«Ecco ancora una volta la voce solenne dell’Etruria antica nella Maremma». Note sull’uso politico della storia antica nella Grosseto fascista [1]

«I nostri localisti sparirebbero, come gruppo organico,

se fosse possibile dimostrare, ciò che è augurabile,

che gli Etruschi non sono mai esistiti»[2]

 

La colonna romana collocata nel 1938 sul Bastione Mulino a vento,, oggi collocata nel Giardino dell’Archeologia

Il 24 maggio 1938 il prefetto di Grosseto, Enrico Trotta, su sollecitazione del R. Provveditore agli studi Niccolò Piccinni, inviò una lettera alla Presidenza del Consiglio dei ministri per invitare ufficialmente il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai a presenziare ad alcune cerimonie organizzate in diversi centri della provincia. Con ogni probabilità, l’invito mirava a richiamare l’attenzione del ministro su una grave anomalia: a Grosseto mancava una sede autorizzata a svolgere gli esami di abilitazione magistrale e di maturità classica, circostanza che la rendeva l’unico capoluogo di provincia in Italia in tale condizione. Si trattava, come si sottolineava, di una «questione di prestigio» per una città in rapida crescita demografica, ormai avviata verso la trasformazione da borgo rurale a moderno centro di servizi, nonché di un «riconoscimento di una legittima aspettativa dei cittadini, delle autorità e delle gerarchie fasciste»[3].

Il viaggio, previsto «possibilmente verso la metà del prossimo giugno», avrebbe visto la partecipazione del ministro all’«inaugurazione di oltre duecento gagliardetti delle scuole elementari» e alla «posa della prima pietra dell’Istituto tecnico minerario di Massa Marittima» che coronava «un’annosa aspirazione di quella città» a dotarsi di un istituto che formasse i quadri della maggiore industria del territorio. Tra le due iniziative, era poi stata programmata una cerimonia dall’alto valore simbolico: «l’inaugurazione di una colonna romana sulle mura medicee del capoluogo, in ricordo della celebrazione del bimillenario di Augusto»[4].

La mancata partecipazione del Ministro – impossibilitato a raggiungere la provincia per i «troppi impegni per l’anno in corso»[5] – non impedì tuttavia il regolare svolgimento della celebrazione augustea, il 17 di giugno, che si aprì con un’orazione pubblica del prof. Francesco Moggio del R. Liceo ginnasio “Carducci-Ricasoli” e vide la consegna «da parte delle scuole di una colonna romana, tratta dagli scavi dell’antica Roselle ed eretta sui bastioni della città, per significare la continuità dell’idea di Roma da Augusto a Mussolini», accompagnata dall’esecuzione, da parte del coro dell’Istituto magistrale, «dell’inno a Roma e degli altri della Patria fascista»[6].

Espressione di quella tendenza all’occupazione del tempo sociale, all’imposizione di un nuovo senso della Storia e alla riorganizzazione del calendario civile precocemente espressa dal regime[7], la celebrazione del bimillenario della nascita di Augusto costituì «l’apice dell’identificazione del fascismo con la romanità»[8]. A seguito della conquista dell’Etiopia, il regime aveva infatti accentuato la propria identificazione con un immaginario di tipo imperiale, elaborato e diffuso anche grazie all’opera di storici e intellettuali militanti, che contribuirono a trasformare Mussolini in «un vero e proprio alter ego di Augusto»[9].

Diversamente da altri anniversari legati a personaggi della res publica, come quelli dedicati alla nascita di Orazio (1930) e di Virgilio (1935), il bimillenario augusteo fu accompagnato da un articolato programma di celebrazioni. Sul piano nazionale esso trovò la sua espressione più evidente nell’inaugurazione della Mostra Augustea della Romanità, aperta a Roma il 23 settembre 1937 in concomitanza con la riapertura della Mostra della Rivoluzione fascista[10]. Parallelamente, a livello locale furono promosse iniziative di varia natura, nelle quali si realizzarono le più disparate pratiche di «appropriazione/reinvenzione della storia di Roma» in funzione propagandistica[11].

Area degli scavi archeologici di Roselle (Credits: https://museitoscana.cultura.gov.it)

A Grosseto, come si è visto, le celebrazioni assunsero la forma di una vera e propria riconsacrazione di un reperto archeologico elevato a simbolo della romanità. Ciò serviva a richiamare la filiazione diretta del capoluogo della Maremma dall’antica Roselle, oggetto di scavi nella seconda metà degli anni Venti sull’onda di un crescente interesse storico e identitario. Importante centro della dodecapoli etrusca, poi conquistata dai Romani e ulteriormente sviluppatasi a cavallo tra il III e il II secolo a.C. – quando fornì grano e legname per la flotta di Publio Cornelio Scipione diretta sulle coste cartaginesi – Roselle era divenuta sede vescovile tra il IV e il V secolo d.C. Fu progressivamente abbandonata dai suoi abitanti nei secoli successivi, e nel 1138 la cattedra vescovile venne trasferita nel borgo di Grosseto, sorto lungo la via Aurelia in una posizione più facilmente difendibile dagli attacchi provenienti dal mare[12].

Tra il 1937 e il 1938, parallelamente alle iniziative promosse in occasione del bimillenario augusteo, videro la luce alcuni contributi storico-archeologici dedicati al capoluogo e a diversi centri della provincia di Grosseto. Si trattava di lavori generalmente di modesto valore scientifico e poco inclini a confrontarsi con la ricerca accademica, ma che ben si prestavano a essere utilizzati come strumenti di celebrazione della romanità fascista[13]. Gli autori appartenevano ai diversi filoni della cultura erudita locale e avevano aderito con anticipo e convinzione alle politiche culturali del regime; la loro attenzione era orientata – per usare un’espressione di Luciano Bianciardi – verso il «problema delle origini»[14], in contrasto con l’approccio degli intellettuali più giovani, impegnati invece a costruire, attraverso la letteratura e le arti figurative, l’immagine di una provincia “redenta” dalla bonifica integrale e destinata ad assumere un ruolo di rilievo nella cultura nazionale[15].

A. Salvetti, 1929, Ritratto di Monsignor Antonio Cappelli, olio su tela, conservato nel Museo di arte sacra della Diocesi di Grosseto

Tra le figure più rilevanti di questo gruppo spiccava Antonio Cappelli – il «canonico dottissimo e sordo» ricordato da Geno Pampaloni[16] – punto di riferimento della cultura grossetana. Cappelli dirigeva il Museo civico, il Museo diocesano e la Biblioteca Chelliana, oltre al “Bollettino della Società storica maremmana”, rivista che nei primi anni aveva ospitato contributi di Gioacchino Volpe e del giovane Ranuccio Bianchi Bandinelli, prima di trasformarsi, nel 1931, nell’organo del locale Istituto fascista di cultura[17]. Fu proprio Cappelli a impegnarsi con particolare costanza nella costruzione di una mitologia storica fondativa del capoluogo, incentrata soprattutto sul periodo medievale[18].

Assai più attento agli studi e alla divulgazione delle più recenti scoperte archeologiche era il pubblicista Pietro Raveggi, fondatore del Civicum antiquarium annesso alla biblioteca di Orbetello e, dal 1936, membro della locale Commissione propaganda. A lui si devono ricerche sulla città lagunare, su Ansedonia-Cosa, Talamone e sull’area meridionale della provincia, caratterizzate da un livello scientifico più rigoroso rispetto alla produzione coeva[19]. Come Cappelli, Raveggi ricopriva da molti anni l’incarico di Regio ispettore onorario per le antichità e l’arte nella provincia, funzione che gli fu confermata proprio nell’anno del bimillenario augusteo[20].

