Firenze 1975 : “… bandiera rossa la trionferà”

Camilla Conti - Istituto storico toscano della Resistenza e dell'età contemporanea

L’anno delle elezioni amministrative della “svolta”

«L’Unità», mercoledì 18 giugno 1975
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 “Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945,

e poi anche quella del 1946 e del 1947.

Voto comunista perché ricordo la primavera del 1965

e anche quella del 1966 e del 1967.

Voto comunista , perché nel momento del voto,

come in quello della lotta, non voglio ricordare altro…”

Pasolini: il mio voto al PCI, sull’”Unità” il 10 giugno 1975.

 

Sono trascorsi cinquant’anni da quel 15 giugno, giorno in cui nella politica italiana ciò che si era sempre cercato di tenere a freno, di contenere, di contrastare con ogni mezzo, avvenne con le elezioni amministrative del 1975: la più grande avanzata comunista di tutta la storia elettorale del dopoguerra, un’avanzata tale da modificare profondamente i rapporti di forza di molte città e in ogni regione. Il PCI balzava dal 28,3 delle politiche del 1972 al 33,5, mentre la DC scendeva da 38,4 a 35,2. Era stata una nuova sconfitta del segretario democristiano Amintore Fanfani e della sua politica di scontro frontale con i comunisti dopo la batosta avvenuta nel Referendum sul divorzio del 1974. Le conseguenze del 15 giugno si fecero sentire in fretta con la sinistra che andò al potere in cinque regioni, quarantuno province, trentasette capoluogo di provincia, oltre ad una miriade di centri minori. E naturalmente il risultato di queste elezioni provocò reazioni oltre che nazionali a livello internazionale: il Segretario di Stato americano Henry Kissinger ammoniva che gravi problemi sarebbero sorti con i comunisti al governo in un’Italia che faceva parte della NATO e che era al centro del mediterraneo già turbato dall’annosa questione del Medio Oriente e dai recenti avvenimenti sia in Portogallo, dove sembrava prendere il sopravvento anche lì la tendenza comunista e “comunisteggiante”, sia in Spagna dove il regime di Franco era agli sgoccioli. E non c’era molto da meravigliarsi se l’Economist a quell’epoca definì il Mediterraneo come il ventre molle della NATO.

Nella DC in mezzo allo smarrimento, al caos e ai ripensamenti dopo le elezioni, il consiglio democristiano con 103 voti contrari e 69 favorevoli, respinse la mozione di fiducia chiesta da Fanfani cosicché il 23 luglio il segretario democristiano fu costretto a rinunciare all’incarico. Il partito profondamente diviso dalle varie correnti decise di nominare segretario Benigno Zaccagnini, un uomo notoriamente al di fuori dei gruppi di potere, e a lui si consegnava il delicato compito di rassettare le file democristiane. Inoltre non mancò neanche l’esternazione del Papa Paolo VI che ricordava quanto cristianesimo e marxismo fossero inconciliabili.

Dall’altra parte il PCI confermava di non avere fretta, di non voler forzare i tempi. Il suo segretario Enrico Berlinguer vedeva il successo elettorale delle Amministrative dare ragione alla sua “tattica” del compromesso storico. Di fronte agli avvenimenti internazionali, alla politica americana, alla crisi economica, all’offensiva terroristica sia di destra che di sinistra ma convergente nella lotta alle istituzioni, Berlinguer auspicava un incontro tra le masse cattoliche e quelle comuniste grazie all’impegno del PCI nella maggioranza parlamentare e nel governo a livello nazionale oltre che locale: «La gravità dei problemi del Paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande “compromesso storico”, nel senso di accordo politico in cui ciascuno rinuncia a qualcosa per il bene comune, tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano»1.

