L’occupazione tedesca di Prato

Tommaso Lupi - Istituto storico toscano della Resistenza e dell'età contemporanea

Tra bombardamenti alleati ed eccidi, l'anno buio dell'occupazione nazifascista

Cippo ai deportati degli scioperi in piazza Santa Maria delle Carceri
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Mesi infernali tra rastrellamenti e bombardamenti alleati. È questa la tragica situazione a cui dovettero sopravvivere i cittadini pratesi durante l’occupazione nazifascista. L’attenzione che fu data a questa città merita però una premessa obbligatoria, per spiegare perché ricevette un trattamento simile. Prato è una città industriale, definita proprio “di industria”, dove le imprese risiedono direttamente all’interno della città e non in zone periferiche esterne al perimetro abitativo, come nel caso di Firenze. Qui sono collocate proprio nel centro cittadino, creando un rapporto strettissimo tra realtà industriale e città. Ecco perché i bombardamenti avranno conseguenze ancor più devastanti, perché colpirono il centro abitativo e l’industria simultaneamente, mettendo in alcuni momenti in ginocchio la popolazione.

Dopo i fatti del 25 luglio 1943, anche Prato fu fra le città che videro una forte mobilitazione della cittadinanza che pretendeva il ritorno alla libertà e alla pace. Una sommossa popolare e antifascista che si interruppe il 10 settembre, con l’irruzione dell’esercito tedesco che occupò la città e restaurò il potere fascista, rendendo la vita impossibile per tutti quegli antifascisti che si erano maggiormente esposti tra il 25 luglio e l’8 settembre, e che furono arrestati o costretti a scappare dalla città. Per fronteggiare questa nuova situazione iniziò l’organizzazione delle formazioni partigiane. Di fatto il primo vero scontro con le forze fasciste arriverà soltanto nei primi giorni dell’anno seguente: la battaglia di Valibona. Si svolse la mattina del 3 gennaio del 1944 in località Valibona, sulla Calvana, al confine fra i comuni di Calenzano e Prato. Fra i casolari di Valibona si era, infatti, fermata un gruppo partigiano guidato da Lanciotto Ballerini nel corso di una marcia verso il pistoiese per raggiungere la formazione guidata da Manrico Ducceschi. I rastrellamenti sempre più frequenti resero pericolosa la permanenza sul Monte Morello, in prossimità di Firenze, dove Ballerini si trasferì dopo l’8 settembre del ’43, dando vita ad una formazione armata, e lo spinsero al trasferimento. Mentre molti partigiani comunisti si erano diretti dai propri compagni sul Monte Giovi, con Ballerini ne rimasero diciassette, prevalentemente sestesi e campigiani, fra cui anche due prigionieri russi, due slavi e un prigioniero inglese. Giunti a Valibona, il gruppo decise di sostare per riposarsi. Ma nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 1944 furono circondati da elementi del 1° Battaglione volontari Bersaglieri “Muti”, una formazione della guardia repubblichina guidata da Duilio Sanesi, comandante del presidio di Prato, Carabinieri e fascisti dei Comuni limitrofi, reparti agguerriti, ben armati e equipaggiati, giunti sia da Vaiano che da Calenzano, che li avevano individuati grazie alla delazione di una spia. Il soldato sovietico Mirko, svegliatosi per un bisogno, accortosi del nemico, avvisò Ballerini. Rifiutata la resa combatterono intensamente. La battaglia divampò per circa tre ore e mezzo. Considerata la situazione Ballerini comprese che l’unica via d’uscita era tentare una sortita per spezzare l’accerchiamento. E lanciò il contrattacco. L’iniziativa riuscì e, nonostante la disparità di numero e di mezzi, nove componenti del gruppo sfuggirono all’assedio. Lo scontro si concluse con cinque perdite fasciste e tre partigiane, dimostrando l’organizzazione e la tenacia della resistenza toscana. Fu questo scontro a dare vigore e consapevolezza sul territorio dell’esistenza di forze che si opponevano all’occupazione nazifascista, dando più forza alla Resistenza. Un processo rafforzato ancor più dallo sciopero dei primi di marzo[1].

Fu promosso dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia) a partire dal 1° marzo del 1944 in tutti i territori ancora occupati dall’esercito tedesco. Furono principalmente i comunisti ad insistere per lo sciopero, per consolidare i successi ottenuti dai primi episodi della Resistenza, per migliorare le condizioni materiali dei lavoratori, per chiedere la fine della guerra e per dare un ulteriore segnale di lotta. Ebbe ovunque un successo inaudito. Dagli oltre sessantamila operai di Torino a Milano, dove fu bloccata la circolazione dei mezzi pubblici, l’Italia occupata si ribellava platealmente al comando tedesco. A Prato i giorni che lo precedettero furono di alta tensione, proprio a causa del modello produttivo della città, dell’inattività totale o parziale di alcune aziende e del timore di una ritorsione da parte di fascisti e nazisti. Per questo lo sciopero ebbe inizio solo il 4 marzo, ma la mobilitazione fu totale. Nonostante le iniziali preoccupazioni sopra descritte, la partecipazione riguardò non soltanto i lavoratori comunisti o vicini al partito, ma persino molti che erano stati fascisti convinti. L’entità dell’adesione sorprese non soltanto le autorità fasciste ma anche gli stessi organizzatori. Prato era presente. Lo scioperò proseguì anche lunedì 6 e martedì 7 marzo, in un clima di mobilitazione totale, tanto è che il CLN perse il controllo dello sciopero stesso, a causa della mancanza di collegamenti e referenti nelle molte aziende del territorio pratese. La situazione si stabilizzò solo a partire dall’8 marzo, dove la quasi totalità dei lavoratori tornò al lavoro. Ma subito iniziò la dura risposta da parte dei nazifascisti[2].

