Combattenti aretini senz’armi…

Francesco Venuti

Profili biografici di internati militari della provincia di Arezzo.

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Francesco Venuti, autore delle Memorie di guerra e di prigionia, edito dal Consiglio Regionale della Toscana nel 2018, ha inteso contribuire con questa ricerca all’impegno dispiegato nel corso del tempo dai molti storici che hanno studiato il dramma dell’8 settembre 1943: il disarmo e la deportazione degli Internati militari italiani del 1943, mediante il paziente recupero di testimonianze scritte dagli stessi deportati in forma di diario o di ricordo, oltre al paziente lavoro di archivio compiuto sia in Italia che in Germania, soprattutto a partire dal Convegno di Firenze del 1985.
Si è trattato non solo del tentativo di colmare un “vuoto di memoria” causato dal silenzio che per decenni aveva accompagnato la vicenda degli I.M.I. ma anche di compiere un sia pur tardivo atto di giustizia nei confronti di tutti quegli italiani in uniforme che per decenni erano stati dimenticati dalle istituzioni repubblicane, dalla società nazionale impegnata nella faticosa ricostruzione postbellica, da un’opinione pubblica tesa a cancellare gli orrori della guerra insieme alle sue vittime: perfino le stesse autorità militari sembrava avessero steso un velo su quanto era accaduto ad una massa sterminata di soldati ingannati dai nazifascisti.
L’oblio e la rimozione colpirono i sopravvissuti sin dal momento della liberazione e del rimpatrio, spesso vissuti dagli ex internati come fonte di sofferenze, rabbie, umiliazioni, provati quando si resero conto che presso le autorità italiane mancava la necessaria volontà e spesso la stessa capacità di comprendere non solo la portata del loro vissuto, ma più banalmente gli stessi problemi legati al rimpatrio: i governi formatisi in seguito alla liberazione nazionale non mostrarono alcun interesse ad attrezzarsi adeguatamente per accogliere i sopravvissuti. L’opinione pubblica, alimentata in parte da una propaganda ancora di stampo fascista, tendenzialmente considerò gli internati come l’immagine perturbante non solo della sconfitta, ma anche quella dell’imboscamento e della fuga dalle responsabilità. Spesso lo stesso rientro in famiglia, oggetto di idealizzazione durante la prigionia, soffocava ogni tentativo del reduce di narrare le proprie sofferenze di fronte all’indifferenza di chi aveva a sua volta subito le sofferenze del passaggio del fronte, le prepotenze degli invasori e le violenze fasciste.
In conclusione, quella che nella esperienza comune poteva costituire un passaggio dalla prigionia alla libertà, divenne per la maggior parte dei reduci un crollo delle illusioni, la chiusura nello sconforto che spiega come ad una narrazione priva di ascolto fu scelto il silenzio.

Nell’archivio dell’Associazione Combattenti e Reduci della Federazione pratese l’autore dello studio citato in apertura si è imbattuto in nove testimonianze relative ad I.M.I. sopravvissuti della provincia di Arezzo. Si tratta di DINO BELARDI, AGOSTINO BROCCHI, GIUSEPPE CANNONI, ARMANDO LAPI, ORLANDO LIPPI, ALESSANDRO MARTINI, DINO MASETTI, MINO MENCATTINI, OSVALDO VISI.

Dino Belardi nasce a Camucia (Cortona) il 20 agosto 1912. Si sposa con Elena Salvadori. Dal 28 ottobre partecipa alle operazioni svoltesi sul fronte greco-albanese 1940 nel diciannovesimo Reggimento di artiglieria “Gavinana” ed è catturato in Albania il 14 settembre 1943. È internato nello M. Stammlager V G, presso Bonn col numero di matricola 89918 e inviato al lavoro coatto presso una fattoria. Liberato nel 1945, rimpatria il 13 settembre dello stesso anno presentandosi al Centro Alloggio di Bolzano. Il suo foglio matricolare così recita: «Nessun addebito può essere elevato in merito alle circostanze della cattura e al comportamento tenuto durante la prigionia di guerra». Muore a Montemurlo di Prato, dove si era trasferito con la famiglia, l’8 agosto del 1997.

Agostino Brocchi nasce a Cortona il 23 marzo 1924, è chiamato alle armi l’11 maggio 1943 e arruolato nel sesto Reggimento Genio. Catturato a Bologna e deportato a Dortmund dal settembre 1943 ad aprile 1945, col numero di matricola 19798 è inviato al lavoro coatto in una fabbrica di armi dove riceve persistenti danni alla salute connessi al lavoro, come varici interne degli arti inferiori di notevole entità con esito a destra di ulcera varicosa. Al momento del rimpatrio, l’11 settembre 1945, si presenta al Centro Alloggio di Como.

