Da vicino nessuno è normale. Appunti su una storia dei Manicomi Criminali in Italia

Valerio Entani (ISGREC) - Istituto storico grossetano della Resistenza e dell'età contemporanea (ISGREC)

Foto storica dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino
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Tra gli Ospedali Pischiatrici Giudiziari (OPG) che dal 1 aprile di questo anno sono in fase di graduale dismissione e saranno sostituiti dalle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Detentive (REMS) vi è quello di Montelupo Fiorentino in provincia di Firenze. L’OPG si trova nella Villa Medicea dell’Ambrogiana, costruita alla fine del cinquecento come residenza di caccia dei Medici; nell’ottocento, una volta abbandonata dai Medici e dagli Asburgo-Lorena, l’imponente struttura divenne prima una struttura sanitaria per “dementi acuti”, poi uno stabilimento di correzione femminile, per poi passare nel 1886 a Manicomio Criminale. Quello di Montelupo fu la seconda struttura di questo tipo nata in Italia dopo l’unità. Molti furono i rei folli che scontarono la loro pena nella struttura, alcuni famosi come Giovanni Passannante, l’anarchico che tentò di attentare alla vita di Umberto I di Savoia nel 1878. In questo articolo Valerio Entani tratteggia le fasi salienti di una storia dei manicomi criminali italiani.

La stultifera navis.

Racconta Michel Foucault nel suo celebre Storia della follia nell’età classica che fino al Rinascimento il lebbroso aveva un ruolo fondamentale nella società, poiché incarnava il prototipo del malato; ma soprattutto era il simbolo di tutto il male nella società e fungeva da memento mori per chi era ancora sano. L’allontanamento e la segregazione dei malati in luoghi di cura lontani dalle città non solo era necessario per motivi sanitari, ma soprattutto aveva una valenza rituale nell’allontanare dalla società il male come paura atavica dell’uomo. Dal rinascimento in poi la lebbra inizia ad essere debellata come malattia endemica, le strutture sanitarie di cura rimangono inattive e nella società rimane vacante un ruolo fondamentale. Per Foucault è il folle che prende progressivamente questo ruolo nella società moderna.

Simbolo di questo processo è una immagine letteraria che ancora oggi viene citata: la stultifera navis. Nella tradizione letteraria, questa nave attraversava i fiumi della Renania e i canali fiamminghi carica di folli che venivano scacciati dalle città. Questo loro vagabondare era un vero e proprio processo di esclusione sociale e Foucault spiega che “il gesto che li scaccia, la loro partenza e il loro imbarco non possono venire spiegati solo con l’utilità sociale o con la sicurezza dei cittadini. Altri significati più vicini al rito erano certamente presenti (…)”. Nella lettura antropologica foucoltiana il folle è il simbolo delle paure più ataviche dell’uomo, dalla morte fino alla paura del diverso; la nave dei folli quindi “simbolizza tutta un’inquietudine, apparsa improvvisamente all’orizzonte della cultura europea verso la fine del medioevo. La follia e il folle diventano personaggi importanti nella loro ambiguità: minaccia e derisione, vertiginosa irragionevolezza del mondo e meschino ridicolo degli uomini”.

Foucault ci insegna che la categoria del folle ha racchiuso dentro di sé una molteplicità di declinazioni che andavano dal malato mentale tout court, al povero, al dissociato sociale fino al ribelle, ovvero tutte quelle categorie sociali che andavano contro il progetto di buon governo della società.

È per questo motivo e per la necessità di esclusione che nacquero i manicomi che ebbero, in alcuni casi, lo stesso ruolo anche i carceri.

Erving Goffman nel suo Asylums chiama questi luoghi istituzioni totali ovvero “luoghi di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato”. Le istituzioni si impadroniscono delle vite dei loro ospiti e ne amministrano il tempo in una sorta di “azione inglobante” che viene rappresentata dall’impedimento concreto dello scambio sociale e dell’uscita verso il mondo esterno. Chi vive dentro le istituzioni totali viene risucchiato in una specie di non-luogo al di fuori del mondo, dove lo spazio e il tempo seguono percorsi indipendenti e paralleli e dove soprattutto, viene negato il diritto di esistere come essere umano.

