Resistenza civile e movimento partigiano nelle zone minerarie della Maremma

Adolfo Turbanti - Istituto storico grossetano della Resistenza e dell'età contemporanea

Copertina dell'ottavo Quaderno Isgrec (2021)
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La Resistenza civile dei minatori maremmani contro le truppe tedesche occupanti e i loro alleati italiani trasse origine da un sentimento di ostilità e di rabbia verso il fascismo, presente nelle zone minerarie prima che lo facesse proprio la gran parte del popolo italiano, quando si rese palese la possibilità della sconfitta militare e si moltiplicavano gli effetti disastrosi della guerra. I minatori invece avevano maturato da tempo quello stato d’animo; nello stesso modo l’avevano maturato i loro familiari e in generale gli abitanti dei paesi in cui abitavano, ad eccezione forse dei collaboratori stretti dei direttori di miniera con il loro contorno di guardie giurate. Non si può dire che fosse una convinzione politica strutturata, fondata su analisi del regime totalitario condivise e che lasciassero intravedere qualche obiettivo perseguibile: o fosse sostenuta, come ci si aspetterebbe, da nuclei antifascisti clandestini. Di questi anzi non c’era traccia nelle zone minerarie della Maremma. C’era stato, è vero, qualche timido tentativo sul Monte Amiata, a Abbadia San Salvatore, a opera di comunisti grossetani, ma non aveva avuto seguito e chi vi era stato implicato finì poi al confino. Piuttosto si verificavano qua e là manifestazioni di dissenso; il più delle volte frasi o imprecazioni imprudenti pronunciate all’osteria, magari un motivetto sovversivo che tornava in mente: niente che le autorità non potessero agevolmente derubricare a intemperanza di qualche originale, a maggior ragione se avvinazzato.  Eppure, come prova il numero di provvedimenti repressivi, il regime se ne preoccupava, avvertendo evidentemente anch’esso, sotto traccia, un’ostilità diffusa, difficile da contenere. In effetti, dopo aver condotto coscientemente al fallimento le velleità “sindacaliste” delle origini, il fascismo aveva finito per considerare i minatori come un’entità estranea, irrimediabilmente impermeabile alla sua propaganda, insensibile alla retorica delle sue ritualità e assolutamente non inquadrabile nelle sue organizzazioni. Tanto più insidiosa, quanto più concentrata attorno ai suoi luoghi di lavoro.

Come spiegare tale situazione? La ragione deve essere cercata nelle condizioni materiali di vita dei minatori: in particolare nelle tensioni che si producevano nel rapporto di lavoro, nel momento in cui proprio lì, nei cantieri della miniera, gli operai sperimentavano sulla propria pelle una contrapposizione irriducibile nei confronti del direttore, dei capi-servizio, delle guardie, talvolta dei sorveglianti. Era il classico conflitto di classe, tra lavoro e capitale, che l’ideologia corporativa, con i suoi espedienti giuridici e organizzativi, si illudeva di risolvere e non riusciva invece neppure a nascondere. Che si trattasse appunto solo odi ideologia lo aveva mostrato, tra il 1931 e il 1932, una serie di agitazioni spontanee verificatesi a Gavorrano e a Boccheggiano. Ci furono allora astensioni – illegali – dal lavoro e anche manifestazioni violente, dirette infine a contrastare il tentativo della Montecatini di introdurre in miniera il sistema di cottimo Bedaux: fu insomma una rivolta, che traeva motivo unicamente dalle condizioni di lavoro, senza mostrare alcun contenuto politico definito.

Le tensioni, originatesi nel fondo della miniera, si rispecchiavano all’esterno e inevitabilmente, una volta venute in superficie, coinvolgevano il regime e producevano avversione al fascismo. Accanto alle società minerarie, e perfettamente solidale con esse, si ergeva infatti appena fuori dai pozzi di estrazione l’apparato dello stato totalitario, che ne faceva propri gli interessi e, quando era il caso, anche le politiche paternalistiche. Non erano allora tanto i vecchi desideri di vendetta a tornare a galla, i conti in sospeso dai primi anni Venti, o almeno non erano solo quelli; nasceva piuttosto nella giovane generazione operaia una rabbia nuova rivolta contro il sistema di potere che si era costituito: quel perfetto connubio fascio-capitalista sancito, ai piani alti, dalla solida comunanza di interessi che le società minerarie, prima tra tutte la Montecatini, avevano stretto con il governo di Mussolini e saldato, ai piani bassi, dallo stesso intento di sfruttare e di opprimere quanti lavoravano per loro.