Lo studioso che nel biennio 1937-1938 si impegnò più sistematicamente nella valorizzazione della romanità in chiave fascista – espressione di quel «filone erudito più attento alla retorica di campanile che al rigore della ricerca»[21] – fu tuttavia Adone Innocenti, autore di due contributi dedicati a Roselle. In un breve articolo, L’antica via Aurelia attraverso il territorio rosellano, egli ripercorreva la genesi di «una delle più famose e magnifiche strade romane», insistendo sulla sovrapposizione di parte del suo tracciato con un’arteria più antica che collegava Roselle e Vetulonia: «Ecco ancora una volta la voce solenne dell’Etruria antica nella Maremma, che vide le legioni romane marciare sulle strade consolari al cospetto del “Mare nostrum” solcato dalla potenza marinara di Roma»[22].

Come si evince da questo testo, anche per gli intellettuali locali più allineati all’ideologia fascista appariva molto complesso celebrare la presunta romanità di Grosseto senza far riferimento alla persistenza di un radicato “sostrato etrusco” che, fin dalla metà dell’Ottocento, era divenuto un elemento costitutivo dell’identità maremmana[23] inizialmente condivisa dalle élites cittadine e, in seguito, grazie al crescente numero di scoperte archeologiche, divenuto patrimonio della cittadinanza intera[24].

Il canonico Giovanni Chelli

A conferma di ciò – e riproponendo una polemica, di ascendenza sette-ottocentesca, nei confronti di Roma e della sua eredità storica – alcuni intellettuali cittadini, ancora alla fine degli anni Venti, continuavano a contrapporre etruschi e romani, richiamandosi alla narrazione codificata dal canonico Giovanni Chelli nel 1849, fondatore del museo e della biblioteca cittadini, il quale accusava i Romani di aver sfruttato in modo irrazionale le risorse naturali e di aver compromesso l’equilibrio ambientale della regione[25].

Un esempio significativo di tali frizioni, che ostacolarono sul piano locale la completa assimilazione degli Etruschi all’interno del «mito unitario della romanità»[26], è offerto dal fascicolo dedicato a Grosseto della collana Cento città d’Italia illustrate, pubblicato sul finire degli anni Venti da Sonzogno. Riflettendo sulla decadenza delle città etrusche e, più in generale, della Maremma, l’autore del saggio, il preside del R. Liceo-ginnasio “Carducci Ricasoli” Enrico Fatini, scriveva:

Cento città d’Italia illustrate, numero dedicato a Grosseto

Forse giova pensare che i Romani abbiano incontrata accanita resistenza nell’assoggettare questo popolo generoso e fiero, e però si siano mostrati inesorabili con esso, sino a disperderne la memoria per poterne soffocare con questa ogni anelito di libertà. Sotto i Romani, il paese, trascurato e disertato, iniziò il suo disfacimento[27].

Queste dinamiche legate all’identità etrusca non si spiegano soltanto in termini di continuità culturale. Dal canto suo, il regime fascista aveva promosso, a partire dal 1925, «un processo di istituzionalizzazione dello studio degli Etruschi» sul piano nazionale: dalla creazione della prima cattedra di Etruscologia all’Università di Roma, alla convocazione dei primi convegni nazionali, fino all’organizzazione dell’Istituto di studi etruschi[28]. Il fascismo mirava a individuare nel popolo etrusco l’origine di un primigenio laboratorio dell’italianità, che avrebbe trovato pieno compimento nella civiltà romana; dal punto di vista “razziale”, gli Etruschi venivano inoltre considerati l’anello iniziale di una continuità di sangue e di stirpe che, attraverso Roma, conduceva linearmente all’Italia di Mussolini, respingendo ogni ipotesi relativa a una loro presunta origine non autoctona.

Ascia bipenne rinvenuta nella c.d. Tomba del Littore a Vetulonia nel 1898

A sostegno di tale genealogia veniva spesso richiamata l’origine etrusca del simbolo stesso del regime: il fascio littorio, la cui legittimazione archeologica era affidata al ritrovamento, avvenuto a Vetulonia nel 1898, di un’ascia bipenne racchiusa da lamine in metallo rinvenuta nella cosiddetta Tomba del Littore[29].

Sul piano locale, l’idea di una filiazione diretta tra l’Etruria e la “Terza Roma” mussoliniana trovò terreno fertile tra gli intellettuali coinvolti nell’organizzazione della cultura e della propaganda. Come scriveva Pietro Raveggi a proposito della città di Heba, «il problema etrusco si confonde con quello delle origini stesse della civiltà italica» e solo grazie al fascismo e al Duce era stato possibile «dar vita e forma a questo rifiorente culto verso la nostra antica tradizione»[30].

Nel 1943 si ebbe invece un intervento culturale di più ampio respiro, promosso direttamente dal provveditorato agli studi. In quell’anno venne infatti avviata la pubblicazione, a cura dello stesso provveditorato, di una collana di monografie sugli etruschi da distribuire nelle scuole medie della provincia. Nella Premessa del primo volume, ristampa di una ricerca dell’etruscologo Pericle Ducati del 1933, il provveditore Ernesto Lama sottolineava il ruolo primigenio della civiltà etrusca nella genealogia italica:

gli Etruschi potrebbero rivendicare una precisa funzione, oltre che nell’etnogenesi italiana, anche nella formazione storica di Roma, che dalla cultura e dalla potenza degli Etruschi trasse efficaci elementi, specie nel primo periodo, per la sua grandiosa costruzione[31]

Successivamente Lama si rivolgeva agli alunni della Maremma, motivando le ragioni dell’iniziativa editoriale con queste parole, che richiamavano la necessità di integrare il piano dell’identità locale e di quella nazional-patriottica:

Il fascino e l’ansia che sospingono l’odierna Maremma a ricercare l’origine della sua gente nel proprio sottosuolo, disseminato di tombe e di avanzi gloriosi, sembra perpetuare una volontà di potenza giammai estinta, oltre che costituire una nobile rivendicazione dello spirito severo degli antichissimi padri, della loro vita operosa ed espansiva, delle loro molteplici e gloriose attività. Portare un qualche contributo a questa nobile aspirazione dei Maremmani e, nello stesso tempo, chiarire, precisare e divulgare problemi di cultura che valgano ad illuminare la perenne gloria legata in ogni epoca, sin dalle antichissime età, alla storia d’Italia, sono i motivi e le finalità che hanno ispirato questa raccolta di brevi monografie, la cui pubblicazione si inizia in un momento fatidico ed augurale della nostra Italia, come per trarre dal profondo della storia gli auspici per l’avvenire[32].

In conclusione, appare evidente come già in epoca fascista il culto della romanità fascista non avesse trovato, nel marginale contesto sociale e culturale grossetano, un terreno realmente fertile. Da questa discrepanza, si avviò così una dinamica destinata a emergere con particolare nettezza nel secondo dopoguerra, quando, tanto nell’ambito archeologico quanto nell’opinione pubblica locale, si sarebbe progressivamente consolidata una tradizione filoetrusca, mentre il disinteresse per l’eredità romana sarebbe risultato sempre più evidente, nonostante la presenza sul territorio di scavi di grande rilievo[33]. La forte identità etrusca della Maremma, costruita dalle élite intellettuali cittadine fin dall’Ottocento, non solo resistette alle pressioni ideologiche del regime, ma finì anzi per rimodulare almeno in parte e secondo una logica di continuità locale, la stessa ricezione della politica culturale fascista.

Note

[1] L’autore ringrazia Michele Gandolfi, Adolfo Turbanti ed Elena Vellati per aver letto e commentato la prima stesura di questo contributo.

[2] Luciano Bianciardi, I localisti in «La Gazzetta», 13 settembre 1952 ora in Id., Tutto sommato. Scritti giornalistici 1952-1971, vol. 1, ExCogita, Milano 2022, pp. 101-102.

[3] Archivio di Stato di Grosseto (ASG), R. Prefettura, Gabinetto, b. 690, lettera del prefetto Trotta alla Direzione generale dell’Istruzione media classica del ministero dell’Educazione nazionale, 26 aprile 1938. Sul peculiare sviluppo sociale e urbanistico di Grosseto si veda Gian Franco Elia, Città malgrado. Profilo dello sviluppo urbano, in Simone Neri Serneri, Luciana Rocchi (a cura di), Società locale e sviluppo locale. Grosseto e il suo territorio, Carocci, Roma 2003, pp. 105 e ss.

