Prima della strage: gli anni Trenta, le relazioni industriali e l’opposizione al regime nella miniera di Niccioleta

L’ex miniera di Niccioleta – frazione del Comune di Massa Marittima in provincia di Grosseto – è nota soprattutto nella memoria pubblica per l’efferata strage1 nazifascista del 13-14 giugno 1944, quando 83 minatori furono massacrati tra il piccolo borgo minerario e Castelnuovo Val di Cecina (Pi), nei giorni della ritirata tedesca.

In questa sede non ci soffermeremo sull’analisi della dinamica di questo episodio già accuratamente studiato, ma sulla portata di quei comportamenti di dissidenza e opposizione al fascismo diffusi tra i minatori di questo villaggio minerario nel corso degli anni Trenta, ritenuti di massimo consenso al regime. A tal fine crediamo necessaria una panoramica sulle difficili condizioni socio-economiche degli operai di questo contesto produttivo, che alimentarono lo scontento e li indussero a manifestare il loro sentimento antifascista anche con gesti eclatanti, ben prima dell’antifascismo organizzato manifestatosi con la lotta di Liberazione.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2056)

Dopo le prime operazioni di ricerca avviate dall’inizio degli anni Venti, la miniera2 di pirite di Niccioleta di proprietà della Società Montecatini entrò definitivamente in funzione nel 1929, quando fu stipulato il contratto di lavoro per i primi 150 operai. Era solo l’inizio di questa attività produttiva, che garantì al colosso della Montecatini il monopolio della pirite italiana, la materia prima fondamentale per la produzione di acido solforico, impiegato per le esigenze dell’industria chimica e per la produzione di fertilizzanti per l’agricoltura. Negli anni successivi i lavori furono rapidamente ampliati e crebbero sia le maestranze che la produzione3. In Maremma la Montecatini era già attiva dal 1899 e, per quanto riguarda la pirite, deteneva la proprietà anche delle miniere di Gavorrano e Boccheggiano. Nei primi anni Trenta fu inaugurato un imponente sistema di teleferiche, il più lungo d’Europa (oltre 40 km), che permetteva di collegare le tre miniere con Scarlino scalo: da qui il minerale estratto veniva caricato sui treni o condotto a Portiglioni per esser spedito via mare. All’inizio degli anni Trenta e fino al 1940 a Niccioleta fu dato avvio alla costruzione del vero e proprio villaggio minerario di impronta architettonica razionalista, organizzato secondo un ordine gerarchico e dotato dei principali servizi.

Le condizioni di vita degli addetti alle miniere non furono però mai facili. Già nel 1926 venivano denunciate le manchevolezze del sindacalismo fascista4 da parte del sindaco di Massa Marittima, Innocenzo Vecchioni, che riferiva sia «l’abbandono pressoché continuo di questa massa benemerita per parte di chi è preposto alla sua tutela economica e morale», sia le angherie di alcune direzioni di miniere verso le masse dei lavoratori organizzati nel sindacato fascista, riferendosi in particolare «ai licenziamenti o retrocessioni di grado per ripicche verso chi ha un grado nell’organizzazione, come è avvenuto nelle Miniere Niccioleta e Accesa»5. Dal canto suo, il segretario provinciale dei sindacati fascisti, Gino Finotello, rilevava il mancato rispetto dei concordati di lavoro da parte delle imprese, in primis nella parte riferita ai cottimi6. Nello stesso anno il segretario federale Ferdinando Pierazzi e Finotello7 si recarono a Roma presso i vertici delle organizzazioni politiche e sindacali, per far presente la necessità di rinnovare o elaborare contratti equi in favore delle maestranze operaie locali, i cui guadagni erano giudicati largamente insufficienti alle necessità di vita. Dopo la lunga e difficile opera di conciliazione per i patti collettivi di lavoro ispirati ai principi corporativi (nel 1928 furono stipulati quelli per i minatori e gli operai metallurgici), in provincia cominciò ad assumere proporzioni preoccupanti la disoccupazione, dovuta principalmente alla crisi dell’industria mineraria e al ristagno dell’edilizia. La concorrenza estera, la minor richiesta dei mercati, le carenze infrastrutturali, la scarsa competitività dovuta agli alti costi e alla bassa qualità di alcune produzioni erano le cause principali delle difficoltà economiche in Maremma, inserite nel ben più ampio contesto della grave crisi economico-finanziaria internazionale, il cui episodio più eclatante fu il crollo della borsa di Wall Street nell’ottobre 1929, che comportò anni di recessione.

Tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta la crisi colpì principalmente le industrie estrattive, edili, chimiche, metallurgiche e del legno, traducendosi in sospensioni o chiusure di attività, riduzioni delle giornate lavorative, continui licenziamenti, all’interno di contesti produttivi divenuti sempre più minacciosi e autoritari.

Alla fine degli anni Venti, tra tutte le miniere della Montecatini la situazione era particolarmente critica a Gavorrano8, dove il lavoro era ridotto a cinque giorni settimanali, le paghe erano molto basse, quelle sui cottimi venivano periodicamente ridotte e le maestranze erano molto scontente e conducevano una vita di ristrettezze con forti ricadute sullo stato di salute, come dimostravano le statistiche degli ammalati. Solo il 30 novembre 1929 furono stabilite le nuove tariffe salariali9 per i minatori della Montecatini, dopo l’accordo siglato tra l’Unione industriale fascista della provincia di Grosseto e l’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria. Pur vantando che l’apertura della miniera di Niccioleta aveva rappresentato il segno della volontà di dar massimo impulso all’attività estrattiva, nell’ottobre 1931 la Montecatini fece presente la gravissima contrazione nei programmi commerciali di collocamento e vendita delle piriti estratte nelle miniere maremmane. In sei mesi fu accumulato uno stock per oltre 100mila tonnellate nonostante l’orario ridotto e i licenziamenti degli operai, poiché la Germania – principale mercato estero – aveva denunciato i contratti di forniture e rinunciato a nuovi acquisti, mentre la domanda era calata pure nel mercato interno per la diminuzione della produzione del susperfosfato per l’agricoltura10. La società optò, dunque, per i licenziamenti degli operai di minor resa nelle miniere di pirite maremmane. Il 1° ottobre 1931 persero il lavoro 88 operai della miniera di Niccioleta e 57 di quella di Boccheggiano. Un altro duro colpo per i minatori della Montecatini si verificò il 17 ottobre 1931, quando in sede ministeriale furono concordate le riduzioni salariali del 21%11. Il 21 ottobre 1931, durante il cambio turno, circa cento operai della miniera di Gavorrano rivolsero ingiurie al direttore della miniera e ripresero i lavori con mezz’ora di ritardo. Intervenne Solimeno Petri, commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria, che chiese l’intervento del Comitato intersindacale al fine di riesaminare la questione della riduzione salariale (ristabilendo un guadagno giornaliero di almeno 12 lire per gli adulti e otto per donne e ragazzi), mantenere le cinque giornate lavorative settimanali e infine creare spacci aziendali – a cura della Montecatini – per alleviare lo stato di disagio dei lavoratori12.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2057)

Il prefetto di Grosseto Giovanni Tafuri sollecitò l’intervento del Ministero delle Corporazioni, che nel dicembre 1931 cercò vanamente di convincere la Montecatini – che aveva già licenziato 350 operai – a mantenere le cinque giornate lavorative, evitando il licenziamento di altri 350 lavoratori. Quest’ultima non si mosse però dalle condizioni poste (riduzione a quattro delle giornate lavorative settimanali con il licenziamento di 350 lavoratori o mantenimento delle cinque giornate lavorative con il licenziamento di ben 700 operai), scegliendo la seconda opzione e facendo presente che solo per questioni di ordine politico non aveva ancora provveduto al licenziamento del secondo scaglione di 350 lavoratori13. Un episodio che dimostra la subalternità e la scarsa capacità d’imposizione dello stesso Ministero nei confronti della Montecatini.

La situazione era particolarmente critica pure alla miniera di Niccioleta e rischiava seriamente di compromettere il consenso al regime. Circa 200 dei 350 operai occupati nel borgo minerario non acconsentirono al pagamento dei contributi sindacali e al rinnovo della tessera per l’anno 1932, motivando tale dissenso con le loro disagiate situazioni economiche. Il Comando dei carabinieri di Massa Marittima dispose indagini per verificare che fra la massa operaia non vi fossero sobillatori che agivano per scopi antinazionali14. Stessa cosa era successa a Boccheggiano, dove 300 operai avevano rifiutato il rinnovo della tessera sindacale a causa del suo aumento da sei a 10 lire, mostrando al contempo un forte malcontento per le loro tristi condizioni economiche e per il generale disinteresse del sindacato verso le loro problematiche15.

Nell’aprile 1932 fu lo stesso Direttorio federale grossetano a richiedere la revisione dell’accordo salariale al Ministero delle Corporazioni, dopo aver constatato che gli operai dipendenti dalle miniere di Boccheggiano e Niccioleta percepivano un salario medio giornaliero di 10 lire lavorando cinque giorni a settimana. Si trattava di un guadagno ritenuto insufficiente alle più stringenti necessità quotidiane, che aveva depresso lo stato d’animo dei minatori con ripercussioni in campo politico16. In quel periodo la produzione annua totale delle tre miniere di pirite della Montecatini (Gavorrano Niccioleta e Boccheggiano), più quella di Ravi di proprietà della Società Marchi, ammontava a circa 400mila tonnellate. Il 15 giugno 1932 il prefetto Celi tornò dunque a invocare l’adozione di misure protezionistiche presso il Ministero delle Corporazioni, poiché, stando ai dati da lui recepiti, porre il divieto d’importazione alle 150mila tonnellate di pirite provenienti da Spagna e Grecia avrebbe giovato alla Montecatini, che sarebbe potuta tornare alle sei giornate lavorative nelle sue miniere, con l’assunzione di nuova manodopera17.

Nulla si mosse però a livello governativo. Il 30 luglio 1932 la direzione della miniera di Montecatini di Gavorrano affisse i manifesti che comunicavano il licenziamento di 250 operai. Scoppiarono così nuovi disordini, con circa 300 minatori che si radunarono davanti alla direzione stessa, emettendo grida ostili e lanciando pure qualche sasso contro gli uffici Bedeaux18. Quest’ultimo è il nome dell’inventore del sistema omonimo di razionalizzazione del lavoro volto ad aumentare la produttività, che fu introdotto anche nelle miniere maremmane della Montecatini a partire da quella di Gavorrano dal 1° marzo 1932, tra le lamentele degli operai e una notevole diffidenza anche da parte delle autorità fasciste. Tale sistema si basava sulla scomposizione analitica del lavoro e per le paghe si allacciava a meccanismi d’incentivi a partire dall’unità Bedeaux, corrispondente alla quantità di lavoro che poteva essere svolto da un operaio, in condizioni normali, in un minuto.

Il segretario federale Vecchioni, rivolgendosi al Ministero delle Corporazioni, considerò l’atteggiamento degli operai come diretta conseguenza degli inqualificabili sistemi della Montecatini e della mancanza di comprensione dei dirigenti della miniera. Le autorità fasciste maremmane temevano che il calo della produzione e i licenziamenti avrebbero avuto gravi conseguenze per il mantenimento del consenso al regime e dell’ordine pubblico a livello locale, ecco quindi la necessità di una continua mediazione con le forze imprenditoriali, avvantaggiate però proprio da quel sistema corporativo adottato dal fascismo, che per porre fine alla lotta di classe aveva minato libertà e diritti dei lavoratori.

L’ira delle autorità locali verso la Montecatini si manifestò anche nel corso della riunione del Comitato intersindacale del 23 luglio 1932. Petri si soffermò a lungo sulla questione degli operai della Montecatini, che in soli due anni avevano visto i loro salari dimezzati. Al di là delle riduzioni salariali elencò altre anomalie dovute al comportamento della società, quali: la mancata istituzione di spacci aziendali; l’introduzione arbitraria del sistema Bedeaux nella miniera di Gavorrano a partire dal 1° marzo 1932, che riduceva notevolmente i salari dei lavoratori (da una paga media giornaliera di 26,2 lire con la tariffa a cottimo pieno si scendeva alle 17,2 lire con i valori Bedeaux); la cessazione al 1° luglio 1932 della garanzia accordata per il mantenimento della paga media giornaliera a 17,2 lire; l’arbitrio nel conglobamento del carovita nel guadagno giornaliero; il licenziamento di 30 operai in seguito a un infortunio mortale verificatosi nella miniera di Gavorrano quale diretta conseguenza dell’introduzione del Bedeaux; l’annuncio della chiusura della miniera di Fenice Capanne a Massa Marittima; ed infine l’arbitraria riduzione apportata ai guadagni di alcune squadre di operai addetti ai lavori di rialzamento dei bacini. Il segretario federale Vecchioni condannò, invece, il metodo utilizzato dalla Montecatini, che provvedeva ai licenziamenti senza contrattazione con gli organismi sindacali interessati, «ai quali premerebbe che il numero dei licenziati non venisse a gravare su una sola località ma fosse sempre equamente ripartito fra i diversi paesi dai quali le miniere traggono la manodopera». Dal punto di vista politico Massa Marittima risultava il centro più vulnerabile della provincia, tanto che Vecchioni non esitò a definire come «antifascista» l’azione della Montecatini nei confronti del paese minerario. «Tale sistema, che può aver avuto, come conseguenza diretta una diminuzione notevole di fiducia verso gli organismi politici e sindacali della provincia, che, a dire degli stessi operai, non avrebbero saputo sufficientemente arginare l’azione della Montecatini, è riprovevolissimo», le durissime parole del federale19.

Il 7 agosto 1932 la Montecatini licenziò definitivamente i 250 operai già segnalati. Tra questi riuscirono a salvare il posto di lavoro solo 90 operai di Massa Marittima, in parte confermati a Gavorrano (35), in altra parte assunti a Niccioleta (55).

Niccioleta. Edificio dell’Associazione Nazionale Combattenti di Niccioleta
Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949  (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2118)

Nel 1933 proseguirono le difficoltà nei mercati del rame, del mercurio e dei prodotti metallurgici. Petri ribadì che persisteva uno stato di depressione morale tra i minatori – in primis tra quelli di Niccioleta e Boccheggiano – visto il «considerevole malcontento sia per l’inadeguamento dei salari al bisogno della vita, sia per i noti metodi esotici di lavoro, arbitrariamente applicati»20. La questione dei minatori maremmani assunse una rilevanza nazionale e fu trattata perfino nella riunione del Direttorio nazionale del Pnf a Bari, nel settembre 1933. Intanto, i provvedimenti antidisoccupazione, rimasti a lungo lettera morta, trovarono una loro prima applicazione a partire dalla fine del 1934, sulla base di alcune misure cardine quali le 40 ore settimanali, l’abolizione del lavoro straordinario, la limitazione dell’impiego di donne e ragazzi alle prestazioni di loro competenza specifica e la sostituzione dei lavoratori pensionati. Fu una prima boccata d’ossigeno per le maestranze locali, con alcune industrie – tra cui quelle estrattive – che ripresero le assunzioni, ponendo un primo argine alle conseguenze drammatiche dell’assenza di lavoro, particolarmente sentite nell’area amiatina e in quella dell’Argentario. Tra il 10 e il 15 dicembre 1934, con l’applicazione delle 40 ore lavorative la Montecatini procedette all’assunzione di 167 operai, tra cui 32 a Niccioleta, 46 a Boccheggiano e 80 a Gavorrano21.

Era vicina anche la resa dei conti col sistema Bedeaux. L’introduzione di questo sistema di lavoro – applicato anche alle miniere di Gavorano, Boccheggiano, Ravi e Rigoloccio della Montecatini – aveva infatti originato una lunga vertenza che fu posta a livello nazionale. La maggiore intensità di lavoro richiesta agli operai si era risolta addirittura in una diminuzione delle paghe. La questione fu chiusa il 9 novembre 1934 con la mozione del Comitato corporativo centrale22, che ristabiliva il primato della regolazione collettiva per l’applicazione di qualsiasi sistema di salario o incentivi, mantenendo ai lavoratori la possibilità di conoscere con chiarezza e semplicità gli elementi che componevano la loro retribuzione. Tale atto sancì l’abolizione del Bedeaux e il ritorno alle tariffe a cottimo pieno nelle miniere della Montecatini, con piena soddisfazione delle autorità fasciste locali23.

L’episodio del Bedeaux costituì però un’eccezione. «Non potevano esserci dubbi ormai su quale fosse la collocazione del fascismo nel conflitto tra padroni e operai. La presenza sempre più diffusa in ruoli chiave della gerarchia della miniera – anche se soprattutto nelle mansioni inferiori di sorveglianza – di personale di esplicita appartenenza fascista, spesso di matrice squadrista, ne era la manifestazione più esplicita. L’identificazione del fascismo con il comando capitalistico, e viceversa, era netta. […] Emerse talvolta qualche residua frizione tra le autorità locali e la Montecatini, indotta dalla percezione dello strapotere che la società mineraria stava esercitando, ma nessuna giunse mai a incrinare la consonanza di fondo. Questo connubio Stato/capitale, o anche fascismo/capitale, sperimentato dai minatori già nel sottosuolo, si riproduceva in superficie, dove, insieme al ruolo primario di antagonista di classe, assumeva quello benevolo, ma sempre diffidente e all’occorrenza severo e perfino brutale, del padre di famiglia attento ai bisogni dei propri figli»24.

L’accordo per le tariffe salariali delle maestranze della Montecatini fu stipulato il 22 febbraio 1935. Furono stabilite le tariffe per i lavori a cottimo, i quali dovevano esser fissati mediante un biglietto rilasciato all’inizio del lavoro dal capo servizio al capo compagnia, contenente indicazioni sulle caratteristiche fisiche e tecniche del lavoro stesso: una loro mutazione poteva portare al diritto della revisione dei prezzi di cottimo. Per i lavori non previsti nelle tabelle allegate l’impresa era chiamata ad applicare nuove tariffe provvisorie della durata di due mesi, «tali da permettere agli operai laboriosi e di normale capacità lavorativa di raggiungere un guadagno non inferiore a quello delle categorie cui appartengono». Nella liquidazione dei guadagni di cottimo doveva risultare con semplicità ed evidenza il lavoro eseguito, con a parte le trattenute sul salario. Infine, furono stabilite delle maggiorazioni per il lavoro straordinario e festivo25. Tra gli operai della Montecatini si manifestò da subito una certa apprensione per la prima liquidazione in loro favore con il nuovo sistema: timori giudicati infondati dal prefetto di Grosseto Francesco Palici di Suni, che il 3 maggio 1935 scrisse che le nuove tariffe avevano migliorato, sia pure di poco, le condizioni salariali delle maestranze26. Ci possiamo chiedere se ci furono veramente questi miglioramenti salariali. Ci vengono in aiuto due importanti documenti. Il primo, prodotto dal sindacato provinciale fascista dei lavoratori dell’industria, specifica che le tariffe concordate nel 1935 erano ispirate al desiderio di assicurare all’operaio laborioso e di normale capacità produttiva il guadagno della paga ad economia maggiorata del minimo di cottimo. Nelle paghe non furono però conteggiate le operazioni passive, ossia i “tempi persi” che pure venivano considerati nell’unità Bedeaux, procurando così un danno economico per i lavoratori27. Ciò è confermato da un importante promemoria prefettizio del giugno 1939, che rivela come la trasformazione del Bedeaux in cottimo normale e tale mancato conteggio comportarono una diminuzione di circa il 12% dei salari. Inoltre, più in generale, calcolando tutte le riduzioni e gli aumenti per le maestranze della Montecatini dal 1930 al 1939, emergeva un quadro impietoso, ovvero un abbassamento dei salari del 36-40%28.

All’inizio del 1936 la miniera di Niccioleta poteva contare su circa mille lavoratori ed era in pieno sviluppo. Produceva, infatti, quasi 17mila tonnellate di pirite al mese, con un rendimento medio a operaio maggiore rispetto alle miniere di Gavorrano e Boccheggiano, dove si producevano rispettivamente 24mila e 12mila tonnellate con 1.660 e 800 operai. La situazione produttiva era in continuo miglioramento per i prezzi di vendita molto più remunerativi (1,6-1,7 lire per unità zolfo rispetto alle 1-1,1 del 1935), ma paradossalmente la situazione salariale delle maestranze era sempre più preoccupante, poiché con i loro guadagni i minatori non erano in grado di garantirsi il minimo indispensabile per soddisfare i loro bisogni materiali, tanto che ogni mese centinaia di lavoratori si dimettevano dalle miniere di pirite della Montecatini per cercare fortuna altrove29.

Il 25 giugno 1936 il questore di Grosseto riferì al prefetto lo stato di disagio dei minatori della miniera di Niccioleta per gli scarsi guadagni e la loro richiesta di un nuovo contratto di lavoro, specificando che «la stessa questione si agita nelle altre miniere dipendenti dalla Montecatini. Si rende pertanto necessario e urgente un radicale provvedimento prima che abbiano a verificarsi incidenti»30. Lo stesso prefetto Palici di Suni un mese prima aveva avvertito i ministeri competenti, facendo presente che le paghe in tutte le miniere della Montecatini continuavano ad essere estremamente basse – con massimi che raramente superavano le 12 lire – ed esprimendo quindi la necessità di concedere almeno un ritocco parziale ad alcune categorie di lavoratori31.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2061)

Presso le confederazioni interessate si era aperta una vertenza per la revisione dei salari nella miniera della Niccioleta, che stava per essere deferita all’esame del ministero delle Corporazioni, poiché non era stato possibile raggiungere l’accordo sulla richiesta dei lavoratori di determinati salari base, oltre la maggiorazione di cottimo del 20%. Per il prefetto, più che insistere sulla determinazione sempre complessa e difficile dei salari base, sarebbe stato più utile estendere le tariffe di cottimo pieno in vigore nella miniera di Gavorrano alle altre miniere maremmane della Montecatini. Il 23 luglio 1936, presso il Ministero delle Corporazioni, fu stipulato l’accordo salariale integrativo per gli operai della miniera di Niccioleta (poi esteso a quella di Boccheggiano), che prevedeva a seconda delle categorie di lavoratori un aumento dal 7 al 20% sui salari fino al momento percepiti32. Per tutto il personale furono stipulate le paghe a economia e quelle con il 20% di cottimo. Le tariffe di cottimo dovevano essere fissate sul posto di lavoro nei primi cinque giorni del mese dal caposervizio in relazione alle condizioni fisiche e tecniche del lavoro. Fissati i prezzi, i capiservizio erano tenuti a rilasciare ai capicompagnia i biglietti contenenti le indicazioni delle caratteristiche fisiche e tecniche del lavoro ed i prezzi unitari, che dovevano essere sottoscritti dal capo compagnia. Erano previste inoltre maggiorazioni per le temperature nei cantieri interni, gli straordinari (20% in più per le prime due ore, 35% per le ore successive), i giorni festivi (50% in più della paga a economia) e le ore straordinarie notturne (60% in più della paga a economia)33.