In questo contesto, il rapporto tra chi ospita e chi viene ospitato, ovvero tra carceriere e carcerato o tra psichiatra e malato, diventa un vero e proprio rapporto di potere tra governatore e governato, dove l’uso della forza e della violenza diventano prassi. La pratica e l’uso della violenza non solo, sono alla base dei rapporti di forza all’interno delle istituzioni totali ma, riescono a distruggere il degli internati i quali si ritrovano assoggettati totalmente al potere dell’istituzione stessa.

Franco Basaglia nella postfazione al libro di Goffman, scrive che nei manicomi “la violenza è drammaticamente palese, dato che la malattia è essa stessa giustificazione in atto di ogni sopraffazione ed arbitrio: se il malato è incurabile e incomprensibile, l’unica azione possibile è oggettivarlo nella realtà istituzionale, nella cui azione distruttiva egli dovrà identificarsi”.

La chiusura degli Ospedali Psichiatrici.

La lettura dei testi di Foucault e di Goffman influenza a partire dagli anni ’60 il movimento antistituzionale che si sviluppa in Italia a favore della chiusura dei manicomi. Franco Basaglia con il suo esperimento dell’ospedale psichiatrico di Gorizia e di Trieste diventa il capofila di questo movimento che vede l’appoggio di intellettuali e politici. Basaglia è il primo ad abbattere il muro che circonda il manicomio sia concretamente che idealmente. Seguendo il filone interpretativo di Foucault e di Goffman, lo psichiatra accentua l’aspetto più prettamente sociale e quindi più politico della malattia mentale. Gli ospedali psichiatrici per Basaglia sono “istituzioni della violenza” dove tra malato e psichiatra si instaura un “rapporto di sopraffazione e di violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da parte del potere del non potere: la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società” (L’ istituzione negata, 1968). Il movimento antistituzionale in questo è molto simile ai movimenti di contestazione giovanili che si sviluppano attorno al 1968; il vero nemico da combattere è l’autorità ovvero, l’autorità del padre, del potere, della scuola e in questo caso dello psichiatra e dell’Ospedale Psichiatrico. L’autorità era per Basaglia la vera causa dell’annientamento umano del malato mentale: “una organizzazione basata sul solo principio di autorità, il cui scopo primo sia l’ordine e l’efficienza, deve scegliere tra la libertà del malato ed il buon andamento del ricovero. È stata sempre l’efficienza e il malato è stato sacrificato in suo nome” (L’istituzione negata, 1968). Basaglia definisce rivoluzionario l’uso dei nuovi farmaci psichiatrici che hanno “concretamente reso evidente allo psichiatra di non trovarsi di fronte ad una malattia, ma ad un uomo malato, egli non può continuare a considerarlo come un elemento da cui la società deve essere protetta” (L’istituzione negata, 1968), e che hanno mostrato alla psichiatria questa contraddizione. Lo psichiatra veneto è ancora più chiaro nell’affermare che “questa società tenderà sempre a difendersi da ciò che le fa paura e ad imporre il suo sistema di restrizioni e di limiti alle organizzazioni delegate a curare i malati mentali: ma lo psichiatra non può continuare ad assistere alla distruzione del malato a lui affidato, reso oggetto, ridotto a cosa […]” (L’istituzione negata, 1968).

Questa visione politicizzata, dalla spiccata interpretazione sociologica, riesce a permeare tra gli anni ’60 e gli anni ’70 grossi strati dell’opinione pubblica e della classe dirigente. Ed è in questo clima di rivolta contro il sistema e l’autorità che l’ospedale psichiatrico diventa un simbolo dello sfruttamento e per questo deve essere abbattuto ed annientato.

Nel 1978, per la prima volta nel mondo, uno Stato decide per legge la chiusura degli Ospedali Psichiatrici; è l’Italia con la legge 180 del 1978 che porta il nome di Orsini, suo primo firmatario ma che è conosciuta con il nome del suo ispiratore morale ovvero Legge Basaglia.

Il cono d’ombra tra follia e criminalità.

La Legge 180 chiude quindi gli Ospedali Psichiatrici in Italia ma lascia aperte diverse problematiche sia culturali (il rapporto tra società e malattia mentale) che strutturali ed organizzative (le leggi attuative regionali tardano ad arrivare). La180 però presenta anche un vero e proprio cono d’ombra poiché non tocca il problema dei malati mentali che hanno commesso un reato, i rei folli.

