Note su le “Resistenze al femminile”, per rileggere la Resistenza come tappa verso l’emancipazione

Teresa Catinella e Caterina Carpita - Università di Pisa - Biblioteca Franco Serantini

Appunti e ipotesi per nuove prospettive di ricerca.

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L’80esimo della Liberazione dal nazifascismo è stato costellato di iniziative, pubblicazioni, convegni caratterizzati sul tema delle Resistenze al femminile. Anche la Rete Toscana degli istituti storici della Resistenza si è inserito in questo filone con una prima sperimentazione di campagna social condivisa e una pubblicazione Resistenza, femminile plurale. Storie di donne in Toscana curata da Francesca Cavarocchi, che ha visto la partecipazione in sinergia di molte volontarie e molti volontari degli istituti locali. Il progetto, sviluppato sulla base della documentazione conservata e raccolta negli archivi della Rete, ha dato vita alla ricostruzione e all’analisi di cinquanta biografie di donne che hanno partecipato al processo resistenziale in Toscana; permettendo, inoltre, di riflettere anche sullo stato dell’arte delle conoscenze e degli studi relativi al tema.

Si è trattato di un primo passo nel nostro approccio collettivo al tema, a cui abbiamo affiancato l’organizzazione di una tavola rotonda promossa dalla Biblioteca Franco Serantini, dedicata alla presentazione e alla discussione critica dei risultati, in previsione della continuazione di un lavoro di rete, insieme a Matteo Mazzoni, Ilaria Cansella e Francesca Cavarocchi. Nell’analisi delle Resistenze al femminile come un processo storico di lungo periodo dell’emancipazione femminile, riteniamo fondamentali come metodo interpretativo i seguenti quattro assi:

– la Resistenza come un tassello nel percorso lungo di agency femminile nello spazio pubblico e di incontro/scontro dei rapporti di genere;

– le pratiche all’interno di un gioco di tradizioni e di cesure;

– il metodo, il linguaggio, le narrazioni delle biografie tra fonti e letteratura secondaria;

– il nostro sguardo critico filtrato dal presente sulla Resistenza come momento del passato in cui la concretizzazione di una parità fra i sessi sembrava possibile.

Leggere la Resistenza in una prospettiva di genere significa collocarla all’interno di un processo storico di lunga durata, che affonda le proprie radici nell’Italia postunitaria e nel primo femminismo, con le sue rivendicazioni emancipazioniste e suffragiste. Un movimento composito, attraversato da culture politiche e traiettorie diverse, che ha legato strettamente l’emancipazione femminile alla trasformazione dei rapporti di genere. Un nodo centrale di questo percorso è rappresentato di fatto dalla Prima guerra mondiale: la mobilitazione bellica e la conseguente diversificazione economica produssero un ampliamento dell’accesso femminile al lavoro extradomestico, soprattutto nelle fabbriche e nelle industrie belliche, generando una visibilità pubblica inedita per molte donne. La partecipazione al sacrificio della guerra sul fronte interno – inteso come spazio di organizzazione della produzione e della vita quotidiana – contribuì così a ridefinire le forme di agency femminile e a legittimare istanze di cittadinanza politica, come il suffragio.

Quell’esperienza, ambivalente e contraddittoria, costituì tuttavia un precedente storico significativo per comprendere le forme di partecipazione femminile nel Secondo conflitto mondiale e nella Resistenza. In un contesto bellico divenuto “totale” e civile, le donne attraversarono nuovamente lo spazio della guerra, condividendolo in promiscuità – anche in maniera conflittuale – con gli uomini. Non si trattò solo di una presenza nella lotta armata partigiana, ma anche di una partecipazione attiva all’interno di luoghi da sempre connotati in termini di genere: non solo la casa, ma anche spazi collettivi come i mercati, le piazze, le vie dei rifornimenti. Questo sconfinamento tra pubblico e privato aprì nuovi margini di azione politica e simbolica, mettendo radicalmente in discussione i ruoli di genere consolidati, come dimostra l’esempio di Francesca Rolla e delle donne della rivolta di piazza delle Erbe del luglio 1944.

Ragionare dunque sulle pratiche di Resistenza in una prospettiva di genere significa compiere un passo ulteriore nell’interpretazione storica, sottraendosi a ogni lettura che isoli l’esperienza femminile come eccezionale o straordinaria. Al contrario, molte delle forme di agencysviluppate dalle donne durante la Resistenza, come le cosiddette pratiche di cura, affondano le loro radici in una cultura materiale e simbolica sedimentata nel tempo, lungo percorsi di genere storicamente strutturati.

Fin dal XIX secolo, nell’ambito dei processi di nation building, alle donne furono assegnati infatti ruoli centrali nell’educazione, nell’assistenza e nel mutualismo, spesso in ambiti promossi da movimenti cattolici e socialisti e, in assenza di diritti politici, fu proprio in questi spazi che molte donne poterono esercitare una forma di azione politica concreta. È qui che il primo femminismo, nella sua varietà, sviluppò una pratica politica quotidiana, fondata su attività filantropiche e associative. Il femminismo “maternalista” si basava pertanto sulla valorizzazione della differenza tra i sessi: le virtù tradizionalmente attribuite al femminile – cura, responsabilità morale, relazionalità – venivano rivendicate come risorse civili e politiche. Una cultura del materno che riconosceva il valore sociale della maternità, ma che contribuiva anche a rafforzare la divisione di genere nei compiti e nei ruoli.