[4] ASG, R. Prefettura, Gabinetto, b. 691, lettera del prefetto Trotta alla Presidenza del Consiglio dei ministri, 24 maggio 1938.

[5] ASG, R. Prefettura, Gabinetto, b. 691, lettera del Ministro Bottai al prefetto Trotta, 10 giugno 1938.

[6] ASG, R. Prefettura, Gabinetto, b. 691, invito per la celebrazione del bimillenario augusteo, 14 giugno 1938.

[7] Cfr. Piergiorgio Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 63-129; Claudio Fogu, The Historic Imaginary: Politics of History in Fascist Italy, Toronto University Press, Toronto 2016; Paola S. Salvatori (a cura di), Il fascismo e la storia, Edizioni della Normale, Pisa 2020.

[8] Aristotle Kallis, “Framing” Romanità: The Celebrations for the Bimillenario Augusteo and the Augusteo-Ara Pacis Project, in “Journal of Contemporary History”, vol. 46, n. 4, 2011, pp. 809-831 [traduzione mia].

[9] Andrea Giardina, André Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 248.

[10] Cfr. Alessandro Cavagna, Il «benefico impulso di Roma»: la Mostra augustea della romanità e le province, in Paola S. Salvatori (a cura di), Il fascismo e la storia, cit., pp. 51-72.

[11] Cfr. Piergiovanni Genovesi, Propaganda di regime tra centro e periferia. Una celebrazione “locale” della romanità fascista, in “SPES”, n. 9, 2019, pp. 71-91

[12] Doro Levi, Il Museo di Grosseto e gli scavi di Roselle, “Maremma. Bollettino della società storica maremmana”, n. 3, 1926-1927, pp. 81-87.

[13] Cfr. ad esempio Adone Innocenti, Roselle e il suo territorio, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1938; Ildebrandino Rosso, Saturnia, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1938; Pietro Raveggi, Ansedonia, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1937; Id., Sull’identificazione di Talamone etrusco-romano, Bollettino di Statistica del Comune di Grosseto, aprile 1938, pp. 1-8

[14] Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, Feltrinelli, Milano 2009 [1957], pp. 5-12. Per una panoramica su queste figure si rimanda a Carlo Citter, Il progresso degli studi fra’800 e ‘900: la nascita dell’archeologia e i primi studiosi locali in Id., Antonia Arnoldus-Huyzendveld (a cura di), Archeologia urbana a Grosseto. Vol. I: La città nel contesto geografico della bassa valle dell’Ombrone. Origine e sviluppo di una città medievale nella “Toscana delle città deboli”, All’insegna del giglio, Firenze 2007, pp. 5-6.

[15] Centrale fu l’esperienza della rivista di arti e letteratura Ansedonia diretta da Antonio Meocci. Cfr. Simone Giusti, «Ansedonia» e «Mal’aria», due riviste di letteratura e arte in Maremma in Enrico Crispolti, Anna Mazzanti, Luca Quattrocchi (a cura di), Arte in Maremma nella prima metà del Novecento, Silvana, Milano, 2006, pp. 305-309. Sul contesto generale mi permetto di rimandare a Stefano Campagna, «Dobbiamo aver coscienza del nostro provincialismo culturale». Intellettuali, politica e cultura a Grosseto dal fascismo al miracolo economico di prossima pubblicazione nel Quaderno n. 20 della Fondazione Luciano Bianciardi.

[16] Geno Pampaloni, Prefazione in Antonio Meocci, Maramad, Barulli, Roma 1969, p. 12. Su Antonio Cappelli si veda Mariagrazia Celuzza, Il canonico Antonio Cappelli (1868-1939) in Cristina Gnoni Mavarelli, Laura Martini (a cura di), La cattedrale di San Lorenzo a Grosseto. Arte e storia dal XIII al XIX secolo, Silvana, Milano 1996, pp. 105-116.

[17] Fondato nel 1923 da un comitato promotore composto da studiosi locali e di rilevanza nazionale, il Bollettino della società storica maremmana cessò definitivamente le sue pubblicazioni nel 1936. Sarà poi rifondato negli anni Sessanta. Cfr. Mariagrazia Celuzza, Etruschi per forza: l’archeologia della Maremma e l’identità del territorio in Ead., Elena Vellati (a cura di), La grande trasformazione. Maremma tra epoca lorenese e tempo presente, Isgrec-Effigi, Arcidosso 2019, p. 156.

[18] A questo proposito si veda Antonio Cappelli, La signoria degli Abati del Malia e la repubblica senese in Grosseto, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1931.

[19] Cfr. ad esempio Pietro Raveggi, La Sub-Cosa e il Vico Cosano: contributo allo studio dei suburbii e vichi etruschi in Alcune comunicazioni presentate al 1. Convegno nazionale etrusco, Stabilimento tipografia sociale, Cortona, 1926. Su Raveggi si veda Giovanni Damiani, Pietro Raveggi. La vita e le opere, Effigi, Arcidosso, 2015.

[20] Cfr. ASG, R. Prefettura, Gabinetto, b. 690, lettere della R. Sovraintendenza all’arte medievale e moderna per la Toscana al prefetto Trotta, 13 gennaio 1938.

[21] Carlo Citter, Il progresso degli studi fra’800 e ‘900, cit., p. 5.

[22] Adone Innocenti, L’antica Via Aurelia attraverso il territorio Rosellano, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1938, p. 6.

[23] Sulla lunga durata di questo fenomeno identitario cfr. Mariagrazia Celuzza, Luciano Bianciardi, gli etruschi, il medioevo e Grosseto: una questione di identità? in Valentino Nizzo, Antonio Pizzo (a cura di), Antico e non antico. Scritti multidisciplinari offerti a Giuseppe Pucci, Milano, Mimesis 2018, pp. 105-106.

[24] Cfr. Ead, Etruschi per forza, cit. pp. 146-155.

[25] «Sì, questi crudeli dominatori […] non furono lenti a rapire quanto nel mio seno si conteneva di bello e raro, ad arrogarsi il godimento di ciò che non potevano rapirmi, cioè la fecondità prodigiosa del mio suolo, le miniere inesauribili, le immense foreste necessarie un tempo alla costruzione navigli […]. Ma costoro ricambiarono tanti miei benefizi colla più nera ingratitudine; perché è da essi che io ripeto la prima cagione della insalubrità del mio clima» (Giovanni Chelli, La Maremma personificata che narra le sue passate e presenti vicende, Stamperia sulle logge del grano, Firenze 1846, pp. 54-55, cit. in ivi, p. 147)

[26] Andrea Avalli, Il mito della prima Italia. L’uso politico degli Etruschi tra fascismo e dopoguerra, Viella, Roma 2024, p. 6 [versione ebook].

[27] Le cento città d’Italia illustrate. Grosseto, la Maremma risanata, Sonzogno, Milano, s.d. [1926-1929], pp. 3-4.

[28] Cfr. Andrea Avalli, Il mito della prima Italia, cit., pp. 51-87 [versione ebook].

[29] Cfr. Paola S. Salvatori, Romanità e fascismo: il fascio littorio in “Forma Urbis”, n. 6, 2013, pp. 34-52.

[30] Pietro Raveggi, Heba e la sua necropoli, in “Maremma. Bollettino della società storica maremmana”, n. 3, 1934, p. 3.

[31] Ernesto Lama, Introduzione in Pericle Ducati, La formazione del popolo etrusco, R. provveditorato agli studi di Grosseto, Grosseto 1943 [1933], p. VII.

[32] Ivi, p. VIII.

[33] Cfr. Mariagrazia Celuzza, Etruschi per forza, cit. pp. 158.




