu un fenomeno locale o nazionale? In particolare, essa interessò gli altri centri tessili del Paese?

 In linea generale è certo che, se fenomeni analoghi si verificarono in altre parti del Paese, essi non ebbero la stessa rilevanza che assunsero a Prato. Ciò posto, si può osservare che un distretto industriale molto simile a quello pratese si formò, negli anni Cinquanta, nel Carpigiano, dove esistono numerose piccole aziende che operano nel settore della maglieria.

 Quali sono le ragioni dell’efficienza economica del modello produttivo nato dalla smobilitazione?

 Poiché tale modello è un esempio tipico di distretto industriale marshalliano (DIM), esse sono quelle che garantiscono l’efficienza economica del distretto stesso. Già abbiamo detto che esso consente di godere di economie di scala e di varietà a livello di sistema. E questo si deve alla divisione del lavoro fra tante piccole imprese complementari. A ciò si deve aggiungere un alto tasso di diffusione della professionalità (che nel DIM non è dunque patrimonio di pochi) e la realizzazione di forti economie nei costi di transazione.

 Tale modello è ancora valido oppure si deve pensare a qualcosa di diverso?

 Innanzitutto va detto che, in quanto modello di organizzazione economica, il DIM ha in sé elementi di razionalità riconosciuta che permangono al di là delle specifiche vicende di questo o di quel distretto. Se poi si guarda al caso pratese, il problema consiste nello stabilire se le condizioni che hanno consentito la formazione e la crescita del distretto industriale sussistono ancora. A me non sembra che tali condizioni siano venute meno e quindi la strada da percorrere non è quella di uno stravolgimento dell’attuale modello produttivo (verso cui continuano fra l’altro ad essere orientate le preferenze della maggioranza degli imprenditori locali), ma quella di un suo aggiustamento volto a contenere le diseconomie interne del sistema.

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