La Resistenza in Valtiberina

La Valtiberina è una zona geografica soprattutto appenninica, soggetta alla provincia aretina, che si estende nella Toscana orientale comprendendo grosso modo l’alta valle del Tevere. L’intera area fu coinvolta nella primavera/estate del 1944 in quel fronte divisorio tra Ancona e Livorno, linea di scontro tra l’esercito anglo-americano che risaliva la penisola e le truppe tedesche costrette alla ritirata. In quella zona i nazisti appoggiati dai fascisti scorrazzavano per lungo e per largo prestandosi però all’insidia clandestina delle formazioni partigiane e conseguentemente mettendo in atto feroci rappresaglie e deportazioni delle popolazioni locali. Ma è proprio sui componenti di queste popolazioni, prevalentemente contadini – in tutta l’area il sostentamento e l’attività lavorativa si fondavano direttamente sulla terra – che la Resistenza ha potuto appoggiarsi per proseguire e portare a termine la Liberazione. Già dalla sera stessa dell’8 settembre, il primo e spontaneo atto di resistenza passiva, ma sostanziale, al tedesco che gettò le premesse dell’azione armata, fu l’assistenza agli sbandati dell’esercito, agli ex prigionieri alleati, agli ebrei, ai politici ricercati dalla polizia ed ai renitenti alla leva. Da quel giorno il ruolo svolto dal mondo contadino durante la Resistenza è stato determinante fino al punto che “…se i contadini non le fossero stati favorevoli, partecipandovi anche attivamente in gran numero, la Resistenza sarebbe stata impossibile[1].

Quando i tedeschi imposero la denuncia e la consegna degli ex prigionieri e l’iscrizione degli sbandati negli uffici comunali per il loro eventuale richiamo, automaticamente costrinsero tutti gli abitanti della campagna, nessun ceto escluso, a schierarsi o con i nazifascisti o contro di essi a favore dei perseguitati. La stragrande maggioranza scelse la seconda soluzione, preparando alla nascente resistenza politica e armata un territorio particolarmente favorevole.

Il Casentino e la Valtiberina come altre zone rurali della Toscana si trasformarono in un grande centro di raccolta, assistenza e transito di decine di migliaia di individui. Fu un’azione che coinvolse tanto i privati quanto il movimento resistenziale organizzato, con l’aiuto di diversi diplomatici stranieri che operavano per conto degli alleati e l’appoggio in denaro e mezzi fornito dal clero. Naturalmente il lavoro di assistenza ai prigionieri alleati e agli sbandati non passò inosservato ai tedeschi e ai collaborazionisti fascisti che fin dal 16 settembre intimarono: “Tutti i prigionieri di guerra dovranno consegnarsi al Comando tedesco… coloro che continueranno a dargli vitto e alloggio… saranno puniti secondo la legge tedesca[2]. Anche il capo della provincia di Arezzo, pensando di far leva su quello che riteneva l’anello più debole, ossia i proprietari terrieri, decretava “il sequestro della proprietà a chi dà ospitalità ad ex prigionieri e sbandati[3]. Ma entrambe le azioni intimidatorie non riuscirono a rompere quel fronte solidale che si era creato attorno alla Resistenza. L’importanza del contributo del mondo contadino alla lotta contro i nazifascisti era già stato manifestato dal “Fronte per la Liberazione Nazionale” di Firenze, futuro CTLN, con un volantino nel settembre del ‘43 quando elogiava i contadini per l’aiuto prestato agli sbandati dell’esercito e ai prigionieri alleati e li incitava a continuare nella lotta, invitandoli, al momento del raccolto, ad evadere gli ammassi per sottrarre il grano ai tedeschi e dare l’aiuto alle formazioni partigiane.

Ma la Resistenza in Valtiberina oltre al contributo di sostanza dato dunque dal mondo contadino, ha potuto contare anche sul forte sostegno della Chiesa caratterizzando la lotta per la Liberazione, in questa zona forse più che in altre, con uno sfondo prevalentemente cattolico. Si deve tener presente, infatti, che in questa vallata il parroco, nel tempo, per una complessità di cause, aveva finito per rappresentare in genere più che altrove l’incontrastata guida della sua gente: consigliere e confessore, uomo di fiducia e punto di riferimento in ogni occasione. In pratica la parrocchia diventava onnicomprensiva, luogo di culto, di riunione e di divertimento, era centro religioso, sociale e non ultimo luogo di istruzione scolastica. Infatti la Valtiberina, incastonata nell’Appennino, presentava diversi nuclei frazionali dispersi fra le montagne e molto disagevoli a raggiungere, cosicché l’istruzione scolastica negli anni era stata lasciata al clero, ed anche il fascismo dopo i Patti Lateranensi col suo programma di alfabetizzazione aveva preferito costituire le “scuole sussidiate” continuando ad affidarle ai parroci. In questo modo al clero montanaro di questa diocesi veniva affidato più dei due terzi dell’insegnamento elementare. Ogni parrocchia aveva la sua scuola dislocata nei locali della canonica, che dipendeva dal Provveditore agli Studi della Provincia, in cui si svolgevano gli stessi programmi, almeno teoricamente, delle elementari comunali[4]. Questo aspetto, non trascurabile, dell’istruzione scolastica lasciato nelle mani della Chiesa si sarebbe poi fatto sentire  più che mai durante la Resistenza tra quei giovani usciti dalle aule parrocchiali, soprattutto perché questi ragazzi, abitanti nella vallata, venivano consegnati all’istruzione scolastica impartita il più delle volte da preti con idee innovative, progressiste che per lo più erano stati inviati nelle zone più disagiate come in una sorta di confino, un po’ simile a ciò che avverrà poi negli anni Cinquanta con don Milani. Nelle diocesi di questo Appennino toscano, per esempio, avevano trovato rifugio vari sacerdoti romagnoli già aderenti alla prima Democrazia Cristiana murriana[5] come don Zanzi (parroco a Usciano) e don Savini (parroco a Palazzo del Pero), o come don Sante Tampieri e don Edoardo Cotignoli nel Montefeltro, o infine come Francesco Mari nella zona di Città di Castello. Anche se non vi era una posizione omogenea concordata preventivamente, perché entravano in gioco temperamenti individuali e altri fattori soggettivi, è possibile riscontrare nei sacerdoti della provincia d’Arezzo un orientamento abbastanza generalizzato e costante verso i valori democratici e di giustizia sociale a giudicare dall’alto prezzo di sangue pagato nei giorni della Resistenza, dove furono ventiquattro le vittime del mondo clericale cadute sotto i colpi dei nazifascisti[6]. Significativo anche il modo: in genere per essersi offerti quali ostaggi volontari per liberare la propria gente come don Fondelli a Meleto o don Lazzeri a Civitella di Chiana o indiscriminatamente rastrellati con la popolazione da cui non intendevano dissociarsi. E i nazifascisti quando se la prendevano con il clero parrocchiale dell’Appennino dimostravano di conoscere molto bene il ruolo dei parroci in queste zone, considerando la loro opera svolta, almeno all’inizio dell’offensiva, la principale se non l’unica guida dell’opposizione. Esisteva un forte legame, espressione di un tessuto comunitario compatto, fra la popolazione e il parroco che si era consolidato negli anni dalla comune convivenza, dalla scuola, dalla partecipazione nelle attività sociali, un legame che proprio nei mesi della Resistenza risultava non necessariamente e solo religioso ma andava oltre fino al punto che spesso era lo stesso parroco ad avvallare le decisioni collettive per l’appoggio alla lotta partigiana. In questa zona nei mesi dopo l’Armistizio del ’43 il parroco interpretava la comunità scegliendo il campo della lotta e implicitamente la comunità lo delegava in ciò a rappresentarla. Ed è per l’appunto questa presenza attiva del clero parrocchiale che va considerata come un fattore essenziale che spiega e qualifica la partecipazione collettiva della popolazione contadina nella Valtiberina in chiave cattolica nella lotta per la liberazione. Inoltre dobbiamo considerare che la diocesi aretina era guidata da Monsignor Emanuele Mignone, l’unico vescovo che in Toscana si era apertamente dichiarato antifascista contravvenendo in parte all’orientamento dettato dal cardinale Elia Dalla Costa, la più alta autorità religiosa toscana, che prevedeva “di rendersi estranei ad ogni competizione politica”, e di fatto obbedienza alla legittima autorità, cooperazione nella tutela dell’ordine pubblico e quindi legittimazione del fascismo…ma con neutralità[7]. Dopo l’8 settembre il Vescovo Mignone si attivò immediatamente nella lotta contro il nazifascismo cooperando con gli oppositori politici ed entrando in contatto con le formazioni partigiane, caso unico nell’alto clero toscano che volutamente ignorava il CTLN e i partigiani perché nutriva fortissime preoccupazioni per l’adesione del popolo all’ideologia comunista. Non è privo di significato, infatti, che il Vescovo Mignone sia stato proclamato cittadino onorario dal CTLN all’indomani della Liberazione, e può essere indicativo anche il fatto che nella diocesi aretina non ci sia stato un solo caso di cappellano militare della Repubblica Sociale Italiana. E non altrimenti si spiega la presenza dei parroci nei Comitati Nazionali di Liberazione (organismi nati dopo l’8 settembre e prima dei CNL) e poi nei Comitati provinciali di liberazione, né si comprenderebbe come il primo nucleo resistente nella zona di Anghiari fosse stato organizzato dal prevosto mons. Nilo Conti. Nella provincia aretina, dunque, un contributo essenziale e determinante, al pari di quello offerto dal mondo contadino, è stato dato dalla Chiesa coinvolgendo nella Resistenza sia i parroci che le cariche ecclesiastiche più alte della diocesi. Così la stragrande maggioranza del clero che prese posizione lo fece quindi a favore della Resistenza politica e spesso non esitò a entrare in quella armata.

 

NOTE:

[1] Lorenzo Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina in La Resistenza dei cattolici sulla Linea Gotica, (a cura di) Silvio Tramontin, Edizioni cooperativa culturale “Giorgio La Pira”, Sansepolcro 1983, p. 158.

[2] Iris Origo, Guerra in Valdorcia, Vallecchi, Firenze 1968, pp. 65-67.

[3] Da un manifesto affisso nella Provincia di Arezzo in Libertario Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino. Dalle origini del movimento alla Repubblica: 1900-1946, Contributo per il convegno “Mondo Contadino e Resistenza” Foiano della Chiana, 15 marzo 1975, p. 72.

[4] L. Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina, cit., p. 159.

[5] Prende il nome da Romolo Murri, presbitero e politico italiano, tra i fondatori del cristianesimo sociale in Italia, propugnatore di un maggior impegno  politico dei cattolici, agì come voce critica nei confronti del conservatorismo delle gerarchie ecclesiastiche, cercando una conciliazione tra socialismo e dottrina sociale della Chiesa. Egli subì la sospensione a divinis nel 1907 e la scomunica nel 1909, revocata poi nel 1943. Cfr. Giampiero Cappelli, Romolo Murri: contributo per una biografia, Edizioni 5 lune, Roma 1965.

[6] Ivi, p. 160.

[7] L. Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino, cit., p. 78.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di novembre 2024.




O-3-R. Nascita e primi anni di attività clandestina dell’organizzazione comunista rivoluzionaria di Boccheggiano

Nell’estate del 1938, pochi giorni dopo l’annuncio del censimento degli ebrei — preludio all’emanazione di una speciale normativa[1] che avrebbe reso evidente la natura razzista e antisemita insita nell’ideologia fascista sin dalle origini — nel piccolo borgo minerario di Boccheggiano, situato nella Maremma grossetana, venne fondata una cellula clandestina comunista[2]. L’obiettivo era ridare impulso alla lotta per l’emancipazione, la libertà e la solidarietà, ideali conosciuti prima del fascismo ma da anni soffocati e silenziati. Infatti, con le “leggi fascistissime”, emanate tra il 1925 e il 1926[3], ogni forma di opposizione fu repressa tanto che «alla fine del 1926 tutti i partiti, tranne il Pnf, furono messi praticamente fuori legge, mentre, per iniziativa del segretario del Pnf, la Camera dichiarò decaduti i deputati dell’opposizione “aventiniana” e del Partito comunista (9 novembre)»[4]. Negli anni ’30, persino le attività clandestine divennero impossibili a causa dell’inasprimento del controllo totalitario, attuato attraverso la repressione della polizia tradizionale e dell’OVRA, l’Opera Vigilanza Repressione Antifascismo, che operava sia entro i confini italiani sia all’estero, con l’obiettivo di spezzare ogni possibile legame tra gli antifascisti. È in questo scenario di violenza e censura che alle 15:30 dell’8 agosto 1938 Anuello Lorenzoni, Altero Lorenzoni, Bruno Traditi, Ideale Tognoni, Eraldo Periccioli e Bandino Pimpinelli[5] decisero di costituire la cellula clandestina di Boccheggiano. Erano quasi tutti minatori, ad eccezione di Anuello, che lavorava come falegname, e di Altero, muratore.

In un’intervista collettiva rivolta ad Anuello Lorenzoni, Bandino Pimpinelli e Ideale Tognoni fu proprio quest’ultimo a specificare l’importanza della cellula comunista già nel 1938: «Ebbene, anche se non riuscì a prendere contatti con l’esterno, si riuscì invece a organizzare e a tenere viva la lotta nelle miniere anche sotto il regime fascista; si riuscì soprattutto a far sì che tutta la zona circostante Boccheggiano si avesse dalla nostra parte anche chi non combatteva apertamente.»[6]

Peraltro, non stupisce che sia proprio in un contesto minerario a sorgere la cellula clandestina comunista. Già nel 1919 il Partito Socialista aveva conquistato l’egemonia tra i minatori[7] ottenendo importanti risultati grazie alla stretta collaborazione tra forze politiche e organizzazioni sindacali[8], come l’introduzione di minimi salariali e la regolamentazione delle tariffe a cottimo[9]. Tale forza, tuttavia, era già segnata da una frammentazione interna che avrebbe portato alla scissione del 1921 e alla nascita del Partito Comunista d’Italia, cui aderirono principalmente le nuove leve della Federazione Giovanile e della Camera del Lavoro, affascinati dalle spinte rivoluzionarie[10].

Montieri, di cui Boccheggiano era importante frazione anche dal punto di vista della forza politica dei minatori, oltre ad essere stato il primo Comune socialista della provincia, fu l’ultimo a soccombere alle sistematiche azioni punitive[11] dello squadrismo dei fascisti, che avevano creato una propria roccaforte a Gerfalco da cui partivano per compiere le loro violenze[12].

All’alba della marcia su Roma il movimento operaio e socialista della provincia di Grosseto era stato sostanzialmente soffocato: nessuna organizzazione, nessun organo di stampa, nessuna sede per le riunioni, nessuna lotta contro il padronato delle Società minerarie della Montecatini e della Ravi-Marchi era possibile. Questa repressione si intensificò ulteriormente con il connubio tra fascismo e industria che trovò la consacrazione nel Patto di Palazzo Vidoni nell’ottobre del 1925[13].

La soppressione delle organizzazioni politiche e sindacali sancita dalle leggi fascistissime[14] portò progressivamente a un generale peggioramento delle condizioni di lavoro dei minatori e, in particolare, ad una significativa contrazione del salario operaio[15], fenomeno che si aggravò ulteriormente con la Grande Depressione. Durante questo periodo, la produzione della lignite calò drasticamente e solo alla fine degli anni ’30, in concomitanza con la politica autarchica e l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, i livelli della produzione e il numero degli operai impiegati nelle miniere tornarono ai livelli del primo dopoguerra[16]. Meno accentuato fu, invece, l’impatto della crisi sull’estrazione della pirite che, anzi, grazie al suo impiego nell’industria chimica, conobbe un importante potenziamento[17].

Tutto ciò contribuisce a spiegare l’esistenza, fin dalle origini del regime fascista, «di forme, spesso spontanee e contraddittorie, ma tuttavia assai vivaci, di resistenza all’azione di snaturamento delle tradizioni di classe attuata dal fascismo e di difesa dell’identità sociale e ‘culturale’ dei minatori»[18].