Lo scossone provocato dalla massiccia avanzata del PCI causò una situazione forse senza via di uscita se non le elezioni anticipate (non desiderate da alcun grande schieramento) e il governo Moro, in carica dal novembre 1974, che già andava avanti in un mare di difficoltà fra crisi economica, disoccupazione, prezzi crescenti, bilancio dello Stato passivo galoppante, fu aiutato a non cadere anche e proprio dai comunisti con astensioni al momento di insidiose votazioni in parlamento e a moderare le richieste sindacali di aumenti salariali. E infatti Aldo Moro, che aveva traghettato la DC nel centrosinistra, era quell’uomo politico dell’altra parte sensibile a quel ragionamento del compromesso storico per uscire dalla crisi e far fare un passo avanti al sistema politico italiano in modo da preparare le condizioni di una futura alternanza. Sappiamo che ciò non poté realizzarsi per il rapimento dello statista democristiano e la sua uccisione da parte delle Brigate Rosse… ma questa è un’altra storia.

La campagna elettorale che precedette il voto amministrativo fu caratterizzata da un clima di diffusa violenza. I neofascisti che non avevano abbandonato la strategia della tensione il 28 maggio 1974 appena due settimane dopo il referendum sul divorzio, fecero esplodere una bomba in Piazza della Loggia a Brescia durante un comizio uccidendo otto persone. Il 4 agosto dello stesso anno esplose un’altra bomba su un treno nel tratto tra Bologna e Firenze provocando altri dodici morti. A partire dai primi mesi del 1975 si moltiplicarono gli scontri durante le manifestazioni: a Roma venne ucciso Giorgio Mantekas, uno studente greco simpatizzante dell’MSI, poi a Milano il 15 aprile dello stesso anno un neofascista assassinò Claudio Varalli del Movimento studentesco, e il giorno seguente durante una manifestazione di protesta per l’assassinio del giovane di sinistra, sempre a Milano, un automezzo della polizia investì e uccise Giannino Zibecchi dei comitati antifascisti. Il 18 aprile a Firenze durante una manifestazione di protesta per l’uccisione dei due compagni Vassalli e Zibecchi, Rodolfo Boschi, iscritto al PCI, rimase a terra colpito da un proiettile sparato probabilmente da un poliziotto al termine di cruenti scontri con le forze dell’ordine2.

In questo clima Amintore Fanfani presentò il suo partito come l’unico in grado di assicurare “legge e ordine”, facendo affidamento alla legge Reale, una nuova normativa per l’ordine pubblico, di cui la DC aveva caldeggiato con forza la sua approvazione. Ma la campagna elettorale di Fanfani, che aveva rispolverato i logori strumenti dell’anticomunismo delle politiche del 1948, non fu premiata alle urne, mentre il PCI dal canto suo puntando il dito sulla corruzione, sul clientelismo e sul caos che regnavano nelle giunte locali controllate dai democristiani, riuscì ad ottenere la fiducia dell’elettorato3.

«La sconfitta della DC è senza attenuanti, il disegno integralista del gruppo dirigente fanfaniano si è frantumato. La DC infatti non solo si è presentata senza un programma organico ma ha rafforzato solo le faide personalistiche, rivelando così il reale livello morale e politico della sua battaglia»4.

Fu una vittoria laica e progressista, che aprì la strada a un’Italia più moderna, pluralista e meno legata ai dettami religiosi. L’Italia mostrò di essere un “Paese in movimento” attraversato da una robusta mobilitazione civile, tutta proiettata all’allargamento del perimetro democratico.

Il giornale L’Unità sottolineò il contributo fornito in tutta la penisola, dalle regioni industriali ai centri operai, dalle metropoli alla campagne. «Il voto dimostra la grande maturità delle masse lavoratrici e popolari italiane, la presa di coscienza nuova di stati intermedi della popolazione, la profonda aspirazione delle masse giovanili ad un avvenire diverso, la crescente consapevolezza che è necessario per uscire dalla crisi, superare il distacco esistente tra la grande maturazione avutasi nel paese e le classi dirigenti che hanno sin qui governato»5.