La situazione però non migliorò e le controversie continuarono, soprattutto per quanto riguardava l’applicazione del minimo di cottimo, che la Montecatini intendeva riservare solo alle categorie di lavoratori sotto facile controllo e non, in caso di insufficiente produzione, ai singoli minatori che lavoravano «con una certa indipendenza a squadre nei sotterranei della miniera»34. Il prefetto cercò di convincere il segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, a svolgere opera di persuasione presso le masse operaie per far loro comprendere l’equità degli accordi sottoscritti in sede ministeriale. Marino restò però fermo nelle sue posizioni, chiarendo che dopo l’entrata in vigore dell’accordo salariale per i minatori della Niccioleta e di Boccheggiano, ad un considerevole numero di minatori adibiti ai lavori a cottimo non era stata corrisposta la paga di 15,8 lire giornaliere indicata nel suddetto accordo35.

La questione in ballo era se al lavoratore a cottimo dovesse spettare in ogni caso, quindi indipendentemente dal risultato della lavorazione, la percentuale minima di maggiorazione oltre la paga base. Marino chiariva che la giurisprudenza era ormai concorde nel ritenere che la maggiorazione di cottimo spettasse indistintamente a tutti i cottimisti, portando a sostegno della sua tesi la sentenza del pretore di Massa Marittima del 12 dicembre 1936, che nella causa intentata dell’operaio della Niccioleta, Orlando Orioli, contro la Montecatini, aveva condannato quest’ultima a pagare la somma richiesta dal lavoratore (15,91 lire), più gli interessi e le spese del giudizio. Orioli, classe 1908, nato a Siena e residente a Massa Marittima, aveva citato la Montecatini innanzi al pretore di Massa Marittima per ottenere il pagamento di 15,8 lire a titolo di corresponsione della differenza fra il salario percepito nel mese di agosto 1936 (14,29 lire giornaliere) e quello che gli sarebbe spettato nella misura del minimo garantito per il lavoro a cottimo (paga base di 13,15 lire più il 20% di maggiorazione). La sentenza specificò che la quota di maggiorazione era dovuta a tutti i cottimisti e costituiva parte integrante del salario36. Marino confermava che il sistema di vigilanza attivo in miniera avrebbe impedito la mancanza di laboriosità, essendo previste inoltre le punizioni disciplinari e i demansionamenti degli operai. Quest’ultimi, a loro volta, erano sicuramente interessati a produrre per superare i minimi di paga. L’insufficienza produttiva non era quindi dovuta alla mancata laboriosità dei minatori ma ad un’errata fissazione dell’unità di cottimo o alle difficoltà verificatesi nel corso dei lavori, un fenomeno frequente causato dalla durezza della roccia, dal ritardato scoppio di una mina, dalla mancanza di legname e di armature o da altre imprevedibili circostanze37.

Una quarantina dei 250 minatori adibiti nei lavori a cottimo nella miniera della Niccioleta non percepivano il 20% di maggiorazione perché il minerale estratto non raggiungeva la quantità stabilita e la Montecatini non li considerava laboriosi e di normale capacità lavorativa, appellandosi all’articolo due del contratto provinciale di lavoro. Le compagnie erano formate da quattro o sei operai: solo in quelle che producevano il quantitativo di materiale stabilito la Montecatini corrispondeva la paga giornaliera di 15,8 lire stabilita dal contratto. La repressione di ogni atto di dissidenza all’interno della miniera era all’ordine del giorno. I carabinieri di Massa Marittima, venuti a sapere che fra la massa operaia di Niccioleta vi erano elementi «non laboriosi, che tentano di creare dissidi», svolsero accertamenti per identificare i presunti sobillatori, in realtà colpevoli solamente di richiedere il trattamento economico previsto dal contratto di lavoro. Il 13 gennaio 1937 fu identificato quale «autore principale di tale lagnanza«» l’operaio Gino Quintavalle, classe 1911, un reduce della guerra d’Etiopia, che si batteva affinché agli operai fosse corrisposta la paga prescritta dal contratto. Quintavalle fu licenziato per indisciplina ma il fascio locale non attribuì nessuna colpa alla Montecatini38. Perfino i carabinieri di Grosseto rivelarono però che serpeggiava il malcontento tra gli operai di Niccioleta anche per la severità e l’eccessivo autoritarismo dei dirigenti della miniera. Quest’ultimi avrebbero dovuto porre, quindi, una maggiore attenzione al riguardo, per evitare che questo di stato di cose, giudicato ancora non allarmante, si acuisse39.

Credits: Stefani, Bruno (1901/ 1978) – Datazione: 1936 – 1943 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2124)

Nel corso del 1937 continuarono le lamentele degli operai di Niccioleta sia per la totale inadeguatezza della paga minima giornaliera in relazione al costo della vita (il riferimento era soprattutto alle paghe giornaliere dei manovali, pari a 11,4 lire per i 225 manovali esterni e a 11,7 lire per i 191 interni), sia per lo sconsiderato rialzo dei prezzi degli spacci aziendali, che dopo l’aumento del 7% dei salari degli operai erano addirittura cresciuti del 20%. Il questore di Grosseto invitò, dunque, i carabinieri ad esercitare assidua vigilanza e a comunicare ogni emergenza riguardante l’ordine pubblico40. Il 15 gennaio 1938 entrò in vigore il contratto collettivo per la disciplina dei cottimi, che all’articolo due garantiva ai cottimisti il guadagno della paga ad economia più la maggiorazione del cottimo togliendo la condizione dell’”operaio laborioso e in normale capacità produttiva”, mentre all’articolo tre prevedeva che agli operai dovessero essere comunicate per iscritto e da subito le indicazioni del lavoro da eseguire e del compenso unitario corrispondente (tariffa di cottimo). La Montecatini, come rilevato dal sindacato fascista, non solo non assolse a tali doveri, ma aumentò considerevolmente il personale addetto alla sorveglianza degli stessi operai, al fine di ottenere da essi un aumento della produzione con mezzi coercitivi. «Pertanto gli operai che non riescono ad aumentare il proprio rendimento vengono, su indicazione degli stessi sorveglianti, chiamati in Direzione e diffidati di licenziamento. Gli operai temono fortemente che la Direzione miri a ottenere delle medie di rendimento assolutamente superiori alla loro normale capacità fisica, le quali non potrebbero essere mantenute, mentre potrebbero costituire dei precedenti di riferimento in caso di contestazioni o revisioni di tariffe di cottimo», scriveva il segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, che segnalò tale fenomeno alla competente federazione nazionale di categoria e chiese all’Unione fascista degli industriali di Grosseto di rispettare sia l’articolo 19 del vigente contratto collettivo nazionale di lavoro per l’industria mineraria, sia l’articolo tre del contratto collettivo per la disciplina dei cottimi41.

L’ultima modifica contrattuale degli anni Trenta si ebbe con il contratto collettivo per gli operai addetti alle aziende minerarie della provincia di Grosseto, siglato a Roma il 27 gennaio 1939 ad integrazione di quello nazionale stipulato il 9 maggio 1937. Per i lavoratori delle singole miniere della Montecatini furono stabiliti dei minimi di paga ad economia per la giornata lavorativa di otto ore, con i guadagni di cottimo adeguati a tali minimi e maggiorati della percentuale di cottimo (20% per le miniere di Niccioleta e Boccheggiano)42. Altre controversie sorsero però in merito all’accordo interconfederale per gli aumenti del ventennale, sottoscritto il 20 marzo 1939, che doveva essere applicato nella misura del 10% su tutti gli elementi di retribuzione. La Montecatini, però, rivalendosi su un presunto onere derivato dal nuovo contratto, dispose l’aumento del solo 5%, suscitando ancora una volta il malumore degli operai. Quest’ultimi, temendo di non vedersi concessi gli aumenti disposti dal duce, manifestarono al sindacato fascista la forte volontà di trasferirsi in altre province per poter guadagnare di più. La vertenza, risolta il 19 giugno 1939 dopo ampio esame presso le competenti federazioni nazionali, stabilì l’aumento del solo 7% da applicarsi su tutti i guadagni a cottimo o ad economia degli operai interessati, a far data dal 31 marzo 1939. La Montecatini si impegnò a corrispondere gli arretrati nella misura differenziale del 2% entro il mese di luglio43. Anche tale transazione non segnò la fine dei problemi per i minatori delle miniere di Gavoranno, Ravi e Rigoloccio della Montecatini: dopo la modifica unilaterale delle tariffe di cottimo da parte della direzione delle miniere fu infatti aperta una nuova vertenza collettiva44.

I minatori di Niccioleta rimasero stretti, da una parte, dalle rigidità del corporativismo fascista, subalterno alle esigenze del mondo imprenditoriale e incapace di migliorare le sorti degli operai nonostante gli apparenti sforzi – e i ben più rilevanti limiti – del sindacato dei lavoratori dell’industria, ridotto generalmente all’impotenza; dall’altra, dal crescente autoritarismo della Montecatini, spalleggiata dalle autorità locali fasciste e votata in primis a tutelare i suoi profitti.

Dopo questa lunga disamina, riteniamo che la complessità delle condizioni socio-economiche dei minatori nel corso degli anni Trenta sia stato un fattore che abbia contribuito a creare fra di loro un clima di diffusa ostilità al regime, in un territorio, il massetano45, dove tra l’altro nel corso del tempo si erano compenetrate varie tradizioni: repubblicana ottocentesca (mazziniano-garibaldina), anarchico-libertaria, socialista e comunista.

«Nelle miniere di Boccheggiano e Niccioleta, in tutto il periodo del fascismo si manifestarono avversioni alla dittatura. Gli antifascisti intensificarono la loro lotta con il reclutare nuovi proseliti alla causa contro la dittatura mussoliniana, quando ancora non tutti avvertirono che l’aggressione fascista alla giovane repubblica di Spagna avrebbe messo in pericolo la pace nel mondo, si era negli anni 1936-1937. Ebbene, a Massa Marittima fin da questi anni operava un gruppo di ispirazione anarchico-libertario, facente capo a Giuseppe Gasperi, operaio della miniera di Niccioleta. Nel 1938, a Boccheggiano, per iniziativa di Bandino Pimpinelli e Ideale Tognoni, si costituì una sezione clandestina comunista»46.

Lo scrittore Luciano Bianciardi, autore insieme a Carlo Cassola del libro inchiesta “I minatori della Maremma”, confidò nella lettera all’editore in cui spiegava come era nato il volume, che «negli anni del fascismo furono proprio certi minatori di Niccioleta che mi parlarono, per la prima volta, di Gramsci, quegli stessi minatori che da me volevano sentir parlare di Croce»47.

Negli anni Trenta possiamo isolare alcuni episodi di manifesta opposizione al regime nella miniera di Niccioleta. L’11 luglio 1935 furono arrestati quattro operai originari dell’Amiata, più precisamente di Abbadia San Salvatore (SI), traferitisi nel territorio di Massa Marittima dopo la chiusura delle miniere di mercurio amiatine, che aveva comportato il licenziamento di molti operai. Erano stati accusati di aver cantato canti sovversivi come “Bandiera Rossa”, di essersi fatti fotografare con delle maglie rosse per mettere in evidenza le loro idee politiche (e perfino di aver litigato con il fotografo perché nell’immagine non si scorgeva bene il colore rosso), nonché di aver rivolto offese all’effigie del duce riprodotta sui giornali, sputandovi pure sopra. La data scelta per compiere questi “atti sovversivi” non era per nulla casuale e fa capire molto di più: si trattava infatti del 1° maggio, il giorno della festa del lavoro, abolita dal regime il 20 aprile del 1923, in favore della ben più autarchica e individualista festa del lavoro italiano, fissata il 21 aprile, in coincidenza con la fondazione (Natale) di Roma.

Credits: Stefani, Bruno (1901/ 1978) – Datazione: 1936 – 1943 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_7395)

I quattro giovani arrestati48 erano: Primo Vagnoli, classe 1901, comunista, dal 1935 domiciliato a Massa Marittima e minatore nella miniera di Niccioleta; Carlo Contorni, classe 1902, di fede comunista, che ad Abbadia San Salvatore non risultava avesse mai svolto propaganda o partecipato a manifestazioni sovversive; Mauro Capecchi, classe 1909, anche lui giunto alla miniera di Niccioleta nel 1935 dopo aver perso il posto di lavoro nelle miniere di mercurio dell’Amiata; Lorenzo Contorni, classe 1910, celibe, con due fratelli e tre sorelle, un minatore di idee comuniste privo di precedenti penali che ad Abbadia San Salvatore non aveva mai dato luogo a rilievi, trasferitosi a Massa Marittima nel 1935 per dare un sostegno alla famiglia. Il loro caso fu trattato dalla Commissione provinciale per i provvedimenti di polizia, che nella seduta del 23 luglio 1935 condannò al confino i quattro giovani minatori – considerati un pericolo per l’ordine nazionale – assegnando pene differenti: un anno per Vagnoli, due per Capecchi e Contorni Carlo, tre per Contorni Lorenzo.

Quest’ultimo ebbe la condanna più pesante nonostante gli accertamenti eseguiti avessero escluso che potesse trovarsi a cantare “Bandiera Rossa” con i compagni la sera del primo maggio. I carabinieri reali della tenenza di Massa Marittima non escludevano però la sua partecipazione ad altre manifestazioni sovversive, riferendosi ad atti raccolti a suo tempo e dichiarando che i suoi ideali e comportamenti erano di dominio pubblico sia nel suo paese di nascita, sia nell’ambiente in cui lavorava. Tutto ciò bastò per la condanna a tre anni, a dimostrazione di quanto fosse sommaria l’amministrazione della giustizia nella dittatura fascista.

Lorenzo Contorni49 fu assegnato al confino di Ponza (LT), dove «tenne cattiva condotta, affiancando i comunisti più pericolosi e non dando prova di ravvedimento». Fu prosciolto il 10 marzo 1937 e munito di foglio di via obbligatorio per Siena. Neanche il confino placò però il suo antifascismo, visto che ottenne la qualifica di patriota per la sua attività svolta all’interno della III Brigata Garibaldi SAP di Campiglia (Livorno), dal marzo 1944 fino al 25 giugno dello stesso anno50.

Carlo Contorni51, invece, fu confinato a Ventotene (LT), mantenne sempre le sue idee e continuò a frequentare i comunisti della colonia, senza dar luogo a particolari rilievi. Trasferito a Fuscaldo (Cs) il 15 settembre 1936, fu dimesso dal confino il 10 luglio 1937 e tornò a svolgere il lavoro di minatore nella miniera di Sirai-Pozzo Tanas in Sardegna. Scontò due anni di confino a Ventotene pure Mauro Capecchi, che prese poi le armi nella lotta di Liberazione nel territorio amiatino. Fu infatti partigiano combattente dal 12 settembre 1943 al 20 luglio 1944 all’interno della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, dove ricoprì pure la carica di comandante del VII distaccamento (nome di battaglia “Faro”)52.

La pena minore toccò invece a Primo Vagnoli53, che fu tradotto a Palazzo San Gervasio (Mt) e dopo aver scontato un anno di confino andò a vivere nella provincia di Siena, dove era nato e aveva domicilio.

Almeno due dei quattro protagonisti di questo primo gesto eclatante di antifascismo all’interno della miniera di Niccioleta condividono un lungo percorso di opposizione al regime, sfociato nella lotta partigiana. La dura realtà di vita di miniera negli anni Trenta, non solo a livello lavorativo ma anche per la difesa delle proprie idee di libertà e giustizia, è ben restituita dallo stesso racconto di Mauro Capecchi.

«Il lavoro era duro è in mezzo a noi erano sempre presenti spie fasciste, ma anche operai che, in caso di necessità, si sarebbero prestati al gioco dei fascisti: gente debole, paurosa e soprattutto affamata. Iniziai a prendere contatto con i minatori. Loro esprimevano lamentele ed eravamo tutti d’accordo nell’attribuire al governo fascista la colpa dei mali che ci affliggevano. […] Come ho detto, la vita a Niccioleta era assai dura. Nelle pause di lavoro discutevamo e i nostri nuovi compagni recepivano con piacere i nostri rilievi contro i padroni e il fascismo. Mi ricordo che la domenica andavamo a Massa Marittima, dove si ritrovava la maggior parte degli operai; si faceva merenda e si beveva il vino, che era la medicina che faceva riprendere le energie a chi era costretto a fare un lavoro così pesante. Intanto ad Abbadia il fascio locale, a nostra insaputa, prendeva misure per controllarci: spesso a Niccioleta venivano operai che si spacciavano per minatori di altre miniere e che erano pronti ad unirsi alle critiche contro il fascismo, per poi riferire alla polizia quanto avevano sentito dire da noi»54.

Servivano dunque tanto coraggio, una coscienza vigile ed occhi accorti per fare un minimo di propaganda e mantenere almeno una piccola opposizione interna nei luoghi di lavoro, ora che il fascismo al potere aveva spazzato via ogni forma di libertà e compresso i diritti dei lavoratori all’interno dell’ideologia corporativa. Tutto era più complicato soprattutto negli anni Trenta, considerati periodo di massimo consenso al regime.

Eppure qualcosa in miniera continuava a muoversi ed ancor prima della guerra di Spagna, che segnò un periodo di ripresa per l’antifascismo. Perfino il capo servizio della miniera di Niccioleta, l’impiegato Corrado Rossetti, classe 1895, originario di Vercelli, finì nel mirino del regime per la sua attività considerata ostile. I fatti si riferiscono al febbraio 1935, quando l’ingegnere Mario Delfino, addetto alla miniera e fiduciario del fascio, venne a conoscenza che alcuni operai dipendenti dal capo servizio Rossetti non volevano aderire al versamento delle quote in favore dell’Ente opere assistenziali (EOA). La responsabilità ricadde sullo stesso Rossetti, accusato di non aver svolto adeguata attività propagandistica fra i lavoratori. Fu dunque sollecitato da Delfino ad adoperarsi affinché quest’ultimi comprendessero «l’alto fine sociale e umanitario delle suddette ritenute». Interrogato dai carabinieri, Rossetti dichiarò che avrebbe rifiutato tal compito, perché contrario a qualsiasi forma di collaborazione e dubbioso sul reale impiego delle trattenute. In generale, l’impiegato non iscritto al Partito nazionale fascista (Pnf) era descritto come individuo dal carattere impulsivo e contrario al regime, non ossequiente alle leggi e non ben visto sia dalla maggioranza della popolazione, sia dalle autorità politiche locali, che lo ritenevano capace di esplicare propaganda sovversiva. Pur risultando di buona condotta morale e privo di precedenti penali, Rossetti non partecipava mai alle cerimonie patriottiche del posto, né frequentava persone di sicura fede fascista. In relazione alla nota della Prefettura di Grosseto del 29 maggio 1935, fu diffidato ai sensi dell’articolo 174 del Testo Unico di Pubblica Scurezza dal prefetto di Trento, poiché dopo tale episodio era stato trasferito a Calceranica (TN), sempre alle dipendenze della Montecatini. Qui Rossetti fu adeguatamente vigilato e chiamato a desistere da tali atteggiamenti sconvenienti, pena provvedimenti di polizia di maggior rigore. In seguito, mantenne una buona condotta e fu radiato dal Casellario politico centrale il 19 novembre 193655. Quel che aveva dichiarato non può però passare inosservato: la mancata propaganda a favore delle opere assistenziali del regime, così come la mancata fiducia verso la reale destinazione dei fondi raccolti, testimoniano una consapevolezza abbastanza diffusa sui frequenti casi di peculato, corruzione, conflitto d’interessi, nepotismo e favoritismi vari che contraddistinguevano l’operato del partito fascista nelle province, compresa quella di Grosseto, provocando disservizi e un generale malcontento nella popolazione, oltre a un forte scetticismo sulla moralità dei personaggi pubblici in camicia nera56. D’altronde, per fare solo un esempio simile a quello di Niccioleta riguardante la provincia di Grosseto, sempre nel 1935, ad Arcidosso la sezione del fascio locale era talmente screditata a causa dei molti casi di malaffare, che gran parte dei cittadini del posto preferirono inviare le fedi direttamente al duce, senza alcuna mediazione del partito, in occasione della giornata della fede del 18 dicembre 1935, organizzata per consegnare l’oro alla patria dopo le sanzioni contro l’Italia a causa dell’invasione dell’Etiopia57.

Dalle fonti di polizia la miniera di Niccioleta risulta particolarmente temuta per l’ordine pubblico, tanto da esser costantemente vigilata. Il 15 settembre 1936 il Comando della tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima richiese l’allontanamento dai lavori della miniera dei fratelli Pizzetti (Bruno ed Elvezio), minatori comunisti, e di altri individui sovversivi tutti originari di Abbadia San Salvatore (Settimio Rosati, Corrado Forti, Temistocle Coppi e Giuseppe Pacchierini), «perché capaci di svolgere opera deleteria sul buon andamento del lavoro e di inculcare nell’animo dei compagni sentimenti antifascisti e contrari alle nostre istituzioni»58.