Anche l’isolamento geografico dei luoghi[19] – borghi e villaggi appositamente sorti negli anni ’30 – favoriva sia un capillare controllo da parte della Società mineraria e degli organi del regime fascista, sia una certa atomizzazione della lotta operaia. Allo stesso tempo, però, tale isolamento teneva vivo un sentimento di appartenenza e di emancipazione che, pur latente, talvolta si manifestava nell’antifascismo spontaneo, fino a tradursi in forme più collettive. Un esempio significativo è l’episodio che nel 1930 vide protagonista Ideale Tognoni, futuro fondatore della cellula clandestina e figlio di un militante e dirigente del PSI già vittima di attacchi, arresti e perquisizioni per mano fascista: non ancora maggiorenne, venne arrestato e imprigionato per un mese con l’accusa di aver disegnato la falce e il martello sui carrelli della miniera[20]. Inoltre, all’inizio del ‘32 i minatori di Montieri e Boccheggiano chiesero di non risultare più iscritti al sindacato fascista, criticando la sua inadeguatezza nel difendere i diritti dei lavoratori, e immediatamente furono imitati dai minatori di Prata e Roccatederighi che lavoravano con loro. Da Boccheggiano la protesta si estese a Niccioleta, dove il conflitto trovò espressione anche all’interno del villaggio[21], in quel quartiere operaio che la Montecatini aveva volutamente costruito come sobborgo ghettizzato.

Contro ogni soffio di rivendicazione si alzava la repressione della Società mineraria e del suo alleato fascista: la battaglia più aspra fu condotta contro il metodo Bedeaux[22] che sfruttava la forza-lavoro operaia. I minatori reagirono con azioni di propaganda cui la Montecatini rispose chiamando un battaglione della Milizia per piantonare la miniera giorno e notte[23] e avviando licenziamenti. Il conflitto culminò il 3 settembre 1933 quando un corteo di operai si diresse verso l’ufficio del direttore della miniera di Boccheggiano per protestare contro le riduzioni salariali: lo scontro finì con la distruzione dei mobili negli uffici[24]. La Montecatini ebbe però la meglio, con il supporto della Milizia. Seguì poi la minaccia di inviare gli operai nella guerra in Africa se non avessero “rigato dritto” mentre quasi tutte le domeniche gli squadristi arrivavano nel borgo minerario, dove si facevano consegnare degli elenchi dai fascisti locali per proseguire le violenze nelle case degli oppositori[25]. Ogni giorno, all’uscita della miniera, i fascisti ricordavano ai minatori chi comandasse, non solo perché erano «comunisti, ma anche e soprattutto perché…operai».[26]

Questo fu il clima in cui, ai primi di agosto del 1938, sorse la cellula clandestina comunista, quasi segnando un nuovo corso nel contingente della lotta antifascista che, fino a quel momento, si era svolta nelle gallerie della miniera, resistendo all’annichilimento voluto dal regime. Rispetto alla prima fase di attività della cellula, l’azione si concentrò principalmente sulla propaganda, vista come l’unico mezzo per rimpolpare le fila, un compito estremamente difficile ma che doveva essere tentato.

La prima riunione della cellula, tenutasi il 22 agosto[27] 1938, stabilì il nome che avrebbe dovuto avere: Organizzazione Comunista Rivoluzionaria. Si decise, tuttavia, di abbreviare il nome in “O-3-R”, da utilizzare anche nei registri, per evitare che il richiamo esplicito al comunismo potesse attirare l’attenzione o provocare rappresaglie dei fascisti. La cellula assunse un nome emblematico che da un lato richiamava il legame con il Partito Comunista (un legame più teorico che pratico, almeno in questa fase), ma dall’altro si connotava in modo autonomo, come segno di emancipazione e di lotta. La scelta del numero “3” potrebbe coincidere con la posizione della lettera ‘C’ nell’alfabeto oppure evocare la Terza Internazionale, l’organizzazione fondata nel 1919 sotto la guida del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, con il compito di coordinare i partiti comunisti a livello mondiale per diffondere la rivoluzione socialista. Così Ideale Tognoni descriveva le origini della cellula, sottolineando come la spinta rivoluzionaria che portò alla sua costituzione fosse il frutto dell’influenza politica trasmessa fin dall’infanzia dai loro padri, di fede socialista, e fortemente segnata dagli eventi del 1917: «ci ha permesso di ricostituire una sezione comunista in pieno regime fascista, chiaro segno questo che l’insegnamento e l’esempio dei nostri vecchi aveva dato i suoi frutti»[28].

Fondazione della cellula

Una delle caratteristiche che emerge immediatamente dai primi verbali delle adunate è la ritualizzazione interna, frutto di quel processo di mitizzazione nei confronti del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, rappresentato in particolare dalla figura del suo segretario Stalin. Già alla prima riunione, infatti, venne stabilita la formula del giuramento per le nuove adesioni, nonché la necessità di dotarsi di regolamenti e di norme disciplinari, definendo subito gli obiettivi perseguiti dai fondatori: cercare di inserirsi tra le fila fasciste «per sabotare e scrutare» ovvero «collaborare materialmente e politicamente a contatto con la nostra classe operaia e attirare a sua volta gli elementi abili alla nostra propaganda ed al nostro Ideale»[29]. Soprattutto nella fase iniziale, infatti, la funzione della cellula fu principalmente quella di tenere insieme gli stessi ideali, offrire un barlume di speranza nella condivisione di una società diversa e far sentire vicini coloro che quotidianamente erano sotto minaccia di violenze.

La capacità organizzativa, in termini di forza, di idee e di supporto economico, fu al centro della seconda adunata che si tenne il 1° settembre. In quell’occasione venne stabilito per ciascun associato il versamento di una quota mensile di 2 lire, una cifra sostanzialmente simbolica che poteva essere garantita da tutti, ma che al contempo rappresentava un segnale di appartenenza e di supporto. Per la prima volta fu approvato il giuramento e Anuello Lorenzoni fu eletto capo della cellula, ruolo che ricoprirà per tutto il periodo della clandestinità. Per garantire la segretezza e tutelare gli iscritti – ispirandosi più a pratiche massoniche[30], la cui tradizione era ben radicata nelle Colline maremmane, che a organizzazioni clandestine internazionaliste – si decise di chiamare i compagni non per nome, ma utilizzando numeri progressivi, in ordine di iscrizione.

Nell’adunata successiva del 10 ottobre, dopo averne discusso negli incontri precedenti, venne letto e approvato il programma, al motto marxista “Proletari di tutti i paesi: unitevi!”. Il programma prevedeva un’organizzazione basata su cellule, ponendo come primo obiettivo la propaganda, rivolta soprattutto ai giovani che meno di altri avevano conosciuto la possibilità di una libertà di pensiero e il pluralismo dei partiti, ormai relegati alla clandestinità all’estero dalle leggi fascistissime. La finalità dell’azione propagandistica era esplicitamente dichiarata: abbattere il governo fascista, in tutti i modi[31], e dar vita ad un nuovo governo.

L’influenza delle idee comuniste – più per evocazione del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e della teoria rivoluzionaria di Lenin che per effettiva militanza pregressa tra le fila del PCd’I – si riflette nel programma: tra gli obiettivi, la cellula si prefiggeva la lotta per l’abbattimento del capitale individuale, un lavoro al servizio di tutti, la socializzazione delle terre, il diritto di eleggere i propri rappresentanti[32], una parità di diritti tra uomo e donna, un connubio uomo-scienza che richiamava il progresso del modo di produzione. Dalla lettura del programma si percepisce un ‘socialismo umanitario’[33], caratterizzato da un profondo senso di solidarietà e dalla volontà di costruire una società più uguale e giusta, nella speranza di riuscire ad abbattere la barriera che separa l’uomo dall’uomo, contro quell’egoistico individualismo finalizzato solo al soddisfacimento dei propri interessi. Se pensiamo agli abusi, alle violenze, alle torture che la popolazione aveva conosciuto già con lo squadrismo del movimento fascista delle origini, questo desiderio di solidarietà e rispetto risulta quanto mai vivo e sentito. Tale pensiero si riflette nell’ultimo punto del programma: «Vogliamo infine essere uomini e non più Massa bruta», un’espressione che invitava a superare la condizione di passività e ignoranza, per sviluppare una coscienza di classe e diventare protagonisti consapevoli della propria storia.

L’impronta comunista della cellula fu riportata anche nel timbro che uno dei nuovi iscritti, Bosco Brachini, fabbricò nell’officina della miniera: qui incise lo stampo che però risultò con la falce e il martello rovesciati, forse per la sua giovane età che gli impediva di ricordare correttamente il simbolo del partito ormai da tempo vietato o perché non tenne conto del fatto che il timbro avrebbe riprodotto l’immagine specchiata.[34]

Per quanto riguarda le disposizioni disciplinari, oltre alla puntualità nelle adunate – proprio per evitare il rischio di essere scoperti –, ogni affiliato avrebbe dovuto prestare giuramento e obbedire agli ordini. In caso contrario, una Commissione avrebbe giudicato il suo operato e il tradimento delle disposizioni avrebbe comportato la condanna a morte. Da un punto di vista morale – perché la cellula non regolava solo la vita politica – all’iscritto era vietato l’abuso di alcol e il gioco.

Ogni iscritto doveva salutare, all’inizio e alla fine di ogni adunata, con il braccio alzato e il pugno chiuso: un gesto che diventava un segno di condivisione e appartenenza acquisendo un significato ancora più profondo nel contesto di paura, violenza e individualismo che caratterizzava quei tempi.

Nel giro di poche settimane il numero degli iscritti e le richieste di adesione aumentarono significativamente, facendo presagire una ventata di speranza, in nome di una lotta collettiva che avrebbe liberato un intero Paese dal giogo fascista. Si rese necessario creare due cellule per consentire l’organizzazione e la clandestinità, ciascuna delle quali dotata di un capo e di un gruppo per l’esecuzione dei compiti[35]. Da quel momento in poi, l’O-3-R avrebbe vissuto fasi alterne di adesioni, con l’obiettivo primario di garantire l’incolumità e la segretezza degli iscritti e delle attività, obiettivi che un numero eccessivo e non controllato non avrebbe potuto garantire.

Il giuramento dei membri della cellula

Il crescente contingente di affiliati richiedeva inevitabilmente un luogo più sicuro per le adunate[36], che dal nuovo anno si svolgevano con cadenza mensile. Così, il 15 febbraio 1939 il capo della prima cellula, Bandino Pimpinelli, con i compagni Altero Lorenzoni e Ideale Tognoni vennero incaricati di andare alla ricerca di un posto sicuro. La stessa sera il luogo fu individuato: era un rifugio situato poco sotto il centro di Boccheggiano, tra gli alberi di castagno tipici delle Cornate, un cunicolo all’interno di una grotta, una vecchia galleria che collegava la miniera e che ora avrebbe permesso di raccogliere in sicurezza tutti i partecipanti alle riunioni clandestine. Era un luogo perfetto, che però necessitava di alcuni lavori per renderlo idoneo all’organizzazione: due sere dopo, a buio inoltrato, tutti i componenti della prima cellula si ritrovarono con «picconi, pale, puntelli, bacchi, ascia, [e] fu così iniziato il lavoro di disgaggio, armamento e porta»[37].

Il 30 marzo il rifugio fu inaugurato con l’adunata di entrambe le cellule: la prima cellula decise che quella vecchia galleria, da quel momento, avrebbe preso il nome di “Rifugio Stalin”, un ulteriore omaggio ideologico alla patria della rivoluzione. Per festeggiare quel luogo condiviso di lotta e ideali, gli iscritti quella sera brindarono con due fiaschi di vino.[38]

Una volta trovato un luogo sicuro per le riunioni, l’attenzione si poteva completamente concentrare sull’opposizione politica. Dai verbali di agosto emerge chiaramente che il primo obiettivo fosse quello di reperire armi automatiche, per garantire la sicurezza e prepararsi allo scontro con l’oppressore fascista. Tuttavia, ad un certo punto, si verificò un evento che sconvolse i comunisti del borgo minerario: la Germania stava varcando “furibonda”[39] le frontiere e pertanto l’O-3-R ordinò di cessare ogni attività di propaganda politica al fine di «iniziare subito il sabotaggio nelle fabbriche, nelle miniere e nelle officine e dove si costruisca per la guerra»[40]. La notizia venne commentata a poche settimane dall’occupazione tedesca della Polonia – al pretesto di “Morire per Danzica” – alla quale, lo stesso 1° settembre, Francia e Gran Bretagna avevano risposto con la dichiarazione di guerra, mentre l’URSS avanzava da Oriente, forte del Patto Molotov-Ribbentrop, firmato il 23 agosto proprio con la Germania, che sanciva la non aggressione tra i due Paesi. Lo scenario che si stava delineando sembrava chiaro anche ai comunisti della cellula clandestina: l’aggressione tedesca ai danni della Polonia non poteva che destare preoccupazione e paura[41], nonostante Mussolini, già il giorno dell’invasione, avesse proclamato la non belligeranza dell’Italia in accordo con Hitler, appellandosi al carattere difensivo del Patto d’Acciaio del 22 maggio 1939. Tuttavia, per quanto tempo avrebbe potuto reggere questa posizione di neutralità? Quale tipo di supporto sarebbe stato richiesto all’alleato fascista? L’Italia, assolutamente impreparata sia dal punto di vista bellico che industriale, era comunque destinata ad entrare nel conflitto.

Lo scoppio della guerra aveva determinato, anche a livello nazionale, la conversione delle fabbriche per soddisfare le crescenti esigenze belliche, con la produzione di armi, munizioni e mezzi per l’esercito. L’azione di sabotaggio assumeva quindi una duplice valenza: da un lato rappresentava una manifestazione politica di opposizione all’iniziativa militare, dall’altro costituiva una rivendicazione sindacale e civile contro le sempre più drammatiche condizioni di lavoro. È necessario precisare, comunque, che probabilmente tali azioni consistevano più in piccoli atti per rallentare i lavori che in vere e proprie opere di sabotaggio, di cui non risultano testimonianze.

Lo scoppio della guerra non poteva non avere ripercussioni sulla vita della cellula comunista: mentre alimentava il desiderio di intensificare lo scontro con il regime fascista, imponeva un’attenzione ancora più alta verso le nuove richieste di adesione all’O-3-R. La principale preoccupazione riguardava il coinvolgimento dei più giovani: se senza dubbio erano accolti favorevolmente l’entusiasmo e l’energia delle nuove generazioni che chiedevano di partecipare, al contempo, si temeva l’infiltrazione o la scarsa preparazione politica dei nuovi membri. La sincera lealtà alla causa rivoluzionaria era garantita dal giuramento liturgico pronunciato dai nuovi e giovani iscritti: si arrivò così alla nascita dell’O-Giovanile-R[42], affidata alla guida di Ideale Tognoni.

Nel frattempo, il conflitto militare procedeva nella forma della drôle de guerre: la Germania, con una grande velocità grazie alle sue divisioni corazzate[43], aveva occupato Polonia, Danimarca e Norvegia mentre Francia e Inghilterra non avevano sparato ancora un colpo. Man mano che passavano le settimane, anche sul fronte interno cresceva la tensione: l’esigenza di controllo sul territorio, per evitare ogni passo falso e soprattutto ogni ripresa delle forze di opposizione, portò infatti il regime a rafforzare le misure repressive, anche nelle zone più isolate. È con questo intento che nella notte del 25 aprile 1940[44] il borgo minerario di Boccheggiano venne quasi completamente accerchiato dalle spie fasciste, spingendo Anuello Lorenzoni a ordinare riunioni bimestrali e a sospendere le nuove iscrizioni, per evitare rischi di infiltrazioni o arresti. Questo stato di cose perdurò per tutta l’estate: Mussolini, sicuro di salire sul carro del vincitore, il 10 giugno aveva oramai dichiarato guerra attaccando i francesi sulle Alpi, ma già dai primi scontri emerse l’inadeguatezza dell’esercito italiano, mentre la Germania continuava imperterrita a occupare Olanda, Belgio fino alla capitolazione della Francia. Anche a Boccheggiano l’atmosfera che si respirava era pesante e, proprio per non destare sospetti, fu deciso di trasformare gli incontri tra i compagni in occasioni di convivialità, come poteva essere una merenda sotto i castagni.