IL CANDIDATO DEL FASCISMO AGRARIO MAREMMANO

Profilandosi ormai chiaramente la minaccia fascista, i socialisti, non solo non presero nessuna misura per fronteggiarla, ma col loro atteggiamento tendevano a impedire che ci si organizzasse a difesa. Il fascismo era infatti considerato dai dirigenti socialisti come un fenomeno di mera provocazione, tendente a far intervenire, contro le masse, le forze repressive dello stato borghese. «Non accettare la provocazione» fu fino all’ultimo la parola d’ordine dei dirigenti socialisti. Come se di fronte a bande armate che bastonavano e uccidevano, bruciavano le sedi delle organizzazioni operaie e scioglievano con la forza le amministrazioni socialiste, fosse possibile restarsene passivi, per non fare il gioco dei «provocatori». Istintivamente le masse sentivano che bisognava far qualcosa…”.
(L. Bianciardi, C. Cassola, I minatori della Maremma)

La recentissima pubblicazione del libro di Franco Dominici e Silvio Antonini, Gino Aldi Mai. Il Candidato agrario. Tra il Biennio rosso e l’avvento del Fascismo nella Maremma e nella Tuscia (1919-1924), edito da Effigi, col patrocinio dell’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, conferma la rilevanza del cosiddetto squadrismo agrario nella genesi politico-militare dei Fasci di combattimento e, in seguito, nella restaurazione economica-sociale delle campagne durante il regime fascista.
Dalla Lomellina al Molinellese, dal Polesine di Matteotti alle Puglie di Di Vittorio, il fascismo mussoliniano potè insediarsi, trovare finanziamenti e svilupparsi in territori in cui il padronato agrario, per lo più latifondista, aveva già una lunga “tradizione” di controllo e dominio della manodopera bracciantile e, più in generale, delle lavoratrici e dei lavoratori agricoli subordinati, attraverso l’impiego di propri “uomini” a cui erano demandati quei metodi violenti che non sempre potevano essere assicurati dai pur zelanti Carabinieri.
Secondo le zone, si trattava di piccoli eserciti privati formati occasionalmente da “guardie campestri”, sovrastanti, fattori, “caporali”, “factotum”, braccianti ingaggiati come crumiri, disoccupati assoldati alla giornata… che richiamavano i “bravi” di manzoniana memoria.
A loro era demandato il compito di fronteggiare proteste, scioperi ed occupazioni di terre, ma sovente erano anche la “longa manus” dei proprietari terrieri per “regolare conti” ed intimidazioni fuori dall’ambito lavorativo.

Foto della Squadra d’azione laziale, 1920, tratta da “Squadristi” di Franzinelli.

Le prime squadre fasciste s’inserirono quindi su questo terreno conflittuale, fornendo giovani votati alla violenza ed ex-combattenti per contrastare le Leghe – sia “rosse” che “bianche” – dei lavoratori della terra, compiere spedizioni punitive nei paesi non sottomessi, perpetrare persecuzioni individuali ed esecuzioni “mirate”.
L’intesa era nel reciproco interesse delle parti: i possidenti terrieri, per la tutela dei propri interessi e privilegi, potevano contare su una più efficiente guardia privata, operante come una forza politica, mentre i Fasci usufruivano di legittimazione e ingente sostegno economico, estendendo così la loro influenza, a spese del sindacalismo di classe e dell’associazionismo popolare.
Grazie alla disponibilità di camion e altri veicoli – ma in alcune zone anche di cavalli – lo squadrismo “tricolorato introdusse la tattica della “guerra di movimento”, ma risulta evidente la continuità funzionale con i pre-esistenti “mazzieri dell’Agraria”, così come appare evidente in alcune foto delle prime squadre fasciste nella campagne. Ai bastoni e alle doppiette da caccia si aggiungevano le armi da guerra, ma non vi erano ancora divise paramilitari ed elmetti e le rare camicie nere erano quelle “da fatica” allora normalmente usate dai contadini nel lavoro dei campi.
La situazione della Maremma, sia Toscana che Laziale, conferma perfettamente tale dinamica, seppure a fianco dell’importante realtà agricola vi erano non meno importanti insediamenti industriali e minerari che talvolta – come in Val di Cecina – vedevano un analogo “feudalesimo industriale”.

Non di meno, lo squadrismo «tricolorato» dovette fare i conti col forte radicamento socialista, anarchico e sindacalista, ricorrendo – con la connivenza delle forze dell’ordine e dei comandi militari – a metodi terroristici; basti pensare alla Strage di Roccastrada che nel luglio 1921 anticipò le rappresaglie nazi-fasciste “10 per 1”.
La compiacenza della forza pubblica anche nell’assalto fascista a Grosseto venne confermata da una testimonianza, pubblicata sul quotidiano anarchico «Umanità nova» del 6 luglio 1921, che riferì «dei reali carabinieri allineati fare il presentatarm allo stato maggiore fascista».
La biografia di Gino Aldi Mai, ricco proprietario terriero grossetano, prima liberale e poi decisamente fascista, che rivestì importanti cariche pubbliche e istituzionali (sindaco, podestà, senatore…), al centro del saggio degli storici Dominici e Antonini, appare in effetti paradigmatica per comprendere l’involuzione, dal paternalismo alla reazione, della borghesia agraria non solo in in Maremma, ma simile nel resto della Toscana e del Lazio, così come nella Valle Padana e nel Meridione.
Le “patriottiche motivazioni ideali” di tale passaggio al Fascismo, ebbero il loro riscontro durante il regime quando, come scrive Franco Dominici: «Il padrone tornava a essere tale a tutti gli effetti e delegava il fattore, o agente agrario. I vecchi usi e prestazioni di tipo medievale erano adesso codificati dalla legge; i mezzadri dovevano consegnare nuovamente al padrone gli animali da cortile, le uova, la legna e quelle che diventeranno le “massaie rurali” saranno obbligate a prestarsi ai servizi padronali. Le leggi sugli infortuni agrari vennero abrogate, così come la mutua dei “rossi” il patronato dei “bianchi”; la divisione degli utili dei dei diversi prodotti (latte, suini, monta, castagne, ma anche prodotti come tabacco, barbabietola e pomodori), precedentemente a favore dei mezzadri, fu riportata dalle leggi fasciste al 50% fra le due parti. Il colono tornava a condizioni di vita più misere, a un lavoro con minori certezza, alle angherie dei fattori ed a una dieta alimentare più povera».
La lettura del libro offre anche l’occasione di riflettere su come, prima sui giornali di destra e nei rapporti di polizia e in seguito nella narrazione epica dello squadrismo, il clima di guerra civile instaurato dagli «schiavisti agrari» (seconda una nota definizione dannunziana) venne mistificato come un’eroica e disinteressata battaglia per salvare l’Italia dal bolscevismo e dall’anarchia, con la conseguente glorificazione dei pochi “martiri fascisti” a fronte di migliaia di vittime, perlopiù inermi, della classe lavoratrice e la criminalizzazione di quanti impugnarono le armi per la difesa delle libertà sociali.
I necrologi commemorativi dei fascisti rimasti uccisi nel grossetano e nel viterbese, citati nel libro, forniscono un esempio dello stilema retorico utilizzato per trasformare gli aggressori in vittime e gli oppositori in criminali.
Lo squadrista ventunenne Rino Daus che, da Siena, era giunto a Grosseto per espugnare militarmente il rosso capoluogo maremmano, veniva quindi definito come un «giovinetto» che morendo avrebbe invocato «Italia! Mamma!», mentre Giovanni Migliori, «tutto dedito alla casa e la lavoro», fu ucciso in un’imboscata da «una bieca figura di comunista» a Giuncarico. Giovanni Dessy, fondatore del Fascio di Orbetello, cadde in una sparatoria con alcuni malviventi, ma la sua morte fu il pretesto per rappresaglie contro i “rossi”. Il fascista grossetano Ivo Saletti rimase ucciso al ritorno da una spedizione punitiva a Roccastrada, probabilmente colpito da un colpo partito accidentalmente da un camerata che si trovava a bordo del medesimo camion, causando per ritorsione l’eccidio indiscriminato di dieci inermi paesani. Invece, lo squadrista grossetano Andrea Agnelli, mortalmente accoltellato da uno sconosciuto e la cui uccisione fu subito attribuita «a odio di parte», a distanza di tempo fu escluso dal martirologio fascista. Nello stigmatizzare l’uccisione del fascista viterbese Amoroso Melito venne invece sottolineato il fatto che era un mutilato, ma tale condizione non gli aveva impedito di «prendere parte a parecchie spedizioni punitive».
Un ventennio dopo lo stesso schema sarebbe stato ripreso dalla propaganda della Repubblica sociale contro i partigiani: i «ragazzi di Salò», vittime dei «banditi», ed ancora oggi viene riproposto nel tentativo di riscrivere la storia, dimenticando anche Roccastrada.