Il durissimo lavoro in miniera comportò anche un alto numeri di morti sul lavoro, a causa sia delle malattie professionali (in primis la silicosi), sia degli incidenti dovuti alle scarse condizioni di sicurezza. Negli anni Trenta 11 persone persero la vita nelle operazioni lavorative in miniera: tra questi vi fu Gino Cini, un ventinovenne minatore di Prata, che morì il 30 marzo 1938 a causa di una frana nel cantiere adiacente alla miniera, dove effettuava lavori nella galleria di scolo. I compagni decisero l’astensione dal lavoro fino al seppellimento della salma, rifiutandosi di obbedire ai voleri della Montecatini che reclamava la ripresa del lavoro per i turni di mezzanotte e commentando con risentimento la decisione della Società59.

Tre anni più tardi, i minatori della Niccioleta sempre provenienti dall’Amiata furono autori di un clamoroso gesto di ribellione verso le autorità fasciste, originato dalla volontà di celebrare l’antico rito farsesco del carnevale morto. Si tratta di una festa satirica e goliardica, ancora oggi celebrata durante il mercoledì delle ceneri soprattutto in alcune parti dell’Italia centro-meridionale, che decreta la fine del carnevale mettendo in scena «la denuncia sociale e il ribaltamento dei ruoli, in forma di parodia delle autorità costituite e di protesta ritualizzata». Attualmente il funerale del carnevale più noto è quello di Montuorio al Vomano (TE), le cui origini paiono risalire proprio agli anni Venti del Novecento, quando alcuni giovani universitari del posto che studiavano a Napoli recuperarono tale tradizione osservata in Campania come forma di opposizione al regime fascista, che provvide a proibirla nel giro di pochi anni. «A Reggello, nel Valdarno, a Marroneto, nel grossetano, ad Amalfi, nel golfo di Salerno, il Carnevale morto era o è incarnato da una persona scelta fra gli abitanti del paese, secondo un modello onnipresente nelle regioni centro-meridionali della Penisola»60.

Difficile non leggere la volontà di criticare il regime anche nella mascherata organizzata dai minatori di Niccioleta per l’ultimo giorno di carnevale, che fu vietata dal segretario del fascio di Massa Marittima, Francesco Casanova. Nonostante il permesso non concesso, il 1° marzo 1938, verso le ore 23, una quarantina di minatori – tra cui undici col viso dipinto di nero – iniziarono a circolare per il borgo minerario, trasportando in barella un compagno che rappresentava il carnevale moribondo. Verso mezzanotte la comitiva giunse dinanzi alla sede del Dopolavoro dove era in corso una festa da ballo: i minatori cercarono di forzare l’ingresso ma il segretario amministrativo del fascio che si trovava sulla porta, Umberto Bellini, cercò di respingerli prima di essere colpito con un pugno al viso dall’operaio Mario Ghilardi, che dette il via all’irruzione nel locale. Dopo esser stato informato su quanto stava succedendo, Casanova si recò sul posto e fu aggredito con alcuni pugni dagli operai, non riportando conseguenze e riuscendo infine a far uscire dal locale i minatori, grazie all’aiuto di Bellini e della guardia giurata della miniera, Luigi Torrini. L’intervento dei carabinieri di Massa Marittima condusse all’arresto di undici operai per violenza contro pubblico ufficiale, tra cui un comunista, due ex sovversivi, cinque apolitici, due giovani fascisti e un fascista.

Retro della scheda anagrafica di Duilio Rosati con la qualifica di Caduto per la lotta di Liberazione (Credits: Fondo Ricompart)

Tra gli arrestati cinque erano originari di Santa Fiora, ovvero i due giovani fascisti Mario e Raffaello Ghilardi, entrambi del 1915, oltre a: Giacomo Bani (cl.1883), il più anziano del gruppo che prima dell’avvento del fascismo professava idee socialiste; Luigi Vagaggini (cl.1906), con precedenti penali ma considerato di buona condotta politica; Armando Dondolini (cl.1913) e Guido Martellini (cl.1914), ambedue privi di precedenti e di buona condotta in genere. Provenivano da Castell’Azzara Flavio Testi (cl.1891) e Agostino Mastacchini (cl.1900), da Abbadia San Salvatore Flavio Paganini (cl.1909) e da Piancastagnaio Duilio Rosati (cl.1907), tutti fino al momento considerati di buona condotta politica61. Fu evidentemente subito rilasciato l’undicesimo componente della carnevalata, il comunista Corrado Fortini. Gli altri dieci, ad eccezione di Mario Ghilardi, furono messi in libertà provvisoria il 17 marzo 1938, circa un mese dopo l’accaduto. Tornarono dunque alla miniera di Niccioleta alle dipendenze della Montecatini mentre il processo era ancora in fase istruttoria. «Quando li liberarono – intervenne anche il Dottor Mori per chiedere la liberazione, perché erano bravi operai – rivennero a Niccioleta e c’era un posto chiamato Poggio della Madonna, un podere con grandi querci. E si ritrovarono tutti su – familiari, amici – e fecero una merenda. Cantavano…tanto è vero che quando tornai a casa chiesi cosa cantavano. Era un motivo, una canzone che non conoscevo, non sapevo. E ‘l mi’ babbo, dopo un pò di tempo mi disse che era ‘L’internazionale’. Però non si vide nessuno», la testimonianza di Stelio Olivelli, cugino di Guido Martellini62. Cinque degli undici giovani minatori che avevano sfidato il regime con quell’irriverente rito carnevalesco, ovvero lo stesso Martellini, Mario Ghilardi, Agostino Mastacchini, Flavio Paganini e Duilio Rosati, trovarono la morte a Castelnuovo Val Di Cecina il 14 giugno 1944, massacrati dai nazisti. I loro nomi risultano nel fondo Ricompart con la qualifica “caduti nella lotta di Liberazione”. Non erano, infatti, partigiani combattenti ma avevano presumibilmente preso parte ai turni di guardia per salvare la miniera (e quindi i loro posti di lavoro) dai possibili atti di devastazione da parte dell’esercito tedesco in ritirata. L’elenco con i nominativi di coloro che svolsero la vigilanza armata agli impianti della miniera fu recuperato dal reparto responsabile della strage, il III Polizei-Freiwillingen-Bataillon-Italien. Se la strage s’inserisce nella logica della “ritirata aggressiva tedesca” che mirava a far terra bruciata e a diffondere il terrore nella popolazione civile, il perché di questa ferocia sui minatori può esser spiegato con la loro «estraneità al fascismo che poi era diventata ostilità acclarata, duratura e quasi unanime nei suoi confronti e quindi nei confronti dei suoi alleati. Un’ostilità che […] trovava proprio nel paese il luogo ove coagularsi»63.

Il miglior ritratto dei minatori di Niccioleta rimasti vittime nella strage emerge dalle accalorate parole di Padre Ernesto Balducci, l’autore de “L’uomo planetario”, originario di Santa Fiora, che di tanti di quei lavoratori era stato amico d’infanzia e compagno di scuola.

«I miei compagni non ebbero modo né tempo di scrivere lettere. Ma non avrebbero saputo che cosa scrivere, dato che non sono morti per la patria, non sono morti per la libertà, sono morti perché hanno fatto, nel luogo di lavoro, quello che dovevano fare. La miniera era il loro inferno, dove morivano un po’ ogni giorno, ma era anche il pane delle loro famiglie. Era la morte e la vita, il luogo della loro servitù e della loro potenza virile. Gli impianti che volevano salvare erano del padrone, ma erano anche parte di loro, gli strumenti della loro fecondità. Morendo per salvarli ci hanno lasciato un messaggio che sarebbe toccato a noi tradurre in un nuovo diritto di proprietà. E invece i padroni si ripresero le miniere. Anzi, si ripresero l’Italia64.

 

 

NOTE:

1Sulla strage vedi: P. Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, Il Mulino, Bologna, 2001; K. Taddei (a cura di), Coro di voci sole. Nuove verità sull’eccidio degli 83 minatori della Niccioleta, Effigi, Arcidosso -Gr, 2017.

2Sulla storia della miniera vedi: R. Zipoli (a cura di), Niccioleta. Fotografie e memoria di una comunità mineraria, Biblioteca comunale “Gaetano Badii” di Massa Marittima, 2022. Per un’ampia e completa bibliografia su Niccioleta si rimanda allo stesso volume pp. 461-472. Il 3 dicembre 2023 a Niccioleta è stato inaugurato il percorso della memoria, un itinerario urbano pedonale che con l’ausilio di 14 pannelli ripercorre le tappe salienti della storia di questo villaggio minerario. Il progetto, realizzato dal Comune di Massa Marittima e dal Parco nazionale delle Colline Metallifere con il contributo della Regione Toscana e di Massa Marittima Multiservizi, ha ottenuto il patrocinio del Comitato provinciale Anpi “Norma Parenti” e dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea (Isgrec).

3ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Relazione situazione maestranze dipendenti della miniera di pirite ella Niccioleta della S.A. Montecatini (18/5/1936).

4Prima ancora della fase corporativa, il sindacalismo fascista in Maremma conobbe una sonora sconfitta con la destituzione di Luigi di Castri, il segretario provinciale dei sindacati fascisti che nell’estate 1924 guidò la mobilitazione dei minatori al fine di promuovere uno sciopero generale della categoria, per recuperare parte delle conquiste del Biennio rosso che erano state cancellate nel contratto del 1923. Di Castri sfidò la stessa Montecatini, che stava diventando uno dei maggiori sostegni del regime nell’ambito dell’economia nazionale. A fine 1924 fu deposto da ogni incarico, espulso dall’organizzazione e costretto a lasciare Grosseto. Successivamente, con la svolta totalitaria ed i patti di Palazzo Vidoni (2/10/1925), la Confederazione generale dell’industria e quella delle corporazioni fasciste si riconobbero reciprocamente quali unici rappresentati del capitale e del lavoro, abolendo le commissioni interne di fabbrica. Seguì la legge 3 aprile 1926 n. 563, che segnò la fine dei sindacati non fascisti, disciplinò giuridicamente i contratti di lavoro, istituì il ministero delle Corporazioni, creò la Magistratura del Lavoro per la risoluzione delle controversie ed abolì serrate e scioperi. Il 21 aprile 1927 fu emanata la Carta del Lavoro, il documento simbolo del corporativismo fascista. Sulla questione Di Castri vedi A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, in S. Campagna e A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Isgrec-Effigi, Arcidosso -Gr, 2021, pp. 228-233.

5ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 504. Lettera del sindaco di Massa Marittima Innocenzo Vecchioni al prefetto di Grosseto (22/4/1926).

6ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 504. Lettera del segretario provinciale dei sindacati fascisti Gino Finotello all’Unione industriale grossetana (16/9/1926).

7Le sorti di Gino Finotello, segretario dei sindacati fascisti della provincia di Grosseto dal maggio 1924 al maggio 1927, non furono migliori di quelle del suo predecessore Di Castri. In seguito ai forti contrasti con il segretario federale Ferdinando Pierazzi, denunciò le ingerenze della Federazione provinciale del Pnf sull’organizzazione interna e l’autonomia dei sindacati, chiese urgentemente l’invio di un ispettore confederale per porre termine al dissidio tra la Federazione provinciale del Pnf e l’Ufficio provinciale dei sindacati fascisti, difese il proprio operato e richiese il trasferimento in altra provincia (21/5/1927). Secondo Finotello, le gerarchie politiche premevano per affidare compiti sindacali di notevole importanza all’interno dell’Ufficio a uomini di cultura limitata e completamente digiuni di sindacalismo. In seguito, un passaggio fondamentale fu lo “sbloccamento” dei sindacati fascisti del 22 novembre 1928, che comportò lo scioglimento della Confederazione nazionale dei sindacati fascisti con la conseguente costituzione delle Confederazioni autonome di categoria, privando di ulteriore forza contrattuale il sindacato, ormai ridotto al totale controllo governativo. ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 498.

8ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 595. Lettera del podestà di Massa Marittima Innocenzo Vecchioni al prefetto di Grosseto (30/8/1928).

9Le nuove tariffe salariali per i minatori della Montecatini ne “La Maremma” (8/12/1929).

10ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera della Società Montecatini al prefetto di Grosseto (5/10/1931).

11ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Tabelle salariali delle maestranze della miniera di Niccioleta della Società Montecatini dopo le riduzioni del 21%.

12ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera del commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria Solimeno Petri al segretario federale e al prefetto di Grosseto (27/10/1931).

13ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera del ministero delle Corporazioni al prefetto di Grosseto (30/12/1931).

14ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Circolare del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima. Oggetto: situazione economica e politica a Massa Marittima (1/3/1932).

15ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Biglietto postale di stato urgente del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima (28/2/1932).

16ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Ordine del giorno della riunione del Direttorio federale del 2/4/1932, trasmesso al prefetto di Grosseto e al ministero delle Corporazioni (19/4/1932).

17ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Circolare del prefetto di Grosseto Giuseppe Celi ai ministeri delle Corporazioni, dell’Interno e delle Comunicazioni (15/6/1932).

18ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Telegramma del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima al prefetto di Grosseto (30/7/1932).

19ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Verbale della riunione del Comitato intersindacale del 23 luglio 1932.

20ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 538. Rapporto mensile sulla situazione industriale della provincia, stilato dal commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria, Solimeno Petri (27/12/1933).

21ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 634.

22«[…] Un ordinamento come quello fascista nel quale il capitale e il lavoro sono sullo stesso piede di uguaglianza dinanzi allo Stato, non può e non deve servire ad una Compagnia straniera a carattere commerciale, per fare i suoi interessi permettendo lo sfruttamento della nostra più grande ricchezza: l’uomo. […] I primi a fare la grande esperienza del nordico sistema di meccanizzazione umana sono stati proprio i forti minatori di Gavorrano e Boccheggiano non abituati certo né a cronometrare lo sforzo generoso delle proprie braccia, né a numerare le gocce del loro sudore. Istintiva e naturale è stata, sin dal primo momento, la loro avversione al Bedeaux […] Per la sua unilateralità il sistema stesso sfuggiva ad ogni controllo, ad ogni disciplina sindacale, ed i rappresentanti degli operai, nei loro tentativi di tutelare gli interessi dei lavoratori, sempre si trovavano di fronte agli ostacoli creati dalla sfuggente tortuosità del sistema. Così per due anni è stata la nostra provincia il campo di questa battaglia senza clamore, combattuta dalle forze sane della nuova economia nazionale contro la prepotente invadenza della tendenza esotica. […] Oggi l’intervento del Duce ha sciolto il nodo inestricabile ed ha aperto la strada maestra alla soluzione del problema. E la provincia di Grosseto […] terra che ha per primo promosso la crociata del diritto e della giustizia, esulta oggi che il grande gesto di giustizia è compiuto, ed al Duce magnifico rivolge il tributo di gratitudine e devota riconoscenza». Giustizia mussoliniana, ne “La Maremma” (17/11/1934).

23Collaborazione fascista in atto, ne “La Maremma” (2/2/1935).

24A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, op. cit., pp. 234, 236.

25Dopo l’abolizione del Bedeaux: la stipulazione dell’accordo per le tariffe salariali degli operai della Montecatini, ne “La Maremma” (23/2/1935).

26«[…] Si sono così dimostrati pienamente infondati gli allarmi diffusi prima della liquidazione tra la massa operaia, e le diffidenze di questa verso l’organizzazione sindacale dei lavoratori, i cui dirigenti, centrali e periferici, hanno invece dimostrato in quest’occasione di saper tutelare gli interessi degli operai con avvedutezza ed energia». ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 645. Relazione mensile sulla situazione politica ed economica della provincia, inviata dal prefetto di Grosseto Francesco Palici Di Suni al Capo del Governo, ministro dell’Interno (3/5/1935).

27ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, all’Ispettorato corporativo, Circolo di Firenze (14/7/1939).

28ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Promemoria sulle applicazioni degli aumenti del ventennale alle maestranze minerarie della Società Montecatini della provincia di Grosseto (17/6/1939).

29ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Relazione prefettizia sulla situazione delle maestranze dipendenti dalle miniere di pirite della Niccioleta della Società Montecatini (18/5/1936).

30ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del questore di Grosseto Francesco Fiocca al prefetto di Grosseto (25/6/1936).

31ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del prefetto di Grosseto Francesco Palici di Suni al ministero delle Corporazioni e p.c. al ministero dell’Interno. Oggetto: miniera della Niccioleta, vertenze salariali (23/5/1936).

32ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del ministero delle Corporazioni, Direzione generale del lavoro, previdenza e assistenza, al prefetto di Grosseto. Oggetto: accordo integrativo salariale per gli operai della miniera di Niccioleta (24/7/1936).

33ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 640. Accordo integrativo salariale del contratto provinciale per le miniere della Provincia di Grosseto, da valere per gli operai dipendenti dalla Miniera di Niccioleta della Società Montecatini (23/7/1936).

34ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera della Società Montecatini al prefetto di Grosseto (12/9/1936).

35ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, al prefetto di Grosseto (3/10/1936).

36 Il testo della sentenza chiariva che «[…] la quota di maggiorazione è dovuta a tutti i cottimisti e fa parte integrante del salario onde il datore di lavoro non può in nessun caso corrispondere al lavoratore una retribuzione inferiore a quella resultante dalla paga base e dalla percentuale minima di lavorazione. […] Il contratto di cottimo non è fatto per gli operai inferiori al tipo normale per laboriosità e capacità. La laboriosità e la normale capacità sono dunque qualità che devono sussistere in ogni operaio che viene adibito al lavoro a cottimo. La dichiarazione XIV della Carta del Lavoro prescrive dunque che il lavoratore a cottimo di normale laboriosità e capacità deve conseguire un minimo di guadagno oltre la paga base; dal che può desumersi che essendo i lavoratori adibiti al cottimo tutti presumibilmente forniti delle supradette qualità, tutti gli operai che lavorano a cottimo devono conseguire quel minimo di retribuzione che è costituito dalla paga base più la maggiorazione di cottimo». ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666.

37ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, al prefetto di Grosseto. Oggetto: garanzia minimi di cottimo operai miniera Boccheggiano-Niccioleta (12/1/1937).

38ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del comandante del Gruppo carabinieri reali di Grosseto, Ettore Chiurazzi, al prefetto di Grosseto. Oggetto: paghe degli operai della miniera di Niccioleta (29/1/1937).

39ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del comandante del Gruppo carabinieri reali di Grosseto, Ettore Chiurazzi, al prefetto di Grosseto. Oggetto: malcontento negli operai addetti alla miniera Niccioleta della S.A. “Montecatini” di Massa Marittima (23/4/1937).

40ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis.

41ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 688. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, al prefetto di Grosseto (31/1/1938).

42ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 709. Contratto collettivo integrativo a quello nazionale per l’industria mineraria, da valere per gli operai addetti alle aziende minerarie della provincia di Grosseto (27/1/1939).

43 ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703.

44 La modifica consisteva nell’includere nelle voci di cottimo già esistenti delle nuove operazioni (ad esempio la colmata di carrello, lo spostamento di carrello ecc.) precedentemente pagate a parte. In pratica, mentre prima l’arrivo del carrello carico di minerale alla bocca del fosso comprendeva numerose operazioni separatamente retribuite, con il nuovo metodo la Montecatini mirava a retribuire le squadre operaie complessivamente per ogni carrello giunto alla bocca del fosso. Si cercava quindi di ottenere dagli operai un maggior rendimento con la stessa retribuzione. I lavoratori furono invitati a squadre per accettare i nuovi prezzi di cottimo: chi rifiutò di accettare tali condizioni senza aver prima consultato l’organizzazione sindacale competente fu passato al sistema di retribuzione a economia, con una riduzione di guadagno del 10% e l’ammonizione di severi provvedimenti disciplinari in caso di un calo di rendimento. Il sistema in pratica eludeva l’articolo due del contratto nazionale sulla disciplina del lavoro a cottimo, permettendo di non aumentare le tariffe insufficienti. Il malcontento tra gli operai crebbe, mentre la Montecatini, spalleggiata dall’Unione degli industriali, accusava di demagogia gli esponenti dei sindacati. I carabinieri di Grosseto riferirono che l’influenza della Montecatini era tale che gli stessi ambienti locali avrebbero preferito soffocare la tesi dei sindacati pur di conservare la benevolenza della Società. La situazione era definita preoccupante per ragioni economiche, di equità e per il mantenimento dell’ordine pubblico. ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Lettera del Comando del gruppo carabinieri reali di Grosseto al prefetto di Grosseto (20/5/1939).

45Al Comune di Massa Marittima è stata attribuita la medaglia d’argento al Valor Militare per il suo contributo alla lotta di Liberazione. Nella motivazione è stata citata anche la difesa degli impianti minerari di Niccioleta.

46M. Tanzini, “Sui martiri di Niccioleta”, in “Tracce…percorsi storici, culturali e ambientali per Santa Fiora“, anno IX, Effigi, Arcidosso, 2004. Su Giuseppe Gasperi vedi: www.bfscollezionidigitali.org/entita/13539-gasperi-giuseppe. Sulla cellula comunista di Boccheggiano vedi: R. Zago, O-3-R. Nascita e primi anni di attività clandestina dell’organizzazione comunista rivoluzionaria di Boccheggiano, in “Toscana Novecento” (www.toscananovecento.it).

47L. Bianciardi, C. Cassola, “I minatori della Maremma“, Laterza, Bari, 1956 (ultima edizione Minimum Fax, Roma, 2019).

48ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 645, relazioni sulla situazione politica della provincia inviate dal questore Francesco Fiocca al prefetto di Grosseto (30/7/1935 e 31/7/1935).

49ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 422, f. Contorni Lorenzo.