Questo modello fu interiorizzato e strumentalizzato dal ventennio fascista, in un contesto educativo e culturale che insisteva sul duplice ruolo produttivo e riproduttivo delle donne, mantenendole però invisibili all’interno dello spazio domestico. È proprio tale interiorizzazione – paternalistica e patriarcale – che, in epoca resistenziale, venne in parte risignificata e messa a frutto in contesti nuovi: le competenze legate alla cura, alla protezione e all’assistenza, apprese nel quotidiano, furono rielaborate e trasferite nei luoghi della lotta.

La scelta della resistenza in armi per le donne, ad esempio, è stata spesso interpretata come un sovvertimento radicale dei ruoli di genere, in quanto infrangeva un modello educativo fondato su un rigido binarismo sessuale. Tuttavia, occorre interrogare anche la categoria stessa di “straordinarietà” con cui tale gesto viene frequentemente descritto. Imbracciare le armi rappresenta un atto straordinario non solo per le donne, ma anche per molti uomini. In questo senso, la scelta resistenziale e l’assunzione del gesto bellico costituisce una rottura per entrambi i generi, e non può essere letta esclusivamente come sovversione femminile, ma come una più ampia frattura nei modelli educativi e nei codici culturali dell’epoca.

All’interno delle riflessioni sul “fare storia” delle Resistenze al femminile è utile fare ricorso alla costruzione di narrazioni biografiche, poiché si tratta di una forma di restituzione duplice delle traiettorie individuali e delle pratiche di resistenza, a cui possiamo così (ri)dare luce e dignità, e al tempo stesso perché ci consente di socializzare gli avvenimenti storici attraverso la concretezza delle condizioni esistenziali reali delle attrici attive e trarre interpretazioni sul fenomeno generale. La storiografia femminista dagli anni Settanta ha permesso un allargamento del concetto stesso di resistenz(e), con la messa al centro del racconto storico delle soggettività, delle voci delle donne che hanno vissuto in prima persona e poi rielaborato nel corso degli anni della prima Repubblica la propria esperienza durante il biennio 1943-1945. Assunti tali dibattiti storiografici, dopo la stagione degli anni Novanta non abbiamo avuto nuovi impulsi metodologici né si è verificata un’ampia raccolta di nuove fonti e biografie, anche a causa della progressiva scomparsa delle protagoniste. Facciamo perciò ricorso alla storiografica, alla memorialistica, alla diaristica, a carte e ricerche di seconda mano che sappiamo restituirci dei frammenti, delle pratiche, dei nomi e delle biografie (quando siamo fortunate e forse soprattutto per i casi più noti). Un rigoroso approccio di metodo oggi ci interroga, quindi, sull’uso delle fonti primarie e secondarie con uno sguardo critico, capace di cogliere le distorsioni dei giudizi emessi nel corso di questi ottant’anni, comprese le categorie “stereotipate” e la rigida divisione delle pratiche armate e “disarmate”. Di fronte al reiterare dell’utilizzo di termini quali eroine, martiri, “poche feroci” in armi, “staffette”, abbiamo l’obbligo di procedere secondo una riflessione e una scrittura del racconto storico che non le riproponga assorbendone la forma acriticamente.

Per andare “oltre” i percorsi biografici più noti, abbiamo la necessità di riguardare la documentazione “classica” disponibile come le relazioni partigiane, il fondo sui riconoscimenti partigiani (Ricompart) e la storiografia con occhi nuovi, con la consapevolezza che spesso ne emergono frammenti di storie. Il taglio di genere deve spingerci a guardare in controluce le fonti, a osservare i vuoti non come assenze ma anzi come presenze non ancora scoperte e raccontate, alla ricerca di documentazioni inedite, ad esempio, provenienti da archivi privati.

Nella recente riedizione di Compagne di Bianca Guidetti Serra, Benedetta Tobagi firma l’introduzione e scrive riguardo le biografie politiche contenute nel volume:

Rappresentano, ieri come oggi, un modello di impegno generoso, coraggioso, disinteressato. E non solo per affrontare le tante questioni di genere ancora dolorosamente aperte, dalle perduranti disparità salariali alle molestie, dalla violenza vera e propria all’iniqua ripartizione del carico domestico e del lavoro di cura, al fatto che – la stagione del Covid insegna – le prime a essere lasciate a casa dal lavoro nelle stagioni difficili restano sempre le donne[1].

Crediamo che sia questo lo sguardo con cui noi oggi guardiamo a quel frangente storico: alle biografie, alle pratiche e alle scelte delle donne, per rileggere la Resistenza come tappa verso l’emancipazione, come quel momento del passato in cui i sessi si sono incontrati nella lotta comune fondante per la parità che ancora non sembra pienamente giunta a compimento.

Pertanto siamo convinte che il terreno sia fertile per studiare la Resistenza con un approccio di genere che superi una visione ghettizzante delle “donne nella resistenza” e avvii una nuova fase di ricerche che sappiano introdurre lenti di analisi che valorizzino le specificità di un’esperienza che è però collettiva.

 

[1]     B. Guidetti Serra [a cura di], Compagne: testimonianze di partecipazione politica femminile, introduzione di B.Tobagi, postfazione di S. Mobiglia, Torino, Einaudi, 2025.

 

Articolo pubblicato nel dicembre del 2025.

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