Giorgio Alberto Chiurco: un intellettuale militante nel regime fascista.

Giorgio Alberto Chiurco (1895-1974) è noto soprattutto come cronista ufficiale della rivoluzione fascista, autore di una delle più celebri opere edite sul tema negli anni del regime mussoliniano. Nato a Rovigno d’Istria ma trasferitosi presto in Toscana per motivi di studio, egli fu uno dei protagonisti della fascistizzazione delle province senese e grossetana. Ma non solo: medico e squadrista della prima ora, poi parlamentare, ufficiale pluridecorato, docente universitario e scienziato razzista, Chiurco fu un attore molto attivo nella vita politica e intellettuale del regime. Finora, il suo percorso biografico era stato soltanto parzialmente esplorato dalla storiografia ma il volume di Borri, esito di un’approfondita ricerca negli archivi nazionali e internazionali, si propone di fornire una ricostruzione complessiva delle vicende politiche e culturali del personaggio, che si intrecciano su più livelli con la storia italiana del Novecento.

Riportiamo di seguito un estratto del volume, dedicato al ruolo svolto da Giorgio Chiurco, come medico e intellettuale fascista, nella creazione di un nuovo prototipo di italiano, il cosiddetto «Uomo Nuovo» fascista inteso come modello di un’umanità superiore, destinata a fare le fortune dell’Italia e del regime.

 

Un intellettuale militante

V’è una cultura della rivoluzione che si esprime attraverso la polemica pubblicistica di uomini come Maccari e Malaparte. Ve ne è un’altra che parla per anatemi e per invettive ma che, andando al sodo, serve unicamente nei momenti di pericolo […]. V’è, infine la cultura della rivoluzione che ha avuto per cronisti Gorgolini e Chiurco, e che ha per storici Volpe ed Ercole. La prima cultura, della polemica pubblicistica, impedisce che le porte della rivoluzione si chiudano […]. La seconda cultura, quella degli oltranzisti, è sempre richiamabile in servizio, al primo segno del temporale. La terza cultura, quella dei cronisti della rivoluzione, rimane l’anima di ogni processo storico da istruirsi a carico di quei nemici che, rimasti nascosti durante il nostro cammino, tentano di uscire allo scoperto per sbarrarci, al momento che sembrerà loro opportuno, la strada.

Era in questi termini che Mussolini descriveva a Yvon De Begnac[1] l’attivismo politico racchiuso nell’opera degli intellettuali fascisti. Chiurco trovava posto nel gotha culturale fascista non tanto per meriti scientifici, ma come cronista del periodo rivoluzionario, a dimostrazione della forte impronta ideologica che ne caratterizzò il lavoro, come pure della pluralità di ambiti su cui tale operato si estese. L’eclettismo dell’istriano può leggersi come riflesso del pluralismo culturale sperimentato dal regime, inteso come sovrapposizione fra correnti e programmi diversi nei campi delle arti e della scienza, destinati però a convergere nella mobilitazione in favore della rivoluzione fascista.[2] La celebrazione totalitaria del primato della politica su ogni espressione della vita delle masse rappresenta probabilmente la sintesi più efficace per spiegare tale pluralità, senza con questo voler ridurre la cultura fascista alla sua sola funzione strumentale.[3]

Mario Isnenghi distingueva tra intellettuali militanti, produttori di senso, e intellettuali funzionari, organizzatori e propagandisti, rinviando alla funzione svolta dagli attori culturali nella società fascista. L’attenzione di Isnenghi non era rivolta alla sola conoscenza alta, ma all’organizzazione culturale latamente intesa, comprendendo quindi insegnanti, giornalisti, oratori i quali, per motivi e in modi diversi, portarono la dottrina fascista tra le masse.[4] Le convergenze e sovrapposizioni riscontrabili tra tali figure e funzioni,[5] lungi dallo sminuirne l’efficacia, riconfermano la pluralità di livelli su cui si mossero gli agenti culturali del fascismo, seppur all’interno della cornice tracciata dal regime. Anche intellettuali intransigenti come Chiurco, contrari a mediazioni che limitassero la forza rinnovatrice fascista, distinsero la propria attività per un doppio crisma culturale e politico, conoscendo convergenze e divergenze rispetto alle correnti dominanti.[6] Non ci sono soltanto opportunismo e spirito conformista nelle proposte del medico istriano, pronto a formulare idee e difendere le proprie posizioni, se ritenute meritevoli, anche quando difformi dagli orientamenti del regime. A rendere Chiurco un intellettuale militante, nel significato più letterale del termine, è la natura totalizzante della sua adesione al regime, che ne fa uno scienziato, medico e autore vissuto nel fascismo e del fascismo, criticandone talvolta decisioni e orientamenti, ma condividendone il progetto complessivo.

La produzione letteraria dell’istriano può essere ricompresa nelle due macrocategorie degli scritti scientifici e delle opere a carattere cronistico-letterario dedicate al fascismo rivoluzionario e ai suoi martiri. Una distinzione – come vedremo – comunque non priva di punti d’incontro, riflesso tanto del ricordato eclettismo dell’autore, quanto del progressivo prevalere del Chiurco politico rispetto allo scienziato. Gli scritti razzisti degli anni Trenta, piegati alle necessità della pseudoscienza di regime, sono in tal senso indicativi della politicizzazione di tutta la produzione letteraria dell’istriano, il quale appartenne alla cosiddetta «industria culturale» tratteggiata da Gabriele Turi, formata dall’insieme degli intellettuali di regime. Al centro di tale produzione, indipendentemente dalle singole aree di interesse, rimasero sempre la costruzione dello Stato nuovo e di una nuova generazione di italiani, i «fascisti integrali» evocati da Mussolini.[7] Il concetto dell’italiano nuovo ricorre tanto negli scritti scientifici, quanto nella produzione cronistico-letteraria del medico istriano, sempre attento a temi quali l’educazione dei giovani, lo sport, l’eugenetica, la salvaguardia della sanità razziale.

Nell’ottica del regime, le nuove generazioni dovevano essere innanzitutto numerose, in salute e fisicamente prestanti, motivo per cui la medicina divenne una pratica «con etichetta nazionalistica e marchio fascista», come scritto da Giorgio Cosmacini.[8] Il regime sottopose la disciplina all’influenza dell’autorità politica, facendo dei medici i “sacerdoti” del progetto mussoliniano di ingegneria sociale, incaricandoli di salvaguardare la salute fisica e morale della popolazione, di «abituare gli italiani al moto, all’aria libera, alla ginnastica ed anche allo sport».[9] Nel 1921, Chiurco vedeva negli squadristi i protagonisti di una nuova era, «gli eletti, gli aristocratici del pensiero e dell’azione predestinati al comando da Dio e dalla patria». Per un corretto sviluppo dei giovani risultava fondamentale la «forza, equilibrio, volontà, disciplina che solo una razionale educazione fisica può dare».[10]