50https://partigianiditalia.cultura.gov.it/persona/?id=5bf7d1c42b689817c8bac296

51ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 449, f. Contorni Carlo.

52https://partigianiditalia.cultura.gov.it/persona/?id=5bf7d1852b689817c8bab62e

53ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 471, f. Vagnoli Primo.

54F. Avanzati, Gente e fatti dell’Amiata. Abbadia S. Salvatore fra storia, mito e memoria 1900-1937, La Pietra, Milano, 1989, pp. 220-221.

55ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 466, f. Rossetti Corrado.

56 P. Corner, Italia fascista. Politica e opinione popolare sotto la dittatura, Carocci, Roma, 2015; M. Grilli, Il governo della città e della provincia, in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Isgrec-Effigi, Arcidosso -Gr, 2018.

57Per la situazione politico-amministrativa di Arcidosso vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, b. 628; ACS, MI, DGAC, Podestà e consulte municipali, b. 168, f. 1007, s.f. 1, Arcidosso.

58ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 518.

59ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 519. Per le statistiche sui morti sul lavoro nella miniera di Niccioleta vedi: S. Polvani, Miniere e minatori. Il lavoro, le lotte, l’impresa, Leopoldo II, Follonica -Gr, 2002, pp. 40-41.

60www.gransassolagaich.it/riti-e-pratiche-sociali/allegro-funerale/

61Tutta la documentazione su questo episodio in: ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 519.

62L. Niccolai, Resistenza e guerra di Liberazione sul Monte Amiata (ottobre 1943-giugno1944), in AA.VV., Miniere e società, Giornate di Studio. Dal “memoriale unico” del 1919 alla strage di Niccioleta”, in “Tracce…percorsi storici culturali e ambientali per Santa Fiora”, anno IX, Effigi, Arcidosso -Gr, 2004, pp. 67.

63A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, op. cit., p. 265.

64E. Balducci, Quei miei compagni di scuola diventati minatori e fucilati, ne “L’Unita”, (20/6/1984).




La Resistenza in Valtiberina

La Valtiberina è una zona geografica soprattutto appenninica, soggetta alla provincia aretina, che si estende nella Toscana orientale comprendendo grosso modo l’alta valle del Tevere. L’intera area fu coinvolta nella primavera/estate del 1944 in quel fronte divisorio tra Ancona e Livorno, linea di scontro tra l’esercito anglo-americano che risaliva la penisola e le truppe tedesche costrette alla ritirata. In quella zona i nazisti appoggiati dai fascisti scorrazzavano per lungo e per largo prestandosi però all’insidia clandestina delle formazioni partigiane e conseguentemente mettendo in atto feroci rappresaglie e deportazioni delle popolazioni locali. Ma è proprio sui componenti di queste popolazioni, prevalentemente contadini – in tutta l’area il sostentamento e l’attività lavorativa si fondavano direttamente sulla terra – che la Resistenza ha potuto appoggiarsi per proseguire e portare a termine la Liberazione. Già dalla sera stessa dell’8 settembre, il primo e spontaneo atto di resistenza passiva, ma sostanziale, al tedesco che gettò le premesse dell’azione armata, fu l’assistenza agli sbandati dell’esercito, agli ex prigionieri alleati, agli ebrei, ai politici ricercati dalla polizia ed ai renitenti alla leva. Da quel giorno il ruolo svolto dal mondo contadino durante la Resistenza è stato determinante fino al punto che “…se i contadini non le fossero stati favorevoli, partecipandovi anche attivamente in gran numero, la Resistenza sarebbe stata impossibile[1].

Quando i tedeschi imposero la denuncia e la consegna degli ex prigionieri e l’iscrizione degli sbandati negli uffici comunali per il loro eventuale richiamo, automaticamente costrinsero tutti gli abitanti della campagna, nessun ceto escluso, a schierarsi o con i nazifascisti o contro di essi a favore dei perseguitati. La stragrande maggioranza scelse la seconda soluzione, preparando alla nascente resistenza politica e armata un territorio particolarmente favorevole.

Il Casentino e la Valtiberina come altre zone rurali della Toscana si trasformarono in un grande centro di raccolta, assistenza e transito di decine di migliaia di individui. Fu un’azione che coinvolse tanto i privati quanto il movimento resistenziale organizzato, con l’aiuto di diversi diplomatici stranieri che operavano per conto degli alleati e l’appoggio in denaro e mezzi fornito dal clero. Naturalmente il lavoro di assistenza ai prigionieri alleati e agli sbandati non passò inosservato ai tedeschi e ai collaborazionisti fascisti che fin dal 16 settembre intimarono: “Tutti i prigionieri di guerra dovranno consegnarsi al Comando tedesco… coloro che continueranno a dargli vitto e alloggio… saranno puniti secondo la legge tedesca[2]. Anche il capo della provincia di Arezzo, pensando di far leva su quello che riteneva l’anello più debole, ossia i proprietari terrieri, decretava “il sequestro della proprietà a chi dà ospitalità ad ex prigionieri e sbandati[3]. Ma entrambe le azioni intimidatorie non riuscirono a rompere quel fronte solidale che si era creato attorno alla Resistenza. L’importanza del contributo del mondo contadino alla lotta contro i nazifascisti era già stato manifestato dal “Fronte per la Liberazione Nazionale” di Firenze, futuro CTLN, con un volantino nel settembre del ‘43 quando elogiava i contadini per l’aiuto prestato agli sbandati dell’esercito e ai prigionieri alleati e li incitava a continuare nella lotta, invitandoli, al momento del raccolto, ad evadere gli ammassi per sottrarre il grano ai tedeschi e dare l’aiuto alle formazioni partigiane.

Ma la Resistenza in Valtiberina oltre al contributo di sostanza dato dunque dal mondo contadino, ha potuto contare anche sul forte sostegno della Chiesa caratterizzando la lotta per la Liberazione, in questa zona forse più che in altre, con uno sfondo prevalentemente cattolico. Si deve tener presente, infatti, che in questa vallata il parroco, nel tempo, per una complessità di cause, aveva finito per rappresentare in genere più che altrove l’incontrastata guida della sua gente: consigliere e confessore, uomo di fiducia e punto di riferimento in ogni occasione. In pratica la parrocchia diventava onnicomprensiva, luogo di culto, di riunione e di divertimento, era centro religioso, sociale e non ultimo luogo di istruzione scolastica. Infatti la Valtiberina, incastonata nell’Appennino, presentava diversi nuclei frazionali dispersi fra le montagne e molto disagevoli a raggiungere, cosicché l’istruzione scolastica negli anni era stata lasciata al clero, ed anche il fascismo dopo i Patti Lateranensi col suo programma di alfabetizzazione aveva preferito costituire le “scuole sussidiate” continuando ad affidarle ai parroci. In questo modo al clero montanaro di questa diocesi veniva affidato più dei due terzi dell’insegnamento elementare. Ogni parrocchia aveva la sua scuola dislocata nei locali della canonica, che dipendeva dal Provveditore agli Studi della Provincia, in cui si svolgevano gli stessi programmi, almeno teoricamente, delle elementari comunali[4]. Questo aspetto, non trascurabile, dell’istruzione scolastica lasciato nelle mani della Chiesa si sarebbe poi fatto sentire  più che mai durante la Resistenza tra quei giovani usciti dalle aule parrocchiali, soprattutto perché questi ragazzi, abitanti nella vallata, venivano consegnati all’istruzione scolastica impartita il più delle volte da preti con idee innovative, progressiste che per lo più erano stati inviati nelle zone più disagiate come in una sorta di confino, un po’ simile a ciò che avverrà poi negli anni Cinquanta con don Milani. Nelle diocesi di questo Appennino toscano, per esempio, avevano trovato rifugio vari sacerdoti romagnoli già aderenti alla prima Democrazia Cristiana murriana[5] come don Zanzi (parroco a Usciano) e don Savini (parroco a Palazzo del Pero), o come don Sante Tampieri e don Edoardo Cotignoli nel Montefeltro, o infine come Francesco Mari nella zona di Città di Castello. Anche se non vi era una posizione omogenea concordata preventivamente, perché entravano in gioco temperamenti individuali e altri fattori soggettivi, è possibile riscontrare nei sacerdoti della provincia d’Arezzo un orientamento abbastanza generalizzato e costante verso i valori democratici e di giustizia sociale a giudicare dall’alto prezzo di sangue pagato nei giorni della Resistenza, dove furono ventiquattro le vittime del mondo clericale cadute sotto i colpi dei nazifascisti[6]. Significativo anche il modo: in genere per essersi offerti quali ostaggi volontari per liberare la propria gente come don Fondelli a Meleto o don Lazzeri a Civitella di Chiana o indiscriminatamente rastrellati con la popolazione da cui non intendevano dissociarsi. E i nazifascisti quando se la prendevano con il clero parrocchiale dell’Appennino dimostravano di conoscere molto bene il ruolo dei parroci in queste zone, considerando la loro opera svolta, almeno all’inizio dell’offensiva, la principale se non l’unica guida dell’opposizione. Esisteva un forte legame, espressione di un tessuto comunitario compatto, fra la popolazione e il parroco che si era consolidato negli anni dalla comune convivenza, dalla scuola, dalla partecipazione nelle attività sociali, un legame che proprio nei mesi della Resistenza risultava non necessariamente e solo religioso ma andava oltre fino al punto che spesso era lo stesso parroco ad avvallare le decisioni collettive per l’appoggio alla lotta partigiana. In questa zona nei mesi dopo l’Armistizio del ’43 il parroco interpretava la comunità scegliendo il campo della lotta e implicitamente la comunità lo delegava in ciò a rappresentarla. Ed è per l’appunto questa presenza attiva del clero parrocchiale che va considerata come un fattore essenziale che spiega e qualifica la partecipazione collettiva della popolazione contadina nella Valtiberina in chiave cattolica nella lotta per la liberazione. Inoltre dobbiamo considerare che la diocesi aretina era guidata da Monsignor Emanuele Mignone, l’unico vescovo che in Toscana si era apertamente dichiarato antifascista contravvenendo in parte all’orientamento dettato dal cardinale Elia Dalla Costa, la più alta autorità religiosa toscana, che prevedeva “di rendersi estranei ad ogni competizione politica”, e di fatto obbedienza alla legittima autorità, cooperazione nella tutela dell’ordine pubblico e quindi legittimazione del fascismo…ma con neutralità[7]. Dopo l’8 settembre il Vescovo Mignone si attivò immediatamente nella lotta contro il nazifascismo cooperando con gli oppositori politici ed entrando in contatto con le formazioni partigiane, caso unico nell’alto clero toscano che volutamente ignorava il CTLN e i partigiani perché nutriva fortissime preoccupazioni per l’adesione del popolo all’ideologia comunista. Non è privo di significato, infatti, che il Vescovo Mignone sia stato proclamato cittadino onorario dal CTLN all’indomani della Liberazione, e può essere indicativo anche il fatto che nella diocesi aretina non ci sia stato un solo caso di cappellano militare della Repubblica Sociale Italiana. E non altrimenti si spiega la presenza dei parroci nei Comitati Nazionali di Liberazione (organismi nati dopo l’8 settembre e prima dei CNL) e poi nei Comitati provinciali di liberazione, né si comprenderebbe come il primo nucleo resistente nella zona di Anghiari fosse stato organizzato dal prevosto mons. Nilo Conti. Nella provincia aretina, dunque, un contributo essenziale e determinante, al pari di quello offerto dal mondo contadino, è stato dato dalla Chiesa coinvolgendo nella Resistenza sia i parroci che le cariche ecclesiastiche più alte della diocesi. Così la stragrande maggioranza del clero che prese posizione lo fece quindi a favore della Resistenza politica e spesso non esitò a entrare in quella armata.

 

NOTE:

[1] Lorenzo Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina in La Resistenza dei cattolici sulla Linea Gotica, (a cura di) Silvio Tramontin, Edizioni cooperativa culturale “Giorgio La Pira”, Sansepolcro 1983, p. 158.

[2] Iris Origo, Guerra in Valdorcia, Vallecchi, Firenze 1968, pp. 65-67.

[3] Da un manifesto affisso nella Provincia di Arezzo in Libertario Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino. Dalle origini del movimento alla Repubblica: 1900-1946, Contributo per il convegno “Mondo Contadino e Resistenza” Foiano della Chiana, 15 marzo 1975, p. 72.

[4] L. Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina, cit., p. 159.

[5] Prende il nome da Romolo Murri, presbitero e politico italiano, tra i fondatori del cristianesimo sociale in Italia, propugnatore di un maggior impegno  politico dei cattolici, agì come voce critica nei confronti del conservatorismo delle gerarchie ecclesiastiche, cercando una conciliazione tra socialismo e dottrina sociale della Chiesa. Egli subì la sospensione a divinis nel 1907 e la scomunica nel 1909, revocata poi nel 1943. Cfr. Giampiero Cappelli, Romolo Murri: contributo per una biografia, Edizioni 5 lune, Roma 1965.

[6] Ivi, p. 160.

[7] L. Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino, cit., p. 78.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di novembre 2024.




O-3-R. Nascita e primi anni di attività clandestina dell’organizzazione comunista rivoluzionaria di Boccheggiano

Nell’estate del 1938, pochi giorni dopo l’annuncio del censimento degli ebrei — preludio all’emanazione di una speciale normativa[1] che avrebbe reso evidente la natura razzista e antisemita insita nell’ideologia fascista sin dalle origini — nel piccolo borgo minerario di Boccheggiano, situato nella Maremma grossetana, venne fondata una cellula clandestina comunista[2]. L’obiettivo era ridare impulso alla lotta per l’emancipazione, la libertà e la solidarietà, ideali conosciuti prima del fascismo ma da anni soffocati e silenziati. Infatti, con le “leggi fascistissime”, emanate tra il 1925 e il 1926[3], ogni forma di opposizione fu repressa tanto che «alla fine del 1926 tutti i partiti, tranne il Pnf, furono messi praticamente fuori legge, mentre, per iniziativa del segretario del Pnf, la Camera dichiarò decaduti i deputati dell’opposizione “aventiniana” e del Partito comunista (9 novembre)»[4]. Negli anni ’30, persino le attività clandestine divennero impossibili a causa dell’inasprimento del controllo totalitario, attuato attraverso la repressione della polizia tradizionale e dell’OVRA, l’Opera Vigilanza Repressione Antifascismo, che operava sia entro i confini italiani sia all’estero, con l’obiettivo di spezzare ogni possibile legame tra gli antifascisti. È in questo scenario di violenza e censura che alle 15:30 dell’8 agosto 1938 Anuello Lorenzoni, Altero Lorenzoni, Bruno Traditi, Ideale Tognoni, Eraldo Periccioli e Bandino Pimpinelli[5] decisero di costituire la cellula clandestina di Boccheggiano. Erano quasi tutti minatori, ad eccezione di Anuello, che lavorava come falegname, e di Altero, muratore.

In un’intervista collettiva rivolta ad Anuello Lorenzoni, Bandino Pimpinelli e Ideale Tognoni fu proprio quest’ultimo a specificare l’importanza della cellula comunista già nel 1938: «Ebbene, anche se non riuscì a prendere contatti con l’esterno, si riuscì invece a organizzare e a tenere viva la lotta nelle miniere anche sotto il regime fascista; si riuscì soprattutto a far sì che tutta la zona circostante Boccheggiano si avesse dalla nostra parte anche chi non combatteva apertamente.»[6]

Peraltro, non stupisce che sia proprio in un contesto minerario a sorgere la cellula clandestina comunista. Già nel 1919 il Partito Socialista aveva conquistato l’egemonia tra i minatori[7] ottenendo importanti risultati grazie alla stretta collaborazione tra forze politiche e organizzazioni sindacali[8], come l’introduzione di minimi salariali e la regolamentazione delle tariffe a cottimo[9]. Tale forza, tuttavia, era già segnata da una frammentazione interna che avrebbe portato alla scissione del 1921 e alla nascita del Partito Comunista d’Italia, cui aderirono principalmente le nuove leve della Federazione Giovanile e della Camera del Lavoro, affascinati dalle spinte rivoluzionarie[10].

Montieri, di cui Boccheggiano era importante frazione anche dal punto di vista della forza politica dei minatori, oltre ad essere stato il primo Comune socialista della provincia, fu l’ultimo a soccombere alle sistematiche azioni punitive[11] dello squadrismo dei fascisti, che avevano creato una propria roccaforte a Gerfalco da cui partivano per compiere le loro violenze[12].

All’alba della marcia su Roma il movimento operaio e socialista della provincia di Grosseto era stato sostanzialmente soffocato: nessuna organizzazione, nessun organo di stampa, nessuna sede per le riunioni, nessuna lotta contro il padronato delle Società minerarie della Montecatini e della Ravi-Marchi era possibile. Questa repressione si intensificò ulteriormente con il connubio tra fascismo e industria che trovò la consacrazione nel Patto di Palazzo Vidoni nell’ottobre del 1925[13].

La soppressione delle organizzazioni politiche e sindacali sancita dalle leggi fascistissime[14] portò progressivamente a un generale peggioramento delle condizioni di lavoro dei minatori e, in particolare, ad una significativa contrazione del salario operaio[15], fenomeno che si aggravò ulteriormente con la Grande Depressione. Durante questo periodo, la produzione della lignite calò drasticamente e solo alla fine degli anni ’30, in concomitanza con la politica autarchica e l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, i livelli della produzione e il numero degli operai impiegati nelle miniere tornarono ai livelli del primo dopoguerra[16]. Meno accentuato fu, invece, l’impatto della crisi sull’estrazione della pirite che, anzi, grazie al suo impiego nell’industria chimica, conobbe un importante potenziamento[17].

Tutto ciò contribuisce a spiegare l’esistenza, fin dalle origini del regime fascista, «di forme, spesso spontanee e contraddittorie, ma tuttavia assai vivaci, di resistenza all’azione di snaturamento delle tradizioni di classe attuata dal fascismo e di difesa dell’identità sociale e ‘culturale’ dei minatori»[18].

Anche l’isolamento geografico dei luoghi[19] – borghi e villaggi appositamente sorti negli anni ’30 – favoriva sia un capillare controllo da parte della Società mineraria e degli organi del regime fascista, sia una certa atomizzazione della lotta operaia. Allo stesso tempo, però, tale isolamento teneva vivo un sentimento di appartenenza e di emancipazione che, pur latente, talvolta si manifestava nell’antifascismo spontaneo, fino a tradursi in forme più collettive. Un esempio significativo è l’episodio che nel 1930 vide protagonista Ideale Tognoni, futuro fondatore della cellula clandestina e figlio di un militante e dirigente del PSI già vittima di attacchi, arresti e perquisizioni per mano fascista: non ancora maggiorenne, venne arrestato e imprigionato per un mese con l’accusa di aver disegnato la falce e il martello sui carrelli della miniera[20]. Inoltre, all’inizio del ‘32 i minatori di Montieri e Boccheggiano chiesero di non risultare più iscritti al sindacato fascista, criticando la sua inadeguatezza nel difendere i diritti dei lavoratori, e immediatamente furono imitati dai minatori di Prata e Roccatederighi che lavoravano con loro. Da Boccheggiano la protesta si estese a Niccioleta, dove il conflitto trovò espressione anche all’interno del villaggio[21], in quel quartiere operaio che la Montecatini aveva volutamente costruito come sobborgo ghettizzato.

Contro ogni soffio di rivendicazione si alzava la repressione della Società mineraria e del suo alleato fascista: la battaglia più aspra fu condotta contro il metodo Bedeaux[22] che sfruttava la forza-lavoro operaia. I minatori reagirono con azioni di propaganda cui la Montecatini rispose chiamando un battaglione della Milizia per piantonare la miniera giorno e notte[23] e avviando licenziamenti. Il conflitto culminò il 3 settembre 1933 quando un corteo di operai si diresse verso l’ufficio del direttore della miniera di Boccheggiano per protestare contro le riduzioni salariali: lo scontro finì con la distruzione dei mobili negli uffici[24]. La Montecatini ebbe però la meglio, con il supporto della Milizia. Seguì poi la minaccia di inviare gli operai nella guerra in Africa se non avessero “rigato dritto” mentre quasi tutte le domeniche gli squadristi arrivavano nel borgo minerario, dove si facevano consegnare degli elenchi dai fascisti locali per proseguire le violenze nelle case degli oppositori[25]. Ogni giorno, all’uscita della miniera, i fascisti ricordavano ai minatori chi comandasse, non solo perché erano «comunisti, ma anche e soprattutto perché…operai».[26]

Questo fu il clima in cui, ai primi di agosto del 1938, sorse la cellula clandestina comunista, quasi segnando un nuovo corso nel contingente della lotta antifascista che, fino a quel momento, si era svolta nelle gallerie della miniera, resistendo all’annichilimento voluto dal regime. Rispetto alla prima fase di attività della cellula, l’azione si concentrò principalmente sulla propaganda, vista come l’unico mezzo per rimpolpare le fila, un compito estremamente difficile ma che doveva essere tentato.

La prima riunione della cellula, tenutasi il 22 agosto[27] 1938, stabilì il nome che avrebbe dovuto avere: Organizzazione Comunista Rivoluzionaria. Si decise, tuttavia, di abbreviare il nome in “O-3-R”, da utilizzare anche nei registri, per evitare che il richiamo esplicito al comunismo potesse attirare l’attenzione o provocare rappresaglie dei fascisti. La cellula assunse un nome emblematico che da un lato richiamava il legame con il Partito Comunista (un legame più teorico che pratico, almeno in questa fase), ma dall’altro si connotava in modo autonomo, come segno di emancipazione e di lotta. La scelta del numero “3” potrebbe coincidere con la posizione della lettera ‘C’ nell’alfabeto oppure evocare la Terza Internazionale, l’organizzazione fondata nel 1919 sotto la guida del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, con il compito di coordinare i partiti comunisti a livello mondiale per diffondere la rivoluzione socialista. Così Ideale Tognoni descriveva le origini della cellula, sottolineando come la spinta rivoluzionaria che portò alla sua costituzione fosse il frutto dell’influenza politica trasmessa fin dall’infanzia dai loro padri, di fede socialista, e fortemente segnata dagli eventi del 1917: «ci ha permesso di ricostituire una sezione comunista in pieno regime fascista, chiaro segno questo che l’insegnamento e l’esempio dei nostri vecchi aveva dato i suoi frutti»[28].