Tuttavia, mentre si cercava di prestare la massima attenzione per evitare ogni rischio di scoperta, la cellula valutò che i tempi fossero maturi per organizzare l’azione politica tanto attesa: fu pertanto eseguito il censimento delle armi acquistate nel ’39, verificandone la funzionalità e lo stato di conservazione, annotando chi le detenesse. L’inventario rivelò la presenza di una rivoltella automatica e due rivoltelle a tamburo. L’O-3-R sembrava operare su due fronti distinti ma complementari: da un lato, rafforzava la propria organizzazione in vista di un possibile ritorno di quella ‘guerra civile’ vissuta nei primi anni dello squadrismo, dall’altro proseguiva convintamente l’attività di propaganda, che ora si faceva più che mai cruciale per attrarre fidati proseliti, pur restando instancabilmente ma necessariamente nell’ombra[45]. Per queste ragioni, le adunate tornarono ad avere una cadenza mensile e nell’aprile del ’41 si unì una terza cellula composta da compagni più maturi.

Le notizie dal fronte concorrevano ad indebolire sempre più l’immagine di Mussolini e del suo regime, così come le ragioni dell’entrata in guerra: la disfatta della flotta italiana per mano inglese, la resa in Africa di 20.000 soldati italiani, con l’abbandono di 100 carri armati nelle mani di appena 3.000 britannici, le numerose disfatte in terra greca che richiesero l’intervento dell’alleato tedesco.

Elenco dei membri della cellula

Con il costante aumento dei fallimenti dell’esercito fascista, che riflettevano un regime sempre più in crisi, cresceva il bisogno di condividere ideali di libertà e di lotta, espressi ancora una volta attraverso la simbologia politica. Con questo intento, durante l’adunata del 1° maggio 1941 – data simbolo di solidarietà e fratellanza operaia – venne mostrato il vessillo ufficiale dell’O-3-R: una bandiera rossa, ricamata a mano da Miranda Marzolini, moglie di Ideale e l’unica donna a conoscenza della cellula clandestina. La bandiera fu realizzata anche grazie al contributo dei fratelli Ideale e Mauro Tognoni, rinominati adesso rispettivamente alfiere e scorta d’onore. Su quella bandiera rossa spiccava la scritta: “Partito Comunista di Boccheggiano”[46].

All’inizio dell’estate del ’41, ad un anno esatto dall’entrata dell’Italia in guerra, il clima a Boccheggiano si presentava ancora più teso e carico di preoccupazioni, ma a differenza del passato, quando la cellula era arrivata a sospendere le iscrizioni e a rallentare le adunate, adesso l’azione sembrava proseguire: lo stesso Lorenzoni, in qualità di capo, esortava a mantenere viva la propaganda in un paese ormai «assediato dai malfattori, che vigilano oggi più di ieri, per vedere se riescono a toglierci fra le sue ormai minate file impossibilitate di vincere e di abbatterci.»[47]

Dai verbali si ha l’impressione che l’attività clandestina riuscisse a portare nel Rifugio Stalin organi di informazione che diventavano un momento di lettura collettiva e confronto sugli accadimenti. L’unione e il senso di appartenenza si rafforzavano anche grazie a questo, in un contesto in cui il livello di alfabetizzazione era limitato rendendo difficile per molti l’accesso alle informazioni e la comprensione degli eventi. Così, la lettura ad alta voce dei pochi articoli che riuscivano ad arrivare clandestinamente diventava un’importante occasione di condivisione, non solo della cronaca, ma anche dei valori e dell’identità di classe. I più attivi a distribuire «L’Unità» erano i fondatori Bandino, Ideale e Altero, particolarmente impegnati anche nella ricerca di nuovi proseliti per creare altre cellule, persino nei paesi limitrofi. Tra i nuovi iscritti, che andarono a rimpolpare l’organizzazione nei mesi successivi[48], vi era invece Paride Lucchesi, uno dei pochi istruiti di Boccheggiano, che riusciva a portare con sé un «giornaletto di piccolo formato e dalla veste tipografica alquanto dismessa che presto si consumava a passarlo di mano in mano»[49], ovvero il giornale ufficiale del partito comunista che aveva da poco ripreso la stampa clandestina[50].

Tra le notizie che arrivavano dal fronte, quella che colpì maggiormente fu la dichiarazione di guerra alla Russia da parte della Germania, «dopo essere già entrata di soprassalto nel suo territorio»[51]: il Terzo Reich lanciò le sue divisioni corazzate oltre i confini sovietici, un atto che fu definito dall’organizzazione clandestina un vero e proprio tradimento di quel patto militare e politico siglato all’alba della occupazione della Polonia. L’ “Operazione Barbarossa” tedesca finì col rafforzare ulteriormente il senso di appartenenza alla causa comunista. Inoltre, ai compagni non poteva sfuggire che fin dall’inizio Hitler aveva posto tra gli obiettivi del Terzo Reich l’annientamento del comunismo, la fine di ogni prospettiva di internazionalizzazione della rivoluzione proletaria e la conquista di tutti i popoli slavi per estendere il suo potere anche ad Oriente. I verbali non riportano i resoconti delle discussioni politiche ma all’adunata del 10 agosto del ’41 venne approvato un ordine del giorno che ben esprime quel clima: sabotare «qualsiasi lavorazione dove i compagni si trovino occupati per prima fiaccare i due eserciti uniti»[52]. Ancora una volta il sabotaggio veniva indicato come principale strumento di lotta mirato a colpire le forze dell’Asse. Ancora una volta l’alleanza nazifascista doveva essere abbattuta, ancora di più se l’altro fronte era rappresentato dalla ‘Patria dei lavoratori’.

Rispetto all’attività dell’O-3-R, la convocazione delle adunate era diventata, ormai da tempo, una variabile dipendente dal livello di attenzione e pericolo che si respirava per le strade del piccolo borgo, permeato da una presenza sempre più massiccia di fascisti. I crescenti controlli erano la conseguenza di quanto accadeva sul fronte militare, con l’intento di incutere terrore mediante un’oppressione sempre più soffocante: «In molti Paesi e città si verificano fatti da loro commessi a molti de’ nostri compagni da essi scoperti nelle organizzazioni»[53]. Evidentemente non solo a Boccheggiano, ma anche nei paesi vicini gli insuccessi del regime avevano riacceso un fervore politico che dopo anni di silenzio sembrava piano piano riprendere voce. Per questo motivo, a partire dal 1942 l’O-3-R iniziò a cercare collaborazioni esterne: un primo tentativo fu fatto a Prata[54], dove alcuni locali avevano manifestato interesse a unirsi alla lotta politica, ma l’incontro di maggio, cui parteciparono Altero Lorenzoni, Bandino Pimpinelli e Oscar Rocchi, rivelò che il contesto non era ancora favorevole a una struttura organizzata e ideologicamente coerente[55]. La questione, tuttavia, venne ripresa a luglio, ancora una volta sollecitata dai compagni di Prata, perché sempre più imminente si presentava l’esigenza di trovare un contatto con altri centri organizzativi e creare una rete di collegamento: l’obiettivo era quello di diffondere anche presso di loro giornali come «La Giovane Italia», «L’Italia libera» e «L’Unità»[56], strumenti di informazione e propaganda, pur con orientamento politico diverso, contro l’oppressione fascista che continuava a registrare fallimenti militari, e con essi la morte di tanti soldati al fronte. Si percepisce chiaramente il desiderio di rendere l’organizzazione più capillare, creando contatti con altri comunisti locali e mettendo insieme le forze per unirsi nella lotta che li attendeva. Del resto, dall’estate del ’42, sembrano avviarsi i primi rapporti con il PCI, che sarebbero diventati diretti e stabili con la caduta del regime[57]. Anche gli stessi strumenti propagandistici, pur circolando ancora in forma clandestina, cominciavano a farsi sentire con maggiore frequenza, quasi come voler rispondere all’esigenza di un maggiore approfondimento teorico e pratico, mirato a risvegliare la coscienza di classe. Infatti, se da una parte l’attività della Organizzazione Rivoluzionaria aumentava di intensità, dall’altra anche i controlli degli «abbietti e miserabili fascisti»[58] si facevano sempre più stringenti, specialmente agli inizi del ’43. Per questa ragione, l’O-3-R si trovò di fronte ad una scelta, dolorosa ma inevitabile: distruggere tutto ciò che era stato prodotto fino a quel momento fatta eccezione della bandiera, del registro cassa e del registro dell’organizzazione[59]. Nessuna traccia doveva restare, nessun rischio doveva essere corso. Soprattutto ora.

Nel frattempo, le notizie che arrivavano dal fronte rappresentavano motivo di soddisfazione e stimolo per l’Organizzazione, in particolare per i successi degli Inglesi e soprattutto dei “compagni Russi”[60]. La guerra tra Germania e Unione Sovietica aveva visto un enorme dispiegamento di forze da entrambe le parti, ma l’iniziale avanzata tedesca del ‘41 fu l’ultimo successo della guerra lampo della Panzerdivisionen. Già verso la fine dell’anno, la Germania non poteva più contare sulla superiorità tecnologica dei panzer, sopraffatta anche dalla strategia sovietica e dall’inverno russo, proprio come accaduto con Napoleone. La battaglia di Mosca (ottobre 1941-gennaio 1942) rappresentò la prima sconfitta terrestre della Wehrmacht, provocando una pesante frattura psicologica poiché aveva dimostrato la non invincibilità tedesca. All’Armata Rossa si unì la guerra partigiana locale e il tracollo della Germania arrivò definitivamente con la battaglia di Stalingrado dove, dopo mesi di assedio, l’esercito tedesco si arrese, il 31 gennaio 1943.

La crescente speranza accompagnò gli animi della cellula fino alla notte del 25 luglio 1943, quando il Gran Consiglio del Fascismo votò l’ordine del giorno, presentato da Dino Grandi, per deporre il Duce. Di fronte alla notizia della «lunga e desiderata caduta del fascismo e del carnefice oppressore Benito Mussolini»[61] i capicellula diedero ordine ai compagni di rimanere pronti per qualsiasi direttiva potesse arrivare dall’organizzazione provinciale, invitando tutti ad aspettare ulteriori istruzioni.

Il programma della cellula

La valutazione che emerge rispetto a questo concitato momento è chiara: il fascismo era caduto ma per la cellula di Boccheggiano il sistema rimaneva “fascista borghese”, anche sotto la guida del Generale Badoglio «il quale spacciandosi come liberatore del Popolo imponeva dopo poche ore della capitolazzione (sic) leggi che terrorizzarono il popolo Italiano essendo ormai disorientato da 20 anni dall’oppressione fascista»[62]. Il riferimento è sicuramente al proclama del giorno successivo che introdusse lo stato d’assedio insieme a quello del coprifuoco, trasferendo i poteri civili nelle mani dei comandi militari, vietando assembramenti e manifestazioni pubbliche, mettendo in atto repressioni contro eventuali disordini.

Alla concitazione e al rischio di smarrimento legato alla situazione nazionale seguì un fervore di attesa per gli sviluppi degli eventi. Nel verbale del 18 agosto si fa riferimento allo “sciopero per la dimostrazione di Pace mondiale”[63], indetto dai compagni di Prata e svolto per 24 ore presso la miniera del Baciolo e contemporaneamente a Niccioleta. Nonostante le precarie e drammatiche condizioni cui gli operai erano stati sottoposti nel ventennio fascista, alla base dello sciopero non vi erano rivendicazioni economiche, ma un chiaro intento politico: manifestare il dissenso contro il regime appena caduto e sostenere ideali di pace e giustizia, in contrasto con il grido badogliano de “la guerra continua”.

Nel frattempo, continuavano i tentativi di costruire una rete politica territoriale. Il giorno prima della dichiarazione dell’armistizio – già firmato il 3 settembre – Bandino Pimpinelli, nuovamente incaricato da Lorenzoni, si recò a Massa Marittima per prendere contatto con gli altri compagni del PCI e, al suo ritorno, riferì la decisione di costituire un nuovo e più numeroso Comitato[64]. La cellula comunista di Boccheggiano era consapevole del momento storico che stavano vivendo e delle sfide che li attendevano, impegnati in azioni che richiedevano un’organizzazione solida ed efficace. Quella praxis tanto agognata adesso si presentava con tutta la sua forza: anni di regime, di violenza, di oppressione avevano segnato la società, gli animi, le speranze e le illusioni e il cammino verso la liberazione non sarebbe stato facile.

Alla notizia dell’armistizio, trasmessa da Radio Londra e ascoltata nel bar del Lorenzoni[65], che comunicava la resa incondizionata dell’Italia, i capicellula si riunirono con il compagno capo: l’unico ordine fu quello di dar vita a “dimostrazioni patriottiche”. Alle 21 dell’8 settembre fu pertanto organizzato un corteo al quale partecipò tutta la popolazione e due simpatizzanti dell’organizzazione comunista intervennero invitando, sì, al risveglio ma anche alla calma[66].

I mesi successivi avrebbero segnato una nuova fase per l’O-3-R. Tutte le speranze di quei compagni si riversarono nella lotta partigiana.

 

NOTE:

[1] Il censimento fu annunciato il 5 agosto 1938 ed effettuato a partire dal 22 agosto. Fu lo strumento attraverso il quale «gli ebrei d’Italia vennero accuratamente individuati, contati, schedati», Sarfatti M., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione in Collotti E., Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Bari-Roma, Laterza, 2006, p. 65. Ciò costituì la base della più mastodontica legislazione antiebraica del mondo, dopo quella tedesca. Per un approfondimento si veda, ad esempio, l’opera sopra citata di Collotti.
[2] Questo articolo è il risultato di un lavoro di ricerca condotto sul Fondo Pimpinelli, in particolare attraverso l’analisi del Registro dei verbali della Organizzazione Comunista Rivoluzionaria, conservati presso l’AISGREC, Archivio dell’ISGREC – Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea.
[3] Si vedano il Regio Decreto n. 1848 “Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” del 6 novembre 1926 e la Legge n. 2008 “Provvedimenti per la difesa dello Stato” del 25 novembre 1926 che, peraltro, istituì il Tribunale speciale per la difesa dello Stato e reintrodusse la pena di morte. Da questo momento, ogni forma di critica, di opposizione, di lotta al governo fu vietata e penalmente perseguita, tutti i partiti e le organizzazioni che manifestavano azione contraria al partito furono sciolti, fu istituito il confino di polizia «per quanti manifestassero il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire gli ordinamenti costituiti dello Stato», i giornali di opposizione furono soppressi; molti antifascisti fuggirono all’estero da dove cercarono di guidare la lotta al regime mussoliniano, contando anche su qualche appoggio di gruppi che provarono a continuare ad agire sul territorio italiano in forma clandestina. Si veda anche Spriano, P., Storia del Partito comunista italiano. Gli anni della clandestinità, v. 3 parte prima, Einaudi editore, collana per «L’Unità», Torino, 1969, pp. 61-62.
[4] Gentile E., Fascismo. Storia e interpretazione, Economica Laterza, Bari-Roma, 2023, p. 20.
[5] Fondo Pimpinelli (da questo momento: FP), Registro verbali, f. 121. Bandino Pimpinelli fu curatore prima e poi custode di tutti i verbali dell’attività clandestina, fino alla sua morte nel 1996. Era il figlio di Ireneo, che fu l’ultimo sindaco di Montieri prima delle leggi fascistissime, socialista e autore di poesie popolari; sarà anche il primo sindaco nominato dal CLN subito dopo la Liberazione.
[6] Nesti A., Anonimi compagni: le classi subalterne sotto il fascismo, Coines, Roma, 1976, p. 143.
[7] Alle elezioni politiche del 1919 e alle amministrative del 1920 il Partito Socialista era risultato il primo partito: i socialisti conquistarono tutte le amministrazioni comunali ad eccezione dell’Isola del Giglio, dove si registrò la vittoria dei liberali, Monte Argentario, dei popolari, Castiglion della Pescaia e Massa Marittima, vinte dai repubblicani. Cfr. Rogari S. (a cura di), Il biennio rosso in Toscana 1919-1920, Atti del convegno di studi Sala del Gonfalone, Palazzo del Pegaso 5-6 dicembre 2019, Firenze: Consiglio regionale della Toscana, 2021.
[8] Cfr. Nesti A., Anonimi compagni cit., p. 139.
[9] Cfr. «Il Risveglio», agosto 1919. Si veda anche Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani fra le due guerre, in Siderurgia e miniere in Maremma tra ‘500 e ‘700. Archeologia industriale e storia del movimento operaio, All’insegna del Giglio, Firenze, 1984, p. 199.
[10] Cfr. «Il Risveglio», 27 marzo 1921. Ancora Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 200.
[11] Si rammenti la conquista armata di Grosseto (30 giugno 1921) che portò anche alla distruzione della Camera del Lavoro e della Lega dei Terrazzieri, delle sedi del partito socialista, comunista e repubblicano, nonché della tipografia de «Il Risveglio»; inoltre, l’incursione squadrista a Roccastrada (24 luglio 1921) considerata “roccaforte rossa”. Per un approfondimento, Cansella I., Roccastrada 1921. Un paese a ferro e fuoco www.toscananovecento.it/custom_type/roccastrada-1921-un-paese-a-ferro-e-fuoco/
[12] Cfr. Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani cit., pp. 202-03.
[13] Stipulato il 2 ottobre 1925, l’accordo tra il regime fascista italiano e i rappresentanti della Confindustria rappresentò una svolta significativa nei rapporti tra il mondo del lavoro e il governo fascista, a scapito della classe operaia.
[14] In particolare, con la legge n. 563 del 3 aprile 1926, venne istituito un sistema corporativo che prevedeva il riconoscimento di un unico sindacato per ogni categoria, strettamente controllato dallo Stato fascista.
[15] Nel 1939 la legione territoriale dei carabinieri reali di Livorno, gruppo di Grosseto, inviò al prefetto di Grosseto una relazione in cui di fatto sì evidenziava una riduzione dei salari nel corso degli ultimi 20 anni che oscillava tra il 36 e il 40% circa. Si veda Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 209.
[16] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., pp. 208- 209.
[17] A conferma di ciò, si possono citare, nella prima metà degli anni ’30, l’inaugurazione del villaggio di Niccioleta e la costruzione di un sistema di teleferiche che collegava le tre miniere della Montecatini (Boccheggiano, Niccioleta e Gavorrano) al mare, da dove i materiali venivano imbarcati verso i mercati nazionali e internazionali. In particolare, Niccioleta nacque nel 1933 come villaggio minerario di proprietà della Società Montecatini, ruolo che mantenne fino al 1976, quando divenne frazione del Comune di Massa Marittima.
[18] Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 210.
[19] Cfr. Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Quaderni ISGREC, 08, Effigi, Arcidosso (GR), 2021, p. 239.
[20] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 218; Tognoni M., Visi sporchi coscienze pulite. ‘Storia’ di un paese minerario della Toscana, Il Paese reale, Grosseto, 1979, p. 57.
[21] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 213.
[22] Il metodo Bedeaux fu introdotto per la prima volta a Gavorrano nel marzo del 1932 in un contesto di grave crisi che aveva già causato una drastica riduzione del salario e numerosi licenziamenti. In generale, il metodo consisteva in uno strumento volto ad aumentare i ritmi di lavoro, senza collegare lo sforzo fisico al salario percepito; inoltre, prevedeva penalità per i lavoratori che non rispettavano i tempi massimi stabiliti per ogni attività, con l’effetto di alienare ulteriormente il controllo degli operai sul loro lavoro. Molti furono i tentativi da parte della classe operaia di riprendere il controllo delle loro attività, sfruttando ad esempio la voce “lavori eventuali”, ovvero piccoli lavori che richiedevano uno sforzo fisico minore (la riparazione di un quadro d’armatura o il perfezionamento di un disgaggio etc.), ma che venivano valutati nel computo finale dei punti, contribuendo a ristabilire un equilibrio salariale sfruttando la minore produttività richiesta. Cfr. Nesti A., Anonimi compagni cit., p. 140.
[23] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 141.
[24] Per un approfondimento si veda la Testimonianza di Anuello Lorenzoni, Bandino Pimpinelli, Ideale Tognoni in Nesti, A., Ibidem.
[25] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 143.
[26] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 142.
[27] Verbale del 22 agosto 1938, FP, f. 123.
[28] Nesti, Ibidem.
[29] FP, f. 123.
[30] Si veda anche Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Ibidem.
[31] Cfr. FP, f. 124.
[32] Si rammenti che le leggi fascistissime segnarono anche la morte della democrazia parlamentare: il parlamento, ormai privato delle sue funzioni legislative e di controllo nei confronti dell’esecutivo, non venne più eletto ma nominato con elezioni dette plebiscitarie. D’altronde il regime fascista aveva sempre mostrato disprezzo nei confronti delle elezioni che definiva “ludi cartacei”, Cfr. Viola P., Il Novecento. Storia moderna e contemporanea, v. 4, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2000, p. 93.
[33] Cfr. Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma cit., pp. 239-240 e Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 219.
[34] Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., Ibidem.
[35] All’alba del 25 aprile 1943 gli iscritti erano arrivati a 26 per poi aumentare fino ad una quarantina.
[36] Benché dai verbali non emerga il luogo fino a questo momento utilizzato, si può pensare a sedi fortuite e che non destavano sospetti, tra cui pare lo scantinato o il retrobottega di Anuello Lorenzoni, come riportato da Tognoni, Visi sporchi cit., p. 61.
[37] FP, f. 131.
[38] FP, f. 132.
[39] Verbale del 20 settembre 1939, FP, f. 134.
[40] FP, Ibidem.
[41] Si veda anche Campagna, Turbanti, Antifascismo, guerra e Resistenze cit., pp. 115-116. Per un approfondimento si veda Rogari S., L’opinione pubblica in Toscana di fronte alla guerra (1939-43), in Antifascismo, Resistenza, Costituzione. Studi per il sessantesimo della liberazione, Franco Angeli, Milano, 2006.
[42] FP, Ibidem.
[43] Hitler era convinto che le Panzerdivisionen sarebbero state cruciali per la Blitzkrieg (guerra lampo), cfr. Viola, Il Novecento cit., pp. 188-89.
[44] Cfr. FP f. 137.
[45] Cfr. FP f. 139.
[46] Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., pp. 69-70.
[47] Verbale del 18 giugno 1941, FP f. 140.
[48] Verbale del 20 dicembre, FP f. 141.
[49] Tognoni, Visi sporche coscienze pulite cit., p. 18.
[50] L’ultimo numero ufficiale del giornale fondato da Antonio Gramsci fu pubblicato il 31 ottobre 1926. Il 27 agosto 1927 uscì il primo numero dell’edizione clandestina, che ebbe origine nella sede francese di Rue d’Austerlitz e poi nel ’31 con una stamperia a Milano. La pubblicazione clandestina subì una battuta d’arresto tra il ‘34 e il ’39 per riprendere con lo scoppio della guerra e della lotta antifascista. Il giornale tornerà alla pubblicazione ufficiale a Roma il 6 giugno 1944, con l’arrivo delle truppe alleate.
[51] Cfr. Verbale del 10 agosto 1941, FP Ibidem.
[52] FP, Ibidem.
[53] Verbale del 12 gennaio 1942, FP f. 143.
[54] Piccolo borgo confinante, residenza di molti minatori di Niccioleta e Boccheggiano.
[55] Cfr. Verbale del 03 maggio 1942, FP f. 144.
[56] Cfr. Verbale del 22 luglio 1942, FP Ibidem.
[57] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 218.
[58] Rapporto I del 12 gennaio 1943, FP f. 147. Tale decisione fu poi approvata da tutta l’O-3-R.
[59] FP, Ibidem.
[60] FP, Ibidem.
[61] Rapporto “IIII” del 25 luglio 1943, FP f. 148. Nel rapporto è sottolineato in rosso.
[62] FP, Ibidem.
[63] Verbale del 18 agosto 1943, FP f. 152. Si veda anche Campagna, Turbanti, Antifascismo, guerra e Resistenze cit., p. 227.
[64] Cfr. Rapporto V del 7 settembre 1943, FP f. 148.
[65] Il suo bar era la sede da cui si poteva ascoltare Radio Londra, con una sicurezza garantita da un compagno con il ruolo di palo sulla porta mentre altri compagni facevano finta di giocare a carte per non destare sospetti. Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., pp. 61-62.
[66] Cfr. FP, Ibidem.



Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi

 

Nada da giovane

Nada Giorgi con Renato Ciandri

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1].  Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.

«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».

Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.

Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.

I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html

Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare  svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/

Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.

La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].

I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.

Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].

Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].

Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.

Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.

Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].

Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.

Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.

Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.

Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.

È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.

Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.

In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.

Come lei stessa ha detto:

Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]

Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.

Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.

Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.

Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.

Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere.  Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.

«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»

Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].

Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.

Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].

Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.

Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).

Claudia Cardinale e George Chakiris in una scena del film di Comencini

Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].

Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.

Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].

A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa»,  rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].

Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:

“Bube”

Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)

E voi imparate che occorre

vedere e non guardare in aria

questo mostro stava una volta

per conquistare il mondo

i popoli lo spensero

ma ora non cantiamo

vittoria troppo presto

il grembo da cui nacque

è ancora fecondo

Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/

La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.

Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.

Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

 

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704

Note

1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.

2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].

3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.

4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.

5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.

6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.

7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.

8.  M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85

9. Ivi, p. 93

10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]

11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.

12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.

13. Ivi, pp. 100-103.

14. Ivi, p. 109.

15. Ivi, p. 129.

16. Ivi, pp. 133-137.

17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.

18. Ivi, p. 145.

19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.

20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]

 

Bibliografia

Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006

Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]

Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di novembre 2024.




I crimini nazisti effettuati durante la ritirata da Poppi

Nel corso dell’occupazione tedesca in Italia si verificarono numerosi episodi di violenza ai danni dei civili. Malgrado fossero azioni estremamente violente ed indiscriminate queste rispondevano frequentemente a specifiche esigenze dei comandi nazisti, aventi l’obbiettivo di limitare la presenza partigiana nel territorio, di allentare il legame che univa le popolazioni alle bande ribelli e di ribadire attraverso l’esecuzione di azioni efferate la centralità della presenza tedesca nella penisola. Gli interventi potevano essere frutto di ampie azioni ideate e coordinate dagli alti comandi, come nel caso del rastrellamento che investì alcuni centri del Casentino nell’aprile del 1944, oppure rappresentare azioni localizzate in risposta ad attacchi subiti da parte delle truppe che operavano nel territorio.

Nelle fasi finali della guerra a tale impostazione si affiancarono numerosi episodi nei quali i soldati nazisti iniziarono a rendersi protagonisti di azioni che esulavano dagli ordini forniti dai comandi o dalle precipue funzionalità militari. In concomitanza con l’avanzata alleata e il progressivo spostamento del conflitto nelle regioni settentrionali del nostro paese si assistette ad una generale diminuzione del controllo da parte dell’autorità militare, ad un allentamento della disciplina e ad una maggiore libertà dei soldati operanti sul territorio. In una sorta di “rompete le righe” molti militari si lasciarono andare a furti, stupri ed uccisioni nei confronti delle popolazioni inermi, riversando su di loro l’odio e il nervosismo che avevano accumulato nel corso del conflitto, accresciuto in questo caso dall’andamento negativo della guerra. Come se non bastasse l’incombere degli Alleati costringeva le truppe naziste ad agire in maniera risoluta e decisa, senza badare ai danni collaterali che generavano i loro interventi. Talvolta l’incalzare dei nemici determinò l’utilizzo di mezzi energici, altre volte invece si tramutò in veri e proprie ritorsioni ai danni dei civili innocenti.

Una zona che venne particolarmente colpita da questo genere di violenza fu l’area nei dintorni di Poppi, un comune del Casentino settentrionale distante circa trentacinque chilometri da Arezzo. Nelle settimane prossime alla liberazione – il periodo a cavallo tra la fine di agosto e l’inizio di settembre del 1944 – si registrò in questa porzione della vallata un elevato numero di uccisioni di civili. Nei pressi di Poppi le violenze di questo genere non si limitarono all’eliminazione degli abitanti che venivano intercettati mentre attraversano le zone di guerra interdette al passaggio dei civili o alla fucilazione di coloro che non rispettavano l’ordine di sfollamento e cercavano di fuggire, ma vedevano la presenza di azioni più ampie che portarono all’uccisione contemporanea di decine di persone.

Uno degli episodi più eclatanti avvenne il 31 agosto 1944, quando un colpo di cannone proveniente da sopra Moggiona causò la morte di alcuni civili che erano scesi a Poppi per raccogliere l’acqua a una fontanella. Il comune casentinese, ormai prossimo alla liberazione, era stato abbandonato dai soldati tedeschi e i civili nell’euforia dell’imminente liberazione si recarono ad una sorgente in via della Costa per raccogliere l’acqua di cui necessitavano. Don Cristoforo Mattesini, sfollato a Poppi, ricorda in questo modo quell’orribile scena: L’artiglieria tedesca vide tutto questo movimento e scaricò dal Montanino e da Camaldoli un diluvio di cannonate contro il gruppo. La seconda granata prese in pieno quel ciuffo di persone. Si schiantò sul lastricato. Strage! Tutta la Costa da Poppi alla stazione fu coperta da una cortina di fumo. Nel fracasso infernale: pianti, lamenti, urli disperati. Persone che si chiamavano, parenti accorsi al grido dei loro cari, spettacolo straziante! Il fumo non faceva vedere niente, ma la tragedia era terribile!”[1]. In tutto furono quindici le persone che persero la vita a causa delle esplosioni, in maggioranza ragazzi tra i sette e i quindici anni che si erano solamente recati a raccogliere l’acqua ad una sorgente[2].

Nonostante la notevole distanza dall’obbiettivo possiamo affermare con relativa certezza che i colpi di cannone provenienti dalle alture circostanti non furono un errore di valutazione compiuto da parte dei nazisti, ma furono un deliberato attacco ai danni dei civili intenti a recarsi a raccogliere l’acqua in via della Costa. Ad avvalorare questa tesi contribuiscono le informazioni che i comandi tedeschi possedevano in merito agli alleati, attestati in quei giorni ad alcuni chilometri di distanza dal comune casentinese e ritenuti poco interessati alla conquista di quest’ultimo, visto che gli Alleati vi giungeranno solamente il 13 settembre, quasi due settimane dopo[3].

Nel luogo dove un tempo sorgeva la fontanella è stato eretto un monumento in ricordo delle vittime. Situato nella via che un tempo univa Poppi alla frazione di Ponte a Poppi, il monumento è composto da una colonna in pietra alla cui base è stata posta una targa recante i nomi delle vittime, attorniata agli angoli da quattro pietre che richiamano la forma dei proiettili dell’artiglieria. L’epigrafe riporta solamente i nominativi di coloro che persero la vita il giorno stesso dell’episodio, senza includere all’interno del numero complessivo delle vittime Antonio Grazzini e Milena Pietrini, morti nei giorni successivi per le ferite riportate[4].

 

Monumento in ricordo delle vittime di via della Costa

 

Mentre Poppi veniva liberata dai partigiani il 2 settembre, molti degli abitati posti sulle vicine alture continuavano ad essere ancora in mano dei tedeschi. Questo era il caso di Moggiona, un piccolo paese montano situato ai piedi del monastero di Camaldoli. Rispetto agli altri centri del Casentino Moggiona aveva vissuto in modo più intenso l’arrivo della guerra, a causa della presenza della Linea Gotica in tutto il territorio circostante: dal novembre 1943 l’area era stata interessata dall’arrivo di centinaia di operai che avevano incessantemente lavorato alla costruzione delle fortificazioni, composte da depositi, rifugi antiaerei postazioni per mitragliatrici e artiglieria pesante. A questa cospicua presenza di operai si aggiunse nel corso della guerra la costante presenza dei soldati della Wehrmacht, che all’inizio del 1944 installarono nel paese perfino un comando[5].

