In fuga di paese in paese

Catia Sonetti - Direttrice Istituto Storico per la Resistenza e la Società Contemporanea nella Provincia di Livorno (Istoreco)

Ebrei toscani alla ricerca della salvezza tra il 1943 e il 1945

La famiglia Castelli con figli e nipoti (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)
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La vicenda della persecuzione degli ebrei ha ancora bisogno di moltissimi approfondimenti. Conosciamo infatti le traiettorie dei più illustri, di tutti coloro che hanno consegnato la loro storia al grande pubblico, in alcuni rari casi già a ridosso del ’45, più spesso dopo molti anni da quegli avvenimenti, attraverso diari e memorie nelle quali hanno rievocato la vita in esilio, il riparo in località più appartate, talvolta il viaggio verso la Palestina o l’esperienza tragica dei campi di concentramento. Più difficile è invece entrare in contatto con vicende più nascoste, vicende delle quali i testimoni diretti hanno mantenuto il segreto o perlomeno una forte riservatezza, di persone semplici ma anche di esponenti borghesi che non sono entrati, non hanno voluto far parte della schiera, mai troppo grande dal punto di vista delle generazioni successive, dei testimoni. Per scelta ponderata, per ritrosia, per caso, perché non hanno avuto la percezione chiara dell’importanza della loro vicenda, ed hanno pensato che questa potesse avere interesse solo per la cerchia degli stretti familiari.

Durante la preparazione della Mostra: Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, mi è capitato di divenire la destinataria di molte testimonianze inedite, sia orali che scritte, pressoché sconosciute. Testimonianze che probabilmente senza questa occasione sarebbero andate perse, testimonianze meno eroiche di altre  perché fortunatamente raccontavano una storia a lieto fine. Mi sono parse però capaci di rendere bene quel terribile biennio e il suo clima di paura. Spesso scritte in un tono minore da testimoni coevi che mettendo sulla carta la storia dei tentativi fatti per salvarsi, pensavano di narrare gli eventi solo per dei cari parenti lontani, o credevano che quelle poche pagine di appunti sarebbero potute servire quando, giunta la vecchiaia,  il ricordo si sarebbe annebbiato e tutto quel vissuto avrebbe corso il rischio di scolorire. Nel caso di cui ragionerò qui di seguito, caso abbastanza eccezionale[1], mi sono giunte tra le mani  quattro scritture diverse, elaborate da quattro diversi osservatori che si confermano a vicenda, senza che nessuno di loro fosse a conoscenza, al momento della stesura, del testo dell’altro. Una lettera di una giovane ragazza, Elsa Lattes di Livorno, una memoria di suo padre, Aleardo Lattes, un’intervista trascritta e pubblicata, quella a Gastone Orefice e poche pagine che riassumono i fatti, scritte dal vecchio Ugo Castelli sul “Libro d’oro della famiglia”.

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Rita Castelli (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

In questo intervento però mi riferirò solo alle prime tre. Il primo caso è una vera e propria missiva redatta da Elsa, poco più che ventenne, e inviata dall’Italia alla zia Rita Castelli che vive e risiede ad Asmara, per raccontare le vicende degli scampati pericoli. Al momento della stesura la famiglia è salva a Bolgheri, in casa di amici, e attende di poter tornare a Livorno, città già liberata ma impraticabile a causa delle macerie provocate dai bombardamenti. Questa lunga lettera è arrivata fino a noi grazie alla zia Rita che ha custodito per tutta la vita il carteggio che proveniva dall’Italia, e grazie anche alla successiva cura garantita dalla figlia Lidya dopo la sua scomparsa (si tratta di un epistolario di circa 730 lettere). La lettera in questione risale al 18 dicembre 1944. Tramite questa scrittura privata, poco più di due pagine, noi abbiamo come la fotografia di un nucleo familiare piuttosto ampio, quello della famiglia di Ugo Castelli, farmacista livornese, padre di quattro figlie e di un maschio, il primogenito. Tutti sono sposati e con prole, tutti legatissimi alla stessa scrivente che per alcuni è figlia, per altri nipote o cugina. Così dalla lettera di questa giovane, figlia di Aleardo Lattes e di Ada Castelli e sorella di Mario, noi possiamo ricavare tutte le informazioni che lei riassumeva per tranquillizzare la zia più lontana.