Si tratta di una questione complessa perché mette insieme il concetto di follia con quello di reato e deve fare i conti sia con le pratiche di cura che con la giustizia. Nel corso del tempo, il problema è stato risolto con il dare più importanza alla pena o alla pericolosità del reo invece che alla cura del malato mentale; ne è la prova il fatto che la gestione dei rei folli è sempre stata di competenza delle varie Amministrazioni Penitenziarie e non degli enti preposti alla cura dei malati.

La storia dei rei folli è quindi una storia di esclusione totale, esclusione dalla società, esclusione dal sistema penitenziario consono ed esclusione dal sistema sanitario. Questo, nel corso del tempo, ha portato a conseguenze drammatiche che hanno costruito un sistema di cura e di detenzione spesso inadeguato con strutture fatiscenti e atteggiamenti disumani: un vero e proprio cono d’ombra organizzativo, legislativo ed umano dove i rei folli una volta entrati affogavano nell’oscurità.

Ma il problema dei rei folli ha radici ben più lontane. Nella seconda metà dell’Ottocento in Italia si sviluppa un vivace dibattito sul diritto penale. Si formano due scuole di pensiero: la prima, quella classica con Francesco Carrara e, la seconda, quella positiva con Cesare Lombroso. La prima adottava il concetto del libero arbitrio e quindi ogni uomo colpevole di un reato era responsabile in prima persona delle proprie azioni; il grado di colpevolezza e la misura della pena erano così proporzionalmente determinati dalla gravità del reato compiuto. La seconda scuola di pensiero invece, seguendo le teorie di Lombroso, credeva che alcuni condizionamenti esterni (come la fisiognomica o cause sociali) potessero influenzare un soggetto nel compiere un reato; la responsabilità individuale del reato non esisteva e la pena aveva una funzione prettamente rieducativa e di prevenzione sociale.

È da questo ultimo tipo di approccio che nasce il primo Manicomio Criminale, quello di Aversa nel 1876. L’istituzione accoglieva i cosiddetti rei folli e di fatto sanciva la nascita del binomio tra follia e pericolosità sociale, nel quale persone colpevoli di reato e mentalmente disturbate, venivano isolate dalla società per la loro cura ma soprattutto per preservare gli altri carcerati e la società stessa. Il codice Zanardelli del 1889, per la prima volta dall’unità, mise ordine nel caos giuridico italiano. Pur non parlando mai di manicomio criminale il codice introdusse il concetto della non imputabilità per vizio totale di mente (in questo caso il reo se considerato pericoloso era affidato ad un manicomio provinciale) e stabilì inoltre, nel caso di seminfermità di mente, una diminuzione della pena. Anche se con il nuovo “Regolamento generale degli Stabilimenti carcerari e dei riformatori” (Regio Decreto numero 260 del 1 febbraio 1891) venne formalizzata la nascita dei manicomi giudiziari, nel mondo penitenziario rimaneva molta confusione poiché queste strutture che raccoglievano i rei folli non riuscivano ad essere troppo diversi dai carceri comuni. Nascono così gli altri Manicomi Giudiziari in Italia: nel 1886 nasce il Manicomio di Montelupo Fiorentino, nel 1892 quello di Reggio Emilia, nel 1923 quello di Napoli e infine nel 1925 quello di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina).

La prima vera svolta per quanto riguarda la gestione della malattia mentale si ha nel 1904 con la legge numero 36 “Disposizione sui manicomi e sugli alienati”. Venne infatti istituito sia il manicomio comune sia quello criminale ma soprattutto venne introdotto il concetto di pericolosità sociale del malato di mente comune e soprattutto del malato mentale criminale. Nel primo articolo infatti si legge:

debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. Sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente Legge, tutti quegli Istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati gli alienati di qualunque genere”.

