A Fosdinovo, aperta la XV edizione di “Fino al cuore della Rivolta, il Festival della Resistenza”.

Chiara Nencioni - Insegnante

4 Agosto 2019 - Massa Carrara
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Fosdinovo, una paese arroccato fra le montagne apuane: alle 17.45 di venerdì 2 Agosto inizia la 15esima edizione di Fino al cuore della Rivolta, il Festival della Resistenza, che, lontano dalle stanche commemorazioni,  si pone come obiettivo di far incontrare le giovani generazioni con il patrimonio di idee e di valori che deriva dall’esperienza della Resistenza, la cui conoscenza, ancora oggi, si dimostra fondamentale nel nostro vivere civile. E lo fa attraverso la cultura usando anche le nuove forme di manifestazione artistica (concerti, letture sceniche, videodocumentazione). Il Festival si svolge in un bosco di castagni secolari, accanto al Museo Audiovisivo della Resistenza, in uno scenario naturale che trae potere evocativo dall’esser stato uno dei teatri delle battaglie partigiane, e con la sua strada ripida suggerisce l’idea di salire fra i monti proprio “fino al cuore della rivolta”.

Alessio Giannanti, anima dell’iniziativa e dell’associazione Archivi della Resistenza, apre il Festival con una notizia che suscita indignazione: ieri a Campocecina sfregio, per la quarta volta, al monumento ai partigiani. “Tale atto fa capire che c’è bisogno di iniziative come il nostro festival, perché in questa terra che ha visto poche svastiche e tanta Resistenza non ne veda ore dipinte”. Conti, presidente dell’ANPI di Carrara, a proposito dell’ atto vandalico dice che “più che l’ira deve passare il disprezzo verso questi imbecilli”.

Il primo dibattito inizia alle 18 mentre un fiume di gente variopinta sale e man mano si mette in fila per la cena. Vede come coordinatore -o scoordinatore, come preferisce definirsi lui- l’antropologo Paolo de Simonis che esordisce “il dono crea un legame, una risposta. Questo festival, che si basa solo sui volontari crea esattamente questo, attraverso una partecipazione dal basso generosa”.

Ad aprire il dibattito è la Prof.ssa Monica Barni, vicepresidente della Regione Toscana. È la prima rappresentante politica di alto livello non solo ad aver visitato il Museo Audiovisive della Resistenza ma anche a partecipare al Festival. Esordisce che quello che Fino al cuore della rivolta fa è incarnare i principi della legge 38 della Regione Toscana, del 14 ottobre 2002, che tutela e valorizza il patrimonio storico, politico e culturale dell’antifascismo e della Resistenza e di promozione di una cultura di libertà, democrazia, pace e collaborazione fra i popoli. E si dice orgogliosa di lavorare su questi temi e difenda la parola antifascismo (su cui si era fatta polemica al momento della redazione della succitata legge), perché l’ antifascismo non è divisivo ma è la base della nostra costituzione.

La parola passa poi al Prof. Paolo Pezzino, Presidente del Ferruccio Parri e, fra l’altro, anche del comitato scientifico del Museo Audiovisivo della Resistenza di Fosdinovo che “è un luogo non solo di valorizzazione della memoria ma anche di innovazione”. Da vero storico sostiene “la memoria va bene ma prima bisogna conoscere la storia. Non è vero che in questo paese non c’è memoria, ad esempio la memoria del fascismo è molto persistente, come il proliferare di formazioni, associazioni ed organizzazioni che si rifanno all’ideologia fascista dimostrano”. “Io non credo alle memorie condivise, perché in un paese libero le memorie non possono esserlo. Come fa la famiglia di un fascista ad avere la stessa memoria di quella di un partigiano?”. Ma se la memoria non può essere condivisa, la storia deve esserlo, perché essa si basa sui fatti, che non vanno edulcorati. In un paese che vive una crisi -ormai temo irreversibile- del sistema scolastico italiano ed in particolare della storia (con due ore alla settimana come si fa ad arrivare a toccare, ad esempio, le tematiche del nuovo millennio) il ruolo delle istituzioni, dei musei, di strutture educative è fondamentale. Ma per funzionare essi non devono essere solo propagatori di memoria ma di riflessione critica sulla storia”. “40.000 partigiani sono morti. Quei valori oggi li possiamo attualizzare solo se li storicizziamo e li rendiamo parte di una memoria critica”.