L’evoluzione del concetto di uomo nuovo ricalca nel pensiero di Chiurco la cronologia tracciata da Emilio Gentile, per cui a cavallo tra gli anni Venti e Trenta l’attenzione si concentra sul potenziamento fisico e demografico della popolazione, con l’emergere dell’imperialismo e del razzismo quali fattori di rilievo nel dibattito. Nel Manuale di cultura fascista del 1930, l’autore inseriva le politiche demografiche tra «i principi basilari del Fascismo nei riguardi della tutela fisica e morale della razza», vedendo nella crescita della popolazione «uno dei mezzi più efficaci per la sua valorizzazione ed espansione materiale e spirituale nel mondo».[11] Al numero doveva seguire la qualità, assicurata dallo sviluppo di qualità fisiche e mentali, favorite da politiche volte ad «accrescere la validità, l’energia e la resistenza morale e fisica del giovane», facendone un «cittadino soldato» e un cittadino-produttore.[12] Con la proclamazione dell’impero alla metà degli anni Trenta, alla formazione delle nuove generazioni si aggiunse il problema della loro protezione dal rischio di incroci genetici con le popolazioni indigene, la mescolanza con le quali rappresentava «sia per ragioni sanitarie e biologiche, che per la dignità della razza, un grave pericolo per il popolo italiano colonizzatore». Per questo motivo, diventava «un dovere della nostra dignità imperiale» la «formazione di una coscienza razziale per difendere la razza italica da qualsiasi imbastardimento», ricorrendo a leggi che «impediscono il mescolamento di italiani con indigeni».[13]

Al problema della preservazione si affiancava quello dell’educazione. Per questo motivo, il regime varò dagli anni Venti quello che Luca La Rovere ha definito «il più importante esperimento di pedagogia politica di massa mai tentato nella storia nazionale italiana».[14] L’educazione morale doveva riguardare il senso di disciplina e la fedeltà all’idea, per cui sui fascisti, secondo i postulati di Arnaldo Mussolini, incombeva «il dovere di essere, nella vita nazionale, sempre i primi, vigili contro gli avversari» ma anche pronti «a volgarizzare i postulati», a «tesserli ed a viverli nelle manifestazioni di ogni giorno».[15] Fascismo, aggiungeva Chiurco, significava «soprattutto spirito di abnegazione ed assoluta e cieca disciplina», poiché «il fascista deve essere in prima linea puro e senza macchia».[16] Nei manuali scolastici curati tra il 1930 e il 1934, l’istriano dedicò ampio spazio ai «doveri del cittadino verso la famiglia e verso la patria», sostenendo che ogni buon italiano «sentirà, e praticherà, prima di ogni altro, il dovere dell’ordine e della disciplina», poiché «dall’uno e dall’altra scaturiscono il rispetto delle leggi, il sentimento della gerarchia, l’ossequio all’Autorità».[17]

È infine evidente l’intento educativo della Storia della rivoluzione fascista. Non a caso, Mussolini medesimo, nel proprio Invito alla lettura, incluse tra i principali destinatari dell’opera «i giovani delle più fresche generazioni», che attraverso l’opera «impareranno a venerare i segni del Littorio e a rispettare i veterani che fecero la Guerra e la Rivoluzione».[18] La funzione didattica della Storia fu sottolineata da numerose riviste del tempo, con Carlo Capasso che la definì «una vera scuola per le generazioni nuove»,[19] mentre il periodico del ministero della Pubblica Istruzione, Accademie e Biblioteche d’Italia, inserì i volumi del Chiurco tra le opere che «inizieranno il giovine alla meditazione degli avvenimenti storici».[20] Pure i fuoriusciti antifascisti intuirono l’intento pedagogico di quella che definirono «una storia del fascismo ad uso dei balilla», e pur criticando l’opera e lo stile prolisso dell’autore, riconobbero come il poter disporre di «un’organizzazione di massa, inquadrata da migliaia di cavalier Chiurco» costituisse un punto di forza dell’Italia mussoliniana.[21]

Tramite l’apparato propagandistico fascista, la Storia divenne un testo importante per il progetto di rinnovamento nazionale, una presenza immancabile tra gli scaffali di biblioteche, circoli di lettura, scuole di ogni grado e tipologia, nonché dono per gli studenti che maggiormente si fossero distinti nell’apprendimento, i quali «nell’esempio dei pionieri della rigenerazione della patria» avrebbero trovato «i migliori esemplari per la loro formazione spirituale».[22]

 

[1] F. Perfetti (a cura di), Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 402-3.

[2] A. Tarquini, Storia della cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2011, p. 225.

[3] E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci, Roma 2008 (ed. orig. 1995). In generale, R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2000.

[4] M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Einaudi, Torino 1979.

[5] S. Luzzatto, The Political Culture of Fascist Italy, in Contemporary European History, vol. 8, 2, 1999, p. 322.

[6] A. Tarquini, Storia della cultura fascista, cit., pp. 86-89, 228-29.

[7] G. Turi, Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 21. Sul tema, E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 235-64; P. Bernhard, L. Klinkhammer (a cura di), L’uomo nuovo del fascismo. La costruzione di un progetto totalitario, Viella, Roma 2017.

[8] G. Cosmacini, Medici e medicina durante il fascismo, Pantarei, Milano 2019, p. 65. In riferimento al ruolo dei medici nel regime, R. Maiocchi, Scienza e fascismo, Carocci, Roma 2004, pp. 140-54.

[9] Discorso ai medici del novembre 1931, in E. e D. Susmel (a cura di), Opera Omnia, vol. 25, La Fenice, Firenze 1956, pp. 58-62. Circa la funzione educatrice dello sport, P. Dogliani, Educazione fisica, sport nella costruzione dell’«uomo nuovo», in P. Bernhard, L. Klinkhammer (a cura di), L’uomo nuovo del fascismo, cit., pp. 143-55.

[10] Lo squadrista incarnò il mito fascista dell’italiano nuovo, E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 245-48. Per le citazioni cfr. L’inchiesta fascista sui fatti di Roccastrada, in L’Era Nuova, 30 luglio 1921; Fascismo ed educazione Fisica, in La Scure, 24 giugno 1922.

[11] G.A. Chiurco, Manuale di cultura fascista, Morano, Napoli 1930, pp. 89-90.

[12] Id., L’educazione fisica nello Stato fascista. Fisiologia e patologia chirurgica dello sport, San Bernardino, Siena 1935, p. 7. Il modello di “cittadino-soldato” è posto al centro della pedagogia totalitaria del regime dalla seconda metà degli anni Venti.

[13] Id., La sanità delle razze nell’Impero italiano, Istituto Fascista dell’Africa Italiana, Roma 1940, pp. 1049-50.

[14] L. La Rovere, Totalitarian Pedagogy and the Italian Youth, in J. Dagnino, M. Feldman, P. Stocker (a cura di), The “New Man” in Radical Right Ideology and Practice. 1919-1945, Bloomsbury Academic, London 2018, p. 21. La traduzione è mia.

[15] A. Mussolini, Fascismo e civiltà, Hoepli, Milano 1937, pp. 134-35.

[16] G.A. Chiurco, Comandamento del fascista: onestà e disciplina, in Il Popolo Senese, 3 gennaio 1929.

[17] Id., Elementi di cultura fascista, Morano, Napoli 1934, p. 94.

[18] B. Mussolini, Invito alla lettura, in G.A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, vol. 1, Vallecchi, Firenze 1929, pp. VII-VIII.

[19] C. Capasso, Storia della rivoluzione fascista di G.A. Chiurco, in Bibliografia fascista, 7, 1929, pp. 1-3. Capasso fu docente scolastico, studioso di didattica e professore universitario.

[20] G. Ruberti, Libri per una vita intera, in Accademie e Biblioteche d’Italia, 1, 1929, pp. 50-58.

[21] S. T., Una storia del fascismo ad uso dei balilla, in Lo Stato Operaio, 8, 1929, pp. 706-11.

[22] La citazione è di Ruggero Romano, deputato fascista dal 1924 al 1939, durante una cerimonia ufficiale a Noto, cfr. C. Sgroi (a cura di), R. Liceo-Ginnasio «A. Di Rudinì» di Noto. Annuario Scolastico 1929-1930, Studio Editoriale Moderno, Catania 1931, p. 22.