Giuseppe Cannoni nasce a Castelfranco Piandiscò (Arezzo) considerato uno dei borghi più belli d’Italia il 24 agosto 1916. Arruolato di leva il 10 giugno 1936 e chiamato alle armi il 15 maggio 1937, milita nel 40° Reggimento di fanteria, Divisione “Modena” come soldato semplice fino al 27 agosto 1938. Richiamato alle armi il 2 maggio 1940 col grado di caporalmaggiore, il 12 ottobre 1943 è catturato a Prevesa (Epiro), che dal luglio del 1942 era sede della 139ª Squadriglia della Regia aeronautica italiana, internato presso Linz (Vienna) col numero di matricola 30311 e condannato al lavoro coatto di riparatore nelle ferrovie in qualità di tornitore. Rimpatria il 25 giugno 1946, e si ricongiunge alla famiglia abitante nella frazione di Certignano. Il 5 settembre è costretto ad operarsi di ernia epigastrica contratta durante la prigionia. Si ignora la data di morte.

Armando Lapi nasce l’8 maggio 1910 a Cetica, nel comune di Castel San Niccolò (Arezzo). Arruolato nell’Arma dei carabinieri il 2 luglio 1929, dapprima è assegnato alla Legione Allievi di Roma e poi, a partire dal 7 novembre 1939, risulta in servizio nella Legione di Firenze, dopo che il 28 ottobre 1939 si era sposato nella chiesa di Torre, frazione anch’essa di Castel San Niccolò, con Emilia Durazzi ed era andato ad abitare a Strada, capoluogo del comune. Il 19 luglio 1941 parte per il fronte dei Balcani in servizio presso la 65ª sezione dei carabinieri della Divisione di fanteria “Cacciatori delle Alpi”. Dopo l’8 settembre 1943 riesce a rimpatriare con mezzi di fortuna e raggiungere la famiglia il 18 ottobre dello stesso anno. Subito dopo si presenta al Comando della Legione di Firenze; ma poiché non intende aderire alla R.S.I. si dà alla macchia, rientrando di nascosto nella casa paterna di Campareccia, dove lo raggiungono la moglie e il figlio di due anni. Dopo il fortuito incontro con un maresciallo, suo vecchio amico, militante nella formazione “Lanciotto Ballerini”, operativa sul Pratomagno al comando di Aligi Barducci (“Potente”) lo segue nella cosiddetta “Repubblica partigiana del Pratomagno” e combatte col nome di battaglia di “Quaranta”. Partecipa alla vittoriosa battaglia di Cetica il 29 giugno 1944, giorno nel quale i nazifascisti avevano attuato le stragi di Civitella della Chiana, Cornia e San Pancrazio di Bucine. Catturato dal nemico il 4 agosto successivo, durante un rastrellamento, insieme al fratello Artemio è deportato in Germania nella regione della Saar, dove svolge lavoro agricolo coatto nelle fattorie oppure di addetto alla rimozione delle macerie procurate dai bombardamenti a Wiesbaden e a Francoforte sul Meno. I due fratelli sono liberati nell’agosto 1945 e nello stesso mese rimpatriano: Armando presterà servizio presso la Compagnia dei carabinieri di Prato, dove sono nati altri due figli, Lorenzo e Liliana, fino al pensionamento, il 1° novembre 1956 e dove si è spento il 20 dicembre 2006.

Orlando Lippi nasce a Poppi (Arezzo) il 15 maggio 1920, dove il 15 giugno 1944 è catturato come civile, essendo un contadino, internato a Sondershausen, in Turingia col numero di matricola 42076 e obbligato al lavoro in una officina di produzione di armi nel reparto di pezzi da mitragliatrici come tornitore. È liberato dalle truppe americane nel maggio 1945.

Alessandro Martini di Cortona nasce il 21 settembre 1915. In servizio militare a Corfù, non si conosce in quale arma, è catturato nel settembre 1943 e internato a Fulda, nell’Assia, nello Stammlager IX A col numero di matricola 82608, dove è costretto a lavorare in una fabbrica di maschere antigas ed altri lavori, fino a maggio del 1945. Secondo la sua dichiarazione per tutto il tempo dell’internamento è stato tenuto sotto custodia e sottoposto a continue perquisizioni e controlli da parte dei sorveglianti. Rimpatria il 5 luglio 1945.

Dino Masetti nasce il 19 ottobre 1923 a Pratovecchio (Arezzo). Nel gennaio 1943 è inquadrato nell’8° Reggimento di artiglieria di stanza a Postumia, in Slovenia. Dopo l’8 settembre 1943 tenta di fare resistenza ai tedeschi con un gruppo di commilitoni, ma è catturato e inviato in Germania in diversi campi di prigionia: Stettino, Mannheim, Ludwigschafen, Heidelberg, Landau, per poi finire a lavorare sulla linea Sigfrido agli inizi del 1945. Rimpatria nel settembre 1945.
«L’8 settembre […] a un certo momento verso le nove di sera suonò l’allarme e venne l’ordine assoluto di rientrare in caserma ma non si sapeva ancora il perché, che c’era stato l’armistizio […] fu fatta resistenza, noi non ci si arrese ai tedeschi, ma non s’aveva nulla: si aveva un moschetto e la pistola, ma cosa si fa contro i carri armati? In conclusione, fu fatta una sessantina di morti e poi ci si dovette arrendere».