Fondazione della cellula

Una delle caratteristiche che emerge immediatamente dai primi verbali delle adunate è la ritualizzazione interna, frutto di quel processo di mitizzazione nei confronti del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, rappresentato in particolare dalla figura del suo segretario Stalin. Già alla prima riunione, infatti, venne stabilita la formula del giuramento per le nuove adesioni, nonché la necessità di dotarsi di regolamenti e di norme disciplinari, definendo subito gli obiettivi perseguiti dai fondatori: cercare di inserirsi tra le fila fasciste «per sabotare e scrutare» ovvero «collaborare materialmente e politicamente a contatto con la nostra classe operaia e attirare a sua volta gli elementi abili alla nostra propaganda ed al nostro Ideale»[29]. Soprattutto nella fase iniziale, infatti, la funzione della cellula fu principalmente quella di tenere insieme gli stessi ideali, offrire un barlume di speranza nella condivisione di una società diversa e far sentire vicini coloro che quotidianamente erano sotto minaccia di violenze.

La capacità organizzativa, in termini di forza, di idee e di supporto economico, fu al centro della seconda adunata che si tenne il 1° settembre. In quell’occasione venne stabilito per ciascun associato il versamento di una quota mensile di 2 lire, una cifra sostanzialmente simbolica che poteva essere garantita da tutti, ma che al contempo rappresentava un segnale di appartenenza e di supporto. Per la prima volta fu approvato il giuramento e Anuello Lorenzoni fu eletto capo della cellula, ruolo che ricoprirà per tutto il periodo della clandestinità. Per garantire la segretezza e tutelare gli iscritti – ispirandosi più a pratiche massoniche[30], la cui tradizione era ben radicata nelle Colline maremmane, che a organizzazioni clandestine internazionaliste – si decise di chiamare i compagni non per nome, ma utilizzando numeri progressivi, in ordine di iscrizione.

Nell’adunata successiva del 10 ottobre, dopo averne discusso negli incontri precedenti, venne letto e approvato il programma, al motto marxista “Proletari di tutti i paesi: unitevi!”. Il programma prevedeva un’organizzazione basata su cellule, ponendo come primo obiettivo la propaganda, rivolta soprattutto ai giovani che meno di altri avevano conosciuto la possibilità di una libertà di pensiero e il pluralismo dei partiti, ormai relegati alla clandestinità all’estero dalle leggi fascistissime. La finalità dell’azione propagandistica era esplicitamente dichiarata: abbattere il governo fascista, in tutti i modi[31], e dar vita ad un nuovo governo.

L’influenza delle idee comuniste – più per evocazione del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e della teoria rivoluzionaria di Lenin che per effettiva militanza pregressa tra le fila del PCd’I – si riflette nel programma: tra gli obiettivi, la cellula si prefiggeva la lotta per l’abbattimento del capitale individuale, un lavoro al servizio di tutti, la socializzazione delle terre, il diritto di eleggere i propri rappresentanti[32], una parità di diritti tra uomo e donna, un connubio uomo-scienza che richiamava il progresso del modo di produzione. Dalla lettura del programma si percepisce un ‘socialismo umanitario’[33], caratterizzato da un profondo senso di solidarietà e dalla volontà di costruire una società più uguale e giusta, nella speranza di riuscire ad abbattere la barriera che separa l’uomo dall’uomo, contro quell’egoistico individualismo finalizzato solo al soddisfacimento dei propri interessi. Se pensiamo agli abusi, alle violenze, alle torture che la popolazione aveva conosciuto già con lo squadrismo del movimento fascista delle origini, questo desiderio di solidarietà e rispetto risulta quanto mai vivo e sentito. Tale pensiero si riflette nell’ultimo punto del programma: «Vogliamo infine essere uomini e non più Massa bruta», un’espressione che invitava a superare la condizione di passività e ignoranza, per sviluppare una coscienza di classe e diventare protagonisti consapevoli della propria storia.

L’impronta comunista della cellula fu riportata anche nel timbro che uno dei nuovi iscritti, Bosco Brachini, fabbricò nell’officina della miniera: qui incise lo stampo che però risultò con la falce e il martello rovesciati, forse per la sua giovane età che gli impediva di ricordare correttamente il simbolo del partito ormai da tempo vietato o perché non tenne conto del fatto che il timbro avrebbe riprodotto l’immagine specchiata.[34]

Per quanto riguarda le disposizioni disciplinari, oltre alla puntualità nelle adunate – proprio per evitare il rischio di essere scoperti –, ogni affiliato avrebbe dovuto prestare giuramento e obbedire agli ordini. In caso contrario, una Commissione avrebbe giudicato il suo operato e il tradimento delle disposizioni avrebbe comportato la condanna a morte. Da un punto di vista morale – perché la cellula non regolava solo la vita politica – all’iscritto era vietato l’abuso di alcol e il gioco.

Ogni iscritto doveva salutare, all’inizio e alla fine di ogni adunata, con il braccio alzato e il pugno chiuso: un gesto che diventava un segno di condivisione e appartenenza acquisendo un significato ancora più profondo nel contesto di paura, violenza e individualismo che caratterizzava quei tempi.

Nel giro di poche settimane il numero degli iscritti e le richieste di adesione aumentarono significativamente, facendo presagire una ventata di speranza, in nome di una lotta collettiva che avrebbe liberato un intero Paese dal giogo fascista. Si rese necessario creare due cellule per consentire l’organizzazione e la clandestinità, ciascuna delle quali dotata di un capo e di un gruppo per l’esecuzione dei compiti[35]. Da quel momento in poi, l’O-3-R avrebbe vissuto fasi alterne di adesioni, con l’obiettivo primario di garantire l’incolumità e la segretezza degli iscritti e delle attività, obiettivi che un numero eccessivo e non controllato non avrebbe potuto garantire.

Il giuramento dei membri della cellula

Il crescente contingente di affiliati richiedeva inevitabilmente un luogo più sicuro per le adunate[36], che dal nuovo anno si svolgevano con cadenza mensile. Così, il 15 febbraio 1939 il capo della prima cellula, Bandino Pimpinelli, con i compagni Altero Lorenzoni e Ideale Tognoni vennero incaricati di andare alla ricerca di un posto sicuro. La stessa sera il luogo fu individuato: era un rifugio situato poco sotto il centro di Boccheggiano, tra gli alberi di castagno tipici delle Cornate, un cunicolo all’interno di una grotta, una vecchia galleria che collegava la miniera e che ora avrebbe permesso di raccogliere in sicurezza tutti i partecipanti alle riunioni clandestine. Era un luogo perfetto, che però necessitava di alcuni lavori per renderlo idoneo all’organizzazione: due sere dopo, a buio inoltrato, tutti i componenti della prima cellula si ritrovarono con «picconi, pale, puntelli, bacchi, ascia, [e] fu così iniziato il lavoro di disgaggio, armamento e porta»[37].

Il 30 marzo il rifugio fu inaugurato con l’adunata di entrambe le cellule: la prima cellula decise che quella vecchia galleria, da quel momento, avrebbe preso il nome di “Rifugio Stalin”, un ulteriore omaggio ideologico alla patria della rivoluzione. Per festeggiare quel luogo condiviso di lotta e ideali, gli iscritti quella sera brindarono con due fiaschi di vino.[38]

Una volta trovato un luogo sicuro per le riunioni, l’attenzione si poteva completamente concentrare sull’opposizione politica. Dai verbali di agosto emerge chiaramente che il primo obiettivo fosse quello di reperire armi automatiche, per garantire la sicurezza e prepararsi allo scontro con l’oppressore fascista. Tuttavia, ad un certo punto, si verificò un evento che sconvolse i comunisti del borgo minerario: la Germania stava varcando “furibonda”[39] le frontiere e pertanto l’O-3-R ordinò di cessare ogni attività di propaganda politica al fine di «iniziare subito il sabotaggio nelle fabbriche, nelle miniere e nelle officine e dove si costruisca per la guerra»[40]. La notizia venne commentata a poche settimane dall’occupazione tedesca della Polonia – al pretesto di “Morire per Danzica” – alla quale, lo stesso 1° settembre, Francia e Gran Bretagna avevano risposto con la dichiarazione di guerra, mentre l’URSS avanzava da Oriente, forte del Patto Molotov-Ribbentrop, firmato il 23 agosto proprio con la Germania, che sanciva la non aggressione tra i due Paesi. Lo scenario che si stava delineando sembrava chiaro anche ai comunisti della cellula clandestina: l’aggressione tedesca ai danni della Polonia non poteva che destare preoccupazione e paura[41], nonostante Mussolini, già il giorno dell’invasione, avesse proclamato la non belligeranza dell’Italia in accordo con Hitler, appellandosi al carattere difensivo del Patto d’Acciaio del 22 maggio 1939. Tuttavia, per quanto tempo avrebbe potuto reggere questa posizione di neutralità? Quale tipo di supporto sarebbe stato richiesto all’alleato fascista? L’Italia, assolutamente impreparata sia dal punto di vista bellico che industriale, era comunque destinata ad entrare nel conflitto.

Lo scoppio della guerra aveva determinato, anche a livello nazionale, la conversione delle fabbriche per soddisfare le crescenti esigenze belliche, con la produzione di armi, munizioni e mezzi per l’esercito. L’azione di sabotaggio assumeva quindi una duplice valenza: da un lato rappresentava una manifestazione politica di opposizione all’iniziativa militare, dall’altro costituiva una rivendicazione sindacale e civile contro le sempre più drammatiche condizioni di lavoro. È necessario precisare, comunque, che probabilmente tali azioni consistevano più in piccoli atti per rallentare i lavori che in vere e proprie opere di sabotaggio, di cui non risultano testimonianze.

Lo scoppio della guerra non poteva non avere ripercussioni sulla vita della cellula comunista: mentre alimentava il desiderio di intensificare lo scontro con il regime fascista, imponeva un’attenzione ancora più alta verso le nuove richieste di adesione all’O-3-R. La principale preoccupazione riguardava il coinvolgimento dei più giovani: se senza dubbio erano accolti favorevolmente l’entusiasmo e l’energia delle nuove generazioni che chiedevano di partecipare, al contempo, si temeva l’infiltrazione o la scarsa preparazione politica dei nuovi membri. La sincera lealtà alla causa rivoluzionaria era garantita dal giuramento liturgico pronunciato dai nuovi e giovani iscritti: si arrivò così alla nascita dell’O-Giovanile-R[42], affidata alla guida di Ideale Tognoni.

Nel frattempo, il conflitto militare procedeva nella forma della drôle de guerre: la Germania, con una grande velocità grazie alle sue divisioni corazzate[43], aveva occupato Polonia, Danimarca e Norvegia mentre Francia e Inghilterra non avevano sparato ancora un colpo. Man mano che passavano le settimane, anche sul fronte interno cresceva la tensione: l’esigenza di controllo sul territorio, per evitare ogni passo falso e soprattutto ogni ripresa delle forze di opposizione, portò infatti il regime a rafforzare le misure repressive, anche nelle zone più isolate. È con questo intento che nella notte del 25 aprile 1940[44] il borgo minerario di Boccheggiano venne quasi completamente accerchiato dalle spie fasciste, spingendo Anuello Lorenzoni a ordinare riunioni bimestrali e a sospendere le nuove iscrizioni, per evitare rischi di infiltrazioni o arresti. Questo stato di cose perdurò per tutta l’estate: Mussolini, sicuro di salire sul carro del vincitore, il 10 giugno aveva oramai dichiarato guerra attaccando i francesi sulle Alpi, ma già dai primi scontri emerse l’inadeguatezza dell’esercito italiano, mentre la Germania continuava imperterrita a occupare Olanda, Belgio fino alla capitolazione della Francia. Anche a Boccheggiano l’atmosfera che si respirava era pesante e, proprio per non destare sospetti, fu deciso di trasformare gli incontri tra i compagni in occasioni di convivialità, come poteva essere una merenda sotto i castagni.

Tuttavia, mentre si cercava di prestare la massima attenzione per evitare ogni rischio di scoperta, la cellula valutò che i tempi fossero maturi per organizzare l’azione politica tanto attesa: fu pertanto eseguito il censimento delle armi acquistate nel ’39, verificandone la funzionalità e lo stato di conservazione, annotando chi le detenesse. L’inventario rivelò la presenza di una rivoltella automatica e due rivoltelle a tamburo. L’O-3-R sembrava operare su due fronti distinti ma complementari: da un lato, rafforzava la propria organizzazione in vista di un possibile ritorno di quella ‘guerra civile’ vissuta nei primi anni dello squadrismo, dall’altro proseguiva convintamente l’attività di propaganda, che ora si faceva più che mai cruciale per attrarre fidati proseliti, pur restando instancabilmente ma necessariamente nell’ombra[45]. Per queste ragioni, le adunate tornarono ad avere una cadenza mensile e nell’aprile del ’41 si unì una terza cellula composta da compagni più maturi.

Le notizie dal fronte concorrevano ad indebolire sempre più l’immagine di Mussolini e del suo regime, così come le ragioni dell’entrata in guerra: la disfatta della flotta italiana per mano inglese, la resa in Africa di 20.000 soldati italiani, con l’abbandono di 100 carri armati nelle mani di appena 3.000 britannici, le numerose disfatte in terra greca che richiesero l’intervento dell’alleato tedesco.

Elenco dei membri della cellula

Con il costante aumento dei fallimenti dell’esercito fascista, che riflettevano un regime sempre più in crisi, cresceva il bisogno di condividere ideali di libertà e di lotta, espressi ancora una volta attraverso la simbologia politica. Con questo intento, durante l’adunata del 1° maggio 1941 – data simbolo di solidarietà e fratellanza operaia – venne mostrato il vessillo ufficiale dell’O-3-R: una bandiera rossa, ricamata a mano da Miranda Marzolini, moglie di Ideale e l’unica donna a conoscenza della cellula clandestina. La bandiera fu realizzata anche grazie al contributo dei fratelli Ideale e Mauro Tognoni, rinominati adesso rispettivamente alfiere e scorta d’onore. Su quella bandiera rossa spiccava la scritta: “Partito Comunista di Boccheggiano”[46].

All’inizio dell’estate del ’41, ad un anno esatto dall’entrata dell’Italia in guerra, il clima a Boccheggiano si presentava ancora più teso e carico di preoccupazioni, ma a differenza del passato, quando la cellula era arrivata a sospendere le iscrizioni e a rallentare le adunate, adesso l’azione sembrava proseguire: lo stesso Lorenzoni, in qualità di capo, esortava a mantenere viva la propaganda in un paese ormai «assediato dai malfattori, che vigilano oggi più di ieri, per vedere se riescono a toglierci fra le sue ormai minate file impossibilitate di vincere e di abbatterci.»[47]

Dai verbali si ha l’impressione che l’attività clandestina riuscisse a portare nel Rifugio Stalin organi di informazione che diventavano un momento di lettura collettiva e confronto sugli accadimenti. L’unione e il senso di appartenenza si rafforzavano anche grazie a questo, in un contesto in cui il livello di alfabetizzazione era limitato rendendo difficile per molti l’accesso alle informazioni e la comprensione degli eventi. Così, la lettura ad alta voce dei pochi articoli che riuscivano ad arrivare clandestinamente diventava un’importante occasione di condivisione, non solo della cronaca, ma anche dei valori e dell’identità di classe. I più attivi a distribuire «L’Unità» erano i fondatori Bandino, Ideale e Altero, particolarmente impegnati anche nella ricerca di nuovi proseliti per creare altre cellule, persino nei paesi limitrofi. Tra i nuovi iscritti, che andarono a rimpolpare l’organizzazione nei mesi successivi[48], vi era invece Paride Lucchesi, uno dei pochi istruiti di Boccheggiano, che riusciva a portare con sé un «giornaletto di piccolo formato e dalla veste tipografica alquanto dismessa che presto si consumava a passarlo di mano in mano»[49], ovvero il giornale ufficiale del partito comunista che aveva da poco ripreso la stampa clandestina[50].

Tra le notizie che arrivavano dal fronte, quella che colpì maggiormente fu la dichiarazione di guerra alla Russia da parte della Germania, «dopo essere già entrata di soprassalto nel suo territorio»[51]: il Terzo Reich lanciò le sue divisioni corazzate oltre i confini sovietici, un atto che fu definito dall’organizzazione clandestina un vero e proprio tradimento di quel patto militare e politico siglato all’alba della occupazione della Polonia. L’ “Operazione Barbarossa” tedesca finì col rafforzare ulteriormente il senso di appartenenza alla causa comunista. Inoltre, ai compagni non poteva sfuggire che fin dall’inizio Hitler aveva posto tra gli obiettivi del Terzo Reich l’annientamento del comunismo, la fine di ogni prospettiva di internazionalizzazione della rivoluzione proletaria e la conquista di tutti i popoli slavi per estendere il suo potere anche ad Oriente. I verbali non riportano i resoconti delle discussioni politiche ma all’adunata del 10 agosto del ’41 venne approvato un ordine del giorno che ben esprime quel clima: sabotare «qualsiasi lavorazione dove i compagni si trovino occupati per prima fiaccare i due eserciti uniti»[52]. Ancora una volta il sabotaggio veniva indicato come principale strumento di lotta mirato a colpire le forze dell’Asse. Ancora una volta l’alleanza nazifascista doveva essere abbattuta, ancora di più se l’altro fronte era rappresentato dalla ‘Patria dei lavoratori’.

Rispetto all’attività dell’O-3-R, la convocazione delle adunate era diventata, ormai da tempo, una variabile dipendente dal livello di attenzione e pericolo che si respirava per le strade del piccolo borgo, permeato da una presenza sempre più massiccia di fascisti. I crescenti controlli erano la conseguenza di quanto accadeva sul fronte militare, con l’intento di incutere terrore mediante un’oppressione sempre più soffocante: «In molti Paesi e città si verificano fatti da loro commessi a molti de’ nostri compagni da essi scoperti nelle organizzazioni»[53]. Evidentemente non solo a Boccheggiano, ma anche nei paesi vicini gli insuccessi del regime avevano riacceso un fervore politico che dopo anni di silenzio sembrava piano piano riprendere voce. Per questo motivo, a partire dal 1942 l’O-3-R iniziò a cercare collaborazioni esterne: un primo tentativo fu fatto a Prata[54], dove alcuni locali avevano manifestato interesse a unirsi alla lotta politica, ma l’incontro di maggio, cui parteciparono Altero Lorenzoni, Bandino Pimpinelli e Oscar Rocchi, rivelò che il contesto non era ancora favorevole a una struttura organizzata e ideologicamente coerente[55]. La questione, tuttavia, venne ripresa a luglio, ancora una volta sollecitata dai compagni di Prata, perché sempre più imminente si presentava l’esigenza di trovare un contatto con altri centri organizzativi e creare una rete di collegamento: l’obiettivo era quello di diffondere anche presso di loro giornali come «La Giovane Italia», «L’Italia libera» e «L’Unità»[56], strumenti di informazione e propaganda, pur con orientamento politico diverso, contro l’oppressione fascista che continuava a registrare fallimenti militari, e con essi la morte di tanti soldati al fronte. Si percepisce chiaramente il desiderio di rendere l’organizzazione più capillare, creando contatti con altri comunisti locali e mettendo insieme le forze per unirsi nella lotta che li attendeva. Del resto, dall’estate del ’42, sembrano avviarsi i primi rapporti con il PCI, che sarebbero diventati diretti e stabili con la caduta del regime[57]. Anche gli stessi strumenti propagandistici, pur circolando ancora in forma clandestina, cominciavano a farsi sentire con maggiore frequenza, quasi come voler rispondere all’esigenza di un maggiore approfondimento teorico e pratico, mirato a risvegliare la coscienza di classe. Infatti, se da una parte l’attività della Organizzazione Rivoluzionaria aumentava di intensità, dall’altra anche i controlli degli «abbietti e miserabili fascisti»[58] si facevano sempre più stringenti, specialmente agli inizi del ’43. Per questa ragione, l’O-3-R si trovò di fronte ad una scelta, dolorosa ma inevitabile: distruggere tutto ciò che era stato prodotto fino a quel momento fatta eccezione della bandiera, del registro cassa e del registro dell’organizzazione[59]. Nessuna traccia doveva restare, nessun rischio doveva essere corso. Soprattutto ora.

Nel frattempo, le notizie che arrivavano dal fronte rappresentavano motivo di soddisfazione e stimolo per l’Organizzazione, in particolare per i successi degli Inglesi e soprattutto dei “compagni Russi”[60]. La guerra tra Germania e Unione Sovietica aveva visto un enorme dispiegamento di forze da entrambe le parti, ma l’iniziale avanzata tedesca del ‘41 fu l’ultimo successo della guerra lampo della Panzerdivisionen. Già verso la fine dell’anno, la Germania non poteva più contare sulla superiorità tecnologica dei panzer, sopraffatta anche dalla strategia sovietica e dall’inverno russo, proprio come accaduto con Napoleone. La battaglia di Mosca (ottobre 1941-gennaio 1942) rappresentò la prima sconfitta terrestre della Wehrmacht, provocando una pesante frattura psicologica poiché aveva dimostrato la non invincibilità tedesca. All’Armata Rossa si unì la guerra partigiana locale e il tracollo della Germania arrivò definitivamente con la battaglia di Stalingrado dove, dopo mesi di assedio, l’esercito tedesco si arrese, il 31 gennaio 1943.