Una “storia modello”: la lunga guerra di Siro Rosi

Dal momento in cui sono state pubblicate le biografie dei toscani volontari in Spagna, grazie a una ricerca iniziata nel 2008, l’archivio dell’Istituto che l’ha promossa si è arricchito di documenti di varia natura. L’ultimo arrivo è un nucleo di carte su una figura di rilievo non solo locale, il grossetano Siro Rosi. A consegnarli la figlia, così come era stato il figlio dell’empolese Aureliano Santini, qualche anno prima, a depositare le copie dei quaderni di cronaca della guerra di Spagna del miliziano “Silvio”. Dai figli di Angelo Rossi, grossetano, nome di battaglia Trueba, è arrivata documentazione utile a ricostruire con esattezza le tappe di una lunga persecuzione e della militanza politica, tra guerra di Spagna, Resistenza e dopoguerra: carte di Questura, appunti di memoria, collezioni di giornali spagnoli di anni successivi alla fine della guerra civile, testimonianze dell’attività di partito in Italia, dopo la Liberazione.

Avvicinarsi al lungo periodo della storia dell’antifascismo – emigrazione politica, guerra di Spagna e un impegno fino alla Resistenza e oltre – mette di fronte al problema delle fonti. Il corpo del materiale documentario indispensabile richiede l’esplorazione di molti archivi, da quelli locali a quelli dei paesi che hanno visto il passaggio di donne e uomini dalle esperienze multiformi. Nel lungo tempo trascorso dagli eventi tanto è stato il lavoro di storici, dentro o fuori dalle università, di associazioni di reduci come l’AICVAS (ex-volontari antifranchisti), della rete degli istituti storici della Resistenza, di altre realtà associative, come l’Istituto Salvemini e altre che sarebbe lungo elencare. Così materiale documentario importante è stato raccolto, ordinato e studiato. In altri paesi europei la ricerca ha incluso storie e memorie riguardanti il rapporto tra gli antifascisti italiani ed eventi e fenomeni europei, in una successione di tempi che va dall’affermazione del fascismo in Italia al secondo dopoguerra. In alcuni casi progetti transfrontalieri hanno unito risorse e aperto spazi a nuove ricerche.

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Siro Rosi e la moglie a Tolosa, 1947

Tra gli esempi, La memoria delle Alpi/La mémoire des Alpes, relativo agli anni della guerra e della Resistenza, (http://www.memoiredesalpes.net/index.php), da cui, come si legge nel sito dell’Istituto storico regionale piemontese della rete INSMLI che ne è promotore, insieme alla rete degli istituti della regione, «nel 2009 è partito un nuovo progetto regionale, dal titolo ”La memoria delle Alpi – Dalle Alpi all’Europa” che considera le Alpi occidentali come “laboratorio storico” dei complessi processi che hanno condotto le nazioni europee dalla II guerra mondiale, ai primi passi nella costruzione dell’unità, fino ai Trattati di Roma (marzo 1957)».

Si tratta di territori di ricerca, divulgazione e didattica utili nel contesto delle traversie di un’unione europea ancora allo stato embrionale, attualmente in grande affanno. Da qui l’importanza anche di piccoli contributi, anche poche carte che entrano nei nostri archivi e arricchiscono ricerche fondate inizialmente sull’esplorazione di grandi archivi pubblici. Come quello di cui si dà conto qui, che giunge mentre ancora il lavoro è in corso, anch’esso frutto di progetti internazionali dell’istituto grossetano, per tre anni sostenuti da risorse del governo spagnolo. Gli esiti per ora sono in un database presente in questo portale, in uno spazio dedicato nel sito dell’ISGREC, nel volume e nel documentario visibili in questa pagina.

Nel database la biografia di Siro Rosi è un poco più ampia delle 408 pubblicate: il profilo sintetico di un antifascista di lungo corso. Oggi le nuove carte subito digitalizzate consentono un incrocio tra vecchie e nuove fonti e mettono bene a fuoco proprio il carattere di esperienza europea comune a molti dei nostri antifascisti. In questo caso, si è in presenza delle vicende di una figura particolarmente rappresentativa. Memorie scritte, in versioni diverse, tra 1945 e 1971, lettere anche successive, fotografie con note autografe e data e luogo ci consegnano la sua narrazione. Carte via via sommatesi anche in seguito alle sue necessità di documentazione da esibire chiariscono passaggi complicati, ancora tutti da studiare, per trarne un esito storiograficamente significativo.

Rosi, nato a Sticciano, in provincia di Grosseto, classe 1915, è tra i sovversivi grossetani messi sotto controllo dalla Questura nei primi anni Trenta. Va in Spagna nel 1937 con il rischioso espediente dell’arruolamento tra i volontari filo franchisti, per passare non senza difficoltà al 3^Battaglione, 2^compagnia, Brigata Garibaldi. Combatte, è ferito, entra in Francia dopo la sconfitta dei repubblicani ed è costretto a una peregrinazione tra i campi di concentramento della Francia del Sud. Dall’ultimo, il Vernet, fugge nel 1941 e da lì comincia un’altra storia, di Resistenze prima in Francia, dove combatte e resta mutilato, poi in Italia, con ruoli di comando nelle formazioni partigiane della Lombardia. Finita la guerra, comincia l’ultima, lunghissima peregrinazione, sino al 1957. In Francia e Italia, in Polonia, in fuga per la condanna a morte per diserzione nel 1938, ancora non annullata, anche se commutata in carcere, cui si era aggiunta un’accusa relativa alla notissima questione dell’oro di Dongo. Il processo si tenne nel 1957 a Padova, la sua riabilitazione fu pronunciata dalla Corte d’appello di Roma il 18 dicembre 1962.

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Il retro della foto di Tolosa: autografo della moglie “in ricordo di una delle nostre ultime passeggiate a Tolosa. Baci” 18-7-1947

I tanti frammenti da cucire insieme a quel che già è noto di una vita non comune si completano con la testimonianza della figlia Liliana, nata a Varsavia, ma poi lontana dai genitori fino al loro rientro. Lo descrive cupo e solitario, grande affabulatore, ma solo in rarissime occasioni, le sue giornate a dipingere ritratti dei familiari e paesaggi di Maremma: insistente, quasi ossessivo il paesaggio della Fiumara, un tratto della costa maremmana, tra le tele che sono state donate all’istituto. Anche questa è una fonte. Liliana ci spiega quanto poco l’immagine del padre da lei conosciuto, affettuosissimo – “ogni mattina metteva nella mia camera una rosa” – corrispondesse al racconto della madre, che l’aveva conosciuto estroverso, pieno di energia positiva. La madre, sempre Liliana a raccontarlo, non lasciava mai, neanche quando era in casa, la borsa dei documenti. Lezione appresa dall’emigrazione in Francia con la famiglia e dalla vita accanto a Siro, in Europa, in gran parte da clandestini.

Le carte sono ancora da studiare, lo farà chi ha lavorato finora alle ricerche citate. Tuttavia meritano un richiamo alcuni pezzi, utili alla ricostruzione della singolarità di un’esperienza biografica, utili a suggerire piste di ricerca, indizi di un clima e di un’esperienza collettiva. Nel 1958, a poca distanza dal definitivo ritorno in Italia, una lettera dal Comitato nazionale francese dell’Association républicaine des anciens combattants lo ringrazia del contributo versato. La Francia è il paese del suo internamento e della prima Resistenza. In una lettera del 1976 risponde alla richiesta di notizie sulla “Resistenza attiva nel mezzogiorno della Francia”. “Il lungo tempo trascorso ha reso opachi i ricordi”, scrive. Ma cita Sereni, Dozza, Scotti, dirigenti del PCI che organizzano il “lavoro militare” nei dintorni di Tolosa, squadre di azione patriottica protette da famiglie di contadini italiani.