Mino Mencattini di Stia (Arezzo), presta servizio militare a partire da febbraio 1942 nel terzo Reggimento “Granatieri di Sardegna”, corpo della Divisione “Forlì” di stanza a Viterbo. Dopo l’8 settembre 1943 è catturato e internato prima a Wietzendorf (lager X/B, matricola n° 173040 KG- ITL) presso Belsen e poi a Klein Wasleben, nel Magdeburgo. Il suo racconto autobiografico della prigionia mette al centro della narrazione la condizione di totale distruzione della dignità degli internati, lo stato di abbandono, la solitudine aggravata dalle sopraffazioni, dalle violenze e dalla fame ossessiva e incalzante. La deportazione sui carri bestiame, senza cibo, ma soprattutto senza acqua segna l’inizio «dell’abbrutimento, dell’autoannientamento morale nel quale l’infernale macchina tedesca avrebbe voluto ridurci, facendoci prima morire nello spirito».
Il discorso del comandante SS del campo di Wietzendorf rivolto ai prigionieri il giorno dopo il loro arrivo non lascia dubbi:
«Voi non siete dei normali prigionieri di guerra; i prigionieri di guerra sono avversari, leali combattenti che cadono prigionieri e meritano rispetto da soldati; voi siete dei volgari traditori badogliani che ci avete improvvisamente e proditoriamente voltato le spalle; perciò, non possiamo, non dobbiamo considerarvi prigionieri di guerra, ma pericolosi internati a completa disposizione del grande Reich e del nostro grande Führer. […] Tenete bene a mente una cosa – aggiunse – voi non siete nessuno, siete una cosa, uno strumento, del quale disporremo come crederemo meglio, quando e dove vogliamo!».
Finalmente, per i sopravvissuti, il 1° luglio 1945 partenza per l’Italia. Al passo del Brennero attende i reduci un vecchio treno merci, già occupato, insufficiente per tutti:
«L’impatto con quel treno fu un’amara delusione per tutti. Tutta l’accoglienza “ufficiale” di cui ci aveva parlato il colonnello Salzano consisteva in quel merci rugginoso e stipato e in un plotone di carabinieri per sorvegliarci. […] Mi tornavano in mente le parole di quell’anziano capitano degli alpini che ci aveva avvertiti: – Non aspettatevi che vi accolgano a braccia aperte; per i reduci non è facile parlare di diritti, non lo fu neppure nel 1918, e allora tornarono vittoriosi. I diritti saranno di quelli che sono stati a casa, degli eroi dell’ultima ora. […] Andiamo avanti tutti verso casa; siamo liberi in questo treno che ci riporta, ma siamo muti. Abbiamo tutti bisogno di scongelare, di sciogliersi l’anima, disincagliarci, riacquistare la speranza e la fiducia in noi stessi e negli altri. Ma sono cose, doni che pochi potranno darci. Non certo la nostra “mamma Italia” che quasi si vergogna di noi…».

Osvaldo Visi di Angiolo, nato a Lierna, frazione del comune di Poppi (Ar), ultimo di tre fratelli tutti chiamati alle armi.
«… Nel periodo che ho passato in Germania ricordo di aver cambiato molte città, ma di queste non ricordo che alcuni nomi. Ricordo di aver lavorato il ferro in una fabbrica vicino alla quale c’era una casa dove portavano con i camion i prigionieri provenienti da vari Paesi europei. Io non ci sono mai entrato, ma sentivamo dire che da lì li portavano poi a morire. Qui ho visto uccidere un uomo perché aveva “rubato” un po’ di frutta in un orto …».

Le fonti delle loro narrazioni sono presenti rispettivamente: per Dino Belardi, Agostino Brocchi e Giuseppe Cannoni nell’archivio della Federazione pratese dell’A.N.C.R. Per Armando Lapi e Dino Masetti in Ultime voci, raccolta di testimonianze a cura della Federazione pratese: per il primo alle pp. 90-96, vol. III, per il secondo alle pp. 48-56, vol. VIII. Per Mino Mencattini le memorie sono presenti in Eravamo nessuno, Edizioni Fruska, Stia (Ar), 1989. Per Osvaldo Visi la testimonianza integrale è reperibile in Salvo Salvi, Ritorno alla vita. Ricordi di un lontano dopoguerra, Edizioni Fruska, Soci (Ar), 2012.

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