La crescente speranza accompagnò gli animi della cellula fino alla notte del 25 luglio 1943, quando il Gran Consiglio del Fascismo votò l’ordine del giorno, presentato da Dino Grandi, per deporre il Duce. Di fronte alla notizia della «lunga e desiderata caduta del fascismo e del carnefice oppressore Benito Mussolini»[61] i capicellula diedero ordine ai compagni di rimanere pronti per qualsiasi direttiva potesse arrivare dall’organizzazione provinciale, invitando tutti ad aspettare ulteriori istruzioni.

Il programma della cellula

La valutazione che emerge rispetto a questo concitato momento è chiara: il fascismo era caduto ma per la cellula di Boccheggiano il sistema rimaneva “fascista borghese”, anche sotto la guida del Generale Badoglio «il quale spacciandosi come liberatore del Popolo imponeva dopo poche ore della capitolazzione (sic) leggi che terrorizzarono il popolo Italiano essendo ormai disorientato da 20 anni dall’oppressione fascista»[62]. Il riferimento è sicuramente al proclama del giorno successivo che introdusse lo stato d’assedio insieme a quello del coprifuoco, trasferendo i poteri civili nelle mani dei comandi militari, vietando assembramenti e manifestazioni pubbliche, mettendo in atto repressioni contro eventuali disordini.

Alla concitazione e al rischio di smarrimento legato alla situazione nazionale seguì un fervore di attesa per gli sviluppi degli eventi. Nel verbale del 18 agosto si fa riferimento allo “sciopero per la dimostrazione di Pace mondiale”[63], indetto dai compagni di Prata e svolto per 24 ore presso la miniera del Baciolo e contemporaneamente a Niccioleta. Nonostante le precarie e drammatiche condizioni cui gli operai erano stati sottoposti nel ventennio fascista, alla base dello sciopero non vi erano rivendicazioni economiche, ma un chiaro intento politico: manifestare il dissenso contro il regime appena caduto e sostenere ideali di pace e giustizia, in contrasto con il grido badogliano de “la guerra continua”.

Nel frattempo, continuavano i tentativi di costruire una rete politica territoriale. Il giorno prima della dichiarazione dell’armistizio – già firmato il 3 settembre – Bandino Pimpinelli, nuovamente incaricato da Lorenzoni, si recò a Massa Marittima per prendere contatto con gli altri compagni del PCI e, al suo ritorno, riferì la decisione di costituire un nuovo e più numeroso Comitato[64]. La cellula comunista di Boccheggiano era consapevole del momento storico che stavano vivendo e delle sfide che li attendevano, impegnati in azioni che richiedevano un’organizzazione solida ed efficace. Quella praxis tanto agognata adesso si presentava con tutta la sua forza: anni di regime, di violenza, di oppressione avevano segnato la società, gli animi, le speranze e le illusioni e il cammino verso la liberazione non sarebbe stato facile.

Alla notizia dell’armistizio, trasmessa da Radio Londra e ascoltata nel bar del Lorenzoni[65], che comunicava la resa incondizionata dell’Italia, i capicellula si riunirono con il compagno capo: l’unico ordine fu quello di dar vita a “dimostrazioni patriottiche”. Alle 21 dell’8 settembre fu pertanto organizzato un corteo al quale partecipò tutta la popolazione e due simpatizzanti dell’organizzazione comunista intervennero invitando, sì, al risveglio ma anche alla calma[66].

I mesi successivi avrebbero segnato una nuova fase per l’O-3-R. Tutte le speranze di quei compagni si riversarono nella lotta partigiana.

 

NOTE:

[1] Il censimento fu annunciato il 5 agosto 1938 ed effettuato a partire dal 22 agosto. Fu lo strumento attraverso il quale «gli ebrei d’Italia vennero accuratamente individuati, contati, schedati», Sarfatti M., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione in Collotti E., Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Bari-Roma, Laterza, 2006, p. 65. Ciò costituì la base della più mastodontica legislazione antiebraica del mondo, dopo quella tedesca. Per un approfondimento si veda, ad esempio, l’opera sopra citata di Collotti.
[2] Questo articolo è il risultato di un lavoro di ricerca condotto sul Fondo Pimpinelli, in particolare attraverso l’analisi del Registro dei verbali della Organizzazione Comunista Rivoluzionaria, conservati presso l’AISGREC, Archivio dell’ISGREC – Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea.
[3] Si vedano il Regio Decreto n. 1848 “Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” del 6 novembre 1926 e la Legge n. 2008 “Provvedimenti per la difesa dello Stato” del 25 novembre 1926 che, peraltro, istituì il Tribunale speciale per la difesa dello Stato e reintrodusse la pena di morte. Da questo momento, ogni forma di critica, di opposizione, di lotta al governo fu vietata e penalmente perseguita, tutti i partiti e le organizzazioni che manifestavano azione contraria al partito furono sciolti, fu istituito il confino di polizia «per quanti manifestassero il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire gli ordinamenti costituiti dello Stato», i giornali di opposizione furono soppressi; molti antifascisti fuggirono all’estero da dove cercarono di guidare la lotta al regime mussoliniano, contando anche su qualche appoggio di gruppi che provarono a continuare ad agire sul territorio italiano in forma clandestina. Si veda anche Spriano, P., Storia del Partito comunista italiano. Gli anni della clandestinità, v. 3 parte prima, Einaudi editore, collana per «L’Unità», Torino, 1969, pp. 61-62.
[4] Gentile E., Fascismo. Storia e interpretazione, Economica Laterza, Bari-Roma, 2023, p. 20.
[5] Fondo Pimpinelli (da questo momento: FP), Registro verbali, f. 121. Bandino Pimpinelli fu curatore prima e poi custode di tutti i verbali dell’attività clandestina, fino alla sua morte nel 1996. Era il figlio di Ireneo, che fu l’ultimo sindaco di Montieri prima delle leggi fascistissime, socialista e autore di poesie popolari; sarà anche il primo sindaco nominato dal CLN subito dopo la Liberazione.
[6] Nesti A., Anonimi compagni: le classi subalterne sotto il fascismo, Coines, Roma, 1976, p. 143.
[7] Alle elezioni politiche del 1919 e alle amministrative del 1920 il Partito Socialista era risultato il primo partito: i socialisti conquistarono tutte le amministrazioni comunali ad eccezione dell’Isola del Giglio, dove si registrò la vittoria dei liberali, Monte Argentario, dei popolari, Castiglion della Pescaia e Massa Marittima, vinte dai repubblicani. Cfr. Rogari S. (a cura di), Il biennio rosso in Toscana 1919-1920, Atti del convegno di studi Sala del Gonfalone, Palazzo del Pegaso 5-6 dicembre 2019, Firenze: Consiglio regionale della Toscana, 2021.
[8] Cfr. Nesti A., Anonimi compagni cit., p. 139.
[9] Cfr. «Il Risveglio», agosto 1919. Si veda anche Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani fra le due guerre, in Siderurgia e miniere in Maremma tra ‘500 e ‘700. Archeologia industriale e storia del movimento operaio, All’insegna del Giglio, Firenze, 1984, p. 199.
[10] Cfr. «Il Risveglio», 27 marzo 1921. Ancora Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 200.
[11] Si rammenti la conquista armata di Grosseto (30 giugno 1921) che portò anche alla distruzione della Camera del Lavoro e della Lega dei Terrazzieri, delle sedi del partito socialista, comunista e repubblicano, nonché della tipografia de «Il Risveglio»; inoltre, l’incursione squadrista a Roccastrada (24 luglio 1921) considerata “roccaforte rossa”. Per un approfondimento, Cansella I., Roccastrada 1921. Un paese a ferro e fuoco www.toscananovecento.it/custom_type/roccastrada-1921-un-paese-a-ferro-e-fuoco/
[12] Cfr. Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani cit., pp. 202-03.
[13] Stipulato il 2 ottobre 1925, l’accordo tra il regime fascista italiano e i rappresentanti della Confindustria rappresentò una svolta significativa nei rapporti tra il mondo del lavoro e il governo fascista, a scapito della classe operaia.
[14] In particolare, con la legge n. 563 del 3 aprile 1926, venne istituito un sistema corporativo che prevedeva il riconoscimento di un unico sindacato per ogni categoria, strettamente controllato dallo Stato fascista.
[15] Nel 1939 la legione territoriale dei carabinieri reali di Livorno, gruppo di Grosseto, inviò al prefetto di Grosseto una relazione in cui di fatto sì evidenziava una riduzione dei salari nel corso degli ultimi 20 anni che oscillava tra il 36 e il 40% circa. Si veda Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 209.
[16] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., pp. 208- 209.
[17] A conferma di ciò, si possono citare, nella prima metà degli anni ’30, l’inaugurazione del villaggio di Niccioleta e la costruzione di un sistema di teleferiche che collegava le tre miniere della Montecatini (Boccheggiano, Niccioleta e Gavorrano) al mare, da dove i materiali venivano imbarcati verso i mercati nazionali e internazionali. In particolare, Niccioleta nacque nel 1933 come villaggio minerario di proprietà della Società Montecatini, ruolo che mantenne fino al 1976, quando divenne frazione del Comune di Massa Marittima.
[18] Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 210.
[19] Cfr. Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Quaderni ISGREC, 08, Effigi, Arcidosso (GR), 2021, p. 239.
[20] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 218; Tognoni M., Visi sporchi coscienze pulite. ‘Storia’ di un paese minerario della Toscana, Il Paese reale, Grosseto, 1979, p. 57.
[21] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 213.
[22] Il metodo Bedeaux fu introdotto per la prima volta a Gavorrano nel marzo del 1932 in un contesto di grave crisi che aveva già causato una drastica riduzione del salario e numerosi licenziamenti. In generale, il metodo consisteva in uno strumento volto ad aumentare i ritmi di lavoro, senza collegare lo sforzo fisico al salario percepito; inoltre, prevedeva penalità per i lavoratori che non rispettavano i tempi massimi stabiliti per ogni attività, con l’effetto di alienare ulteriormente il controllo degli operai sul loro lavoro. Molti furono i tentativi da parte della classe operaia di riprendere il controllo delle loro attività, sfruttando ad esempio la voce “lavori eventuali”, ovvero piccoli lavori che richiedevano uno sforzo fisico minore (la riparazione di un quadro d’armatura o il perfezionamento di un disgaggio etc.), ma che venivano valutati nel computo finale dei punti, contribuendo a ristabilire un equilibrio salariale sfruttando la minore produttività richiesta. Cfr. Nesti A., Anonimi compagni cit., p. 140.
[23] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 141.
[24] Per un approfondimento si veda la Testimonianza di Anuello Lorenzoni, Bandino Pimpinelli, Ideale Tognoni in Nesti, A., Ibidem.
[25] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 143.
[26] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 142.
[27] Verbale del 22 agosto 1938, FP, f. 123.
[28] Nesti, Ibidem.
[29] FP, f. 123.
[30] Si veda anche Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Ibidem.
[31] Cfr. FP, f. 124.
[32] Si rammenti che le leggi fascistissime segnarono anche la morte della democrazia parlamentare: il parlamento, ormai privato delle sue funzioni legislative e di controllo nei confronti dell’esecutivo, non venne più eletto ma nominato con elezioni dette plebiscitarie. D’altronde il regime fascista aveva sempre mostrato disprezzo nei confronti delle elezioni che definiva “ludi cartacei”, Cfr. Viola P., Il Novecento. Storia moderna e contemporanea, v. 4, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2000, p. 93.
[33] Cfr. Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma cit., pp. 239-240 e Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 219.
[34] Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., Ibidem.
[35] All’alba del 25 aprile 1943 gli iscritti erano arrivati a 26 per poi aumentare fino ad una quarantina.
[36] Benché dai verbali non emerga il luogo fino a questo momento utilizzato, si può pensare a sedi fortuite e che non destavano sospetti, tra cui pare lo scantinato o il retrobottega di Anuello Lorenzoni, come riportato da Tognoni, Visi sporchi cit., p. 61.
[37] FP, f. 131.
[38] FP, f. 132.
[39] Verbale del 20 settembre 1939, FP, f. 134.
[40] FP, Ibidem.
[41] Si veda anche Campagna, Turbanti, Antifascismo, guerra e Resistenze cit., pp. 115-116. Per un approfondimento si veda Rogari S., L’opinione pubblica in Toscana di fronte alla guerra (1939-43), in Antifascismo, Resistenza, Costituzione. Studi per il sessantesimo della liberazione, Franco Angeli, Milano, 2006.
[42] FP, Ibidem.
[43] Hitler era convinto che le Panzerdivisionen sarebbero state cruciali per la Blitzkrieg (guerra lampo), cfr. Viola, Il Novecento cit., pp. 188-89.
[44] Cfr. FP f. 137.
[45] Cfr. FP f. 139.
[46] Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., pp. 69-70.
[47] Verbale del 18 giugno 1941, FP f. 140.
[48] Verbale del 20 dicembre, FP f. 141.
[49] Tognoni, Visi sporche coscienze pulite cit., p. 18.
[50] L’ultimo numero ufficiale del giornale fondato da Antonio Gramsci fu pubblicato il 31 ottobre 1926. Il 27 agosto 1927 uscì il primo numero dell’edizione clandestina, che ebbe origine nella sede francese di Rue d’Austerlitz e poi nel ’31 con una stamperia a Milano. La pubblicazione clandestina subì una battuta d’arresto tra il ‘34 e il ’39 per riprendere con lo scoppio della guerra e della lotta antifascista. Il giornale tornerà alla pubblicazione ufficiale a Roma il 6 giugno 1944, con l’arrivo delle truppe alleate.
[51] Cfr. Verbale del 10 agosto 1941, FP Ibidem.
[52] FP, Ibidem.
[53] Verbale del 12 gennaio 1942, FP f. 143.
[54] Piccolo borgo confinante, residenza di molti minatori di Niccioleta e Boccheggiano.
[55] Cfr. Verbale del 03 maggio 1942, FP f. 144.
[56] Cfr. Verbale del 22 luglio 1942, FP Ibidem.
[57] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 218.
[58] Rapporto I del 12 gennaio 1943, FP f. 147. Tale decisione fu poi approvata da tutta l’O-3-R.
[59] FP, Ibidem.
[60] FP, Ibidem.
[61] Rapporto “IIII” del 25 luglio 1943, FP f. 148. Nel rapporto è sottolineato in rosso.
[62] FP, Ibidem.
[63] Verbale del 18 agosto 1943, FP f. 152. Si veda anche Campagna, Turbanti, Antifascismo, guerra e Resistenze cit., p. 227.
[64] Cfr. Rapporto V del 7 settembre 1943, FP f. 148.
[65] Il suo bar era la sede da cui si poteva ascoltare Radio Londra, con una sicurezza garantita da un compagno con il ruolo di palo sulla porta mentre altri compagni facevano finta di giocare a carte per non destare sospetti. Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., pp. 61-62.
[66] Cfr. FP, Ibidem.



Tra bombardamenti ed eccidi, l’anno buio della guerra a Dicomano

Dicomano rappresenta al meglio la specificità delle valli appenniniche durante la resistenza nell’estate del 1944. La liberazione del 10 settembre simboleggia la fine di un incubo durato mesi e reso ancor più nefasto dalle stragi nazifasciste verificatesi a luglio. Prima è però importante per il lettore capire il significato di quelle stragi. Dobbiamo quindi illustrare che cosa rappresentano quelle zone nel contesto di guerra. Stiamo parlando di valli strette e ritenute abbandonate, al limite della regione, quindi considerate sicure. Sono al contrario estremamente strategiche perché rappresentano il passaggio tra Toscana e Emilia Romagna. Un passaggio decisivo, soprattutto la parte aretina, nella primavera del 1944, quando i comandi delle brigate Garibaldi decidono di creare una grande armata partigiana che doveva operare sull’Appennino per colpire sul forlivese e sull’aretino. Un progetto poi smantellato in seguito all’operazione di rappresaglia e rastrellamento nazista, deciso subito dopo le Ardeatine, che potremmo definire il punto di svolta sulla concezione da parte di Kesselring e dei comandi nazisti del pericolo partigiano, considerato da li in avanti potenzialmente pericolosi per le proprie truppe. Fino a quel momento non vi erano state stragi di matrice nazista infatti, era stato lasciato ai fascisti il controllo del territorio. Da quel momento cambia tutto. A quel punto, tutte le brigate partigiane che si stavano portando sull’Appennino per raggrupparsi, ovviamente devono separarsi per non essere catturate. Ed è per questo che quindi si verificò la divisione sui territori. Da quel momento l’Appennino diviene strategico, in quanto zona centrale dei combattimenti, e lo resterà finché la linea non si attesterà a Bologna, nell’autunno del 1944[1].

Per omaggiare al meglio il ricordo di quei mesi è doveroso quindi cercare di creare un itinerario che possa contenere tutti i luoghi della memoria di Dicomano, sia quelli in paese, sia i ceppi in ricordo delle vittime stragiste situate nelle varie località adiacenti.

 

Percorso

 

  • Percorso: Via Nazionale, località Contea, Dicomano (Cippo di Contea) – Piazza Francesco Buonamici, Dicomano (Lapide del bombardamento) – Piazza Trieste, Dicomano (Monumento ai caduti della resistenza) – Località Santa Lucia, Dicomano (Cippo di Santa Lucia)
  • Tempo di percorrenza: 2 ore
  • Distanza: 7,2 km
  • Dislivello: pianeggiante (+ 263 m – 143 m)

 

Il nostro percorso inizia da Via Nazionale, precisamente dalla località Contea, tra Montebello e Rufina, dove ci troveremo davanti al Cippo di Contea, in ricordo della doppia strage nazifascista del 7-8 luglio 1944. Ricordiamo che Dicomano sin dalla fine del giugno 1944 è stato teatro di requisizioni e rastrellamenti tedeschi, nonché di attività di bande partigiane. Già ai primi di luglio, a seguito di uno scontro armato con i partigiani tra Monte e Santa Lucia furono catturati come ostaggi quattordici persone del luogo, poi rilasciate grazie all’intervento di don Mario Faggi pievano di Dicomano. Il 7 luglio 1944 a Contea quattro contadini furono casualmente visti da un tedesco intento a lavarsi nel torrente Sieve mentre asportavano alcune bombe da una cassa di munizioni di provenienza non nota. I quattro probabilmente intendevano usare gli ordigni per pescare, ma furono accusati invece di volerli portare ai partigiani. Dopo che furono stati fermati, ai contadini venne intimato di scavare una fossa. Probabilmente infastidito dalle numerose e reiterate suppliche che gli rivolsero per aver salva la vita, il soldato tedesco li freddò a colpi di pistola. Subito dopo l’eccidio, una ventina di persone rastrellate in zona fu condotta dai militari sul luogo dell’uccisione dei quattro contadini per prendere visione, come monito, di quanto accaduto. I militari tedeschi, venuti a conoscenza che una delle quattro vittime, Albino Cecchini, era fratello del partigiano Armando Cecchini, ucciso in località Fungaia il 20 luglio, decisero di recarsi presso l’abitazione del Cecchini in località Capraia, nella parrocchia di Celle. L’8 luglio alcuni soldati vi irruppero sterminando la madre Rosa, la moglie Maria, il figlio Antonio di appena sei mesi e una nipote lì presente di sei anni. La casa venne in seguito incendiata e le salme dei familiari mantenute a lungo senza sepoltura per ordine del comando tedesco[2]. Una strage spietata che, come ricorda anche la lapide, non deve alla guerra questi morti, bensì:

 

«Non la guerra ma la ferocia

nazi-fascista

volle l’eccidio inconsulto e barbaro

che i limiti della storia non contengono

e che gli uomini non dimenticheranno»

 

Ci spostiamo poi a Dicomano paese, precisamente a piazza Francesco Buonamici, dove troveremo la lapide dedicata al bombardamento, che recita:

 

«…prima ci sono state altre guerre.

alla fine dell’ultima

c’erano vincitori e vinti.

fra i vinti la povera gente

faceva la fame. fra i vincitori

faceva la fame la povera gente ugualmente»

(B. Brecht)

Il riferimento è al bombardamento del 27 maggio del 1944, dove fu raso al suolo quasi tutto il Paese, ad eccezione dell’Oratorio di Sant’Onofrio. Quest’ultimo fu risparmiato dagli alleati in quanto consapevoli del fatto che al suo interno fossero presenti numerose opere d’arte. Venuti a conoscenza del fatto anche i nazisti, il 30 luglio 1944 il colonnello Langsdorff, senza nessun accordo o autorizzazione da parte della Soprintendenza fiorentina, si recò a Dicomano e caricò alcuni camion tedeschi con circa 26 casse contenenti alcune sculture conservate nell’oratorio. Questa operazione venne giustificata in quanto ritenuto più sicuro allontanare le opere da territori che avrebbero potuto essere potenzialmente pericolosi per custodirle all’interno di nuovi depositi istituiti in Alto Adige (territorio in pieno controllo nazifascista). L’autorizzazione per questo spostamento venne data dal Generale Wolff, il quale diresse le operazioni di trasporto indirizzandole prima verso enti ecclesiastici, come parrocchie e monasteri, poi verso i due nuovi depositi: il Castello di Neumelands a Campo Tures e il carcere abbandonato a San Leonardo in Passiria, entrambi lungo il passo del Brennero. L’11 agosto 1944 furono trasferite a Campo Tures le opere provenienti dall’Oratorio di Sant’Onofrio. Torneranno in Toscana soltanto a guerra conclusa, il 22 luglio del 1945, con un’importante cerimonia, in Piazza della Signoria a Firenze, dove furono accolte da tutti gli abitanti della città e ricollocate nei rispettivi musei di appartenenza[3].

Dopodiché ci spostiamo di qualche centinaio di metri verso piazza Trieste, dove potremmo ammirare il Monumento ai caduti della resistenza, inaugurato nel 1964 e portante i nomi dei cittadini che hanno dato la vita per la libertà. Ultima tappa, ma non per importanza, è il Cippo di Santa Lucia, situato nell’omonima località, in ricordo di Arturo Fabbri, Armando Cecchini e Aimo Fritelli che caddero durante quel luogo durante uno scontro da arma da fuoco.