In questo testo si rammentano sei nuclei familiari, dai vecchi nonni fino all’ultimo nato, il figlio della cugina  Elena. In tutto diciannove persone, tutte quelle che rientrano nel reticolo parentale più diretto di Elsa Lattes. Così noi lettori di oggi veniamo a conoscenza che, dopo la fuga da Livorno, (tutta la famiglia era stata discriminata e aveva, fino a che era stato possibile, potuto fare una vita quasi normale, con la farmacia, il lavoro, gli scambi delle visite, le piccole gite e poco altro), era cominciato un lungo e tortuoso pellegrinaggio. Il loro distacco dal lavoro e dalla casa è causato dai bombardamenti, soprattutto da quello tragico del 24 maggio 1943. La paura della persecuzione all’inizio resta sullo sfondo degli avvenimenti. A sfollare dalla città verso la campagna  è un gruppo formato da due coppie, quella dei nonni e quella di Ada e Aleardo Lattes, figlia e genero di Ugo Castelli, il patriarca. Nel primissimo periodo si recano prima a Bolgheri da conoscenti, alla villa La Campana, e poi al Forte di Bibbona e poi da lì, e quello sarà il punto di svolta del loro pellegrinaggio, si recano alla villa “la Clementina” a Marina di Bibbona, villa di proprietà della famiglia ebrea dei cugini Tabet. La villa rimane per un certo periodo un rifugio sicuro ma poi, l’avvicinarsi del fronte, l’incrudelirsi della violenza tedesca e repubblichina, consigliano di cercare altri ripari.

Nel frattempo i componenti più giovani come Elsa, Vittorio, Gastone, tutti cugini, erano stati allontanati dalla costa e spediti a Firenze, Firenze che doveva essere “per i ragazzi” una tappa intermedia verso la Svizzera. Questo passaggio però non risulta dalla lettera di Elsa ma si estrapola dalle memorie che scrive il padre Aleardo. Perché Firenze? Forse perché lì risiedeva un fratello della nonna, perché lì agiva una ramificata organizzazione di aiuto per gli ebrei. Comunque tramite questi contatti o altri che non vengono menzionati, i giovani trovano rifugio presso alcuni conventi, come decine di altri ragazzi e ragazze ebree. All’inizio, per i maschi, escluso Mario, il fratello di Elsa, che si reca a Roma, c’era stata l’accoglienza presso i frati di Villa Imperiale[2]. Le ragazze vanno invece in un convento di suore. Scrive Elsa alla zia Rita:

Nel convento dove io ero, solo la madre (ottima donna che ha fatto di tutto per noi e ci ha aiutato fino all’impossibile) sapeva che ero ebrea, le suore tutte no. Vivevo così in mezzo alle educande come se fossi una di loro e non so davvero come hanno fatto a non accorgersi di nulla, per quanto andassi spesso alla messa o alle funzioni nella cappella del convento. Ma la vita a Firenze per noi, cominciava a diventare impossibile; venivamo a sapere di tanta gente che i tedeschi avevano deportato, e ci eravamo molto impauriti.

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Elsa Lattes a Villa Tabet, 1944 (Archivio privato Famiglia Cabib Lattes)

La paura suggerisce quindi di muoversi. Stare fermi in quei frangenti apparve a tutti come una inattività insopportabile, come un piegarsi al destino senza reagire. La decisione presa da Elsa fu di tornare indietro, andare di nuovo verso la costa, alla villa la “Campana”, a Bolgheri, dove Elsa sa di poter trovare i genitori. In quei giorni la stazione di Firenze era piena di soldati, di repubblichini e di tedeschi ma nessuno fa caso a questa giovane ragazza con uno zaino, che si appresta a prendere un treno per percorrere una distanza breve ma che la guerra trasforma in un’odissea che si protrae per dodici lunghe ore, dalle  diciassette del pomeriggio del 14 dicembre 1943[3] alle cinque del giorno seguente. Ma nessuno l’ha bloccata, né alla stazione, né sul treno. In questo colpo di fortuna entra solo il caso e niente altro. Se Elsa fosse stata fermata avrebbero visto dai suoi documenti l’appartenenza alla razza ebraica e per lei sarebbe stata la fine.

Intanto i giovani cugini, i figli di Giorgio Orefice e Anna Castelli: Vittorio e Gastone, dopo aver abbandonato il rifugio dei frati si sono diretti verso Norcia e noi sappiamo che si diedero alla macchia con un gruppo di partigiani del luogo[4]. Il piccolo gruppo era stato anticipato dai genitori che già si trovavano a Norcia e per loro forse la decisione fu meno sofferta Quello che più risalta comunque su questa scena, dove incontriamo diversi personaggi, è la loro modalità di muoversi e di agire, che appare in gran parte guidata dal caso. Una giovane ragazza che ritorna sui suoi passi e fa un viaggio a ritroso anche perché letteralmente non sa dove andare. E’ l’unica ragazza del gruppo, divisa dai cugini, e non ha con chi consigliarsi. Due ragazzi livornesi che vanno a finire in montagna con una banda di partigiani monarchici.