Ma proprio in quelle ore Prato visse un altro terribile dramma: i bombardamenti degli alleati. La città nei mesi precedenti ne aveva subiti una decina, arrivando a contare più di cinquanta morti. E quello della mattina del 7 marzo non fu da meno. L’incursione alleata devastò vaste aree del centro storico e della periferia a nord, come via Strozzi, Montalese, Bologna, Filicaia, Santa Margherita e San Fabiano, oltre alle piazze Mercatale, del Duomo, Sant’Agostino e Ciardi. Furono colpite fabbriche e abitazioni, con un bilancio di sedici morti, diciotto feriti, centouno aziende danneggiate, cinquantaquattro case distrutte e quasi trecento danneggiate[3]. Il dolore dei familiari dei morti, lo sgomento di chi non aveva più una casa, la paura di un nuovo bombardamento, furono queste le sensazioni che in quel 7 marzo inondarono le strade di Prato e che presero velocemente il posto dell’orgoglio portato dallo sciopero. Eppure, quell’azione che, nell’idea degli alleati, tanto doveva destabilizzare i tedeschi, finì per farlo alla popolazione, talmente straziata e stanca che non capì subito quello che stava per accadere.

Contemporaneamente scattò la repressione nazista. Arrivò da Hitler in persona l’ordine di deportare il venti per cento della manodopera in seguito agli scioperi di marzo. Un ordine che dimostra tanto la collera dell’azione punitiva quanto la sorpresa che ebbero i tedeschi davanti alla capacità di mobilitazione dei lavoratori italiani. In base agli ordini arrivati da Berlino, i fascisti locali avrebbero dovuto consegnare millenovecento scioperanti: una cifra al limite dell’irraggiungibile se si considera che la popolazione di Prato al tempo non arrivava alle quarantamila unità. Ma questo, ad una Germania arrivata al culmine dello sforzo bellico e bisognosa di manodopera, non interessava affatto. Fu così che allora i fascisti pratesi, aiutati dalle forze della RSI fiorentina e lucchese, bloccarono gli incroci principali della città e catturarono tutti gli uomini che ebbero la sfortuna di passarci davanti. Oltre che per le strade, i lavoratori furono prelevati direttamente anche in tre aziende: alla Guido Lucchesi, alla Campolmi e alla Sbraci Vasco. Questo rastrellamento indiscriminato fece sì che non tutti gli arrestati fossero degli antifascisti o lavoratori aderenti allo sciopero: la situazione si era talmente confusa che furono deportati anche dei fascisti convinti. Per tutto il giorno del 7 marzo, e fino a quando lo si ritenne redditizio continuò il rastrellamento indiscriminato di persone. Alla fine, i circa centotrentasette arrestati furono trasferiti con dei pullman a Firenze, precisamente alla Scuole Leopoldine, in piazza Santa Maria Novella. Qui, dopo esser stati registrati, ed in alcuni casi interrogati, furono scortati dalle forze tedesche presso la Stazione Centrale. Lì si trovarono di fronte alcuni carri ferroviari, quelli usati per il trasporto del bestiame, dove furono costretti a salire. Dopo tre giorni interminabili di viaggio arrivarono a Ebensee, uno degli oltre quarantanove campi che dipendevano da Mauthausen. Ne torneranno solo ventuno[4].

Eppure, anche con questa prova di forza perpetuata dai tedeschi, il lavoro nelle aziende non riprese regolarmente, sia perché una parte delle maestranze era stata deportata, sia perché la situazione era radicalmente cambiata proprio in virtù di quella reazione, che aveva profondamente inciso sulla mentalità degli operai. Essi, infatti, una volta tornati al lavoro, sperando in una rapida avanzata alleata, iniziarono a boicottare la produzione come mai avevano fatto. La stessa struttura produttiva della città era stata notevolmente ridimensionata dai bombardamenti alleati e molti industriali preferirono allora aspettare il risarcimento dei danni di guerra anziché cercare di rimettere in funzione gli impianti per i tedeschi. A causa di tutto ciò, la produzione di guerra a Prato subì un vero tracollo[5].

Questo resta il culmine di un’occupazione che vedrà la città nei mesi seguenti ancora vittima dei bombardamenti alleati e delle ritorsioni nazifasciste. Bisognerà aspettare il 6 settembre per assistere alla liberazione di Prato, un giorno di isperata felicità ma che coincide con l’ennesimo eccidio di matrice nazista nel pratese: ventinove giovani partigiani vengono catturati alla fine di uno scontro a fuoco avvenuto nella notte precedente e vengono impiccati nel paese di Figline.

 

 

 

Note

 

[1] M. Di Sabato e G. Gregori, Fatti e personaggi della Resistenza di Prato e dintorni: dalla caduta del fascismo alla Liberazione (luglio 1943-settembre 1944), Pentalinea, Prato, 2014, pp. 19-46.

 

[2] M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Bologna, 1987, pp. 79-97.

 

[3] M. Di Sabato, La guerra nel pratese 1943-1944, Pentalinea, Prato, 1993, pp. 54-66.

 

[4] M. Di Sabato e G. Gregori, Fatti e personaggi della Resistenza di Prato e dintorni: dalla caduta del fascismo alla Liberazione (luglio 1943-settembre 1944), Pentalinea, Prato, 2014, pp. 52-55.

 

[5] M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Bologna, 1987, p. 104.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nell’ottobre 2024.

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