 

 

 

Note

 

[1] Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, Badiali, Arezzo, 1957, pp. 23-45.

 

[2] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi nazifasciste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma, 2009, pp. 191-192.

 

[3] Frederick Hartt, L’Arte Fiorentina Sotto Tiro, Edizioni Clichy, Firenze, 2014, pp. 150-179.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nel novembre 2024.




Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi

 

Nada da giovane

Nada Giorgi con Renato Ciandri

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1].  Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.

«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».

Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.

Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.

I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html

Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare  svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/

Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.

La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].

I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.

Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].

Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].

Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.

Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.

Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].

Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.

Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.

Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.

Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.

È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.

Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.

In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.

Come lei stessa ha detto:

Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]

Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.

Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.

Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.

Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.

Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere.  Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.

«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»

Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].

Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.

Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].

Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.

Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).

Claudia Cardinale e George Chakiris in una scena del film di Comencini

Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].

Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.

Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].

A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa»,  rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].

Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:

“Bube”

Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)

E voi imparate che occorre

vedere e non guardare in aria

questo mostro stava una volta

per conquistare il mondo

i popoli lo spensero

ma ora non cantiamo

vittoria troppo presto

il grembo da cui nacque

è ancora fecondo

Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/

La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.

Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.

Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

 

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704

Note

1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.

2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].

3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.

4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.

5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.

6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.

7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.

8.  M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85

9. Ivi, p. 93

10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]

11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.

12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.

13. Ivi, pp. 100-103.

14. Ivi, p. 109.

15. Ivi, p. 129.

16. Ivi, pp. 133-137.

17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.

18. Ivi, p. 145.

19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.

20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]

 

Bibliografia

Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006

Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]

Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di novembre 2024.




Le stragi nel Mugello (1944)

Fucilazioni. Massacri. Vittime innocenti. Sono questi gli episodi che caratterizzarono i paesi del Mugello durante l’occupazione nazifascista nel 1944, in attesa della liberazione alleata. Quale fu il significato di quelle stragi? Perché interessò proprio quella zona?  Dobbiamo prima capire cosa rappresentano le montagne circostanti il Mugello nel contesto di guerra. Stiamo parlando di valli strette e ritenute abbandonate, al limite della regione, quindi considerate sicure. Sono al contrario estremamente strategiche perché rappresentano il passaggio tra Toscana e Emilia Romagna. Un passaggio decisivo, soprattutto la parte aretina, nella primavera del 1944, quando i comandi delle brigate Garibaldi decidono di creare una grande armata partigiana che doveva operare sull’Appennino per colpire sul forlivese e sull’aretino. Un progetto poi smantellato in seguito all’operazione di rappresaglia e rastrellamento nazista, deciso subito dopo le Ardeatine, che potremmo definire il punto di svolta sulla concezione da parte di Kesselring e dei comandi nazisti del pericolo partigiano, considerato da lì in avanti potenzialmente pericolosi per le proprie truppe. Fino a quel momento non vi erano state stragi di matrice nazista infatti, era stato lasciato ai fascisti il controllo del territorio. Da quel momento cambia tutto. A quel punto, tutte le brigate partigiane che si stavano portando sull’Appennino per raggrupparsi, ovviamente devono separarsi per non essere catturate. Ed è per questo che quindi si verificò la divisione sui territori. Da quel momento l’Appennino diviene strategico, in quanto zona centrale dei combattimenti, e lo resterà finché la linea non si attesterà a Bologna, nell’autunno del 1944[1].

Dopo le Ardeatine vi è quindi un punto di svolta che portò agli episodi stragisti interessati da questo articolo e che colpirono quasi tutti i paesi del Mugello. Volendo fare una raccolta seguendo un principio temporale, la prima tragedia avvenne a Vaglia, tra il 10 e l’11 aprile 1944, nel cosiddetto «eccidio di Pasqua».

Il 10 aprile, lunedì di Pasqua, iniziò sulle pendici di Monte Morello una grossa operazione antipartigiana ad opera del Reparto esplorante della Divisione Herman Göring, comandato dal colonnello G.H. Von Heydebreck, con lo scopo di stroncare la presenza del movimento partigiano locale[1]. La mattina del 10 aprile, le compagnie del Reparto esplorante giunsero in località Cercina, nel comune di Sesto Fiorentino, razziando le case e rastrellando la popolazione civile. Proseguì poi in direzione di Paterno e Cerreto Maggio, località limitrofe poste nel comune di Vaglia. I paracadutisti fecero irruzione nella casa del guardaboschi Gabriello Mannini, dove trovarono anche la moglie Giulia, la giovane figlia e il suo sposo. Seguì una perquisizione durante la quale venne trovata una pistola, per la quale Gabriello possedeva regolare permesso. L’attestato non fu però sufficiente, dato che i tedeschi, forse già a conoscenza dell’ospitalità che Gabriello diede ad alcuni partigiani, lo condussero fuori dall’abitazione e lo uccisero con un colpo di arma da fuoco alla testa. Poco dopo, i soldati si spostano in direzione di Vaglia, in località Morlione, dove irruppero nelle abitazioni delle famiglie Biancalani e Sarti, note per la loro assistenza data ai partigiani. Furono uccisi i fratelli Giovanni e Sabino Biancalani, il colono Affortunato Sarti e il nipote Aurelio. L’operazione di rastrellamento nell’area riprese il giorno successivo. Una nuova irruzione venne compiuta in località Cerreto entro la casa dei Paoli, allora abitata dalle famiglie dei fratelli Cesare e Giovanni. Dopo la perquisizione dell’abitazione, venne intimato ai fratelli di allontanarsi. Atteso però che il gruppo giungesse alla distanza di alcune centinaia di metri, i militi aprirono il fuoco e uccisero colpendolo alle spalle Cesare Paoli[3]. Questi martiri sono oggi ricordati dal Monumento posto in via Cerretto Maggio, a Vaglia.

Ci spostiamo ora a Marradi, protagonista di due episodi efferati. Ricordiamo che Marradi, per la sua posizione strategica di confine con la Romagna e la sua rilevanza di snodo viario e ferroviario, nell’estate del 1944 costituiva un territorio di estrema importanza ai fini dell’occupazione tedesca e in particolare per l’ultimazione delle fortificazioni sul versante orientale della Linea Gotica. Proprio a protezione dei lavori di completamento della linea difensiva da possibili sabotaggi e attacchi partigiani, con ordine del 18 giugno 1944 vennero dislocate tra il Mugello e la Romagna Toscana alcune compagnie del 3. Polizei Freiwilligen Bataillon Italien, il reparto di polizia italo-tedesco guidato dal capitano Gerhard Krüger allora ancora impegnato col grosso del proprio organico in Maremma (dove si rese responsabile delle stragi di Niccioleta e Castelnuovo Val di Cecina). Il 20 giugno, i soldati tedeschi si imbatterono in un gruppo di sette giovani (tra i quali vi è il trentunenne Carlo Milanesi, di fatto, l’unico identificato del gruppo), che avevano da poco disertato dall’organizzazione Todt, dandosi alla macchia nei dintorni di Marradi. Catturati, i sette furono condotti quindi presso Villa Poggio, sede della compagnia tedesca, dove vennero interrogati e trattenuti sino al 22 giugno, quando infine furono trasportati presso il cimitero comunale di Marradi e qui fucilati[4].

Il mese successivo invece avvenne il dramma le cui ferite ancora non sono state rimarginate dalla comunità. Il 15 e il 17 luglio due tedeschi furono uccisi da dei gruppi di civili – non bande partigiane organizzate – con altri che furono feriti e costretti a scappare dal paese. La rappresaglia che ne seguì fu particolarmente dura.  I tedeschi, arrivati dal comando SS di Ronta, si lasciarono andare a grandi violenze nell’area circostante il luogo dell’attentato per 24 ore. Lo stesso 17 luglio furono fucilate 28 persone che vivevano o erano sfollate nel paese di Crespino, la mattina dopo altre 13 persone furono passate per le armi nelle località di Fantino e Lozzole, altre tre vittime furono fatte lungo le strade che collegavano i piccoli paesi. A Crespino i tedeschi passarono prima dal podere “Il Prato” e poi dal “Pigara”; i contadini che stavano lavorando alla mietitura nella zona furono tutti fermati e passati per le armi vicino al fiume. Il parroco, don Fortunato Trioschi, fu l’ultimo ad essere fucilato. La mattina dopo a Lozzole furono passati per le armi tutti i maschi della famiglia, mentre le donne furono risparmiate[5]. In memoria delle vittime sono presenti vari luoghi della memoria a Marradi: dalla lapide commemorativa posta al cimitero alla Lapide del Capanno dei Partigiani, in località Monte Lavane, ma soprattutto, l’imponente monumento-cripta ossario a Crespino sul luogo della strage.

Una breve menzione la merita anche quello che successe a Palazzuolo su Senio il 17 luglio, dove mentre tedeschi e italiani del 3. Polizei-Freiwillingen-Bataillon erano impegnati nella strage sopra descritta di Marradi, i soldati di tale reparto si scontrarono nuovamente con alcuni partigiani e, pur senza patire alcuna perdita, scelsero ugualmente di punire la comunità locale, uccidendo quattro persone.

Per l’ultimo episodio stragista ci spostiamo a Vicchio, dove il mattino del 10 luglio 1944 si presentò alla fattoria di Padulivo – che ospitava circa centocinquanta sfollati – un reparto di SS composto da una sessantina di uomini. Il proprietario, Aldo Galardi, aiutava saltuariamente le locali formazioni partigiane. Durante la perquisizione i tedeschi si accorsero della mancanza di un cavallo che era stato nei giorni precedenti requisito dai partigiani, i quali furono avvertiti della presenza dei tedeschi e tesero un’imboscata poco lontano da Padulivo mentre le SS si stavano ritirando. Cadde un tedesco e un altro rimase ferito. La rappresaglia nazista fu spietata. I soldiati tornarono indietro e arrestarono tutti coloro che trovarono e incendiarono sia la fattoria sia l’abitato circostante. Incolonnarono i prigionieri in direzione di Vicchio e giunti al ponte dove aveva avuto luogo l’imboscata giustiziarono dieci uomini e una donna. Dopo una notte di prigionia i cento catturati subirono un interrogatorio e furono rilasciati, tranne quattro uomini e tre donne. Gli uomini furono portati di nuovo nel luogo dell’agguato partigiano e uccisi, mentre le donne vennero liberate[6]. Quattordici vittime, oggi ricordate dal comune di Vicchio con una lapide posta in località Padulivo, che recita:

 

«La storia non si ripete,

se non nella mente

di chi non la conosce»

K. Gibran (1883-1931)

 

Note

 

[1] Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, Badiali, Arezzo, 1957, pp. 23-45.

 

[2] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 37-38.

 

[3] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi nazifasciste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma, 2009, pp. 191-192.

 

[4] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 102-103.

 

[5] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=4920

 

[6] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2412

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nel novembre 2024.




I crimini nazisti effettuati durante la ritirata da Poppi

Nel corso dell’occupazione tedesca in Italia si verificarono numerosi episodi di violenza ai danni dei civili. Malgrado fossero azioni estremamente violente ed indiscriminate queste rispondevano frequentemente a specifiche esigenze dei comandi nazisti, aventi l’obbiettivo di limitare la presenza partigiana nel territorio, di allentare il legame che univa le popolazioni alle bande ribelli e di ribadire attraverso l’esecuzione di azioni efferate la centralità della presenza tedesca nella penisola. Gli interventi potevano essere frutto di ampie azioni ideate e coordinate dagli alti comandi, come nel caso del rastrellamento che investì alcuni centri del Casentino nell’aprile del 1944, oppure rappresentare azioni localizzate in risposta ad attacchi subiti da parte delle truppe che operavano nel territorio.

Nelle fasi finali della guerra a tale impostazione si affiancarono numerosi episodi nei quali i soldati nazisti iniziarono a rendersi protagonisti di azioni che esulavano dagli ordini forniti dai comandi o dalle precipue funzionalità militari. In concomitanza con l’avanzata alleata e il progressivo spostamento del conflitto nelle regioni settentrionali del nostro paese si assistette ad una generale diminuzione del controllo da parte dell’autorità militare, ad un allentamento della disciplina e ad una maggiore libertà dei soldati operanti sul territorio. In una sorta di “rompete le righe” molti militari si lasciarono andare a furti, stupri ed uccisioni nei confronti delle popolazioni inermi, riversando su di loro l’odio e il nervosismo che avevano accumulato nel corso del conflitto, accresciuto in questo caso dall’andamento negativo della guerra. Come se non bastasse l’incombere degli Alleati costringeva le truppe naziste ad agire in maniera risoluta e decisa, senza badare ai danni collaterali che generavano i loro interventi. Talvolta l’incalzare dei nemici determinò l’utilizzo di mezzi energici, altre volte invece si tramutò in veri e proprie ritorsioni ai danni dei civili innocenti.

Una zona che venne particolarmente colpita da questo genere di violenza fu l’area nei dintorni di Poppi, un comune del Casentino settentrionale distante circa trentacinque chilometri da Arezzo. Nelle settimane prossime alla liberazione – il periodo a cavallo tra la fine di agosto e l’inizio di settembre del 1944 – si registrò in questa porzione della vallata un elevato numero di uccisioni di civili. Nei pressi di Poppi le violenze di questo genere non si limitarono all’eliminazione degli abitanti che venivano intercettati mentre attraversano le zone di guerra interdette al passaggio dei civili o alla fucilazione di coloro che non rispettavano l’ordine di sfollamento e cercavano di fuggire, ma vedevano la presenza di azioni più ampie che portarono all’uccisione contemporanea di decine di persone.

Uno degli episodi più eclatanti avvenne il 31 agosto 1944, quando un colpo di cannone proveniente da sopra Moggiona causò la morte di alcuni civili che erano scesi a Poppi per raccogliere l’acqua a una fontanella. Il comune casentinese, ormai prossimo alla liberazione, era stato abbandonato dai soldati tedeschi e i civili nell’euforia dell’imminente liberazione si recarono ad una sorgente in via della Costa per raccogliere l’acqua di cui necessitavano. Don Cristoforo Mattesini, sfollato a Poppi, ricorda in questo modo quell’orribile scena: L’artiglieria tedesca vide tutto questo movimento e scaricò dal Montanino e da Camaldoli un diluvio di cannonate contro il gruppo. La seconda granata prese in pieno quel ciuffo di persone. Si schiantò sul lastricato. Strage! Tutta la Costa da Poppi alla stazione fu coperta da una cortina di fumo. Nel fracasso infernale: pianti, lamenti, urli disperati. Persone che si chiamavano, parenti accorsi al grido dei loro cari, spettacolo straziante! Il fumo non faceva vedere niente, ma la tragedia era terribile!”[1]. In tutto furono quindici le persone che persero la vita a causa delle esplosioni, in maggioranza ragazzi tra i sette e i quindici anni che si erano solamente recati a raccogliere l’acqua ad una sorgente[2].

Nonostante la notevole distanza dall’obbiettivo possiamo affermare con relativa certezza che i colpi di cannone provenienti dalle alture circostanti non furono un errore di valutazione compiuto da parte dei nazisti, ma furono un deliberato attacco ai danni dei civili intenti a recarsi a raccogliere l’acqua in via della Costa. Ad avvalorare questa tesi contribuiscono le informazioni che i comandi tedeschi possedevano in merito agli alleati, attestati in quei giorni ad alcuni chilometri di distanza dal comune casentinese e ritenuti poco interessati alla conquista di quest’ultimo, visto che gli Alleati vi giungeranno solamente il 13 settembre, quasi due settimane dopo[3].

Nel luogo dove un tempo sorgeva la fontanella è stato eretto un monumento in ricordo delle vittime. Situato nella via che un tempo univa Poppi alla frazione di Ponte a Poppi, il monumento è composto da una colonna in pietra alla cui base è stata posta una targa recante i nomi delle vittime, attorniata agli angoli da quattro pietre che richiamano la forma dei proiettili dell’artiglieria. L’epigrafe riporta solamente i nominativi di coloro che persero la vita il giorno stesso dell’episodio, senza includere all’interno del numero complessivo delle vittime Antonio Grazzini e Milena Pietrini, morti nei giorni successivi per le ferite riportate[4].

 

Monumento in ricordo delle vittime di via della Costa

 

Mentre Poppi veniva liberata dai partigiani il 2 settembre, molti degli abitati posti sulle vicine alture continuavano ad essere ancora in mano dei tedeschi. Questo era il caso di Moggiona, un piccolo paese montano situato ai piedi del monastero di Camaldoli. Rispetto agli altri centri del Casentino Moggiona aveva vissuto in modo più intenso l’arrivo della guerra, a causa della presenza della Linea Gotica in tutto il territorio circostante: dal novembre 1943 l’area era stata interessata dall’arrivo di centinaia di operai che avevano incessantemente lavorato alla costruzione delle fortificazioni, composte da depositi, rifugi antiaerei postazioni per mitragliatrici e artiglieria pesante. A questa cospicua presenza di operai si aggiunse nel corso della guerra la costante presenza dei soldati della Wehrmacht, che all’inizio del 1944 installarono nel paese perfino un comando[5].

 

Il paese di Moggiona

 

Nel periodo che precedette l’avvicinamento del fronte non si registrarono momenti di frizione fra gli abitanti e gli occupanti. Le prime tensioni iniziarono a verificarsi nell’estate del 1944, ad ormai pochi giorni dalla liberazione di Arezzo e dal conseguente arrivo della guerra nel Casentino. Il 13 luglio vennero affissi per le strade di Moggiona e dei paesi limitrofi dei manifesti che ordinavano agli abitanti di abbandonare le loro case e di dirigersi a nord della vallata, poiché a breve quelle zone sarebbero divenute luoghi di combattimento. In realtà furono pochi coloro che rispettarono il comando: molti preferirono nascondersi nei boschi o nella vicina Camaldoli per non allontanarsi eccessivamente dalle loro proprietà. Coloro che rimasero a Moggiona, circa una cinquantina di persone, vennero infine rastrellate e trasferite forzatamente in Romagna il 26 agosto. A due famiglie, i Meciani e gli Innocenti, utili allo svolgimento di alcune attività relative alla cura delle truppe, come cucinare, lavare e cucire, venne invece permesso di poter rimanere in paese[6].

Gli ultimi che lasciarono il paese furono infine i soldati della 5ª Divisione Alpina, stabilitisi a Moggiona verso la metà di agosto. Ormai incalzati dall’avanzata alleata i tedeschi abbandonarono il paese nel tardo pomeriggio del 7 settembre portandosi dietro masserizie, mobilio e cibo depredati dalle case degli abitanti. Mentre la Divisione stava lasciando Moggiona sopraggiunsero in paese tre soldati provenienti da Poppi, ai quali venne consigliato di andare alla casa del Meciani per ricevere un po’ di pane. Dopo essersi rifocillati e probabilmente ubriacati i tre tornarono nella casa e falciarono con la mitragliatrice le cinque persone presenti, dopodiché si recarono in un edificio nel rione Prato, e dopo aver fatto scendere tutti quanti in cantina li uccisero a colpi di mitragliatrice. Undici furono in tutto le vittime. Nei pressi del ponte di Moggiona si verificò infine l’ultimo atto di quest’immane tragedia con l’uccisione di una madre e della figlia di dieci anni.

Fino all’undici settembre i corpi delle diciotto vittime rimasero sotto le macerie degli edifici dove erano avvenuti gli eccidi. Le truppe tedesche che giunsero successivamente minarono volontariamente i luoghi dei delitti per mascherare l’accaduto e far ricadere la responsabilità della morte dei civili sui bombardamenti Alleati. I primi soccorsi giunsero solamente grazie all’intervento di Aurelio Cecchini, un bambino di dodici anni sopravvissuto all’accaduto, che dopo aver accudito la madre ed aver visto morire due fratelli riuscirà a raggiungere il monastero di Camaldoli ed allertare il Padre Superiore dell’accaduto: “Giunge da Moggiona un bambino sui nove anni, che ha attraversato la linea del fuoco e a stento, tra singhiozzi e lacrime, riesce a chiedere aiuto per la sua povera mamma, essa pure gravemente ferita al seno e ad una coscia, che tuttora giace in una stanza”[7].

Le testimonianze raccolta dall’Intelligence britannico nei mesi successivi confermarono che l’azione non aveva nessuna correlazione con la presenza partigiana in paese e non aveva nessun tipo di spiegazione logica. Lo stesso Giuseppe Salvi, allora ragazzo, ribadisce che a Moggiona non vi furono mai partigiani e che questi transitavano raramente nelle vicinanze del paese solo per recarsi in Romagna o sulla costa adriatica[8]. Questa affermazione è estremamente probabile visto che nel paese dal novembre 1943 fino alla liberazione era presente un gran numero di soldati tedeschi che avrebbe reso estremamente difficoltosa la presenza di ribelli.

Sebbene la vicenda di Moggiona rientri nella tragica realtà di routine di un esercito in ritirata, quanto accade la sera del 7 settembre ha dell’eccezionale: la violenza che si scagliò contro diciotto civili inermi, oltretutto autorizzati dai comandi tedeschi a rimanere presso le proprie abitazioni, non nacque da un ordine superiore e non trova nessun tipo di spiegazione logica, se non quella di voler di coprire con l’omicidio una serie di crimini commessi in sodalizio con la truppa. Non è dunque un caso che la decisione di voler eliminare i testimoni dei propri misfatti si materializzi proprio in concomitanza con le operazioni di ritirata verso nord della Divisione. Le nuove truppe che giunsero a Moggiona sin dall’8 settembre si ritrovarono pertanto a gestire, nel proprio settore ormai incalzato a pochi chilometri dal nemico, gli esiti visibili e infamanti della violenza del reparto precedente: questo determinò la decisione di evitare, nella prospettiva di imminenti rese, un comportamento punitivo da parte degli inglesi reso più duro dalla conoscenza dei misfatti. Risultato di questa strategia fu dunque il minamento dei luoghi del delitto con l’intento di simulare un bombardamento che giustificasse le vittime di Moggiona, appositamente lasciate all’interno delle abitazioni per rendere ancora più reale lo scenario impancato.