A questo spirito di rinnovamento democratico si legò anche una significativa riforma del sistema elettorale che abbassava l’età minima per votare da 21 a 18 anni, ampliando la base democratica e dando voce ad una generazione politicamente attiva, spesso incline a posizioni di sinistra: «Il voto giovanile, dei ragazzi e delle ragazze che sono andati a votare alle urne per la prima volta, è stato un voto di sinistra e in forte e prevalente percentuale un voto comunista»6. E infatti da più parti si attribuì a questi giovani neo votanti lo “slittamento” a sinistra che si era registrato nel paese. Con la legge del 8 marzo 1975 circa tre milioni e mezzo di giovani ebbero così la possibilità, per la prima volta, di esercitare il diritto di voto, facendo un ingresso deciso sulla scena politica italiana. Le elezioni regionali e amministrative di quell’anno segnarono un vero e proprio piccolo “terremoto” elettorale, in un contesto in cui le variazioni nei consensi ai partiti erano solitamente minime, spesso limitate a pochi decimali di punto. Se non fosse stato per la diffidenza, i timori e i sospetti (che poi si rivelarono reali) dei gruppi dirigenti della Democrazia Cristiana che nutrivano nei confronti delle nuove generazioni — diffidenza acuita dall’esplosione del movimento di contestazione giovanile — i diciottenni avrebbero potuto accedere al voto già nelle consultazioni regionali e amministrative del 1970 e in quelle politiche del 19727. Del resto, non si trattava solo di una questione anagrafica, ma di una sfida più ampia ai meccanismi di rappresentanza tradizionali: l’ingresso dei giovani nell’elettorato segnava anche una rottura simbolica con un sistema politico percepito come statico, poco incline al rinnovamento. L’estensione del diritto di voto ai diciottenni non fu quindi soltanto una conquista giuridica, ma un evento che contribuì a ridisegnare gli equilibri della democrazia italiana, aprendo nuovi spazi di partecipazione e di conflitto. Senza l’ondata di contestazione e la massiccia partecipazione giovanile alla vita politica e sindacale, senza l’impegno nelle lotte sociali e nella difesa dei valori dell’antifascismo e della Resistenza, questo diritto probabilmente non sarebbe stato ottenuto in quel periodo. Fu il frutto di una mobilitazione collettiva che trasformò la rivendicazione di diritti in un processo di maturazione civile e politica per un’intera generazione.

Oltre al voto dei giovani che avevano contribuito a una spinta verso sinistra non si può non rilevare che si verificò uno spostamento, e le cifre delle elezioni lo dimostrano, di grande dimensioni di votanti cattolici, di elettori ex democristiani che sembrerebbe abbiano trasferito direttamente il loro voto sul Partito Comunista. E d’altra parte taluni elettori che alla vigilia del voto avevano auspicato uno spostamento a sinistra per scuotere la DC dall’inerzia, ora si mostravano preoccupati, quasi pentiti, per il troppo consistente successo del PCI.

Firenze volta pagina

Nel giugno del 1975 Firenze visse uno dei momenti più significativi della sua storia repubblicana: le sinistre guidate dal Partito Comunista Italiano riconquistarono dopo ventiquattro anni la guida di Palazzo Vecchio. Fu il coronamento di un lungo percorso di radicamento e mobilitazione popolare che trovò espressione in una vittoria ampia e netta. La città celebrò l’esito delle urne con entusiasmo diffuso e partecipazione di massa, in una sorta di rito collettivo che confermava l’orientamento che era emerso alle elezioni regionali8. La tornata elettorale segnò una cesura simbolica e politica e come scrisse L’Unità, “Firenze ha voltato pagina9.

A Firenze il PCI promosse una campagna elettorale capillare, fondata sul radicamento nei quartieri, sul ruolo delle Case del Popolo e sulla partecipazione diretta dei cittadini. Assemblee popolari, incontri pubblici, dibattiti nei circoli e nei mercati diedero forma a un vero e proprio “laboratorio democratico” diffuso, come evidenziavano anche le cronache del giornale l’Unità. Oltre 357.000 elettori erano attesi alle urne, inclusi quasi 15.000 diciottenni alla loro prima esperienza elettorale. I seggi, 640 in tutto, furono allestiti anche negli ospedali a testimonianza della cura con cui si cercava di garantire la partecipazione di tutti. L’obiettivo era chiaro: voltare pagina dopo anni di amministrazione centrista, aprire una stagione nuova improntata al decentramento, all’efficienza dei servizi e al controllo popolare.