Venne dunque a crearsi progressivamente un antifascismo di massa, di carattere prettamente operaio e ancora privo in larga parte di consapevolezza politica. Esso costituì tuttavia, all’indomani dell’8 settembre, il più solido fondamento del movimento di Resistenza.

Già in agosto del resto i minatori avevano ritrovato un motivo politico di mobilitazione nella rivendicazione della pace. Ci fu anche uno sciopero verso la fine del mese e in quell’occasione, a Boccheggiano, un corteo di lavoratori e di popolo si mosse lungo i sentieri che conducevano alla miniera chiedendo di porre fine alla guerra. Ci fu qualche tafferuglio con le forze dell’ordine e qualche arresto, a dimostrazione di quanto il governo Badoglio non tollerasse le manifestazioni di protesta. La novità però fu la ripresa in quei giorni dei contatti con l’antifascismo politico e specificamente con l’organizzazione comunista, che aveva ripreso a operare a livello regionale e stava inviando ovunque i propri emissari. Fu così, ad esempio, che proprio a Boccheggiano un gruppetto di giovani che da qualche anno avevano preso a riunirsi di nascosto e che, per qualche reminiscenza familiare già si autodefinivano “comunisti”, divennero a tutti gli effetti una cellula del partito e iniziarono a porsi concretamente il problema della Resistenza armata.

L’obiettivo della pace, che dopo il 25 luglio sembrava dovesse consistere nella cessazione delle ostilità, per farla finita subito con le morti, le distruzioni e la miseria, dopo l’8 settembre e l’occupazione tedesca di gran parte dell’Italia, richiese modalità in apparenza opposte: fu chiaro a molti a quel punto che la pace si poteva ottenere solo con la sconfitta militare della Germania, ovvero imponendo ai nazisti una resa senza condizioni. Si trattava dunque di continuare la guerra e stavolta contro la Germania. Il Partito Comunista, che continuò a agire in clandestinità ma con contatti sempre più solidi e estesi tra i minatori, si mosse su questa linea, non esitando a recuperare motivazioni patriottiche mai del tutto estinte nelle zone minerarie.

I comprensori minerari furono il terreno ideale per la diffusione delle parole d’ordine comuniste e per la costituzione di cellule o sezioni di paese che a quell’organizzazione facevano riferimento. Il radicamento sociale fu il primo obiettivo del partito e la lotta armata rappresentò il compito più urgente da assolvere. Ben presto gran parte dei giovani affluiti nelle numerose bande che, tra l’autunno e la primavera, si formarono nelle macchie della Maremma, si proclamarono comunisti, anche quando, e furono la maggior parte dei casi, i loro comandanti erano ex-ufficiali monarchici e le loro formazioni facevano capo alla rete intessuta dagli emissari del governo del sud, piuttosto che a quella delle brigate garibaldine. La proposta comunista, che non si limitava a nuclei ristretti di rivoluzionari, ma riusciva ormai a raggiungere la grande massa dei lavoratori, rispondeva all’esigenza di rivolta dei giovani, al loro bisogno di abbattere il vecchio ordine e di aprire nuove e più libere prospettive di vita. La posizione dei comunisti riguardo alla Resistenza peraltro era molto chiara: no all’attesismo, che consisteva nel rinvio del confronto con il nemico; no alle trattative e agli accordi anche parziali; no a qualsiasi richiesta – e ce n’erano – di usare benevolenza con il nemico per il timore di rappresaglie e nell’illusione che così si giungesse prima alla fine della guerra. La disponibilità di armi era ovviamente la prima condizione perché le formazioni partigiane fossero operative; l’assalto alle caserme della GNR fu il modo principale per procurarsele, fino a quando gli alleati non provvidero a rifornimenti sistematici tramite i cosiddetti e tanto attesi aviolanci. Si comprende come entro questo quadro non trovasse spazio alcuna opzione pacifista.

