Giorno della Memoria 2021: grazie a Regione Toscana, il treno “virtuale” della memoria è partito da Firenze.

Chiara Nencioni - insegnante

31 Gennaio 2021 - Firenze Tutta la Toscana
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Questo sarebbe stato il ventesimo anno dall’istituzione del Treno della Memoria, iniziativa (poi molto “imitata”) creata dalla Regione Toscana, prima in Italia. Ma a causa della pandemia, il treno questo anno non è potuto partire. E gli alunni non si sono potuti neppure riunione per ascoltare storici e testimoni al Nelson Mandela Forum, come si faceva ad anni alterni.

Ma, nonostante le difficoltà, la Regione Toscana, coadiuvata dal Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato, ha comunque celebrato la Giornata della Memoria insieme agli studenti, che si sono collegati on line in 11.000, attraverso un viaggio ‘virtuale‘ di quattro ore nella storia, nei campi di sterminio e nei ricordi di vite vissute.

Manca anche la presenza fisica dei testimoni, pure loro collegati da casa, mentre sul palco del Cinema La Compagnia di Firenze è presente Ugo Caffaz, anima fin dall’inizio del Treno della Memoria toscano, che termina così il suo breve discorso “Si dice che senza memoria non c’è futuro, no, non c’è presente, altrimenti non pensiamo a ciò che ci sta intorno, non lo guardiamo e facciamo quello che ci pare”.

Intervengono anche i rappresentanti istituzionali come Alessandra Nardini, assessora regionale all’istruzione, che invita a raccogliere l’eredità dei testimoni e a non abbassare la guardia di fronte ai rigurgiti nazisti e fascisti e ai negazionismo; Antonio Mazzeo, presidente del Consiglio regionale, che auspica che il Treno della Memoria possa partire non ad anni alterni ma tutti gli anni, e Eugenio Giani, presidente della Regione, che, con una metafora attuale, dice che il miglior vaccino contro il virus del razzismo è la memoria.

Ad animare il palco, e attraverso internet, i numerosissimi studenti collegati con i loro insegnanti dalle aule scolastiche, è l’Orchestra multietnica di Arezzo, nata nel 2007 da un percorso formativo, aperto alla partecipazione di musicisti italiani e stranieri e finalizzato alla conoscenza e all’approfondimento delle musiche tradizionali delle aree del Mediterraneo, per predisporre un repertorio basato sulla contaminazione.

Attraverso le parole e le note di Enrico Fink, ebreo, e di Alexian Santino Spinelli, rom, viene lanciato il messaggio che la cultura è fatta di incontri tra diversità e che cultura e musica significano pluralità, confronto e mescolanza. L’Orchestra apre e chiude l’evento e fa da intermezzo fra un intervento e l’altro. Questa celebrazione della Giornata della Memoria è anche l’occasione per lanciare l’ultimo disco, dal titolo Romanò Simchà, una crasi linguistica traducibile come “festa ebraica rom”. Così spiega Fink “lo scopo di questo disco è di raccontare in musica il fatto che la cultura italiana non è un blocco con dei confini a rischio di invasione, ma è sincretica, frutto anche delle minoranze. Il nostro mondo è fatto e arricchito dalla diversità”. Poi Spinelli “all’epoca dei miei genitori nascere Rom era un reato. Mio padre è stato internato da bambino in un campo per zingari vicino Potenza e ha subito la fame per la deportazione fascista”. E’ dunque giusto ricordare che ebrei e sinti e rom sono stati vittima dello stesso progetto genocidario nazifascista. Continua Spinelli “musica klezmer e rom si sono sempre mescolate, come i nostri popoli, anche quando si sono incontrati nelle segrete della Santa Inquisizione o nei lager“.

Sul palco, nella veste di conduttori, anche Camilla Brunelli e Luca Bravi, rispettivamente direttrice e collaboratore del Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato.

Il primo testimone a parlare non è sopravvissuto all’olocausto, ma alla strage di Sant’Anna di Stazzema del 12 agosto 1944. E’ Enrico Pieri e proprio questo mese è stato insignito da Mattarella “Commendatore al merito della Repubblica”.