Disegno di Vinicio Berti, pittore ed ideatore del personaggio di “Atomino”, apparso sul “Pioniere” dell’ “Unità” dal 1953 in poi. Con questo disegno V. Berti conclude il proprio impegno per la campagna elettorale del PCI.

A guidare la nuova giunta di Palazzo Vecchio, all’indomani delle elezioni del 1975, fu scelto Elio Gabbuggiani, unico sindaco comunista di Firenze insieme a Mario Fabiani che aveva ricoperto la carica tra il 1946 e il 1951. Figura autorevole e al tempo stesso vicina al mondo del lavoro, Gabbuggiani rispondeva all’esigenza di un profilo esperto e rispettato.

Attivo fin da giovane nella Resistenza, Gabbuggiani ha rappresentato per decenni un punto di riferimento delle istituzioni pubbliche toscane. Dal 1962 al 1970 fu presidente della Provincia di Firenze contribuendo in modo decisivo alla fase preparatoria che portò all’istituzione della Regione Toscana, le cui assemblee furono ufficialmente insediate nel 1970 e fu proprio Gabbuggiani il primo presidente del Consiglio Regionale Toscano. Durante gli anni del suo mandato seppe distinguersi per la capacità di mediazione e per l’equilibrio politico, riuscendo a garantire alla città una fase di stabilità amministrativa10.

Il 15 giugno 1975 le urne diedero un responso inequivocabile: il PCI ottenne il 41,46% dei voti (migliorando il già eccellente 41,03% delle regionali) e conquistò 26 seggi. A questi si aggiunsero i 6 seggi del PSI e 1 del PDUP, garantendo una maggioranza assoluta al fronte delle sinistre. La Democrazia Cristiana, principale forza di governo uscente, subì una sconfitta pesante, confermata anche a livello nazionale. Dopo ventiquattro anni, la sinistra tornava al governo della città con una legittimazione popolare forte e diffusa11.

Già nella notte dello spoglio Firenze fu attraversata da una straordinaria ondata di entusiasmo: cortei spontanei percorsero le vie, bandiere rosse spuntarono alle finestre dei quartieri popolari, si cantarono inni e cori politici fino a tarda notte: “una notte rossa di gioia e speranza”. La sede della Federazione comunista in via Alamanni fu circondata da una folla festante «di cittadini, di compagni, di democratici: vogliono colmare insieme il “tempo vuoto” che intercorre fra il lavoro incessante di propaganda, di convincimento, di sensibilizzazione svolto nelle sezioni casa per casa, di vigilanza attuato nei seggi, e la conoscenza dei risultati»12.

 

In tutte le città toscane grandi folle di compagni, lavoratori, cittadini hanno sostato davanti alle Federazioni del PCI in attesa dei risultati elettorali. 

Una grande folla saluta l’annuncio dei dati elettorali davanti alla federazione comunista fiorentina che segnano il clamoroso successo del PCI.

Il culmine si ebbe il 19 giugno, quando decine di migliaia di persone si ritrovarono in piazza Santa Croce per una manifestazione pubblica, con la presenza di Giorgio Napolitano della direzione del PCI e di altri dirigenti del partito comunista di Firenze e della Toscana. Non era solo una festa, era una dichiarazione collettiva di fiducia e cambiamento. Mentre nella piazza risuonavano gli inni del movimento operaio decine e decine di cortei con bandiere rosse giungevano dai quartieri della città e dai comuni vicini, che ritrovavano il loro naturale legame con Firenze. Sul palco erano presenti anche i familiari di Rodolfo Boschi, quel ragazzo ucciso dai colpi sparati da un agente di polizia in borghese durante quell’oscuro e grave episodio verificatosi in città il 18 aprile.

La grande folla in piazza Santa Croce che saluta la vittoria del PCI con il pugno alzato.