 

Il paese di Moggiona

 

Nel periodo che precedette l’avvicinamento del fronte non si registrarono momenti di frizione fra gli abitanti e gli occupanti. Le prime tensioni iniziarono a verificarsi nell’estate del 1944, ad ormai pochi giorni dalla liberazione di Arezzo e dal conseguente arrivo della guerra nel Casentino. Il 13 luglio vennero affissi per le strade di Moggiona e dei paesi limitrofi dei manifesti che ordinavano agli abitanti di abbandonare le loro case e di dirigersi a nord della vallata, poiché a breve quelle zone sarebbero divenute luoghi di combattimento. In realtà furono pochi coloro che rispettarono il comando: molti preferirono nascondersi nei boschi o nella vicina Camaldoli per non allontanarsi eccessivamente dalle loro proprietà. Coloro che rimasero a Moggiona, circa una cinquantina di persone, vennero infine rastrellate e trasferite forzatamente in Romagna il 26 agosto. A due famiglie, i Meciani e gli Innocenti, utili allo svolgimento di alcune attività relative alla cura delle truppe, come cucinare, lavare e cucire, venne invece permesso di poter rimanere in paese[6].

Gli ultimi che lasciarono il paese furono infine i soldati della 5ª Divisione Alpina, stabilitisi a Moggiona verso la metà di agosto. Ormai incalzati dall’avanzata alleata i tedeschi abbandonarono il paese nel tardo pomeriggio del 7 settembre portandosi dietro masserizie, mobilio e cibo depredati dalle case degli abitanti. Mentre la Divisione stava lasciando Moggiona sopraggiunsero in paese tre soldati provenienti da Poppi, ai quali venne consigliato di andare alla casa del Meciani per ricevere un po’ di pane. Dopo essersi rifocillati e probabilmente ubriacati i tre tornarono nella casa e falciarono con la mitragliatrice le cinque persone presenti, dopodiché si recarono in un edificio nel rione Prato, e dopo aver fatto scendere tutti quanti in cantina li uccisero a colpi di mitragliatrice. Undici furono in tutto le vittime. Nei pressi del ponte di Moggiona si verificò infine l’ultimo atto di quest’immane tragedia con l’uccisione di una madre e della figlia di dieci anni.

Fino all’undici settembre i corpi delle diciotto vittime rimasero sotto le macerie degli edifici dove erano avvenuti gli eccidi. Le truppe tedesche che giunsero successivamente minarono volontariamente i luoghi dei delitti per mascherare l’accaduto e far ricadere la responsabilità della morte dei civili sui bombardamenti Alleati. I primi soccorsi giunsero solamente grazie all’intervento di Aurelio Cecchini, un bambino di dodici anni sopravvissuto all’accaduto, che dopo aver accudito la madre ed aver visto morire due fratelli riuscirà a raggiungere il monastero di Camaldoli ed allertare il Padre Superiore dell’accaduto: “Giunge da Moggiona un bambino sui nove anni, che ha attraversato la linea del fuoco e a stento, tra singhiozzi e lacrime, riesce a chiedere aiuto per la sua povera mamma, essa pure gravemente ferita al seno e ad una coscia, che tuttora giace in una stanza”[7].

Le testimonianze raccolta dall’Intelligence britannico nei mesi successivi confermarono che l’azione non aveva nessuna correlazione con la presenza partigiana in paese e non aveva nessun tipo di spiegazione logica. Lo stesso Giuseppe Salvi, allora ragazzo, ribadisce che a Moggiona non vi furono mai partigiani e che questi transitavano raramente nelle vicinanze del paese solo per recarsi in Romagna o sulla costa adriatica[8]. Questa affermazione è estremamente probabile visto che nel paese dal novembre 1943 fino alla liberazione era presente un gran numero di soldati tedeschi che avrebbe reso estremamente difficoltosa la presenza di ribelli.

Sebbene la vicenda di Moggiona rientri nella tragica realtà di routine di un esercito in ritirata, quanto accade la sera del 7 settembre ha dell’eccezionale: la violenza che si scagliò contro diciotto civili inermi, oltretutto autorizzati dai comandi tedeschi a rimanere presso le proprie abitazioni, non nacque da un ordine superiore e non trova nessun tipo di spiegazione logica, se non quella di voler di coprire con l’omicidio una serie di crimini commessi in sodalizio con la truppa. Non è dunque un caso che la decisione di voler eliminare i testimoni dei propri misfatti si materializzi proprio in concomitanza con le operazioni di ritirata verso nord della Divisione. Le nuove truppe che giunsero a Moggiona sin dall’8 settembre si ritrovarono pertanto a gestire, nel proprio settore ormai incalzato a pochi chilometri dal nemico, gli esiti visibili e infamanti della violenza del reparto precedente: questo determinò la decisione di evitare, nella prospettiva di imminenti rese, un comportamento punitivo da parte degli inglesi reso più duro dalla conoscenza dei misfatti. Risultato di questa strategia fu dunque il minamento dei luoghi del delitto con l’intento di simulare un bombardamento che giustificasse le vittime di Moggiona, appositamente lasciate all’interno delle abitazioni per rendere ancora più reale lo scenario impancato.

 

Abitazione di Moggiona distrutta dai nazisti

 

Una situazione analoga si verificò pochi giorni dopo a Lonnano, un piccolo paese distante una quindicina di chilometri da Moggiona. Il 10 settembre un gruppo di tedeschi irruppe nella casa colonica della “Chiesa Vecchia” ed uccise quattro ultrasettantenni che si erano nascosti all’interno di essa, dopodiché diedero alle fiamme l’edificio con l’intento di nascondere le prove del crimine[9].

Rispetto ad altre stragi avvenute in Casentino (Vallucciole, Partina e Moscaio) l’episodio di Moggiona è rimasto a lungo avvolto nell’oscurità, forse volontariamente dimenticato dalle comunità locali intente a rimuovere certe vicende piuttosto che ricordarle. A determinare questa sorta di damnatio memoriae hanno probabilmente contribuito i numerosi abusi che le truppe di stanza a Moggiona commisero ai danni delle donne del paese e la volontà della popolazione di voler proteggerle da quella che un tempo era ritenuta un’infamia[10].

Le pubblicazioni del secondo dopoguerra come quelle del Sacconi[11] e del Curina[12] hanno poi accresciuto la confusione in merito a questo episodio, con ricostruzioni vaghe e spesso imprecise. Solamente dagli anni Novanta si è assistito ad un rinnovato interesse nei confronti di questa storia, grazie in particolar modo all’apertura dell’armadio della vergogna che nel 1994 ha stimolato il riesame di alcune stragi nazifasciste. Contemporaneamente all’arrivo di nuove informazioni provenienti da Roma la Biblioteca Comunale di Poppi decise di acquistare una serie di documenti dall’ Archivio di Guerra inglese, mentre la Pro Loco di Moggiona si impegnò nella raccolta delle testimonianze dei sopravvissuti dell’accaduto. Lo sforzo culminerà infine nel 2014 con la pubblicazione del saggio 7 settembre 1944. La strage di Moggiona[13].

In linea con il crescente interesse per la vicenda il 25 aprile 1997 l’Amministrazione Comunale di Poppi ha collocato una targa in ricordo delle vittime della strage sull’edificio della Pro Loco situato in via Camaldoli; sulla stessa parete è poi presente un’epigrafe posta l’anno precedente in memoria delle vittime militari e civili del paese[14]. Addentrandoci maggiormente dentro Moggiona troviamo poi in piazza 7 settembre 1944 la “Mostra permanente della guerra e della Resistenza nel Casentino”, appartenente al progetto della rete ecomuseale del Casentino: i visitatori potranno ammirare alcuni manifesti o ritagli di giornale dell’epoca e degli oggetti militari come elmetti o materiali bellici rinvenuti nell’area dove un tempo era presente la Linea Gotica. Su un lato dell’edificio che ospita l’esibizione è stata ricavata una nicchia all’interno della quale è stato posto un monumento in terracotta che ricorda le vittime della strage nazista: l’opera riproduce una scena dell’eccidio all’interno di una abitazione, mentre quattro colombe simbolo di pace spiccano il volo. Sempre in piazza 7 settembre 1994 è stato collocato nel 2014 un pannello che informa i visitatori sull’accaduto[15]. In conclusione ricordiamo che negli ultimi anni è stato promosso da parte della Pro Loco e dalla rete ecomuseale del Casentino un sentiero ad anello della lunghezza di 4,5 chilometri che ripercorre i luoghi che un tempo erano attraversati dalla Linea Gotica.

 

L’edificio della Pro Loco che contiene due lapidi in onore dei caduti durante la seconda guerra mondiale

 

Alcuni esemplari presenti all’interno della Mostra

 

Monumento in ricordo delle vittime della strage del 7 settembre 1944 situato nell’omonima piazza

 

Note:

[1] C. Mattesini, Guerra e pace, Fruska, Stia 2003, pp. 112-116.

[2] A. Brezzi (a cura di), Poppi 1944. Storia e storie di un paese nella Linea Gotica, Regione Toscana, Firenze 2018, pp. 97-98.

[3] Ibid.

[4] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-alle-vittime-civili-delleccidio-della-costa-poppi/.

[5] A. Brezzi (a cura di), Poppi 1944, cit., pp. 98-100.

[6] Ivi, p. 100.

[7] A. Buffadini, Camaldoli nel Casentino in fiamme, Barbera, Firenze 1946, pp. 75-76.

[8] Testimonianza di Giuseppe Salvi, https://perlamemoria.it/i-luoghi/poppi/moggiona/.

[9] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 240.

[10] A. Brezzi (a cura di), Poppi 1944, cit., p. 99.

[11] Cfr. R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 152-153.

[12] Cfr. A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Badiali, Arezzo 1957, pp. 510-511.

[13] Cfr. Centro di Documentazione sulla Guerra e la Resistenza in Casentino (a cura di), 7 settembre 1944. La strage di Moggiona, Pro Loco di Moggiona 2014.

[14] Resistenza Toscana, https://resistenzatoscana.org/monumenti/poppi/lapidi_dei_caduti_di_moggiona/.

[15] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-alle-vittime-della-strage-del-7-9-44-moggiona-di-poppi/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel novembre 2024.

 




Le stragi di Partina e Moscaio

Il 13 aprile 1944 viene generalmente ricordato in Casentino per la strage di Vallucciole, che portò all’uccisione di oltre cento civili, in prevalenza donne, anziani e bambini. La scomparsa della quasi totalità della popolazione del piccolo borgo e degli abitati limitrofi non rappresentò però l’unico eccidio verificatosi quel giorno nella vallata, visto che tra il 12 e il 13 aprile la violenza dei nazisti si scagliò anche sugli abitanti di due paesi nei pressi di Bibbiena, Partina e Moscaio, portando alla morte di trenta innocenti (22 a Partina e 8 a Moscaio). Non è un caso che le stragi in questione siano avvenute il medesimo giorno, come non è altrettanto accidentale che queste azioni abbiano numerose analogie tra di loro. I rastrellamenti di Vallucciole, Partina e Moscaio, ma anche quelli avvenuti negli stessi giorni a Badia Prataglia e San Godenzo rientrano all’interno di un’ampia azione organizzata dai comandi nazisti all’inizio di aprile, volta a debellare la presenza partigiana nelle zone del Casentino e nei pressi del monte Falterona[1].

In questa fase dell’occupazione si assiste ad una progressiva radicalizzazione della presenza nazista in Italia e al crescente utilizzo della violenza ai danni dei civili. Quest’impostazione non era un’anomalia all’interno della strategia militare tedesca, ma rappresentava un tratto tipico della loro conduzione bellica, utilizzato sul fronte orientale fin dal 1941. La strategia stragistica aveva l’intento di allontanare le popolazioni dai ribelli attraverso la conduzione di efferate e indiscriminate azioni ai danni dei civili. In Italia questo genere di atteggiamento venne adottato dalla fine del marzo 1944, quando l’attentato di via Rasella (23 marzo), lo sciopero di inizio mese e le notizie riguardanti il rafforzamento delle formazioni partigiane portarono i comandi nazisti a mutare giudizio e considerare il contesto italiano un problema di difficile soluzione. I principali tratti del nuovo approccio emergono in modo chiaro ed evidente nelle misure antipartigiane che il feldmaresciallo Kesselring diffuse ai suoi subordinati il 7 aprile: all’interno del documento il responsabile del fronte italiano invitava i soldati ad operare in modo deciso e risoluto, garantendo l’impunità a coloro che avrebbero agito in tale modo; Kesselring concludeva infine la comunicazione precisando che le problematiche sarebbero sorte qualora qualcuno non fosse stato sufficientemente determinato e spietato[2].

Con queste premesse all’inizio di aprile venne organizzato un grande rastrellamento che avrebbe dovuto ripulire la dorsale appenninica dalla Liguria alle Marche. In Toscana le operazioni iniziarono il 10 aprile: colpirono inizialmente alcuni borghi del Mugello, per poi spostarsi successivamente nel Casentino, dove veniva segnalata una forte presenza di ribelli. Nel Casentino e sul versante orientale del Falterona l’azione ebbe inizio la notte tra il 12 e il 13 aprile ed investì paesi dall’importanza secondaria come San Godenzo, Castagno d’Andrea, Badia Prataglia, Vallucciole, Partina e Moscaio.

Protagonisti di quest’operazione furono gli uomini del Reparto esplorante della Divisione Hermann Gӧring, comandati dal colonnello von Heydebreck e guidati sul campo dal capitano von Loeben. Si trattava di un contingente composto da oltre mille soldati, suddivisi in cinque compagnie tutte motorizzate; non era un corpo noto per le sue qualità militari, ma celebre piuttosto per essere una delle formazioni più politicizzate dell’esercito, composta in prevalenza da volontari e nazisti della prima ora. Nella seconda metà di marzo la Divisione aveva inoltre messo in evidenza le sue capacità nel rastrellamento con le stragi emiliane di Cervarolo e Civago[3].

Il primo paese ad essere colpito nel Casentino fu Moscaio, un piccolo gruppo di case situato su una collina distante pochi chilometri da Bibbiena. I tedeschi giunsero nella frazione nella notte tra il 12 e il 13 aprile ed irruppero nelle case degli abitanti trascinando gli uomini fuori dalle loro abitazioni: cinque furono fucilati sul retro delle loro case, altri due vennero abbattuti mentre cercavano di fuggire al rastrellamento e uno venne ucciso con un colpo di pistola da un soldato irritato dalle sue grida[4]. Secondo la ricostruzione compiuta da Raffaello Sacconi i soldati della Gӧring penetrarono nel paese grazie alle indicazioni fornite da un ragazzo che avevano incontrato lungo il percorso di avvicinamento all’abitato[5]. Rispetto alla strage di Partina, che coinvolse un maggior numero di vittime, non vi è certezza riguardo l’esatto numero dei morti (una cifra compresa tra sette e nove) e sono pressoché assenti le testimonianze dei superstiti dell’eccidio.  Le poche dichiarazioni a nostra disposizione presentano però numerose analogie con gli eventi che di lì a poco si sarebbero verificati nel vicino paese di Partina: i figli delle vittime affermano che nessuno dei morti aveva preso attivamente parte alla Resistenza, ma aveva al massimo fornito rifugio a qualche partigiano transitato per l’abitato, aggiungendo inoltre che molto probabilmente furono presenti durante l’operazione anche alcuni fascisti della zona[6].

 

Lapide in ricordo dei civili di Moscaio caduti durante la strage

 

Qualche ora dopo gli uomini della Gӧring piombarono su Partina, un piccolo paese vicino Soci. Verso le quattro del mattino un gruppo di fascisti e nazisti camuffati da partigiani entrò nel paese e si diresse all’abitazione di Angiolo Cerini, la guardia comunale del paese, chiedendogli se conoscesse qualcuno che li avrebbe potuti aiutare a trasportare del materiale bellico in montagna. Il Cerini non sospettò nulla ed accompagnò i presunti partigiani da coloro che riteneva li avrebbero potuti aiutare: il primo che venne interpellato era il Giovannini, ma questi si rifiutò di aiutarli perché i suoi buoi erano troppo stanchi, aggiungendo che aveva fornito il suo supporto in altre occasioni, ma che questa volta proprio non poteva aiutarli. Al rifiuto del Giovannini i repubblichini non rivelarono la loro identità e continuarono la loro ricerca facendosi accompagnare alla casa del Lorenzoni: una volta chiamato questi chiese di potersi  vestire prima di uscire di casa a parlare, ma gli risposero che non ce ne sarebbe stato bisogno, visto che quel giorno sarebbe stato ucciso. Accortosi dell’inganno il Cerini cercò di ritrattare quanto aveva detto, ma venne immediatamente colpito alla testa da due colpi di pistola. Con la morte della guardia comunale i criminali svelarono la loro identità, dando inizio alla strage[7].