Pieri si presenta e racconta con semplicità e senza patetismo la sua vicenda: aveva 10 anni quando i nazisti -guidati dagli Italiani, sottolinea- hanno massacrato la popolazione e gli sfollati di Sant’Anna. Lui è sopravvissuto all’eccidio nascosto in un sottoscala, dove lo aveva tirato a sé un’altra bambina, Grazia Pierotti, e ha visto massacrare davanti a sé i suoi familiari ed incendiare la casa. E’ rimasto completamente solo: uccisi genitori, due sorelle, nonni, zii e cugini. Anche della famiglia Pierotti si sono salvate solo Grazia e la sorella minore. Le necessità economiche lo spingono, da adulto, ad andare a cercare lavoro in Svizzera e, sfruttando la sua esperienza di emigrato, Pieri parla dell’importanza della Europa unita e non ha parole di odio (all’inizio ammette di essere stato diffidente) verso i Tedeschi. “Quando emigrai in Svizzera capii che non si doveva e non si poteva più odiare e che mai bisogna generalizzare”. Conclude così: “facciamo dei futuri europei affinché non ci sia un’altra Sant’Anna di Stazzema”, e le sue parole ci ricordano come l’Europa nasca negli eccidi di civili, nei campi di concentramento ed in ogni altro luogo dove guerra, odio e violenza hanno creato devastazione.

Viene poi proiettato Un treno per Auschwitz: memorie di un viaggio che dura 20 anni, un video a cura della Regione Toscana con la regia Tobia Pesci. Di fronte ai nostri occhi scorrono immagini del treno in partenza dalla stazione di Santa Maria Novella, intermezzate da brevissime testimonianze di Antonio Ceseri, IMI, Tatiana Bucci e Vera Michelin Salomon, ebree, che raccontano il momento della loro cattura. Andra Bucci, invece, parla della difficoltà di rifare il viaggio verso Auschwitz, perché si rivede ogni volta in quel vagone piombato che la portò ad Auschwitz la notte del 4 aprile 1944. Del viaggio anche Marcello Martini dice: “nel viaggio verso Mauthausen ho provato la prima paura vera della mia vita”. Poi Andra racconta il momento della “selezione” all’apertura del portellone, mentre di quel momento Maria Rudolf, deportata politica, ricorda le urla in una lingua incomprensibile. La sorella Tatiana ci fa accapponare la pelle quando dice che il ricordo più intenso che ha di Birkenau è la fuliggine anche quando era estate, e l’odore acre “che poi ho capito che era di carne bruciata”. L’immagine successiva è quella di Andra che mostra il tatuaggio, di cui è orgogliosa “perché non sono riusciti a distruggermi, ad annientarmi come volevano, ma sono qui per testimoniare. I bambini ebrei dovevano morire tutti e quando si distruggono mamme e bambini si distrugge un popolo intero”.  Il video prosegue con estratti dalla “cerimonia dei nomi”, cioè la lettura da parte degli studenti, davanti al Memoriale di Birkenau, di circa 600 nomi di deportati e dell’età in cui sono morti, cui seguono una preghiera cristiana e una ebraica. Poi le interviste ai ragazzi: “il mio sistema emotivo è rimasto come congelato” afferma una studentessa, “dovrebbe essere obbligatorio da parte dei governi far fare agli studenti questa esperienza”, dice uno studente mentre un altro, attonito, confessa “nemmeno essendo qui riesco a capire”.  Infine, in uno degli incontri nel cinema Krylov a Cracovia, si parla del momento della liberazione e Marcello ricorda il crollo psicofisico subito quando si sono aperti i cancelli di Mauthausen, mentre Andrà si rammenta di un soldato con una divisa diversa da quella dei suoi aguzzini che le dà una fetta di salame.

Dopo il video, prende la parola Camilla Brunelli che introduce i testimoni e ricorda le leggi razziali e le sofferenze che esse e la persecuzione politica hanno causato in coloro che sono dovuti fuggire o emigrare.

