“Hanno sparato a Togliatti!”

Alessandro Orlandini, Filippo Lambardi - Istituto Storico della Resistenza senese e dell'Età contemporanea

Come Abbadia San Salvatore divenne uno dei luoghi simbolo del luglio 1948

Rastrellamento ad Abbadia S. Salvatore dopo i fatti del 15 luglio
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I fatti

14 luglio – Non appena, a Abbadia S. Salvatore, paese minerario sul Monte Amiata, si seppe dalla radio dell’attentato contro il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, ferito a colpi di pistola all’uscita della Camera dei Deputati, si crearono assembramenti di persone. Alle 14.00, quando finì il turno dei minatori, si formò spontanea una prima manifestazione durante la quale si verificarono alcune aggressioni verbali e fisiche ai danni di ex fascisti. Seguirono un’assemblea e un comizio del segretario di zona del Pci, Domenico Cini, che addossò al governo la responsabilità politica e morale dell’accaduto. Al termine partì un corteo di varie migliaia di persone. Gli esponenti dei partiti di centro e di destra che ebbero la disavventura di trovarsi lungo il percorso furono aggrediti. Colpi di pietra mandarono in frantumi i vetri delle finestre di alcune delle loro abitazioni. Cinque di esse vennero invase e danneggiate. Gruppi di dimostranti devastarono le sedi della Dc e delle Acli, presidiarono l’ufficio postale e impedirono a chiunque di usare il telegrafo, tanto che il brigadiere dei carabinieri, per chiedere rinforzi, dovette fare ricorso al telefono della società Seat-Valdarno, ma soprattutto occuparono l’edificio di una cabina telefonica, nodo importante nel sistema nazionale delle telecomunicazioni,
Quando arrivò in paese un camion di poliziotti e di carabinieri proveniente da Chiusi, una folla ostile lo circondò. I militari furono costretti a chiudersi in caserma. L’automezzo fu messo fuori uso: gomme sgonfiate, candele asportate. Poco dopo giunse un altro camion, inviato da Siena. In questo caso gli agenti si diressero alla cabina telefonica e si asserragliarono nella sala macchine, ponendo di fatto fine all’occupazione dei dimostranti. Ma nella notte vennero tagliati due cavi, quello della Seat-Valdarno e quello fra la caserma e la cabina telefonica.

Palmiro Togliatti in ospedale dopo l'attentato

Palmiro Togliatti in ospedale dopo l’attentato

15 luglio – La mattina del 15 luglio gli accessi al paese furono messi sotto controllo da blocchi stradali fatti con tronchi e pietre. Un folto presidio venne istituito intorno alla cabina telefonica. In pratica i due contingenti di forze dell’ordine, quello nella caserma e quello nell’edificio della cabina, erano separati e senza contatti. A quel momento la situazione sembrava relativamente tranquilla. Il sindaco Gualtiero Ciani, pur condividendo in pieno i motivi della protesta, si adoperò per stemperare alcune delle situazioni di maggiore tensione. E d’altra parte i manifestanti avevano la sensazione che il paese fosse sotto il loro controllo.
Verso le 16.00 un autocarro della polizia, con a bordo sette uomini si fermò al posto di blocco eretto nei pressi dell’ospedale, su quella che era la principale via di accesso al paese. Trasportava viveri per i poliziotti e i carabinieri giunti il giorno prima, ma, agli occhi di chi vigilava il posto di blocco, si trattava comunque di uomini armati che si sarebbero aggiunti agli altri. Due agenti che scesero dal camion per rimuovere gli ostacoli furono circondati, sequestrati e portati nel bosco, in località Terrabianca. Dopo alcune ore sarebbero stati rilasciati. La tensione divenne estrema. Il camion non retrocedeva, i manifestanti neppure. Scoppiò una bomba a mano. Seguì una fitta sparatoria da entrambe le parti. La guardia Battista Carloni fu colpita al collo in modo molto grave. Morì il giorno successivo. Altri poliziotti furono feriti più lievemente. Il maresciallo, Virgilio Ranieri, che comandava il reparto, portò i feriti nel vicino ospedale. Poi tentò di raggiungere la centrale telefonica. Alcuni manifestanti lo circondarono e gli intimarono di non proseguire. Evidentemente non tornò indietro. Fu aggredito e accoltellato a morte.