 

Partina

 

Accompagnato da elementi locali, il gruppo si recò nelle abitazioni ritenute maggiormente sospette, come quelle dei partigiani Vecchioni e Paperini, dando alle fiamme le case ed uccidendo coloro che erano stati inseriti all’interno di una lista precedentemente stilata. Gli individui vennero uccisi nei più disparati modi, chi veniva ucciso sulla porta di casa, chi veniva gettato nelle abitazioni in fiamme dopo che era stato utilizzato per trasportare le fascine con le quali arderle e chi veniva ucciso alle spalle dopo che gli era stata promessa la salvezza. Complessivamente nel corso della mattinata vennero uccisi 14 abitanti di Partina, tutti uomini con più di diciotto anni.

Il resto della popolazione venne rinchiuso all’interno della chiesa, mentre all’esterno i tedeschi continuarono a seminare il panico per il paese. Giovanni Cherubini, che all’epoca aveva poco più di cinque anni, ricorda nitidamente il trasferimento della popolazione nella parrocchia: il volto grigio del parroco, la calca e i pianti di disperazione dei presenti. Ancora oggi non è chiaro se i tedeschi volessero uccidere i civili radunati all’interno dell’edificio o se volessero imprigionarli temporaneamente per avere più libertà di movimento nel paese; tuttavia, tra i presenti si diffuse la notizia che l’edificio sarebbe stato fatto saltare in aria. Ormai certo del tragico epilogo don Ezio Turinesi decise di tenere messa e di assolvere tutti i presenti dai loro peccati[8].

Fortunatamente questo rischio venne scongiurato grazie alla mediazione di un’ufficiale tedesco di stanza a Soci, il capitano Tambosi, e del responsabile locale della Todt, il maggiore Kirchberg, che riuscirono a convincere gli uomini della Gӧring ad interrompere la carneficina, testimoniando l’innocenza della popolazione e l’insussistenza delle voci che etichettavano erroneamente Partina quale “covo partigiano”. Grazie a questo intervento la strage non raggiunse dunque le dimensioni dell’eccidio di Vallucciole, ma si limitò all’uccisione di alcuni uomini di età adulta, senza che venissero eliminati gli anziani, i bambini e le donne. La mediazione di Tambosi e Kirchberg evidenzia la presenza di un buon rapporto tra gli abitanti nei dintorni di Soci e i tedeschi della Wehrmacht di stanza nella zona, testimoniata anche dal partigiano Dante Roselli nel corso di un’intervista[9].

La strage non limitò la sua estensione agli abitanti di Partina, ma coinvolse anche otto operai della Todt che nel corso della mattinata transitarono dal paese per dirigersi a lavorare verso Serravalle. Malgrado fossero muniti di regolare lasciapassare e lavorassero alla costruzione delle fortificazioni tedesche, questi vennero etichettati come partigiani ed uccisi lungo l’argine del torrente Archiano.

 

Cippo per gli operai della Todt

 

Nel corso degli anni la strage ha sollevato numerosi interrogativi, portando taluni a sostenere che l’azione fosse dovuta alla presenza in paese dei partigiani, infatti la mattina del 13 aprile tre componenti del Gruppo Casentino – il Vecchioni, il Paperini e il Ciabatti – si recarono in paese per raccogliere viveri e materiali prima di incamminarsi verso il Pratomagno, dove nel frattempo li stavano aspettando altri compagni del raggruppamento. Per quanto sia innegabile che l’eccidio sia avvenuto in concomitanza della presenza a Partina dei ribelli e dei tedeschi, è altrettanto indiscutibile che la presenza in paese dei soldati della Hermann Gӧring fosse precedente quella del Vecchioni, del Paperini e del Ciabatti. Inoltre è estremamente improbabile che i tedeschi o i fascisti locali fossero a conoscenza dell’imminente arrivo dei tre uomini, visto che la presenza partigiana in paese si trattava di un ripiegamento che non era stato preventivato, dovuto all’occupazione tedesca di San Paolo in Alpe.

Se poi si analizza l’evento da una prospettiva più ampia ci si accorge che la strage non era un’azione isolata, ma era parte di un’ampia operazione che si svolse in tutto il Casentino. I luoghi vittime delle incursioni nazifasciste furono scelti in base alle delazioni che elementi locali fornirono ai comandi tedeschi. Malgrado le denunce non fossero corroborate da prove che convalidassero la presenza di azioni svolte ai danni dei nazisti o testimoniassero l’esistenza di gruppi partigiani che operassero nella zona, le formazioni protagoniste della strage non si preoccuparono di verificare la veridicità delle delazioni e non contattarono neppure i connazionali che nel frattempo operavano nella zona da diverso tempo per avere informazioni in merito. La denuncia non veniva dunque vagliata, ma diveniva per i comandi tedeschi pretesto per poter attuare azioni indiscriminate che allontanassero le popolazioni dai partigiani ed eliminassero potenziali sostenitori della Resistenza. Nel caso di Partina è doveroso ricordare che i partigiani in questione operavano in luoghi lontani dal loro paese natale; dei tre solamente il Paperini perse la vita nel corso della giornata, sacrificandosi per salvare la vita del compagno Vecchioni.

Nonostante nel corso degli anni si sia raggiunta un’intesa riguardo l’origine e la natura della strage, permangono ancora dei dubbi in merito ad alcuni aspetti dell’eccidio, che né gli storici né le testimonianze dei sopravvissuti sono riusciti a chiarire. In particolare sono due le zone d’ombra che sollevano alcuni interrogativi sull’evento, in primo luogo ci si domanda come mai i partigiani si fossero recati in paese nonostante un gruppo di nazisti e di fascisti fosse già presente a Partina dalle prime ore del mattino. Sappiamo che questi erano camuffati da partigiani, ma è altrettanto veritiero che la presenza di un gruppo, pur con le sembianze di un potenziale alleato, sarebbe difficilmente passato inosservato all’interno di un paese dalle piccole dimensioni ed avrebbe dovuto allertare i tre partigiani che avevano ricevuto oltretutto la notizia di un probabile rastrellamento nel Casentino. L’unica spiegazione plausibile presuppone che il gruppo di repubblichini e nazisti abbia agito nel più assoluto silenzio e sia riuscito contemporaneamente a non farsi udire ed individuare dai partigiani di ritorno nel paese.

Un altro aspetto che solleva alcuni interrogativi riguarda il mancato intervento di Sacconi in soccorso dei civili. In questo caso sappiamo che Sacconi si era appostato con i membri del gruppo Casentino nel vicino podere “Prati”, distante solamente pochi chilometri da Partina, e che avesse udito la mattina del 13 aprile gli spari provenire dal paese. In questo caso è probabile che il trasferimento sul Pratomagno avesse precedenza rispetto a qualsiasi altra operazione e che dunque il gruppo si fosse diretto verso il massiccio nonostante avesse sentito le grida provenire da Partina. In merito a questo aspetto non abbiamo però testimonianze o informazioni che ci permettano di chiarire la questione, e possiamo solamente ipotizzare una presunta precedenza dello spostamento sul Pratomagno rispetto ad un intervento in soccorso degli abitanti del paese.

Le stragi del 12 e 13 aprile ‘44 hanno segnato in modo profondo la memoria di questi paesi, che hanno deciso di ricordare le vittime attraverso una serie di opere monumentalistiche. A Partina le vittime della strage vengono commemorate all’interno di un’area verde situata in via San Francesco dove è presente un memoriale dedicato ai caduti del comune durante la seconda guerra mondiale: all’interno dello spazio sono presenti una serie di targhe in bronzo, ognuna delle quali è dedicata ad una specifica categoria di caduti. Per quanto riguarda la strage di Partina sono presenti tre steli destinate agli eventi del 13 aprile, una per i civili vittime dell’eccidio, una per gli otto operai della Todt e una in onore di Santi Paperini, sacrificatosi per salvare la vita del compagno Salvatore Vecchioni[10]. Sempre in via di San Francesco è poi presente una lapide situata sull’argine del torrente Archiano, in ricordo degli otto operai della Todt fucilati dagli uomini della Gӧring[11]. Per quanto riguarda invece le vittime di Moscaio queste vengono commemorate attraverso due lapidi, una posta nella strada che attraversa l’abitato dove avvenne la strage[12] e una posta nel cimitero di Bibbiena[13].

 

Area verde di Partina adibita al ricordo delle vittime della seconda guerra mondiale

 

Note:

[1] È interessante notare come Partina e Vallucciole siano state entrambe designate quale luoghi adibiti all’occultamento delle armi che il nascente gruppo di Vallucciole insieme a quello di Bibbiena derubarono il 13 settembre 1943 a Stia. Per approfondire l’episodio cfr. L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944. Storia, ricordo e memoria pubblica di una strage nazifascista, Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2017, pp. 71-72.

[2] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, pp. 71-72.

[3] Ivi, pp. 72-73.

[4] Ivi, p. 78.

[5] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, Quaderni dell’Istituto Storico della Resistenza Toscana, ed. Nuova Italia, Firenze 1975, p. 70.

[6] Testimonianza di Giancarlo Giannini, https://perlamemoria.it/i-luoghi/bibbiena/moscaio/.

[7] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., pp. 66-67.

[8] Testimonianza di Giovanni Cherubini, https://perlamemoria.it/i-luoghi/bibbiena/partina/.

[9] Testimonianza di Dante Roselli, https://perlamemoria.it/i-luoghi/bibbiena/partina/.

[10] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/memoriale-ai-caduti-di-partina-di-bibbiena-guerra-1940-45/.

[11] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/cippo-agli-operai-della-organizzazione-todt-fucilati-il-13-4-1944-partina-di-bibbiena/.

[12] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/lapide-ai-caduti-delleccidio-del-13-4-1944-moscaio-di-bibbiena/.

[13] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-ai-caduti-del-moscaio/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel novembre 2024.




I bombardamenti sulla Val di Bisenzio (1943-1944)

Dal 22 giugno del 1940 i cittadini di Prato iniziarono a sentire le prime sirene che avvertivano dei possibili bombardamenti alleati. Quella che provocò un’iniziale paura si tramutò presto in un semplice suono di ricorrenza, che accompagnò i pomeriggi dei pratesi per più di tre anni senza conseguenza alcuna. È questo il sentimento che li caratterizzerà anche la mattina del 2 settembre 1943. Nonostante l’allarme, molti di loro rimasero in strada, ormai abituati a quel segnale a cui ormai non davano più molta importanza. All’improvviso però, una flotta di circa sessanta areoplani transitò sulla città, colpendo ferocemente con le bombe la stazione, il Palco e Santa Cristina, facendo capire a tutti che una nuova fase si stava aprendo, quella della paura[1]. Perché proprio Prato si chiederà il lettore? Perché colpire il centro cittadino? La risposta ricade tutta nella disposizione industriale della città, essendo Prato città “di industria”, dove le imprese risiedono direttamente all’interno della città e non in zone periferiche esterne al perimetro abitativo, come nel caso di Firenze. Ecco perché qui i bombardamenti colpirono maggiormente le abitazioni rispetto ad altre zone, per via della stretta vicinanza con gli obiettivi militari. Inoltre un’altra zona di interesse alleata era la stazione, per via della presenza della Direttissima, ovvero la linea ferroviaria che collega Bologna a Firenze, valicando l’Appennino tosco-emiliano. Ecco perché Prato e la Val di Bisenzio rappresentano una zona strategica di primaria importanza in Toscana per gli alleati.

Dal 2 settembre del 1943 cambia la percezione della cittadinanza,      quel pericolo tanto paventato da anni ora è reale, è sarà solo l’inizio. L’11 novembre un bombardamento di un’ora e mezzo seminò il panico in città, concentrando le proprie forze sulla stazione. Ci furono due morti e più di venti feriti, varie aziende danneggiate e più di trenta case furono distrutte o gravemente danneggiate. Pure l’acquedotto fu colpito, portando gravi disagi in varie zone della città. Il terzo bombardamento arrivò il 26 dicembre. Fu danneggiato l’Istituto San Giuseppe e presa di mira ancora la stazione ferroviaria, provocando vari danni, come la distruzione del capannone merci, l’incendio di alcuni carri e il danneggiamento dei binari. Furono una ventina le case distrutte e ventiquattro le persone ferite, oltre ad altri gravi danni all’acquedotto. Il 1943 si chiude quindi con la paura imminente di nuovi attacchi, che con l’anno seguente vedranno coinvolte anche le altre zone della Val di Bisenzio.

Il 15 gennaio però i bombardamenti riguarderanno ancora Prato. Tre ore di assedio alleato dove furono sganciate più di trecento bombe, una trentina delle quali rimarranno inesplose, colpendo via Ferrucci, Ponzano, Mezzana, San Giorgio a Colonica, Pizzidimonte, Grignano, Gonfienti e via Gobetti. Vengono distrutte una ventina di case e altrettante vengono danneggiate gravemente. Chi risentì maggiormente del bombardamento furono le imprese, con molte fabbriche – come la SALIT – quasi rase al suolo. I morti accertati furono trentuno, i feriti settantadue. La tragedia avvenne a Mezzana, dove una bomba, caduta all’ingresso di uno dei rifugi scavati nei campi del Buci, determinò una vera e propria strage, strappando persino col solo spostamento d’aria un bambino di soli diciotto mesi dal braccio della madre, scaraventandolo tra i detriti, dove sarà ritrovato cadavere il giorno seguente dopo faticose ricerche. Passarono solo due giorni, e il 17 gennaio i cittadini di Prato dovettero vivere l’ennesima giornata infernale. Centinaia di bombe caddero in rapida successione sulla stazione ferroviaria, colpendo anche La Pietà, Santa Cristina, La Castellina, Canneto, Paperino, Viale Vittorio Veneto, via Santa Chiara, via Ferrucci e la sottostazione di via Martini della Selt Valdarno, la cosiddetta Mineraria. Danni pesanti ai telefoni e al telegrafo, più di cento stabili furono quasi distrutti e oltre centocinquanta danneggiati. Fu colpito gravemente lo stabilimento di Orlando Franchi in viale Vittorio Veneto e quasi distrutto il mulino Borgioli in vale Montegrappa. Rasa al suolo la Chiesa di San Giuseppe e pesantemente danneggiato l’oratorio di San Rocco, in via Santa Chiara. I morti furono due e quasi cinquanta i feriti. A rendere ulteriormente sconcertante e drammatica la situazione, la popolazione venne avvertita che da allora in poi – a causa dei danni alla corrente elettrica che non ne garantivano più la regolarità per azionare le sirene – gli allarmi sarebbe stati comunicati col suono a martello in sei riprese e di quindici secondi delle campane cittadine, mentre il cessato pericolo sarebbe stato dato col suono continuo a discesa di due minuti[2].

Il 21 gennaio 1944 i bombardamenti alleati colpirono Schignano uccidendo 6 ragazzi – che, spinti dalla curiosità, erano rimasti in zona scoperta per vedere il terrificante spettacolo delle bombe che cadono – e superati i Faggi di Javello, colpirono anche Tignamica e l’Isola, nei pressi della filatura Forti. L’8 febbraio 1944 venne bombardato il villaggio-fabbrica de La Briglia: al mattino la stessa formazione di aerei che distrusse l’antica pieve di Filettole a Prato – le cosiddette “fortezze volanti” – sganciarono grappoli di bombe sulla Briglia, probabilmente con l’intento di colpire il lanificio e bloccare così la produzione. La fabbrica venne colpita solo in alcuni reparti, mentre il paese venne devastato: abitazioni operaie e negozi intorno alla piazza centrale vennero pesantemente danneggiati, lasciando la popolazione nella miseria. Molti furono i feriti e quattro le vittime.

Il 7 marzo altro pesante bombardamento a Prato. L’incursione alleata devastò vaste aree del centro storico e della periferia a nord, come via Strozzi, Montalese, Bologna, Filicaia, Santa Margherita e San Fabiano, oltre alle piazze Mercatale, del Duomo, Sant’Agostino e Ciardi. Vennero colpite fabbriche e abitazioni, con un bilancio di sedici morti, diciotto feriti, centouno aziende danneggiate, cinquantaquattro case distrutte e quasi trecento danneggiate[3]. Il 18 maggio invece un bombardamento previsto a Vernio, destinato alla Grande Galleria dell’Appennino, colpì invece Poggiole, Ceraio, il viadotto ferroviario di Terrigoli e la fabbrica Peyron.