E così appare, in collegamento da Buenos Aires, Vera Vigevani Jarach: “Io ho due dittature sulle spalle, quella fascista, perché nella Shoah ho perso mio nonno a Auschwitz, e quella di Videla in Argentina, perché mia figlia, come tanti studenti e giovani, sono state vittime del suo regime”. Nonostante tutte le persecuzioni e i lutti subiti, Vera si dichiara “una ottimista incorreggibile” e aggiunge, riferendosi al presente “Anche la pandemia ci ha insegnato qualcosa: a usare le piattaforme virtuali. Dopo il covid dovremo rivedere tutto e occuparci della fame, della miseria, delle violenze. Non sono utopie, possono e devono diventare realtà perché siamo noi a dover costruire un mondo migliore, ed io ho fiducia nei giovani, per me sono importanti i giovani”.

E così questa straordinaria 93enne, che non esce da casa da marzo scorso a causa del coronavirus, si dimostra ancora una volta una forza della natura.

Riprende la parola Camilla Brunelli per introdurre la Shoah dei bambini (un milione e mezzo) e invita a riflettere su quale ideologia ha permesso che venissero uccisi: “non è inspiegabile follia, bisogna cercare le cause economiche, ideologiche. Fu un cammino graduale che portò al genocidio di un milione e mezzo di bambini per eliminare il futuro”.

Così inizia il collegamento con Kitty Braun, italiana di origine ebrea, nata a Fiume e deportata con la sua famiglia quando aveva appena 8 anni, prima nel campo di Revensbrück e poi in quello di Bergen-Belsen. Ed è proprio dalla liberazione da questo lager che Kitty inizia a raccontare. “Neppure i soldati inglesi si avvicinarono alla baracca, dal fetore. Io ero bambina ma non camminavo più perché mi si erano atrofizzate le gambe. Così venni presa in braccio dai soldati. Nei loro occhi vedevo l’orrore di ciò che vedevano“. “Non mangiavamo da 2 settimana, ci dettero dei fagioli in scatola (che hanno aggravato la nostra dissenteria), poi ci hanno messi su tavoloni di legno dove siamo stati lavati con il bruschino e con la sistola“. “La sensazione più bella che ricordo è quando poi mi hanno messo a dormire in un letto vero. Ancora ora quando entro nel letto, prima di toccare lenzuola, faccio la doccia, per entrare in un letto voglio sdraiarmi pulita“.  Poi con il pensiero torna indietro e ricorda il momento in cui con la famiglia lascia Fiume, cambia cognome in Ferri, per nascondersi in campagna in Veneto.  “Quello in campagna è stato bel periodo, perché potevamo correte liberi e, avendo una mucca, bevevo latte fresco”. Poi la mattina dell’11 novembre 1944 veniamo presi da due SS che vengono a bussarci con un signore (delatore) e ci portano in prigione a Venezia, dove conosciamo la generosità dei prigionieri comuni che ci danno cibo. Da lì a San Sabba, dove abbiamo saputo che saremmo stati deportati in Germania. Mia madre, che era modista, ricordo che cucì un paio di mutande calde, rosa a fiori. Me li ricordo ancora questi mutandoni, che ballavano alla finestra della baracca per cercare di tappare il freddo che entrava“. Il momento drammatico che, invece, le è rimasto più impresso è quando sua zia, dopo la morte del suo bambino, Silvio, che soffriva da giorni per motivi respiratori e aveva pianto tutta la notte, ha detto “finalmente”. “A che dolore si deve arrivare per indurre una madre a dire così alla morte del figlio?”. La dottoressa Brunelli la esorta poi a ricordare il suo ritorno a casa dopo la liberazione, perché Kitty, di nuovo a Fiume, subisce ulteriori traumi. I Braun trovano la loro casa occupata dalla loro domestica Danica, che li aveva denunciati durante la clandestinità per appropriarsene. Racconta Kitty: “Chi ci apre la porta, dice “speravo che foste morti”. Ma i genitori decidono di non denunciarla. Ma non finisce qui. Nel 1947 la famiglia Braun è costretta a un nuovo esodo e da profughi istriani si trasferiscono a Firenze dove Kitty vive ancora oggi.

