Anna Martini (1924)

Nura Abdel Mohsen - Fondazione “Museo e Centro di Documentazione della Deportazione e Resistenza - Luoghi della Memoria Toscana”

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Anna Martini (©️Archivio Fondazione CDSE)

Nasce a Prato il 9 marzo 1924, in una famiglia composta dai genitori Mario e Milena Dami, i fratelli minori Piero (1926) e Marcello (1930). Entrambi i genitori di Anna sono insegnanti; quando il padre vince il concorso per la docenza nelle scuole pubbliche, l’intera famiglia si trasferisce a Pistoia.

Anna si diploma all’Istituto magistrale e comincia a insegnare: continuerà a lavorare e insieme a studiare anche dopo la guerra. Grazie al suo lavoro riesce a pagarsi delle lezioni di greco e a ottenere la licenza di liceo classico da privatista. Con lo scoppio del conflitto, la vita di Anna viene stravolta: il padre, ufficiale di complemento, viene richiamato; non le è più possibile andare a Firenze per continuare la frequenza del corso universitario in Lettere moderne al quale si è iscritta e la casa di Pistoia viene danneggiata da un bombardamento, costringendo i Martini a sfollare dapprima a Cerreto, poi a Montemurlo, in provincia di Prato.

L’8 settembre Mario Martini riesce a far fuggire i suoi soldati e, sventata la cattura, si ricongiunge con i propri familiari; si lega al Partito d’Azione come esponente della corrente repubblicana clandestina. Tutta la famiglia inizia a collaborare con la Resistenza, soprattutto tenendo contatti con Radio CoRa e occupandosi dei messaggi cifrati di Radio Londra.

Questo coinvolgimento li espone a gravi rischi. Quando Radio CoRa viene scoperta il 7 giugno 1944, tutta la famiglia viene presa, ad eccezione di Piero che non si trova in casa. Mario riesce a fuggire, Marcello viene portato prima al carcere delle Murate a Firenze e successivamente deportato a Mauthausen, dal quale ritornerà dopo tredici mesi. Anna e Milena vengono detenute per un mese.

Anna Martini (©️Archivio Fondazione CDSE)

Durante la permanenza nel carcere di Santa Verdiana, viene aiutata da alcune suore e dialoga spesso con le altre prigioniere, o svolge “lavoretti” che le vengono commissionati, conosce anche le partigiane Tosca Martini e Tosca Bucarelli. Anna e la madre Milena sono due tra le quattordici prigioniere liberate dai gappisti di Bruno Fanciullacci il 9 luglio e si rifugiano da alcune parenti a Firenze.

Dopo la guerra si laurea in Lettere moderne e diventa insegnante. Svolgerà anche il mestiere di guida turistica, grazie al quale potrà viaggiare molto. Rimane nubile per aiutare il padre e i fratelli; si sposa poco prima dei quarant’anni e ha una figlia.

Non si affilia ad alcun partito né svolge attività politica. Riconosciuta partigiana, si iscrive all’ANPI, ma in seguito a disaccordi decide di lasciare la tessera; riprende a collaborare con l’ANPI in età avanzata, per parlare con gli studenti e raccontare la sua storia.

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I fratelli Anna, Piero e Marcello Martini al mare (1947-48) (Credits: L. Antonelli, A. Giaconi, “Una famiglia in lotta. I Martini tra fine Ottocento, Grande Guerra, Resistenza e Deportazione”, Museo Deportazione/Consiglio Regionale Toscana, 2017)

 

Mario Martini con i figli Anna, Piero e Marcello, 1930) (Credits: L. Antonelli, A. Giaconi, “Una famiglia in lotta. I Martini tra fine Ottocento, Grande Guerra, Resistenza e Deportazione”, Museo Deportazione/Consiglio Regionale Toscana, 2017)

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🟥 Stralcio di intervista ad Anna Martini in L. Antonelli, Voci dalla storia, Prato, Pentalinea, 2006,642-643