Riprendiamo però le fila della storia della nostra giovane ragazza che,riunitasi con i genitori e con i vecchi nonni, dopo soli quindici giorni di permanenza con i familiari, si rimette in marcia, di nuovo per prima e da sola, perché la sua età la rende potenzialmente più  facile vittima – anche se non viene mai detto o scritto – di uno stupro. Il padre farà un riferimento più esplicito a questo pericolo nelle sue memorie, perché più maturo e più esperto, e sicuramente anche perché ha meno ritrosia linguistica della figlia. Elsa invece, poiché il pericolo, adesso che racconta, è passato, si  permette anche considerazioni romantiche alla giovane zia lontana.

“..non potrai immaginare quello che ho provato quella giornata; mi sembrava di sognare, oppure di stare leggendo un libro di avventure. Infatti sembravo proprio un’avventuriera. Chiusa in un calessino coperto, con due uomini ai lati (uno era un certo Bianchi, guardia della villa Campana) partii di buon mattina invernale, il 12 dicembre[5], dirigendomi nella campagna di Riparbella da un cugino del Bianchi, il quale mi accolse volentieri in casa sua e mi tenne, ti assicuro, più che come una figlia…. La vita che avrei dovuto fare non mi sgomentava per nulla….Andavo la mattina con le bestie nella macchia insieme a un altro ragazzetto di 15 anni e una bimba di 10, stando fuori il più delle volte anche tutto il pomeriggio fino alla sera…..Dopo non molti giorni che ero là vennero anche babbo, mamma e i nonni, scappati di qui. Avevamo poco da mangiare (erba di campo, che si andava a cogliere anche sotto la neve, cavoli e basta). Essi sono stati lì con me fino al 7 marzo, giorno in cui sono partiti per Castellina.”

L’abitazione che la ospita è quella del cugino di Bianchi, certo Rodesindo, collocata nella macchia più fitta[6], dove la vita può trascorrere con una relativa tranquillità. La ragazza vi si fermerà per un lungo soggiorno, fino a pochi giorni prima dell’arrivo degli Americani a Castellina, quando il padre la va a prendere e la porta con sé per ricongiungerla con la madre e i vecchi nonni Castelli. Quando poi le cannonate si fanno troppo vicine, tutto il nucleo si rifugia in una grotta scavata nella roccia e dove, con il gruppo della famiglia Bianchi, raggiungono le nove persone.

Il 7 luglio finalmente Castellina viene liberata ma resta sotto il fuoco dell’artiglieria tedesca che cerca di proteggere la propria ritirata. Trascorrono quindi altri sette giorni e poi il 15 luglio, tutti,  possono finalmente ritornare alla villa di Bibbona, la Clementina, la casa dei Tabet. La trovano integra e finalmente tirano un sospiro di sollievo. La nostra testimone, giovane e piena di salute, si dedica ai bagni di mare prima che sia possibile, per lei e gli altri, rientrare a Livorno, ormai liberata. I parenti stretti di cui non si hanno ancora informazioni sono tanti: Carlo Castelli, lo zio più anziano e la sua famiglia, la moglie, la figlia, il genero e il nipote e la cugina Emma Belforte.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