Il considerare la malattia mentale pericolosa per la società porta a diverse conseguenze sul piano culturale e pratico. Se il folle, in quanto tale, diventa pericoloso per la società è lecito e moralmente giustificabile, applicare tutti quei meccanismi di esclusione che portano il malato fuori dalla società stessa; nel caso in cui il folle sia anche reo questo processo è ancora più facile perché la colpa criminale offre una giustificazione ancora più forte. Questa nuova concezione però induce le istituzioni manicomiali a porre in secondo piano tutti quegli aspetti medici e psichiatrici atti alla cura del malato per dare maggiore importanza alle pratiche di costrizione e di isolamento, utili appunto a rendere il malato meno pericoloso. Questa nuova concezione del malato mentale pericoloso per la società si traduce nell’obbligo da parte delle autorità preposte di trascrivere sul casellario giudiziario del malato i trattamenti medico-psichiatrici; questi così valgono come una condanna a vita, allo stigma perpetuo e al difficile reinserimento del malato nella società una volta dimesso.

Con il fascismo venne nuovamente aggiornato il diritto penale. Nel 1930 il cosiddetto Codice Rocco, introdusse per la prima volta il concetto (ancora in uso) del doppio binario, caratterizzato dalla presenza di due sanzioni distinte tra di loro: la pena e la misura di sicurezza. La pena è commisurata alla gravità del reato commesso, mentre la misura di sicurezza si basa sul concetto di pericolosità sociale del soggetto. Le due categorie vengono così parallelamente applicate. Per quanto riguarda la gestione dei rei folli il Codice Rocco decise che il ricovero nel manicomio giudiziario dovesse essere applicato solo se l’infermo di mente era considerato pericoloso per la società. Questo significò principalmente due cose: da una parte, ancora una volta la malattia mentale era considerata pericolosa per la società e quindi era giustificabile isolare il malato di mente; dall’altra il codice sottolineava che la tutela della collettività e della società stessa fosse ben più importante della salute e della cura del malato mentale. A riguardo infatti, il codice penale legalizzava un vero e proprio paradosso che dava più importanza alla misura di sicurezza rispetto alla pena; questo spesso creava un prolungamento della misura di sicurezza in manicomio anche una volta terminata la pena detentiva.

La situazione dei carceri e quindi dei manicomi criminali rimane praticamente invariata fino al secondo dopoguerra quando a partire dagli anni ’60, sotto l’influenza del movimento anti manicomiale, si sviluppò nell’opinione pubblica la necessità di riformare e rendere più umane le carceri e quindi anche i manicomi criminali.

La prima vera svolta che toccò il mondo della psichiatria fu la legge Mariotti, la numero 431 del 18 marzo 1968, che cercò di riformare il sistema di cura della malattia mentale ma che non toccò il mondo dei rei folli. La vera novità di questa legge era la cancellazione definitivamente dell’obbligo di annotare su casellario giudiziario il ricovero psichiatrico; la legge Mariotti così, distrusse per sempre il binomio tra malattia mentale e delinquenza ma non riuscì a cancellare l’idea della pericolosità sociale della malattia mentale.

A partire dagli anni ’70 l’opinione pubblica iniziò però ad interessarsi ai problemi dei malati mentali anche nelle carceri italiane; alcuni ex detenuti psichiatrici denunciarono le condizioni disumane dei manicomi criminali e soprattutto la popolazione fu fortemente colpita da un tragico fatto di cronaca. Nel dicembre 1974 nel Manicomio Criminale di Pozzuoli, Antonietta Bernardini legata nel suo letto di contenimento morì a causa di un incendio scoppiato nella sua cella. La tragedia fu l’occasione per riaccendere un forte dibattito sulla riforma dei manicomi criminali in Italia.

Questo nuovo clima di critica verso il sistema carcerario psichiatrico aveva tuttavia già portato ad un significativo cambiamento, infatti, il 23 aprile del 1974 la Corte Costituzionale con la sentenza numero 110 si esprimeva a favore della revoca della misura di sicurezza prima del periodo minimo stabilito per legge. Questo significava non permettere la permanenza nel manicomio criminale oltre la pena, come spesso era consuetudine succedere. Era un primo passo verso la demolizione del binomio tra malattia mentale e pericolosità sociale che tuttavia cessò definitivamente solo con la Legge Gozzini nel 1986.

Ma l’attenzione creata sulla malattia mentale in generale e sul mondo dei rei folli in particolare, portò al varo nel 1975 della legge 354 che pose le basi, anche se non in maniera così determinante, ad una riforma dei Manicomi Criminali. Infatti, la legge oltre a cambiare il nome alle strutture in OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) obbligava tali strutture ad avere almeno uno psichiatra nel proprio organico. Questo stava a significare che dopo decenni, il malato mentale che doveva scontare una pena detentiva, iniziava ad essere anche curato e non solo custodito.