Il 7 giugno la contraerea tedesca abbatté l’aereo americano B-25J Mitchell difronte a S. Quirico, in località Carbonale, presso Poggiole. Visto l’intensificarsi dei bombardamenti, tra la primavera e l’estate dello stesso anno, l’esercito tedesco installò numerose postazioni difensive, minando edifici e obbligando la popolazione ad abbandonare le proprie case. All’inizio di giugno le forze nazifasciste iniziarono infatti a dislocare alcune batterie antiaeree presso S. Ippolito. Il 7 giugno una formazione di diciotto B25 (12ª Air Force americana), accompagnati da otto Spitfire inglesi, sorvolò Vernio verso le 17: appena arrivati in Val di Bisenzio la contraerea tedesca, posizionata al Pianatino e a Spazzavento nei pressi di S. Ippolito, colpì la coda di uno degli aerei, che si spezzò in volo. L’aereo (matricola 43-4059) cadde nei pressi della località Carbonale, nei boschi di Poggiole: nello schianto morì tutto l’equipaggio del velivolo tranne un componente, che riuscì a paracadutarsi fuori prima dell’impatto. I resti del bombardiere sono ad oggi custoditi e visitabili presso la Mostra permanente della Linea Gotica, organizzata dall’associazione Linea Gotica Alta Val Bisenzio A P S., a San Quirico di Vernio.

Il 30 giugno ci furono invece varie incursioni aeree su Vaiano, dove venne mitragliata la stazione. Il 24 agosto venne bombardata Montepiano. La chiesa diventò prima rifugio di sfollati di Vernio e Cantagallo, poi centro di smistamento di forza lavoro per le necessità belliche dei tedeschi.

La serie dei bombardamenti continuò fino al 30 agosto, il giorno prima che i tedeschi abbandonassero la città, dopo aver fatto saltare i ponti della Vittoria, del Mercatale e altri sull’autostrada. Solo da quel giorno si sarebbe conclusa la paura giornaliera delle sirene e la costante preoccupazione di vedersi distrutta la propria abitazione in un attimo. Dopo quasi un anno, la Val di Bisenzio tornava a guardare il cielo senza paura.

 

 

Note

 

[1] M. Di Sabato, La guerra nel pratese 1943-1944, Pentalinea, Prato, 1993, pp. 10-11.

 

[2] Ivi, pp. 20-26.

 

[3] Ivi, pp. 54-66.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nel novembre 2024.




La marcia della morte: da Molin dei Falchi a San Polo

Il valore della testimonianza e del ricordo sono fondamentali perché certi episodi non si verifichino più”. Così esordiva Laura Ewert il 14 luglio alla commemorazione della strage di San Polo, venuta appositamente dalla Germania in Italia per chiedere perdono. Suo nonno, il colonnello Wolf Ewert, è stato colui che ha ordinato quell’orribile eccidio, e dopo averlo recentemente scoperto per caso, sua nipote Laura non ha esitato a partecipare, per manifestare la propria “tristezza, dolore e vergogna”, all’ottantesimo anniversario di quella che è stata definita una delle più orrende e barbariche stragi protratte dai nazisti sul suolo italiano.

Il dottor Carlo Silli, che aveva assistito al disseppellimento delle salme, nella sua relazione scriveva: “Mai ho visto e mai ho potuto concepire la scena da incubo che si parava davanti ai miei occhi in quel boschetto di lecci dietro Villa Gigliosi… Tre fosse colme di cadaveri ammucchiati gli uni sopra gli altri, parte dilaniati da esplosivi, tutti con i visi tumefatti e con un aspetto trasfigurato da essere irriconoscibili…Ancora vivi, ma probabilmente tramortiti (non trovammo segni di arma da fuoco nella maggior parte) furono ammucchiati e ricoperti dalla terra nella quale morirono soffocati e poi furono fatti esplodere. Alcune delle salme erano atrocemente mutilate e frammenti di tessuti umani e di vestiti furono trovati sulle piante circostanti fino ad un’altezza notevole”[1].

Ed è per l’atrocità di questo eccidio con quell’orribile modo con cui si è consumato che la signora Laura Ewert si è abbandonata ad un pianto a dirotto, si è inginocchiata ed ha deposto fiori sulla lapide di Villa Gigliosi. Qui ha incontrato ed ha abbracciato la nipote di una sopravvissuta all’eccidio, qui ha cercato di capire, senza trovare alcuna spiegazione, il perché suo nonno dette quell’infausto ordine ai soldati della Wehrmacht, qui ha dichiarato che per lei “… è l’ora dell’ascolto, dalle testimonianze e dagli incontri… voglio tentare di capire perché tutto ciò successe. Viviamo tempi difficili, con guerre in corso e questo dimostra che non siamo del tutto fuori dal pericolo che certi momenti possano essere vissuti nuovamente”. E qui va considerato il valore del gesto di Laura perché è una delle rare volte in cui un discendente di un nazista chiede scusa per i misfatti combinati durante la seconda guerra mondiale.

Di tutte le grandi stragi del ’44 quella di San Polo oltre ad essere una delle più orribili e disumane per come è stata eseguita possiamo considerarla una delle più beffarde se pensiamo che fu messa in atto proprio quando gli Alleati erano ormai alle porte di Arezzo e si preparavano a lanciare l’offensiva per la liberazione della città. La dinamica di quel massacro fu frammentaria e complessa, fatta almeno di tre momenti distinti: i rastrellamenti nella notte fra il 13 e il 14 luglio con le fucilazioni nella zona di Pietramala e Molin dei Falchi, l’uccisione di 48 “rastrellati” a Villa Gigliosi e le fucilazioni di San Severo [2].

I fatti di San Polo furono l’epilogo di un’azione stragista, in parte pianificata, che in quattro mesi nella sola provincia aretina portò al compimento di 42 eccidi, raggiungendo il loro culmine per numero e per ferocia nel mese di luglio, quando le truppe naziste si trovarono ad affrontare l’aumento della combattività e la consistenza delle brigate partigiane da un lato e l’avanzata irrefrenabile degli alleati dall’altro. Quel “filo di sangue” ebbe inizio alla fine di giugno quando a Palazzo del Pero, in località l’Intoppo, vennero uccise 10 persone e proseguì a Badicroce, dove ne morirono nella notte tra il 3 e il 4 luglio altre 17. Seguirono successivamente le stragi dell’11 luglio compiute a Staggiano, Quota di Poppi, Matole di Cavriglia, Pogi e Castiglion Fibocchi, per poi giungere alla scena finale – per quanto riguarda il territorio aretino – dell’azione stragista del 14 luglio a Molin dei Falchi, Pietramala, San Polo e San Severo, eventi distinti ma che fecero parte di un’unica azione repressiva.

Nei primi giorni di luglio il Comando della Divisione Arezzo aveva cercato di realizzare un collegamento tra le varie formazioni partigiane operanti nella zona, in particolare tra il primo Battaglione Sante Tani della Brigata Pio Borri, dislocato nella zona di Poti – Molin dei Falchi, e gli alleati fermi lungo la Valdichiana, per mettere a punto una strategia per liberare la città di Arezzo [3]. La loro intenzione era quella di attaccare alle spalle quelle truppe tedesche che da alcuni giorni erano assestate sulle alture della Valdichiana per permettere la ritirata sulla Linea Gotica ostacolando l’avanzata degli Alleati.

Ma l’indisponibilità degli Alleati per questo progetto, non avendo al momento le truppe adatte alle operazioni di montagna, portò a concordare un piano che prevedeva l’invio in segreto di un gruppo di partigiani dentro la città di Arezzo il giorno 14 luglio, al fine di agevolare la discesa delle altre brigate che stazionavano nella zona di Poti. L’operazione effettuata contemporaneamente all’attacco delle truppe alleate alla Sella dell’Olmo avrebbe dovuto indebolire le difese tedesche agevolando così l’ingresso degli Alleati in città [4].

All’alba di quel 14 luglio i partigiani del primo Battaglione si affacciavano sulla displuviale di Poti pronti a marciare sulla pianura di Arezzo. Analogo movimento venne effettuato dai reparti del secondo Battaglione che non avevano ancora oltrepassato le linee di Palazzo del Pero. Compito di questi reparti era quello di conquistare la foce dello Scopetone, svolgendo un’azione di sostegno a quella contemporanea del primo Battaglione al quale avrebbero coperto il fianco [5].

Ma l’azione Alleata concordata per il 14 luglio non ebbe luogo e ciò dette la possibilità ai tedeschi di attaccare il mattino stesso le posizioni di San Severo e Molin dei Falchi. L’attacco fu preceduto da azioni di artiglieria e trovò le formazioni partigiane ancora in fase di schieramento offensivo, per cui queste non poterono reggere all’urto del fuoco nemico. Il ripiegamento dei partigiani avvenuto nella zona di San Severo provocò la reazione dei tedeschi che si accanirono sulla popolazione di quella località compiendo il primo eccidio di quella nefasta giornata [6].

Così scrive nel suo diario Almo Fanciullini, allora un ragazzo di quindici anni, il quale registrò con straordinaria lucidità tutto ciò che stava avvenendo intorno a lui in quei terribili mesi:

“Mercoledì notte arrivarono i tedeschi a San Severo (…) i partigiani scappando lasciarono sul luogo le loro armi ritrovate poi dai tedeschi (…) La popolazione visto che i tedeschi non molestarono nessuno non temeva grandi sorprese (…) ma stamani una decina di nazisti armati di mitra e di bombe a mano irrompevano in San Severo e catturavano 17 uomini, la maggior parte capi famiglia (come mio zio) e tra il pianto di bambini e di donne li portarono per un viottolo in direzione del Pineto. Pochi minuti dopo una volta scomparsi dietro una piccola vallatina a 500 metri dal caseggiato, si udirono raffiche di mitra. (…) tutti furono sfracellati da molti proiettili (…)” [7].

A San Polo già il 12 luglio era giunto il 274° reggimento tedesco, un reparto dipendente dalla 94° Divisione di fanteria [8], aggregato in quel momento alla 305° Divisione di Fanteria, agli ordini del colonnello Wolf Ewert, che requisì la villa dei fratelli Mancini e vi stabilì il comando.

I bombardamenti degli Alleati in quel periodo sempre più intensi si spinsero verso San Polo e molti degli sfollati, che avevano lasciato Arezzo per rifugiarsi nel paese, decisero di spostarsi nelle frazioni e nelle fattorie di montagna, come Pietramala e Molin dei Falchi, dove erano nascosti anche alcuni partigiani. Avevano lasciato San Polo nella speranza di salvarsi ed evitare di trovarsi in mezzo agli scontri che potevano verificarsi con l’arrivo degli Alleati che ormai erano alle porte di Arezzo. E di sicuro non immaginavano che quello sarebbe stato il loro ultimo viaggio…

I nazisti vennero a conoscenza di un concentramento di partigiani alle estreme pendici dell’Alpe di Poti, nei pressi di Pietramala, in seguito alla cattura di un giovane disertore tedesco, tale Heinrich Kruger, legato alla “Pio Borri”, che sotto tortura rivelò dove erano nascosti i prigionieri nelle mani dei partigiani. Erano gli uomini del comandante Siro Rossetti, che si preparavano a scendere su Arezzo per liberarla insieme agli Alleati in arrivo dalla Valdichiana. Secondo le testimonianze dello stesso Rossetti, rilasciate in più occasioni, la brigata aveva fatto prigionieri 19 tedeschi che il giorno 13 luglio erano tenuti a Molin dei Falchi e poi portati a Pietramala e rinchiusi in una grande autorimessa nei pressi di alcune case del paese [9].

Nella zona di Molin dei Falchi si trovava anche il comando di brigata, che si era spostato quella notte perché qui erano giunti, provenienti da Cortona, i partigiani Eugenio Calò, Angelo Ricapito e Villa, portatori di un messaggio del comando alleato.

I nazisti organizzarono un’azione che mirava alla liberazione dei propri commilitoni e non si limitarono solo a questo…

L’azione tedesca venne compiuta di sorpresa all’alba del 14 luglio quasi contemporaneamente all’eccidio che si consumava a San Severo: i tedeschi riuscirono a liberare i prigionieri, che fino ad allora erano stati sicuro pegno di garanzia per azioni di rappresaglia, ma che adesso non più vincolati dalla preoccupazione di ritorsioni, si sfogarono sulla popolazione, rastrellando decine di persone e dando alle fiamme le loro abitazioni [10].

Una quindicina di civili furono uccisi in questa prima fase del rastrellamento a Molin dei Falchi e Pietramala: almeno sette donne, due bambini e alcuni anziani.

Da qui inizia “la marcia della morte”: una lunga fila di prigionieri civili e partigiani tenuti legati col fil di ferro si trascinava verso San Polo, e man mano che si andava avanti le abitazioni venivano incendiate e aumentava il numero degli ostaggi, più il cammino proseguiva più la coda si allungava, con altri catturati nei pressi di Vezzano e Castellaccio, e coloro che non riuscivano a tenere il passo (una donna incinta, suo marito, alcuni bambini e anziani) venivano eliminati lungo il tragitto.

L’ordine di esecuzione fu emanato dal comandante del reparto Wolf Ewert ma avvallato da Klaus Konrad ufficiale del Reggimento, dal sottotenente Schmidt e dall’ufficiale austriaco Herbert Hantschk, sul quale è stata pronunciata la sentenza di primo grado nel febbraio 2007 dal Tribunale Militare di La Spezia. Dai vari interrogatori effettuati si può escludere la presenza a San Polo di reparti o unità SS, i soldati presenti appartenevano alla Wermacht, nonostante alcuni testimoni li abbiano scambiati per SS a causa del berretto tipo bustina con il bottone rosso e bianco [11].

La “lugubre processione” che si lasciava dietro una lunga scia di sangue arrivò a destinazione a Villa Gigliosi, a San Polo, posta a pochi metri da quella Villa Mancini sede del comando tedesco.

I soldati scesero in cantina con i loro ufficiali e si ubriacarono. Con le canne di gomma poi, che servivano per travasare il vino, presero a fustigare i prigionieri. Caddero svenuti sotto i colpi. I tedeschi costrinsero quelli rimasti in piedi a scavare tre fosse nel giardino e vi gettarono dentro tutti i prigionieri alcuni finiti a colpi di pistola altri tramortiti, iniziando a ricoprirli di terra, seppellendoli vivi e poi fatti esplodere” [12].

Alla fine del massacro le vittime furono 63, 48 delle quali civili, 8 furono le donne [13]. I tedeschi lasciarono Villa Mancini lo stesso pomeriggio del 14 luglio.

Una costante di tutte le testimonianze raccolte nelle varie epoche è quella di aver visto rastrellare ed uccidere senza pietà dai tedeschi indistintamente sia uomini, anziani, giovani, invalidi, donne, sfollati e partigiani di qualsiasi età o condizione. E questa stessa condanna totale e senza appello che i nazisti infliggevano alle popolazioni, agli inermi, agli innocenti, confermava un dato di fatto: “la convinzione che partigiani e civili fossero la stessa cosa, uniti nella lotta contro il nemico invasore, protagonisti tutti, in forme e modi diversi, di una guerra patriottica per la liberazione del suolo nazionale e per il rovesciamento di quei valori liberticidi, razzisti, reazionari che erano rappresentati dal nazifascismo”[14].

La vittima più giovane e più inerme fu un bambino di tre settimane, Dante Buzzini battezzato appena due giorni prima.

Ultimo ad essere ucciso fu lo studente di medicina Mario Sbrilli che prestava servizio in qualità di medico nella formazione partigiana: inizialmente risparmiato perché medico, poi freddato da un colpo di mitra per avere tirato uno schiaffo al generale nazista che stava torturando i suoi compagni.

La ferocia con cui si accanirono contro le vittime fu accentuata anche dalla partecipazione alla strage degli ex prigionieri tedeschi liberati poco prima, che scatenarono tutta la loro rabbia, la loro sete di vendetta in modo bestiale. Alla brutalità dell’operazione contribuì anche l’opera di Hans Plumer, medico tedesco pure lui ex prigioniero, che continuamente incitava i soldati ad eliminare tutte le persone incontrate, donne e bambini inclusi, urlando più volte che nella zona vi erano solo partigiani che dovevano essere giustiziati [15].