La Barni osserva che i manuali di storia spesso raccontano “troppa storia”, cioè una massa eccessiva di eventi, ma che spesso mancano di parte critica. Spesso i libri di testo -ma anche certi musei o mostre- raccontano la storia in modo accademico e autoreferenziale, senza pensare a chi quella storia la deve ricevere. E Pezzino risponde che “La public history deve essere frutto non solo dello studioso che sta per anni in archivio ma anche attenzione alla diffusione ad un pubblico più ampio di quello accademico e, secondo alcuni, anche coinvolgimento del pubblico nella stessa elaborazione dell’operazione storiografica”. Poi riprende dicendo che la sfida ora è fare rete. Ad esempio, non c’è un museo nazionale della Resistenza, ma tanti musei locali, perché la Resistenza è stata un fenomeno territorialmente radicato. Ma se li mettiamo in rete diventa una grande narrazione nazionale”. E anche la Barni interviene affermando che per combattere il campanilismo serve proprio fare rete.

Il dibattito slitta poi sul tema della democrazia. De Simonis giustamente ritiene che non è solo andare a votare e la Barni aggiunge che il problema è che molti italiani, di ogni età, non vanno più a votare. Provocatoriamente Pezzino, sorridendo, ammette “dopo certi esiti elettorali, penso che era meglio il dispotismo illuminato del Settecento!” e poi osserva (in risposta ad una domanda del pubblico sulla fiducia nella democrazia oggi) “Un grosso limite sta nelle scelte politiche in campo culturale: sia governi di centrodestra che di centrosinistra hanno tagliato la porzione di PIL dedicata alla cultura”, e la Barni, con scoramento, cita qualche sconcertante dato “il 70% della popolazione italiana non è mai andata ad una mostra o ad un museo e il 60% non ha mai letto un libro né è entrata in una biblioteca”.

Uno spettatore conclude con una metafora “la cultura non è un vaso chiuso, altrimenti diventa una palude, ma un lago che ha un immissario e un emissario, cioè la democrazia è un contenitore in cui ognuno dà qualcosa, è uno scambio di idee fra i popoli”.

Dopo cena la narrazione di Maurizio Maggiani, dedicata ad un amore, nato in un campo di lavoro nazista nella Bassa Sassonia, fra una diciottenne dattilografa cattolica polacca, rapita dalle SS, e un deportato politico, sarto, socialista di Monterosso, coronato con un matrimonio improbabile nell’aprile del ’45, immediatamente dopo la liberazione del campo. Mentre Maggiani narra, è proiettata sullo sfondo la loro foto, seppiata, con lui, bello, in piedi che indossa  un abito ricavato da un’uniforme delle SS e lei, a sedere, con un vestito da sposa fatto con la stoffa di un paracadute e un mazzo di fiori di carta velina reperita nel lager.

Per concludere un concerto di Andrea Appino, degli Zen Circus: bella voce, bella presenza scenica in grado di attirare il pubblico, riccioli ribelli e chitarra acustica. Sorseggiando l’amaro partigiano, creazione alcolica degli Archivi della Resistenza e del liquorificio sociale RI-MAFLOW,  intona alcune sue canzoni. Il pubblico più giovane le intona entusiasta le sue canzoni, quello meno giovane batte le mani a tempo, divertito e coinvolto.

Si spengono tardi le luci sul castagneto, la musica, con gruppi meno continua fino quasi alle tre di notte. All’una parte l’ultima navetta, ma poi inizia il trasporto clandestino….resistente anch’esso.

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