16 luglio – Il 16 luglio arrivarono a Abbadia San Salvatore il parlamentare del Pci, Torquato Baglioni, e il segretario provinciale dell’Anpi, Fortunato Avanzati, che era stato comandante della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini, per incontrare i dirigenti comunisti locali. Le direttive del partito che invitavano a far rientrare la protesta erano ormai giunte, chiare e inequivocabili, ponendo fine ad ogni incertezza. Fu deciso, insieme al sindaco, alla commissione interna della miniera, alle sezioni comunista e socialista dell’Anpi, di redigere un manifesto in cui si invitava la popolazione a riprendere il lavoro. Così avvenne, come in tutta Italia.
Nel pomeriggio le forze di polizia e l’esercito occuparono militarmente il paese, iniziando perquisizioni a tappeto e arresti di massa, seguiti spesso da pesanti percosse. Anche il sindaco venne incarcerato. Alcuni di coloro che avevano preso parte attiva allo sciopero e alla protesta cercarono rifugio nei boschi della montagna e solo dopo qualche giorno furono convinte a costituirsi.

Opuscolo del Pci sui fatti del luglio 1948 e sulla repressione che ne seguì

Opuscolo del Pci sui fatti del luglio 1948 e sulla repressione che ne seguì

La lettura
Per comprendere ciò che accadde ad Abbadia S. Salvatore
si è fatto ricorso giustamente alla ricostruzione del contesto storico e socioeconomico, si è parlato della durezza del lavoro in miniera, dei tanti disoccupati, della forte tradizione partigiana, del radicamento del Pci e, andando indietro nel tempo, del retaggio di improvvise esplosioni di violenza come durante i drammatici scontri dell’agosto 1920 fra socialisti e clericali, nonché di un ribellismo atavico delle popolazioni amiatine che, nell’Ottocento, avrebbe trovato la sua espressione nel movimento religioso di David Lazzaretti, il profeta dell’Amiata, a cui fece riferimento lo stesso Togliatti nel discorso pronunciato durante la sua visita nel 1949.
Tutti questi fattori possono effettivamente aver concorso a rendere la situazione più incandescente che altrove, ma non certo a determinare una sorta di diversità politica, se non addirittura antropologica, da cui sarebbe scaturita la perdita di vite umane.
Tenendo sullo sfondo episodi simili che si verificarono in varie parti dell’Italia del centro e del settentrione e rimanendo alla provincia di Siena, bisogna, infatti, ricordare che devastazione di sedi della Dc, posti di blocco e altre iniziative tese ad assumere il controllo del territorio si verificarono in varie zone – a Siena, il 15 luglio, ci fu una sparatoria in via Montanini nei pressi della sezione democristiana – in un clima di allarme preinsurrezionale innescato dalle rivoltellate contro Togliatti, ma predisposto da quella cortina di ferro che, dalla rottura dell’unità antifascista del 1947, era calata a dividere gli italiani in ogni parte della penisola. Una cortina che se non aveva impedito il miracolo laico della firma della Costituzione, alimentava tuttavia profonde lacerazioni organizzate anche in contrapposti gruppi semiclandestini armati. Pronti a ricorrere alle armi, gli uni se il Pci avesse conquistato il governo con le elezioni o con altri mezzi, gli altri se si fossero presentate derive parafasciste. E l’attentato a Togliatti sembrava proprio l’inizio di una di quelle.
L’innesco dei fatti di Abbadia S, Salvatore fu dunque dovuto, almeno in parte, al caso e cioè alla presenza di quella centrale telefonica di importanza strategica. Per la sua difesa vennero inviate forze di polizia – tre camion fra il pomeriggio del 14 e quello del 15 – con l’ordine di superare ogni ostacolo, mentre altrove carabinieri e poliziotti furono lasciati sulla difensiva. Per fermare l’ultimo camion – ad Abbadia la situazione è tranquilla, la controlliamo noi, gridò inutilmente una donna al posto di blocco – si verificò la sparatoria in cui fu colpita a morte di Giovan Battista Carloni e che innescò l’aggressione al maresciallo Ranieri Virgilio.
La repressione invece fu, quella sì, davvero speciale. Dura in tutta la provincia di Siena, durissima sulla montagna, venne attuata non con il criterio della ricerca delle responsabilità individuali, bensì con il metodo della selezione politica, del rastrellamento di massa, della bastonatura indiscriminata, per rispondere con una operazione di antiguerriglia in grande stile a una guerriglia appena abbozzata, per quanto con conseguenze tragiche. Ed ebbe una sanguinosa appendice: la morte del capolega Severino Meiattini, ucciso il 18 luglio dalla polizia all’interno della sede della Federterra a Siena, durante il corteo funebre di Carloni e Virgilio, con le modalità tipiche della provocazione e della vendetta.
Un’ultima notazione sulla morte di Virgilio. La questione merita una rilettura degli atti processuali. Non risulterebbero tuttavia sevizie e torture, come pure si affermò. Emerge, questo sì, che dopo l’aggressione e le coltellate il maresciallo fu lasciato per strada senza soccorso perché i manifestanti non trovarono la pietà e il coraggio di trasportarlo in ospedale, mentre i suoi commilitoni, asserragliati in caserma e nella centrale telefonica, non ne ebbero, o ritennero di non averne la possibilità. O forse neppure seppero quello che gli era accaduto.

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