 

Luglio 1944 – Popolane aretine a San Polo in attesa di identificare le vittime.

 

L’immagine di queste donne ritratte immobili, quasi pietrificate, nell’atteggiamento di attesa e di atavica rassegnazione, che sono lì ad aspettare di poter riconoscere i propri cari tra quei corpi mutilati e sfigurati delle vittime di San Polo, è forse la spiegazione più esauriente dell’assurdità delle guerre, di qualunque guerra, di quelle di ieri e soprattutto di quelle di oggi che seminano tra i civili le vittime più numerose.

Luglio 1944 – San Polo: disseppellimento e identificazione delle vittime.

 

Luglio 1944 – San Polo: un carro agricolo per il trasferimento al cimitero.

 

Nei giorni successivi alla liberazione di Arezzo gli inglesi aprirono un’inchiesta sui fatti di San Polo, che non ebbe seguito. Nel 1972 il caso fu riaperto in Germania ma archiviato l’anno seguente. In Italia nel 1960 fu avviato un procedimento di provvisoria archiviazione e tutta la documentazione venne chiusa nel tristemente noto “Armadio della Vergona” custodito a Roma a Palazzo Cesi. Un intero archivio fu occultato con documenti che riguardavano stragi come quella di Marzabotto, delle fosse Ardeatine e tra gli eccidi toscani anche quello di San Polo. Solo nel 1994 “l’Armadio” venne riaperto e una commissione di indagine visionò tutto il materiale inviandolo poi alle procure militari. Nel 1995 il Tribunale Militare di La Spezia riaprì la pratica, finché nel 2007 arrivò la sentenza che assolse, per insufficienza di prove, Herbert Hantschk, l’unico soldato tedesco imputato sopravvissuto, che ormai ultraottantenne aveva atteso la sentenza nella sua casa a Vienna.

I sessant’anni della giustizia negata sono finiti per Civitella e Marzabotto, ma non per San Polo, che resta quindi impunita. Non per la storia che ha già indicato i responsabili nei soldati della 274° reggimento della Wehrmacht, ma per la legge.

 

Note:

[1] La testimonianza è riportata da Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’appennino toscano, Tipografia D. Badiali, Arezzo 1957, pp. 508-9.

[2] Salvatore Mannino, La giustizia divisa: Civitella e San Polo, cronaca e storia di due stragi, Protagon, Arezzo 2008, p. 152.

[3] Luciano Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, La nuova Europa, Carrara 1972, p. 232.

[4] A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, cit., p. 226.

[5] L. Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, cit. p. 233.

[6] Un dramma indimenticato che i nipoti di una delle vittime, Silvestro Lanzi, componenti della band “Casa del Vento” hanno reso immortale nella canzone “Notte di San Severo”, https://www.youtube.com/.

[7] Almo Fanciullini, Diario di un ragazzo aretino 1943-1944, Polistampa, Firenze 1996, p. 158.

[8] La 94 Divisione Tedesca traeva origine dalla analoga formazione perduta dai tedeschi a Stalingrado. Ricostruita in Francia, la divisione fu nuovamente distrutta a Cassino. I suoi resti operarono contro i partigiani in Val Tiberina e, poi a San Polo. Subito dopo San Polo risulta trasferita a Ferrara e poi Udine per la ricostruzione, in Enzo Droandi, La Battaglia per Arezzo 4-20 luglio 1944, Luciano Landi Editore, Arezzo 1984, p. 16.

[9] Memoria di un eccidio: San Polo1944, Le Balze, Montepulciano 2003, p. 41.

[10] A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, cit., p. 242.

[11] Memoria di un eccidio, cit. p. 44.

[12] L. Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, cit. p. 235. Nella testimonianza rilasciata di fronte alla Court of Inquiry alleata, nel dicembre 1944, il proprietario della villa, Alfredo Mancini, racconta le terribili torture subite dagli ostaggi e in particolare dai partigiani che, secondo l’inchiesta britannica, sarebbero stati soltanto sei, una stima probabilmente difettosa, in Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili: le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2008, p. 147.

[13] Questa stima appare secondo lo storico G. Fulvetti la più realistica, in Ivi, p. 135.

[14] Ivan Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana: la storia, la memoria, Pagnini, Firenze 1994, p. 14.

[15] G. Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 135.

 

Bibliografia sull’argomento:

Chianini Vincenzo, Gli Unni in Toscana, Valecchi, Firenze 1946.

Curina Antonio, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Tip. Badiali, Arezzo 1957.

Droandi Enzo, Arezzo distrutta 1943-44. Calosci, Cortona 1995.

Droandi Enzo, La battaglia per Arezzo 4-20 luglio 1944, Luciano Landi Editore, Arezzo 1984.

Fanciullini Almo, Diario di un ragazzo aretino 1943-1944, Regione Toscana- Consiglio regionale, Firenze 1996.

Foghini Curzio, San Polo: ricordi di famiglia e di guerra, Letizia Editore, Arezzo 2018.

Fulvetti Gianluca, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009.

Mannino Salvatore, La Giustizia divisa. Civitella e San Polo: cronaca e storia di due stragi, Protagon, Arezzo 2008.

Memoria di un eccidio: San Polo 1944, Le Balze, Montepulciano 2003.

Tognarini Ivan (a cura di), Guerra di sterminio e resistenza, ESI, Napoli 1990.

Tognarini Ivan (a cura di), La guerra di liberazione in provincia di Arezzo, 1943/1944. Immagini e documenti, Amministrazione provinciale, Arezzo 1988.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di ottobre 2024.

 

 




L’occupazione tedesca di Prato

Mesi infernali tra rastrellamenti e bombardamenti alleati. È questa la tragica situazione a cui dovettero sopravvivere i cittadini pratesi durante l’occupazione nazifascista. L’attenzione che fu data a questa città merita però una premessa obbligatoria, per spiegare perché ricevette un trattamento simile. Prato è una città industriale, definita proprio “di industria”, dove le imprese risiedono direttamente all’interno della città e non in zone periferiche esterne al perimetro abitativo, come nel caso di Firenze. Qui sono collocate proprio nel centro cittadino, creando un rapporto strettissimo tra realtà industriale e città. Ecco perché i bombardamenti avranno conseguenze ancor più devastanti, perché colpirono il centro abitativo e l’industria simultaneamente, mettendo in alcuni momenti in ginocchio la popolazione.

Dopo i fatti del 25 luglio 1943, anche Prato fu fra le città che videro una forte mobilitazione della cittadinanza che pretendeva il ritorno alla libertà e alla pace. Una sommossa popolare e antifascista che si interruppe il 10 settembre, con l’irruzione dell’esercito tedesco che occupò la città e restaurò il potere fascista, rendendo la vita impossibile per tutti quegli antifascisti che si erano maggiormente esposti tra il 25 luglio e l’8 settembre, e che furono arrestati o costretti a scappare dalla città. Per fronteggiare questa nuova situazione iniziò l’organizzazione delle formazioni partigiane. Di fatto il primo vero scontro con le forze fasciste arriverà soltanto nei primi giorni dell’anno seguente: la battaglia di Valibona. Si svolse la mattina del 3 gennaio del 1944 in località Valibona, sulla Calvana, al confine fra i comuni di Calenzano e Prato. Fra i casolari di Valibona si era, infatti, fermata un gruppo partigiano guidato da Lanciotto Ballerini nel corso di una marcia verso il pistoiese per raggiungere la formazione guidata da Manrico Ducceschi. I rastrellamenti sempre più frequenti resero pericolosa la permanenza sul Monte Morello, in prossimità di Firenze, dove Ballerini si trasferì dopo l’8 settembre del ’43, dando vita ad una formazione armata, e lo spinsero al trasferimento. Mentre molti partigiani comunisti si erano diretti dai propri compagni sul Monte Giovi, con Ballerini ne rimasero diciassette, prevalentemente sestesi e campigiani, fra cui anche due prigionieri russi, due slavi e un prigioniero inglese. Giunti a Valibona, il gruppo decise di sostare per riposarsi. Ma nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 1944 furono circondati da elementi del 1° Battaglione volontari Bersaglieri “Muti”, una formazione della guardia repubblichina guidata da Duilio Sanesi, comandante del presidio di Prato, Carabinieri e fascisti dei Comuni limitrofi, reparti agguerriti, ben armati e equipaggiati, giunti sia da Vaiano che da Calenzano, che li avevano individuati grazie alla delazione di una spia. Il soldato sovietico Mirko, svegliatosi per un bisogno, accortosi del nemico, avvisò Ballerini. Rifiutata la resa combatterono intensamente. La battaglia divampò per circa tre ore e mezzo. Considerata la situazione Ballerini comprese che l’unica via d’uscita era tentare una sortita per spezzare l’accerchiamento. E lanciò il contrattacco. L’iniziativa riuscì e, nonostante la disparità di numero e di mezzi, nove componenti del gruppo sfuggirono all’assedio. Lo scontro si concluse con cinque perdite fasciste e tre partigiane, dimostrando l’organizzazione e la tenacia della resistenza toscana. Fu questo scontro a dare vigore e consapevolezza sul territorio dell’esistenza di forze che si opponevano all’occupazione nazifascista, dando più forza alla Resistenza. Un processo rafforzato ancor più dallo sciopero dei primi di marzo[1].

Fu promosso dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia) a partire dal 1° marzo del 1944 in tutti i territori ancora occupati dall’esercito tedesco. Furono principalmente i comunisti ad insistere per lo sciopero, per consolidare i successi ottenuti dai primi episodi della Resistenza, per migliorare le condizioni materiali dei lavoratori, per chiedere la fine della guerra e per dare un ulteriore segnale di lotta. Ebbe ovunque un successo inaudito. Dagli oltre sessantamila operai di Torino a Milano, dove fu bloccata la circolazione dei mezzi pubblici, l’Italia occupata si ribellava platealmente al comando tedesco. A Prato i giorni che lo precedettero furono di alta tensione, proprio a causa del modello produttivo della città, dell’inattività totale o parziale di alcune aziende e del timore di una ritorsione da parte di fascisti e nazisti. Per questo lo sciopero ebbe inizio solo il 4 marzo, ma la mobilitazione fu totale. Nonostante le iniziali preoccupazioni sopra descritte, la partecipazione riguardò non soltanto i lavoratori comunisti o vicini al partito, ma persino molti che erano stati fascisti convinti. L’entità dell’adesione sorprese non soltanto le autorità fasciste ma anche gli stessi organizzatori. Prato era presente. Lo scioperò proseguì anche lunedì 6 e martedì 7 marzo, in un clima di mobilitazione totale, tanto è che il CLN perse il controllo dello sciopero stesso, a causa della mancanza di collegamenti e referenti nelle molte aziende del territorio pratese. La situazione si stabilizzò solo a partire dall’8 marzo, dove la quasi totalità dei lavoratori tornò al lavoro. Ma subito iniziò la dura risposta da parte dei nazifascisti[2].

Ma proprio in quelle ore Prato visse un altro terribile dramma: i bombardamenti degli alleati. La città nei mesi precedenti ne aveva subiti una decina, arrivando a contare più di cinquanta morti. E quello della mattina del 7 marzo non fu da meno. L’incursione alleata devastò vaste aree del centro storico e della periferia a nord, come via Strozzi, Montalese, Bologna, Filicaia, Santa Margherita e San Fabiano, oltre alle piazze Mercatale, del Duomo, Sant’Agostino e Ciardi. Furono colpite fabbriche e abitazioni, con un bilancio di sedici morti, diciotto feriti, centouno aziende danneggiate, cinquantaquattro case distrutte e quasi trecento danneggiate[3]. Il dolore dei familiari dei morti, lo sgomento di chi non aveva più una casa, la paura di un nuovo bombardamento, furono queste le sensazioni che in quel 7 marzo inondarono le strade di Prato e che presero velocemente il posto dell’orgoglio portato dallo sciopero. Eppure, quell’azione che, nell’idea degli alleati, tanto doveva destabilizzare i tedeschi, finì per farlo alla popolazione, talmente straziata e stanca che non capì subito quello che stava per accadere.

Contemporaneamente scattò la repressione nazista. Arrivò da Hitler in persona l’ordine di deportare il venti per cento della manodopera in seguito agli scioperi di marzo. Un ordine che dimostra tanto la collera dell’azione punitiva quanto la sorpresa che ebbero i tedeschi davanti alla capacità di mobilitazione dei lavoratori italiani. In base agli ordini arrivati da Berlino, i fascisti locali avrebbero dovuto consegnare millenovecento scioperanti: una cifra al limite dell’irraggiungibile se si considera che la popolazione di Prato al tempo non arrivava alle quarantamila unità. Ma questo, ad una Germania arrivata al culmine dello sforzo bellico e bisognosa di manodopera, non interessava affatto. Fu così che allora i fascisti pratesi, aiutati dalle forze della RSI fiorentina e lucchese, bloccarono gli incroci principali della città e catturarono tutti gli uomini che ebbero la sfortuna di passarci davanti. Oltre che per le strade, i lavoratori furono prelevati direttamente anche in tre aziende: alla Guido Lucchesi, alla Campolmi e alla Sbraci Vasco. Questo rastrellamento indiscriminato fece sì che non tutti gli arrestati fossero degli antifascisti o lavoratori aderenti allo sciopero: la situazione si era talmente confusa che furono deportati anche dei fascisti convinti. Per tutto il giorno del 7 marzo, e fino a quando lo si ritenne redditizio continuò il rastrellamento indiscriminato di persone. Alla fine, i circa centotrentasette arrestati furono trasferiti con dei pullman a Firenze, precisamente alla Scuole Leopoldine, in piazza Santa Maria Novella. Qui, dopo esser stati registrati, ed in alcuni casi interrogati, furono scortati dalle forze tedesche presso la Stazione Centrale. Lì si trovarono di fronte alcuni carri ferroviari, quelli usati per il trasporto del bestiame, dove furono costretti a salire. Dopo tre giorni interminabili di viaggio arrivarono a Ebensee, uno degli oltre quarantanove campi che dipendevano da Mauthausen. Ne torneranno solo ventuno[4].

Eppure, anche con questa prova di forza perpetuata dai tedeschi, il lavoro nelle aziende non riprese regolarmente, sia perché una parte delle maestranze era stata deportata, sia perché la situazione era radicalmente cambiata proprio in virtù di quella reazione, che aveva profondamente inciso sulla mentalità degli operai. Essi, infatti, una volta tornati al lavoro, sperando in una rapida avanzata alleata, iniziarono a boicottare la produzione come mai avevano fatto. La stessa struttura produttiva della città era stata notevolmente ridimensionata dai bombardamenti alleati e molti industriali preferirono allora aspettare il risarcimento dei danni di guerra anziché cercare di rimettere in funzione gli impianti per i tedeschi. A causa di tutto ciò, la produzione di guerra a Prato subì un vero tracollo[5].

Questo resta il culmine di un’occupazione che vedrà la città nei mesi seguenti ancora vittima dei bombardamenti alleati e delle ritorsioni nazifasciste. Bisognerà aspettare il 6 settembre per assistere alla liberazione di Prato, un giorno di isperata felicità ma che coincide con l’ennesimo eccidio di matrice nazista nel pratese: ventinove giovani partigiani vengono catturati alla fine di uno scontro a fuoco avvenuto nella notte precedente e vengono impiccati nel paese di Figline.

 

 

 

Note

 

[1] M. Di Sabato e G. Gregori, Fatti e personaggi della Resistenza di Prato e dintorni: dalla caduta del fascismo alla Liberazione (luglio 1943-settembre 1944), Pentalinea, Prato, 2014, pp. 19-46.

 

[2] M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Bologna, 1987, pp. 79-97.

 

[3] M. Di Sabato, La guerra nel pratese 1943-1944, Pentalinea, Prato, 1993, pp. 54-66.

 

[4] M. Di Sabato e G. Gregori, Fatti e personaggi della Resistenza di Prato e dintorni: dalla caduta del fascismo alla Liberazione (luglio 1943-settembre 1944), Pentalinea, Prato, 2014, pp. 52-55.

 

[5] M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Bologna, 1987, p. 104.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nell’ottobre 2024.