Chiaramente la legge 354 non pose fine agli innumerevoli problemi all’interno del mondo carcerario psichiatrico; ne sono la prova le innumerevoli leggi mai approvate per la chiusura degli OPG e le commissioni di inchiesta che denunciavano le condizioni disumane di queste strutture.

L’attuale chiusura degli OPG è stata preceduta da una importante commissione parlamentare d’inchiesta sulle “condizioni di vita e di cura all’interno degli OPG” del 2011. La relazione a cura dei senatori Saccomanno e Bosone è molto chiara e decisa nel giudizio: gli OPG sono strutture fatiscenti e inadatte alla cura del malato mentale criminale. Si legge infatti che sono “gravi e inaccettabili le carenze strutturali e igienico-sanitarie rilevate in tutti gli OPG” anche perché tutte le strutture “presentano un assetto strutturale assimilabile al carcere o all’istituzione manicomiale, totalmente diverso da quello riscontrabile nei servizi psichiatrici italiani”. Una vera e propria isola anacronistica dove ancora vengono mantenuti i meccanismi e le problematiche tipiche degli ospedali psichiatrici. In effetti la commissione continua nel descrivere la carenza numerica del personale incaricato dell’assistenza socio-sanitaria ma soprattutto sottolinea la presenza di pratiche di contenzione fisica ed ambientale:

[…] se da un punto di vista giudico, la coercizione o contenzione fisica in psichiatria viene da taluni giustificata da una rigorosa interpretazione dello stato di necessità […], le modalità di attuazione osservate negli Opg lasciano intravedere pratiche cliniche inadeguate e, in alcuni casi, lesive della dignità della persona, sia per quanto attiene alle azioni meccaniche, sia talora per i presidi psicofarmacologici di uso improprio […]”.

La relazione della commissione continua nel descrivere numerose scene di degrado trovate nei vari OPG italiani e per questo auspica la chiusura di quelle strutture inadatte e fatiscenti e propone un’alternativa e un vero e proprio superamento delle strutture.

Solo tre anni dopo le conclusioni di quella Commissione di inchiesta il Parlamento licenzierà la legge 81 che sancisce la definitiva chiusura degli OPG.

La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

Lo scorso 31 marzo quindi sono stati chiusi definitivamente tutti gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in Italia e con essi si è chiuso idealmente un percorso iniziato nel 1978 con quella riforma Basaglia.

Attualmente la legge prevede di sostituire gli OPG con le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Detentive, i cosiddetti REMS, ovvero strutture che ospiteranno al massimo 20 detenuti, provviste di particolari misure contro l’evasione e dove gli ospiti potranno essere seguiti dal punto di vista psichiatrico; inoltre la legge prevede che siano presentati dalle Regioni e dalle USL progetti individuali di cura e di riabilitazione dei malati per ottenere misure alternative al REMS stesso

Il problema è che oggi la situazione in Italia è ancora incerta: gli OPG ancora ospitano pazienti, poche sono le REMS già attive e molte sono già sovraffollate.

La decisione di chiudere gli OPG viene certamente da lontano ed ha scopi senza dubbio positivi, tuttavia, questo processo, se non governato in modo adeguato, rischia di aprire nuove problematiche invece di risolverne. Il problema infatti è di cadere, come avvenne con l’applicazione della 180, in soluzioni ideologizzate o di riproporre una lunga transizione prima di creare una vera e concreta alternativa.

E’ chiaro che in questo momento è prevista una fase di transizione, così come è chiaro che sia giusto chiudere gli OPG, in quanto strutture che ledono i diritti delle persone ospitate; tuttavia rimangono molti dubbi ed è pertinente e necessario trovare una soluzione adeguata sia dal punto di vista psichiatrico che giudiziario e sociale.

E’ evidente che la questione meriterebbe un dibattito approfondito da parte della politica e della cultura di questo Paese, perché il rischio di stigmatizzazione e di pregiudizio è ancora forte; solo con un approccio multidisciplinare e concreto è possibile trovare una soluzione che rappresenti il bene del detenuto psichiatrico e della società.