Il successivo collegamento è con Tatiana Bucci da Bruxelles. E’ strano vederla per la prima volta senza la sorella Andra (sono state deportate insieme a Birkenau quando avevano rispettivamente 6 e 4 anni), che, per il fuso orario di 9 ore, non può esserci, perché adesso vive in California, ma manda un messaggio registrato.
Camilla Brunelli chiede anche a lei di parlare di ciò che è successo dopo la liberazione. Tatiana inizia molto emozionata, triste, piange e ci spiega il perché “stamattina a radio 3 ho sentito parlare dei campi profughi oggi in Bosnia. ll mio pensiero va a loro“.  Poi Tatiana comincia a raccontare dell’orfanotrofio a Praga, in cui lei e Andra hanno vissuto dal gennaio ‘45 “dove abbiamo dimenticato la nostra lingua e dove ci hanno mandate per la prima volta a scuola”. Poi ricorda “un giorno fanno un appello e ci chiedono “chi di voi è ebreo?”. Rispondiamo in 5; allora ci caricano su un aereo militare e ci portano in Inghilterra, in un paesino del Surrey. Era notte al nostro arrivo, ma vediamo davanti a noi un meraviglioso cottage ricoperto di edera. Là ci accolgono a braccia aperte e ci portano in un grande stanzone: la sala giochi! Sembrava il paese dei balocchi!” “Il periodo in Inghilterra è stato il migliore della nostra vita, perché lì siano rinate“.  Andra e Tatiana alle istitutrici, dirette da Anna Freud, raccontano che mamma e papà erano morti. Infatti così credevano, non avendoli più visti da anni. Ma un giorno viene mostrata loro una foto, in cui riconoscono i genitori. Iniziano così le pratiche per il rimpatrio, che le due bambine vivono però come un nuovo sradicamento. Tatiana racconta della partenza da Victoria Station, del viaggio in treno attraverso la Francia e dell’arrivo a Roma, che definisce “traumatico”. “Al binario ad aspettarci c’era tutta la comunità ebraica che ci mostrava decine di foto di bambini per chiedere se li avevamo visti. Ma non potevamo riconoscere nessuno; solo da adulte abbiamo realizzato che erano i bambini razziati dal ghetto il 16 ottobre 1944 e gasati all’arrivo al lager”.

Arriva infime il messaggio di Andra: “nel 2004 abbiamo ricevuto una telefonata dalla Toscana per chiederci se volevano partecipare a un Treno della Memoria; non abbiano risposto subito, un po’ ci spaventava l’idea di quel viaggio, ma poi abbiamo accettato e da allora la Toscana non ci ha mai abbandonato”.  Poi si rivolge al pubblico di alunni che, dall’altra parte del mondo, la stanno guardando: “voi giovani siete il futuro, ho fiducia in voi. Dovete pensare con la vostra testa e non con quella di chi magari urla di più, e dovete aiutare gli altri”.

Ora la storia delle sorelle Bucci è conosciuta in tutto il mondo, il loro libro è stato tradotto in tedesco, inglese e croato ed è stato creato anche un cartone animato: “La stella di Andra e Tati”.
Siamo in conclusione. Prende la parola Luca Bravi “per tanto tempo queste storie non sono state raccontate, perché non c’era un contesto di persone che volevano ascoltare”.
Poi vengono mostrati quattro lavori, fra i 14 selezionati, svolti da alcuni studenti dei duecento insegnanti che quest’anno hanno partecipato ai corsi on line di preparazione al Giorno della Memoria. Il primo contributo viene da Porto Ferraio: un video in bianco e nero, in muto, basato sulla gestualità, dal titolo “io sono il mio numero”. Il secondo giunge da San Sepolcro ed è incentrato sul tema dell’indifferenza, dalle leggi razziali a oggi, con immagini di barconi carichi di migranti, di mense dei poveri, degli esclusi di ieri e di adesso. Il terzo contributo, di una scuola di Prato, si intitola “Lettera di Lena” ed è letta da Floriana Pagano. La voce narrante è quella di una solare bambina ebrea di 11 anni che racconta la svolta fra la felicità della sua infanzia, in una famiglia unita, alla tristezza del viaggio senza ritorno in un vagone merci. Il quarto, infine, è del Liceo Chini di Lido di Camaiore. In esso gli studenti, attraverso un disegno animato, approfondendo il tema dell’Aktion T4, hanno narrato la storia di ragazzo jenisch, Ernst Lossa, ucciso nella clinica di Kaufbeuren.

L’evento si conclude con la musica dell’orchestra multietnica di Prato e le parole di Primo Levi

“La storia insegna ma non ha scolari”.

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