Nel comizio di chiusura, il segretario della Federazione comunista fiorentina Michele Ventura sottolineò il significato nazionale della vittoria: «La Toscana e anche Firenze, ora che avrà un’amministrazione di sinistra, si costituiranno come punti di riferimento essenziali dell’unità di tutte le forze democratiche e popolari»13. Elio Gabbuggiani, consapevole delle aspettative altissime, dichiarò: «Non è tempo di trionfalismi: anni di cattivo governo non si recuperano in breve tempo»14. Entrambi rivendicarono una nuova concezione della politica locale, fondata su trasparenza, partecipazione e rapporto diretto con i quartieri.

La vittoria del 1975 segnò un punto di svolta per la città. Firenze tornava nelle mani di quelle forze che, nel dopoguerra, ne avevano guidato la ricostruzione. Ma era una nuova sinistra, più giovane, più aperta, più attenta ai temi dell’ambiente, del lavoro, della cultura e dei diritti civili. Come testimoniarono le settimane successive, la sfida era ora di trasformare quella spinta popolare in buona amministrazione, in un governo capace di ascoltare e agire. Una stagione nuova era cominciata.

I risultati elettorali del giugno 1975 smantellarono senza dubbio quelle posizioni che considerano le elezioni come inutili esercitazioni ingannatrici perché in ogni caso il potere resta sempre nelle stesse mani, e dimostrarono quindi che le elezioni servono, che incidono nella vita e nell’azione degli organi elettivi modificandone la composizione e che possono pure cambiare radicalmente la situazione politica generale15.

NOTE

1 Discorso di Enrico Berlinguer in Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 2006, p. 480.

2 Andrea Tanturli, Prima linea. L’altra lotta armata (1974-1981), DeriveApprodi, Roma 2018, pp. 57-62.

3 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., p. 501.

4 Discorso di Michele Ventura, segretario della Federazione Comunista fiorentina, in «L’Unità», 19 giugno 1975.

5 Dichiarazione del compagno Ventura. Una grande forza politica unitaria, «L’Unità», 18 giugno 1975.

6 Ghini Celso, Il terremoto del 15 giugno, Feltrinelli, Milano 1976, p. 230.

7 Ibid, p. 232.

8 Cfr. Le elezioni del 15-16 giugno 1975 in Toscana. Un primo commento, Regione Toscana/ Giunta regionale. Dipartimento statistica, elaborazione dati, documentazione, Firenze, luglio 1975.

9 Firenze ha voltato pagina. Grande entusiasmo per la vittoria delle sinistre che ritornano a Palazzo vecchio dopo 24 anni, «L’Unità», 19 giugno 1975.

10 Gabbuggiani si occupò del decentramento del potere locale attraverso la costituzione e il potenziamento dell’autonomia dei consigli di quartiere e diede un forte impulso alla gestione del patrimonio culturale cittadino, in Maria Sechi (a cura di), Elio Gabbuggiani: un uomo al servizio delle istituzioni toscane: 12-13 luglio 2019, Palazzo del Pegaso, Firenze, Consiglio Regionale della Toscana, 2019.

11 Entusiasmo in tutta la Toscana per la meravigliosa affermazione delle liste comuniste. Il PCI avanza di oltre il 4%. Gli eletti nel Consiglio regionale passano da 23 a 26 seggi, quelli del PSI da 3 a 6, mentre il PDUP mantiene il suo seggio. La DC e il PSDI perdono 2 seggi ciascuno, mentre scompare il PLI. Il successo del PCI è stato generale, nei piccoli centri come nei grandi, nelle zone operaie e in quelle contadine, «L’Unità», 17 giugno 1975, p. 9.

12 Splendida vittoria comunista. PCI e PSI più forti in tutta la regione. Sconfitto nettamente il centro sinistra si delinea una maggioranza di sinistra a Palazzo Vecchio, «L’Unità», 17 giugno 1975; Cfr. Maurizio Bastianoni, C’era una volta via Alamanni. Storia della mitica federazione fiorentina del Partito Comunista Italiano (e non solo), Pagnini Editore, Firenze 2019.

13 Firenze ha voltato pagina, «L’Unità», 19 giugno 1975, cit.

14 Ibidem.

15G. Celso, Il terremoto del 15 giugno, cit., p. 269.

 

Articolo pubblicato nel settembre 2025

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