Eppure la Resistenza dei minatori rimase essenzialmente una Resistenza civile, non armata. In molti casi ci fu da parte della popolazione un supporto materiale, politico e organizzativo alle formazioni partigiane, soprattutto tramite i CLN comunali di cui i minatori fecero parte in rappresentanza per lo più del Partito Comunista. Non ci fu però una partecipazione generalizzata di minatori alla Resistenza armata. Si deve considerare che i minatori, lavorando in aziende militarizzate, erano soggetti alla disciplina militare e proprio per questo erano esclusi dal reclutamento. Anche i tedeschi del resto, che nel periodo dell’occupazione assunsero il controllo delle miniere, avevano interesse che gli operai rimanessero al loro posto a garantire la produzione. Il fenomeno della renitenza al reclutamento della RSI toccò quindi solo marginalmente le famiglie dei minatori, mentre erano proprio i renitenti alla leva di Salò, contadini, studenti, artigiani, operai non militarizzati, a infoltire le formazioni partigiane. Non mancarono episodi di incomprensione tra minatori e partigiani, come nel caso del minamento  del pozzo Baciolo, che fu l’unico esempio di attacco diretto da parte dei partigiani a una struttura mineraria e, in generale, l’unico esempio di sabotaggio industriale vero e proprio nella provincia di Grosseto. I minatori, che pure dettero la loro collaborazione all’operazione, rimasero perplessi e sicuramente preoccupati per le conseguenze che ci sarebbero state sul loro lavoro, che infatti rimase sospeso per qualche settimana.

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Le vedove di Niccioleta, 1944

Il maggiore contributo che i minatori dettero alla lotta di Liberazione fu, com’è noto, il martiro di 83 di loro, abitanti di Niccioleta, fucilati dai tedeschi tra il 13 e il 14 giugno 1944. Si trattò anche in quel caso di Resistenza civile, visto che il rapporto di quel villaggio con la Resistenza armata, nelle settimane e nei mesi precedenti, era stato del tutto sporadico, essendosi limitato a qualche aiuto materiale e semmai a qualche scorribanda in paese da parte di uomini armati, accolti con entusiasmo – questo sì – dagli abitanti. Ci fu sicuramente, da parte degli abitanti di Niccioleta, il desiderio di contribuire in qualche modo alla cacciata dei tedeschi, che, data la vicinanza degli alleati, sembrava essere imminente. Fu forse la voglia di essere protagonisti, di non star solo a guardare, che suggerì l’idea di organizzare la cosiddetta “guardia armata” attorno al paese e alla miniera, che poi fu il pretesto della strage. Immagine 025Niente in realtà che potesse realmente impensierire i comandi tedeschi. Gli episodi che si susseguirono durante tutta l’estate in molte località della Toscana fanno pensare piuttosto a un piano stragista preordinato, del quale Niccioleta rappresentò nient’altro che una tappa, una delle prime. I motivi per i quali fu scelta Niccioleta per attuare il piano possono essere stati diversi: si è pensato alle vie di comunicazione da rendere sicure per la ritirata, a contatti particolari che il reparto responsabile della strage poteva avere nel paese, ma possono essercene stati altri. Si trattava comunque per i tedeschi di spezzare il legame tra la popolazione civile e le formazioni partigiane: legame che essi ritenevano essenziale – e lo era effettivamente – per l’operatività e la stessa sopravvivenza delle bande e che, senza bisogno di ulteriori prove, supponevano funzionasse ovunque queste operassero. E chi se non i minatori, concentrati per di più in un villaggio isolato e abitato solo da loro, com’era appunto Niccioleta, poteva offrire sostegno ai partigiani, anzi costituire il brodo di coltura stesso del partigianato? Ecco dunque emergere la colpa originale dei minatori: quell’antifascismo ostinato legato alla condizione di lavoratori salariati in lotta perenne con il loro datore di lavoro, per cui il fascismo li aveva sempre considerati una categoria litigiosa, infida, non riducibile ai propri canoni di ordine e disciplina. Non c’è bisogno di andare in cerca di altre motivazioni di ordine politico o militare: il solo fatto di essere minatori bastò a renderli colpevoli e segnò il loro destino.

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