– Quando siete arrivati a Montemurlo come avete cominciato la collaborazione con la Resistenza?
– In realtà, con precisione non lo so, qual è stata la causa scatenante non lo so, il mio babbo è sempre stato antifascista, lui era il comandante militare, ma non era iscritto a nessun partito; a Montemurlo aveva cominciato un po’ il mio zio, il fratello, quello che era tipografo e quindi probabilmente fu lui che mise il babbo in contatto con altri.
Poi si entrò in contatto con Radio CoRa e tutta l’attività si svolse lì. I manifestini, quelli famosi dello sciopero io c’ho dormito sopra, il babbo li portò a casa per poi distribuirli e io ingenua li presi e li misi sotto il materasso e c’ho dormito una notte sopra per tenerli ben nascosti.
Noi s’era consapevoli, la mia mamma no, furono proprio i famosi manifestini che la mamma la mattina nel rifare il letto ce n’era rimasto uno, si accorse e allora disse: “Se i ragazzi devono correre un rischio allora lo corro anch’io insieme a tutti voi”. Allora cominciò anche lei.
Noi s’era cercato di tenere la mamma, sapendo quanto era apprensiva nei nostri riguardi, di tenerla un po’ estranea. Il babbo aveva chiesto a noi di collaborare, di sentire per esempio i famosi messaggi segreti quelli che venivano trasmessi da Radio Londra, quello era uno dei nostri compiti, noi si stava a sentire le notizie di Radio Londra proprio per sentire i famosi messaggi speciali. Il babbo poteva essere fuori mentre noi ragazzi invece si stava chiusi, intabarrati in casa proprio per sentire piano piano Radio Londra.
Io e Marcello si sentiva i messaggi speciali di Radio Londra, tu dirai i messaggi, se ti trovavano venivi fucilato. I messaggi erano tre, il “coccodrillo verde” era il primo, il secondo era “Beatrice ti saluta” e il terzo era “Martino non parte”, in quest’ordine. Il primo indicava che il messaggio era per il nostro gruppo, poi veniva mandato il secondo per tre volte e poi se veniva mandato una quarta volta voleva dire che avveniva il lancio, se invece mandavano “Martino non parte” il lancio era annullato. Noi si preparava il campo, mandavano viveri, si doveva spengere tutto, sotterrare i paracadute e quello era soprattutto compito di mio fratello Piero. I lanci venivano fatti nella zona della Collina. Di solito mandavano roba, poi fu lanciato i paracadutisti, i radiotrasmettitori, i paracadutisti furono paracadutati tutti insieme, dovevano essere cinque, misteriosamente furono sei, però il sesto misteriosamente l’ho rivisto vivo, gli altri cinque furono presi tutti (4 a Firenze, uno con noi) e furono tutti fucilati. […]
Siccome io avevo il terrore dei bombardamenti e le suore [del carcere femminile di Santa Verdiana] lo sapevano, la suora di questo primo reparto dove ero con le detenute comuni che si chiamava suor Rosina mi diceva: “Guarda che io non ti chiudo mai la cella, te la chiudo e poi te la riapro, però non andare a girare per i corridoi perché se le altre ti vedono a passeggiare…”. […] Poi veniva, mi nascondeva un pochino con il suo mantello nero e mi portava lì accanto in quella che chiamavano il cellone, dove c’erano le ebree, erano otto, dieci. Mi diceva: “Ti porto a parlare con delle persone per bene” e mi portava a parlare con le ebree. […] Dopo qualche giorno dal nostro arrivo, furono deportate tutte le ebree […]. Con le ebree misero in fila anche noi, eravamo prigioniere delle SS, fecero l’appello delle ebree, io, la mamma e l’Andreina Morandi con la sua mamma anche loro arrestate, rimanemmo lì, allora ci chiesero se eravamo ebree, gli dissi di no e ci ributtarono dentro.
L’Andreina Morandi la conoscevo già prima del carcere perché andavamo insieme all’Università, entrambe eravamo in prigione con la mamma e poi eravamo unite per Radio CoRa. Dopo eravamo unite perché cercavamo notizie io del mi’ fratello e lei del su’ babbo che era stato deportato e che non è tornato. S’andava insieme a cercare notizie. […]
Quando si fu liberate delle 57 donne prese dalle SS s’era rimaste solo io, la mamma e l’Andreina, ogni sera ne spariva una.
La mamma dell’Andreina invece l’avevano rilasciata di già perché soffriva tanto di dolori alla spina, non poteva stare a letto, non poteva stare a sedere, la lasciarono, tanto il marito glielo avevano deportato, il figliolo l’avevano ammazzato e la figlia era in carcere, che poteva fare? La mamma dell’Andreina era stata liberata qualche giorno prima.
Noi s’era capito che agli ebrei capitava qualcosa di brutto, gli davano ad intendere che riunivano le famiglie, che li portavano nei campi di lavoro, tante erano quasi contente di partire, ci credevano che le riunivano alle famiglie, ma noi s’era cominciato a capire che non era così, però si pensava a campi di prigionia normali, che non riunivano le famiglie, che pativano la fame, ma non si immaginava quello che era davvero, non si pensava ad uno sterminio, anche se c’era una caccia forte agli ebrei. […]
Anche mio fratello Marcello che era stato portato alle Murate quando noi eravamo state portate in Santa Verdiana perché aveva già compiuto da due mesi quattordici anni, fu deportato, noi l’abbiamo saputo da radio carcere che gli uomini erano già stati deportati.

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