 

Abitazione di Moggiona distrutta dai nazisti

 

Una situazione analoga si verificò pochi giorni dopo a Lonnano, un piccolo paese distante una quindicina di chilometri da Moggiona. Il 10 settembre un gruppo di tedeschi irruppe nella casa colonica della “Chiesa Vecchia” ed uccise quattro ultrasettantenni che si erano nascosti all’interno di essa, dopodiché diedero alle fiamme l’edificio con l’intento di nascondere le prove del crimine[9].

Rispetto ad altre stragi avvenute in Casentino (Vallucciole, Partina e Moscaio) l’episodio di Moggiona è rimasto a lungo avvolto nell’oscurità, forse volontariamente dimenticato dalle comunità locali intente a rimuovere certe vicende piuttosto che ricordarle. A determinare questa sorta di damnatio memoriae hanno probabilmente contribuito i numerosi abusi che le truppe di stanza a Moggiona commisero ai danni delle donne del paese e la volontà della popolazione di voler proteggerle da quella che un tempo era ritenuta un’infamia[10].

Le pubblicazioni del secondo dopoguerra come quelle del Sacconi[11] e del Curina[12] hanno poi accresciuto la confusione in merito a questo episodio, con ricostruzioni vaghe e spesso imprecise. Solamente dagli anni Novanta si è assistito ad un rinnovato interesse nei confronti di questa storia, grazie in particolar modo all’apertura dell’armadio della vergogna che nel 1994 ha stimolato il riesame di alcune stragi nazifasciste. Contemporaneamente all’arrivo di nuove informazioni provenienti da Roma la Biblioteca Comunale di Poppi decise di acquistare una serie di documenti dall’ Archivio di Guerra inglese, mentre la Pro Loco di Moggiona si impegnò nella raccolta delle testimonianze dei sopravvissuti dell’accaduto. Lo sforzo culminerà infine nel 2014 con la pubblicazione del saggio 7 settembre 1944. La strage di Moggiona[13].

In linea con il crescente interesse per la vicenda il 25 aprile 1997 l’Amministrazione Comunale di Poppi ha collocato una targa in ricordo delle vittime della strage sull’edificio della Pro Loco situato in via Camaldoli; sulla stessa parete è poi presente un’epigrafe posta l’anno precedente in memoria delle vittime militari e civili del paese[14]. Addentrandoci maggiormente dentro Moggiona troviamo poi in piazza 7 settembre 1944 la “Mostra permanente della guerra e della Resistenza nel Casentino”, appartenente al progetto della rete ecomuseale del Casentino: i visitatori potranno ammirare alcuni manifesti o ritagli di giornale dell’epoca e degli oggetti militari come elmetti o materiali bellici rinvenuti nell’area dove un tempo era presente la Linea Gotica. Su un lato dell’edificio che ospita l’esibizione è stata ricavata una nicchia all’interno della quale è stato posto un monumento in terracotta che ricorda le vittime della strage nazista: l’opera riproduce una scena dell’eccidio all’interno di una abitazione, mentre quattro colombe simbolo di pace spiccano il volo. Sempre in piazza 7 settembre 1994 è stato collocato nel 2014 un pannello che informa i visitatori sull’accaduto[15]. In conclusione ricordiamo che negli ultimi anni è stato promosso da parte della Pro Loco e dalla rete ecomuseale del Casentino un sentiero ad anello della lunghezza di 4,5 chilometri che ripercorre i luoghi che un tempo erano attraversati dalla Linea Gotica.

 

L’edificio della Pro Loco che contiene due lapidi in onore dei caduti durante la seconda guerra mondiale

 

Alcuni esemplari presenti all’interno della Mostra

 

Monumento in ricordo delle vittime della strage del 7 settembre 1944 situato nell’omonima piazza

 

Note:

[1] C. Mattesini, Guerra e pace, Fruska, Stia 2003, pp. 112-116.

[2] A. Brezzi (a cura di), Poppi 1944. Storia e storie di un paese nella Linea Gotica, Regione Toscana, Firenze 2018, pp. 97-98.

[3] Ibid.

[4] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-alle-vittime-civili-delleccidio-della-costa-poppi/.

[5] A. Brezzi (a cura di), Poppi 1944, cit., pp. 98-100.

[6] Ivi, p. 100.

[7] A. Buffadini, Camaldoli nel Casentino in fiamme, Barbera, Firenze 1946, pp. 75-76.

[8] Testimonianza di Giuseppe Salvi, https://perlamemoria.it/i-luoghi/poppi/moggiona/.

[9] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 240.

[10] A. Brezzi (a cura di), Poppi 1944, cit., p. 99.

[11] Cfr. R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 152-153.

[12] Cfr. A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Badiali, Arezzo 1957, pp. 510-511.

[13] Cfr. Centro di Documentazione sulla Guerra e la Resistenza in Casentino (a cura di), 7 settembre 1944. La strage di Moggiona, Pro Loco di Moggiona 2014.

[14] Resistenza Toscana, https://resistenzatoscana.org/monumenti/poppi/lapidi_dei_caduti_di_moggiona/.

[15] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-alle-vittime-della-strage-del-7-9-44-moggiona-di-poppi/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel novembre 2024.

 




Le stragi di Partina e Moscaio

Il 13 aprile 1944 viene generalmente ricordato in Casentino per la strage di Vallucciole, che portò all’uccisione di oltre cento civili, in prevalenza donne, anziani e bambini. La scomparsa della quasi totalità della popolazione del piccolo borgo e degli abitati limitrofi non rappresentò però l’unico eccidio verificatosi quel giorno nella vallata, visto che tra il 12 e il 13 aprile la violenza dei nazisti si scagliò anche sugli abitanti di due paesi nei pressi di Bibbiena, Partina e Moscaio, portando alla morte di trenta innocenti (22 a Partina e 8 a Moscaio). Non è un caso che le stragi in questione siano avvenute il medesimo giorno, come non è altrettanto accidentale che queste azioni abbiano numerose analogie tra di loro. I rastrellamenti di Vallucciole, Partina e Moscaio, ma anche quelli avvenuti negli stessi giorni a Badia Prataglia e San Godenzo rientrano all’interno di un’ampia azione organizzata dai comandi nazisti all’inizio di aprile, volta a debellare la presenza partigiana nelle zone del Casentino e nei pressi del monte Falterona[1].

In questa fase dell’occupazione si assiste ad una progressiva radicalizzazione della presenza nazista in Italia e al crescente utilizzo della violenza ai danni dei civili. Quest’impostazione non era un’anomalia all’interno della strategia militare tedesca, ma rappresentava un tratto tipico della loro conduzione bellica, utilizzato sul fronte orientale fin dal 1941. La strategia stragistica aveva l’intento di allontanare le popolazioni dai ribelli attraverso la conduzione di efferate e indiscriminate azioni ai danni dei civili. In Italia questo genere di atteggiamento venne adottato dalla fine del marzo 1944, quando l’attentato di via Rasella (23 marzo), lo sciopero di inizio mese e le notizie riguardanti il rafforzamento delle formazioni partigiane portarono i comandi nazisti a mutare giudizio e considerare il contesto italiano un problema di difficile soluzione. I principali tratti del nuovo approccio emergono in modo chiaro ed evidente nelle misure antipartigiane che il feldmaresciallo Kesselring diffuse ai suoi subordinati il 7 aprile: all’interno del documento il responsabile del fronte italiano invitava i soldati ad operare in modo deciso e risoluto, garantendo l’impunità a coloro che avrebbero agito in tale modo; Kesselring concludeva infine la comunicazione precisando che le problematiche sarebbero sorte qualora qualcuno non fosse stato sufficientemente determinato e spietato[2].

Con queste premesse all’inizio di aprile venne organizzato un grande rastrellamento che avrebbe dovuto ripulire la dorsale appenninica dalla Liguria alle Marche. In Toscana le operazioni iniziarono il 10 aprile: colpirono inizialmente alcuni borghi del Mugello, per poi spostarsi successivamente nel Casentino, dove veniva segnalata una forte presenza di ribelli. Nel Casentino e sul versante orientale del Falterona l’azione ebbe inizio la notte tra il 12 e il 13 aprile ed investì paesi dall’importanza secondaria come San Godenzo, Castagno d’Andrea, Badia Prataglia, Vallucciole, Partina e Moscaio.

Protagonisti di quest’operazione furono gli uomini del Reparto esplorante della Divisione Hermann Gӧring, comandati dal colonnello von Heydebreck e guidati sul campo dal capitano von Loeben. Si trattava di un contingente composto da oltre mille soldati, suddivisi in cinque compagnie tutte motorizzate; non era un corpo noto per le sue qualità militari, ma celebre piuttosto per essere una delle formazioni più politicizzate dell’esercito, composta in prevalenza da volontari e nazisti della prima ora. Nella seconda metà di marzo la Divisione aveva inoltre messo in evidenza le sue capacità nel rastrellamento con le stragi emiliane di Cervarolo e Civago[3].

Il primo paese ad essere colpito nel Casentino fu Moscaio, un piccolo gruppo di case situato su una collina distante pochi chilometri da Bibbiena. I tedeschi giunsero nella frazione nella notte tra il 12 e il 13 aprile ed irruppero nelle case degli abitanti trascinando gli uomini fuori dalle loro abitazioni: cinque furono fucilati sul retro delle loro case, altri due vennero abbattuti mentre cercavano di fuggire al rastrellamento e uno venne ucciso con un colpo di pistola da un soldato irritato dalle sue grida[4]. Secondo la ricostruzione compiuta da Raffaello Sacconi i soldati della Gӧring penetrarono nel paese grazie alle indicazioni fornite da un ragazzo che avevano incontrato lungo il percorso di avvicinamento all’abitato[5]. Rispetto alla strage di Partina, che coinvolse un maggior numero di vittime, non vi è certezza riguardo l’esatto numero dei morti (una cifra compresa tra sette e nove) e sono pressoché assenti le testimonianze dei superstiti dell’eccidio.  Le poche dichiarazioni a nostra disposizione presentano però numerose analogie con gli eventi che di lì a poco si sarebbero verificati nel vicino paese di Partina: i figli delle vittime affermano che nessuno dei morti aveva preso attivamente parte alla Resistenza, ma aveva al massimo fornito rifugio a qualche partigiano transitato per l’abitato, aggiungendo inoltre che molto probabilmente furono presenti durante l’operazione anche alcuni fascisti della zona[6].

 

Lapide in ricordo dei civili di Moscaio caduti durante la strage

 

Qualche ora dopo gli uomini della Gӧring piombarono su Partina, un piccolo paese vicino Soci. Verso le quattro del mattino un gruppo di fascisti e nazisti camuffati da partigiani entrò nel paese e si diresse all’abitazione di Angiolo Cerini, la guardia comunale del paese, chiedendogli se conoscesse qualcuno che li avrebbe potuti aiutare a trasportare del materiale bellico in montagna. Il Cerini non sospettò nulla ed accompagnò i presunti partigiani da coloro che riteneva li avrebbero potuti aiutare: il primo che venne interpellato era il Giovannini, ma questi si rifiutò di aiutarli perché i suoi buoi erano troppo stanchi, aggiungendo che aveva fornito il suo supporto in altre occasioni, ma che questa volta proprio non poteva aiutarli. Al rifiuto del Giovannini i repubblichini non rivelarono la loro identità e continuarono la loro ricerca facendosi accompagnare alla casa del Lorenzoni: una volta chiamato questi chiese di potersi  vestire prima di uscire di casa a parlare, ma gli risposero che non ce ne sarebbe stato bisogno, visto che quel giorno sarebbe stato ucciso. Accortosi dell’inganno il Cerini cercò di ritrattare quanto aveva detto, ma venne immediatamente colpito alla testa da due colpi di pistola. Con la morte della guardia comunale i criminali svelarono la loro identità, dando inizio alla strage[7].

 

Partina

 

Accompagnato da elementi locali, il gruppo si recò nelle abitazioni ritenute maggiormente sospette, come quelle dei partigiani Vecchioni e Paperini, dando alle fiamme le case ed uccidendo coloro che erano stati inseriti all’interno di una lista precedentemente stilata. Gli individui vennero uccisi nei più disparati modi, chi veniva ucciso sulla porta di casa, chi veniva gettato nelle abitazioni in fiamme dopo che era stato utilizzato per trasportare le fascine con le quali arderle e chi veniva ucciso alle spalle dopo che gli era stata promessa la salvezza. Complessivamente nel corso della mattinata vennero uccisi 14 abitanti di Partina, tutti uomini con più di diciotto anni.

Il resto della popolazione venne rinchiuso all’interno della chiesa, mentre all’esterno i tedeschi continuarono a seminare il panico per il paese. Giovanni Cherubini, che all’epoca aveva poco più di cinque anni, ricorda nitidamente il trasferimento della popolazione nella parrocchia: il volto grigio del parroco, la calca e i pianti di disperazione dei presenti. Ancora oggi non è chiaro se i tedeschi volessero uccidere i civili radunati all’interno dell’edificio o se volessero imprigionarli temporaneamente per avere più libertà di movimento nel paese; tuttavia, tra i presenti si diffuse la notizia che l’edificio sarebbe stato fatto saltare in aria. Ormai certo del tragico epilogo don Ezio Turinesi decise di tenere messa e di assolvere tutti i presenti dai loro peccati[8].

Fortunatamente questo rischio venne scongiurato grazie alla mediazione di un’ufficiale tedesco di stanza a Soci, il capitano Tambosi, e del responsabile locale della Todt, il maggiore Kirchberg, che riuscirono a convincere gli uomini della Gӧring ad interrompere la carneficina, testimoniando l’innocenza della popolazione e l’insussistenza delle voci che etichettavano erroneamente Partina quale “covo partigiano”. Grazie a questo intervento la strage non raggiunse dunque le dimensioni dell’eccidio di Vallucciole, ma si limitò all’uccisione di alcuni uomini di età adulta, senza che venissero eliminati gli anziani, i bambini e le donne. La mediazione di Tambosi e Kirchberg evidenzia la presenza di un buon rapporto tra gli abitanti nei dintorni di Soci e i tedeschi della Wehrmacht di stanza nella zona, testimoniata anche dal partigiano Dante Roselli nel corso di un’intervista[9].

La strage non limitò la sua estensione agli abitanti di Partina, ma coinvolse anche otto operai della Todt che nel corso della mattinata transitarono dal paese per dirigersi a lavorare verso Serravalle. Malgrado fossero muniti di regolare lasciapassare e lavorassero alla costruzione delle fortificazioni tedesche, questi vennero etichettati come partigiani ed uccisi lungo l’argine del torrente Archiano.

 

Cippo per gli operai della Todt

 

Nel corso degli anni la strage ha sollevato numerosi interrogativi, portando taluni a sostenere che l’azione fosse dovuta alla presenza in paese dei partigiani, infatti la mattina del 13 aprile tre componenti del Gruppo Casentino – il Vecchioni, il Paperini e il Ciabatti – si recarono in paese per raccogliere viveri e materiali prima di incamminarsi verso il Pratomagno, dove nel frattempo li stavano aspettando altri compagni del raggruppamento. Per quanto sia innegabile che l’eccidio sia avvenuto in concomitanza della presenza a Partina dei ribelli e dei tedeschi, è altrettanto indiscutibile che la presenza in paese dei soldati della Hermann Gӧring fosse precedente quella del Vecchioni, del Paperini e del Ciabatti. Inoltre è estremamente improbabile che i tedeschi o i fascisti locali fossero a conoscenza dell’imminente arrivo dei tre uomini, visto che la presenza partigiana in paese si trattava di un ripiegamento che non era stato preventivato, dovuto all’occupazione tedesca di San Paolo in Alpe.

Se poi si analizza l’evento da una prospettiva più ampia ci si accorge che la strage non era un’azione isolata, ma era parte di un’ampia operazione che si svolse in tutto il Casentino. I luoghi vittime delle incursioni nazifasciste furono scelti in base alle delazioni che elementi locali fornirono ai comandi tedeschi. Malgrado le denunce non fossero corroborate da prove che convalidassero la presenza di azioni svolte ai danni dei nazisti o testimoniassero l’esistenza di gruppi partigiani che operassero nella zona, le formazioni protagoniste della strage non si preoccuparono di verificare la veridicità delle delazioni e non contattarono neppure i connazionali che nel frattempo operavano nella zona da diverso tempo per avere informazioni in merito. La denuncia non veniva dunque vagliata, ma diveniva per i comandi tedeschi pretesto per poter attuare azioni indiscriminate che allontanassero le popolazioni dai partigiani ed eliminassero potenziali sostenitori della Resistenza. Nel caso di Partina è doveroso ricordare che i partigiani in questione operavano in luoghi lontani dal loro paese natale; dei tre solamente il Paperini perse la vita nel corso della giornata, sacrificandosi per salvare la vita del compagno Vecchioni.

Nonostante nel corso degli anni si sia raggiunta un’intesa riguardo l’origine e la natura della strage, permangono ancora dei dubbi in merito ad alcuni aspetti dell’eccidio, che né gli storici né le testimonianze dei sopravvissuti sono riusciti a chiarire. In particolare sono due le zone d’ombra che sollevano alcuni interrogativi sull’evento, in primo luogo ci si domanda come mai i partigiani si fossero recati in paese nonostante un gruppo di nazisti e di fascisti fosse già presente a Partina dalle prime ore del mattino. Sappiamo che questi erano camuffati da partigiani, ma è altrettanto veritiero che la presenza di un gruppo, pur con le sembianze di un potenziale alleato, sarebbe difficilmente passato inosservato all’interno di un paese dalle piccole dimensioni ed avrebbe dovuto allertare i tre partigiani che avevano ricevuto oltretutto la notizia di un probabile rastrellamento nel Casentino. L’unica spiegazione plausibile presuppone che il gruppo di repubblichini e nazisti abbia agito nel più assoluto silenzio e sia riuscito contemporaneamente a non farsi udire ed individuare dai partigiani di ritorno nel paese.

Un altro aspetto che solleva alcuni interrogativi riguarda il mancato intervento di Sacconi in soccorso dei civili. In questo caso sappiamo che Sacconi si era appostato con i membri del gruppo Casentino nel vicino podere “Prati”, distante solamente pochi chilometri da Partina, e che avesse udito la mattina del 13 aprile gli spari provenire dal paese. In questo caso è probabile che il trasferimento sul Pratomagno avesse precedenza rispetto a qualsiasi altra operazione e che dunque il gruppo si fosse diretto verso il massiccio nonostante avesse sentito le grida provenire da Partina. In merito a questo aspetto non abbiamo però testimonianze o informazioni che ci permettano di chiarire la questione, e possiamo solamente ipotizzare una presunta precedenza dello spostamento sul Pratomagno rispetto ad un intervento in soccorso degli abitanti del paese.

Le stragi del 12 e 13 aprile ‘44 hanno segnato in modo profondo la memoria di questi paesi, che hanno deciso di ricordare le vittime attraverso una serie di opere monumentalistiche. A Partina le vittime della strage vengono commemorate all’interno di un’area verde situata in via San Francesco dove è presente un memoriale dedicato ai caduti del comune durante la seconda guerra mondiale: all’interno dello spazio sono presenti una serie di targhe in bronzo, ognuna delle quali è dedicata ad una specifica categoria di caduti. Per quanto riguarda la strage di Partina sono presenti tre steli destinate agli eventi del 13 aprile, una per i civili vittime dell’eccidio, una per gli otto operai della Todt e una in onore di Santi Paperini, sacrificatosi per salvare la vita del compagno Salvatore Vecchioni[10]. Sempre in via di San Francesco è poi presente una lapide situata sull’argine del torrente Archiano, in ricordo degli otto operai della Todt fucilati dagli uomini della Gӧring[11]. Per quanto riguarda invece le vittime di Moscaio queste vengono commemorate attraverso due lapidi, una posta nella strada che attraversa l’abitato dove avvenne la strage[12] e una posta nel cimitero di Bibbiena[13].

 

Area verde di Partina adibita al ricordo delle vittime della seconda guerra mondiale

 

Note:

[1] È interessante notare come Partina e Vallucciole siano state entrambe designate quale luoghi adibiti all’occultamento delle armi che il nascente gruppo di Vallucciole insieme a quello di Bibbiena derubarono il 13 settembre 1943 a Stia. Per approfondire l’episodio cfr. L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944. Storia, ricordo e memoria pubblica di una strage nazifascista, Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2017, pp. 71-72.

[2] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, pp. 71-72.

[3] Ivi, pp. 72-73.

[4] Ivi, p. 78.

[5] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, Quaderni dell’Istituto Storico della Resistenza Toscana, ed. Nuova Italia, Firenze 1975, p. 70.

[6] Testimonianza di Giancarlo Giannini, https://perlamemoria.it/i-luoghi/bibbiena/moscaio/.

[7] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., pp. 66-67.

[8] Testimonianza di Giovanni Cherubini, https://perlamemoria.it/i-luoghi/bibbiena/partina/.

[9] Testimonianza di Dante Roselli, https://perlamemoria.it/i-luoghi/bibbiena/partina/.

[10] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/memoriale-ai-caduti-di-partina-di-bibbiena-guerra-1940-45/.

[11] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/cippo-agli-operai-della-organizzazione-todt-fucilati-il-13-4-1944-partina-di-bibbiena/.

[12] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/lapide-ai-caduti-delleccidio-del-13-4-1944-moscaio-di-bibbiena/.

[13] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-ai-caduti-del-moscaio/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel novembre 2024.