I cinque membri che non si sono mai separati sono tutti vivi e sani; hanno perso moltissimi beni ma sono sopravvissuti. Ma proviamo a guardare questa storia da un’altra memoria, molto più dettagliata e,direi, meno edulcorata, di quella di Elsa. La ragazza doveva e voleva rincuorare la zia lontana, in Eritrea, e poneva l’accento sugli aspetti più leggeri tralasciando, penso di proposito, quelli più pesanti. Ma se confrontiamo quanto scritto dalla nipote di Rita con il testo del padre, emerge un quadro più drammatico e più realistico.  Il riepilogo delle vicende proposto da Aleardo, conservato con amore dai familiari e giunto per questo fino a noi, porta come data iniziale: 29 settembre 1945. Il suo racconto non prende le mosse dalla fuga ma dal bombardamento del 28 maggio 1943 su Livorno, uno dei più tragici subiti dalla città. Ed è a quello e alle distruzioni prodotte che il nostro autore attribuisce l’allontanamento suo e dei nonni di Elsa dalla città labronica, subito dopo aver allontanato i ragazzi, Vittorio e Gastone. Le due coppie di adulti vanno nella campagna vicina, da amici, in una abitazione al Forte di Bibbona ma sia Ugo Castelli, il suocero, che Aleardo continuano a tenere la farmacia aperta fino all’ottobre dello stesso anno. A quel punto sia la precarietà delle vie di comunicazione, che il clima di paura che tutti respiravano, in loro aumentato dal fatto di essere ebrei, li convincono a chiudere l’attività e a mettersi in fuga a tutti gli effetti. Aleardo però cerca, ancora per alcuni giorni, di raggiungere Livorno per imballare il salvabile, mettere via qualche mobile e qualche masserizia, chiudere la porta di accesso del negozio. Purtroppo niente di tutto quello che mise in salvo rimase intatto. Tutto fu distrutto dalle razzie degli sciacalli, portato via dai tedeschi in ritirata, distrutto dalle bombe.

Il riparo trovato non sembra però sufficientemente idoneo, soprattutto per la giovane figlia rientrata da Firenze. Allontanata Elsa in una campagna che pare dimenticata, lui e la moglie Ada durante la giornata si allontanano dalla casa che li ospita, e per non dare nell’occhio, si inoltrano nelle macchie vicine ma il 20 dicembre un amico li avvisa che sono stati cercati dai carabinieri di Bibbona. Anche  il padrone della villa la Campana non è più disponibile a tenerli lì, e li prega di andarsene.  Lo spostamento sarà breve. Si recheranno dai cugini Tabet che possiedono una villa poco lontano, la Clementina, e che li ospitano condividendo tutti la paura di essere arrestati e deportati. Ma questa sarà solo una breve pausa. Anche quel rifugio diviene insicuro e dovranno ripartire. Decidono di  seguire la strada della figlia e si rivolgono pure loro dai cugini del Bianchi, nel podere Torignano, nel comune di Riparbella. Alla Clementina restano solo i vecchi Castelli. Ma per poco. Anche per loro quel nascondiglio comincia a divenire troppo pericoloso e così pure la vecchia coppia raggiunge le macchie di Riparbella e si ritrova con gli altri. La situazione però è delicatissima, stretti in una abitazione molto piccola, senza risorse alimentari sufficienti, senza alcuna comodità. La vita diventa un calvario. Le giornate trascorrono nella ricerca di erbe selvatiche da mangiare ma quello che riescono a trovare è veramente troppo poco. Aleardo decide di andare a piedi ben oltre i confini del podere e dirigersi verso Chianni, nelle proprietà di un certo dottore Ugo Cortesi che conosce grazie alla lunga vita passata in farmacia. E miracolosamente arriva alla abitazione signorile di Cortesi che, dopo averlo ben rifocillato, lo fornirà anche di due quintali di grano, cinque chili di fagioli e un grosso pane. Tutte risorse che consumeranno al podere in poco più di due mesi.

Ma intanto Riparbella a causa dei cannoneggiamenti tedeschi e delle bombe americane si sta svuotando di tutti i suoi abitanti. Un certo numero di parenti di Redesindo arriva dove già sono in troppi. Per il nostro gruppo di ebrei è venuto il momento di partire anche da lì. Si recano in due abitazioni a Castellina, poco lontano da Riparbella, dove si era già rifugiata la famiglia dei Moise di Livorno, e dove trovano due stanze per le due coppie in fuga, quella dei Castelli e quella dei Lattes, mentre Elsa resta temporaneamente ancora al podere di Torignano. Il 15 giugno 1944 Aleardo torna a riprendersi la figlia e la conduce con sé, ma il 29 giugno, tutti loro con i Bianchi, quattordici persone tra i 79 anni e un bambino piccolo di due mesi, si rifugiano dentro una grotta scavata nella roccia vicino a Castellina perché il passaggio del fronte rende la stessa piccola cittadina, un inferno. Gli alleati sono vicinissimi ma i tedeschi continuano a mitragliare e lo scontro sembra non dover più finire. In quel frangente, il vero pericolo è quello della guerra, perché in quel territorio, non sembra esserci quello dell’antisemitismo. Scrive Aleardo:

Il giorno seguente al nostro arrivo una folla di conoscenze di vecchia data vennero a farci visita, e tutte non a mani vuote. Fu una gara di gentilezze e di attenzioni veramente commovente. Per quanto facessimo una vita assai ritirata e guardinga, tutto il paese sapeva chi eravamo, e per quale ragione vi eravamo giunti (persino il Commissario prefettizio ne era informato) ma nessuno ci tradì mai.[7]

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Rita Castelli da giovane signora (Archivio privato famiglia Castelli)

Tanta generosità era sicuramente dettata dalla consapevolezza che il quadro politico da lì a breve sarebbe radicalmente cambiato ma, ai  nostri protagonisti, tutto apparve positivo. Nella grotta, adibita a rifugio, ci stanno per sedici lunghi giorni con i viveri sufficienti solo per cinque ma altri arrivano in loro soccorso.

Non soffrimmo la fame, vera e propria, perché altre famiglie ci aiutarono a sbarcare il lunario fino a che, l’ottavo giorno, avvenne il miracolo tanto atteso: la liberazione dall’incubo tedesco-fascista, la provvidenza per noi tutti[8]

Con la liberazione finisce anche la fame perché gli Americani proseguendo nella loro avanzata verso il nord abbandonarono sul terreno: scatolette, cioccolata, latte in polvere e anche, annota Aleardo, carta igienica.  Come aveva scritto a proposito del dormire su dei veri materassi invece che su pagliericci improvvisati, la nuova dimensione faceva intravedere un vivere più civile. Passata la paura delle deportazione, finita quella dei bombardamenti e delle razzie dei fascisti e dei tedeschi, si poteva ricominciare a pensare al futuro anche se, ancora per otto giorni, dall’interno di una grotta prima che intorno tornasse la calma.

Se ripensiamo a quanto scritto fino a qui e lo facciamo guardando una carta geografica, ci accorgiamo che il raggio delle peregrinazioni che le due famiglie dei coniugi Castelli e Lattes affrontarono, fu anche relativamente piccolo. Essi non avevano avuto la possibilità di organizzare fughe più sicure, magari verso l’estero. Per l’età avanzata dei Castelli, Ugo e Emma De Rossi, per mancanza di mezzi a disposizione. Quello che poterono mettere in atto fu una strategia di scappa e fuggi, di gioco tragico a nascondino. Trovato un riparo, lo si utilizzava fino a quando questo risultava sicuro, o perlomeno sembrava sicuro agli interessati. Quando in questa relativa sicurezza, si aprivano delle crepe, ci si spostava un po’ più in là. In base a cosa? Alle conoscenze pregresse, alla rete di parentele che si possedevano e tramite queste si allargavano ad altre potenziali reti di salvataggio da costruire. Nel nostro caso la salvezza arrivò da persone semplici, poveri contadini toscani. Nessuno di loro mai, fino a qui, era stato nominato in un documento di tipo pubblico. Lo fecero per antifascismo convinto? Forse è chiedere troppo. Lo fecero e basta, a loro rischio e pericolo, ma la loro scelta di non partecipare alla caccia all’ebreo, di non approfittare di una famiglia in fuga, permise la salvezza di cinque persone.

A me questa è sembrata una storia piena di angoscia e di paura, ma anche una storia piena di solidarietà e di dignità e per questo significativa da raccontare.

[1] Su questa vicenda, vista però da un’angolatura molto diversa, molto legata alla religione, era comparso già diversi anni fa un diario, quello di Emma De Rossi Castelli in, Nei tempi oscuri. Diari di Lea Ottolenghi e Emma De Rossi Castelli due donne ebree tra il 1943 e il 1945, Belforte & C. Editori, Livorno, 2000. Mi riprometto di tornare sopra tutte queste scritture ma in un’altra sede e con più spazio disponibile.

[2]Gastone Orefice. Un giornalista livornese nel mondo, intervista a cura di Catia Sonetti, Ets, Pisa, 2014, p. 32.

[3] La data la ricavo dalla memoria dattiloscritta e inedita di Aleardo Lattes gentilmente concessami dalla vedova.

[4] Gastone Orefice…, cit., pp. 33-34.

[5] Si tratta del 12 dicembre 1943. Il padre di Elsa nel suo diario posticipa questa partenza al 17, ma potrebbe essere anche un refuso della battitura.

[6] Vd. le Memorie di Aleardo Lattes, p.8.

[7] Memoria dattiloscritta di Aleardo Lattes, p.14. L’originale è in possesso della famiglia e presso l’Istoreco di Livorno ce n’è una copia.

[8] Ibidem, p. 17.

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