Nell’intervallo fra il processo e gli anni Settanta, arrivano pubblici riconoscimenti con croce di guerra, medaglie e diplomi, lettere attestanti il suo passato eroico con la firma di vecchi antifascisti, divenuti parlamentari e protagonisti di primo piano della politica. Citano il suo impegno politico e militare fra 1937 e 1945; in nessun documento compare la spinosa questione dell’oro di Dongo, legata all’uccisione di Mussolini, documentata da una minuziosa raccolta della rassegna stampa del dibattimento processuale. Nei resoconti giornalistici, gli argomenti di accusa e difesa, su una vicenda che poi ha conosciuto notorietà per presunti scoop giornalistici e un uso politico della storia.

A ricostruire il caleidoscopio di identità, ruoli e spostamenti che precedono il rifugio nell’Europa dell’est, serve una cartella di carte d’identità e lasciapassare, di Siro Rosi, Mario Marini, Juan Medinas, rilasciati da autorità italiane, spagnole, francesi, tedesche. La maggiore curiosità suscitano due quadernetti di appunti 10×15 dalle copertine consunte: pochi fogli, grafia piccolissima e molte sigle, quasi tutto scritto a lapis; uno con certezza appartiene al periodo delle Resistenze, in Italia o in Francia.

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Carta d’identità di Siro Rosi, rilasciata a Tolosa nel 1946, valida fino al 1949

È naturale che ci sia un gran desiderio e una prevedibile utilità marginale nel passare dal repertorio delle fonti a un lavoro di elaborazione critica. Non mancano studi importanti, ma ancora tanto potrà essere indagato sulla lunga parabola del nostro antifascismo tra Italia ed Europa. Come quelle di tanti altri, le carte di Siro Rosi aggiungono conoscenze, mentre avvicinano al «cono d’ombra che ancora copre eventi estremi della complicata storia del Novecento». Nelle sue memorie è la guerra di Spagna che vuole ricordare; né lui né l’amatissima moglie parlavano del passato comune. L’ultima avventura fu il duro esilio polacco. Il suo avvocato difensore, Emilio Rosini, lo trovò a Varsavia nel 1956 ««un appartamento squallido[che si affacciava] sulle rovine del ghetto, una vasta spianata di macerie». Solo in seguito sembra che Rosi abbia compreso di aver vissuto un decennio di inutile esilio.

L’esperienza che raccontano le carte, gli oggetti, anche i dipinti di Siro Rosi può apparire oggi abbastanza straordinaria, ma è tutt’altro che unica.È un frammento minimo della condivisione di quelle che Carlo Rosselli nel 1937 aveva definite “tutte le speranze di un’epoca”, divenuta in ultimo condivisione del troppo parziale esito di quelle speranze, nell’Italia postfascista, nell’Europa della guerra fredda.




“L’energicissima lezione” del 1937: la ripresa dello squadrismo contro gli antifascisti grossetani

Incitata o tenuta a bada a seconda delle convenienze, la violenza è sempre stata un fondamento dell’ideologia fascista. Già all’epoca dello squadrismo e prima della presa del potere, i fascisti propagandarono la propria fede con la pratica della violenza «mitizzata e sublimizzata come manifestazione di virilità e di coraggio, strumento necessario per liberare la nazione dai suoi dissacratori. L’offensiva armata dello squadrismo contro il proletariato, per i fascisti, era una santa crociata dei veri credenti per annientare i profanatori della patria, redimere il proletariato dalla idolatria dei falsi dèi dell’internazionalismo, riconsacrare i simboli e i luoghi santi della nazione, riportando la patria sugli altari della devozione civile[1]». Il tutto si tradusse in minacce, intimidazioni, saccheggi, devastazioni, incendi e uccisioni di avversari politici, negli anni più bui dello squadrismo. Neppure la presa del potere da parte del fascismo valse a porre fine alla violenza. Una lettura più recente di questo fenomeno ha sottolineato come anche negli anni centrali della dittatura mussoliniana squadrismo e violenza non vennero mai meno, tanto che il primo non può esser considerato un residuo anacronistico o un effetto collaterale del percorso ventennale del regime, quanto un elemento imprescindibile nella definizione del fascismo. Stando a questa interessante interpretazione, nonostante la necessità di normalizzazione il regime non rinunciò mai alla violenza, poiché normalizzazione governativa e illegalismo squadrista erano due piani di un’unica strategia politica che perseguiva lo stesso obiettivo di conquista integrale della società e di creazione di una nuova Italia e di un nuovo italiano da conseguire innanzitutto attraverso l’eliminazione di ogni forma di opposizione[2].

L’analisi dei contesti locali durante il Ventennio conferma il perdurare di una situazione di tensioni e violenze, che riguardarono perfino il campo fascista dove si combattevano le lotte di fazione per la conquista del potere locale. D’altronde, sin dalle origini e al di là delle differenti realtà politiche ed economiche, il fascismo fu una precaria alleanza tra interesse e ideologia, tanto che «agli occhi di molti fascisti il movimento era stato uno strumento di avanzamento sociale ed economico[3]».  Dallo studio della documentazione delle Federazioni provinciali del Pnf è emerso come, nel corso degli anni, la componente dell’interesse prese il sopravvento su quella dell’ideologia. La priorità data dai gerarchi di provincia al perseguimento dei propri interessi privati e materiali sconfinò in frequenti casi di affarismo, corruzione e malcostume che ebbero conseguenze sull’opinione popolare, provocando atteggiamenti di distacco, apatia, disaffezione nei confronti del partito e del regime. Fu soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta che si moltiplicarono i rapporti dalle province volti a illustrare tale situazione: nel grossetano, oggetto di questa indagine, vi furono riscontri non solo nel capoluogo di provincia ma anche in altri paesi quali Massa Marittima, Civitella e Pitigliano[4]. Soffermandoci proprio sul contesto maremmano nella seconda metà degli anni Trenta, parallelamente al malcontento verso i gerarchi notiamo una netta ripresa degli atti di intimidazione e violenza verso gli antifascisti, in particolar modo nel 1937, in concomitanza ad eventi internazionali di notevole importanza in quegli anni (la guerra civile spagnola e la nascita dell’Impero nell’Africa orientale italiana) e al massimo sforzo profuso dal regime nel tentativo di fascistizzare la società e ampliare il consenso, grazie anche al ruolo svolto dal Partito nazionale fascista, il custode della fede e “grande pedagogo”. Il protagonista assoluto di questa nuova ondata di squadrismo fu proprio il segretario federale del Pnf, Angelo Maestrini, un geometra nato a Gavorrano nel 1902, squadrista e iscritto antemarcia, già consigliere comunale e poi podestà e segretario del fascio dello stesso Comune fino alla sua nomina alla guida del partito in provincia, che tenne dal maggio 1934 al febbraio 1938. Perfetto esempio dell’incrocio già descritto di “fede e fortune” e di quei ceti medi delle professioni in ascesa, formatisi nelle file del partito e destinati a rappresentare la nuova classe dirigente del fascismo, Maestrini ebbe un ruolo di primo piano durante il Ventennio in Maremma e si contraddistinse per il fenomeno del cumulo di cariche, i casi di affarismo e il facile interscambio tra gli incarichi politici e quelli statali, poiché dopo l’esperienza di federale fu nominato podestà di Grosseto.

Antifascisti grossetani nel 1928. Da sx in piedi: Attilio Vitali, Gino Franchi, Paolino Ancarani, Luigi Franchi, [...], Artino Meconcelli, Ferdinando Nardini, Adamo Tonini, Augusto Boschi,. Da sx seduti: Dino Berti, Pietro Ginanneschi (pHOTO CREDITS: a.- bANCHI, sI VA PEL MONDO)

Antifascisti grossetani nel 1928. Da sx in piedi: Attilio Vitali, Gino Franchi, Paolino Ancarani, Luigi Franchi, […], Artino Meconcelli, Ferdinando Nardini, Adamo Tonini, Augusto Boschi,. Da sx seduti: Dino Berti, Pietro Ginanneschi (photo credits. A. Banchi, Si va pel mondo)

Nella seconda metà degli anni Trenta la federazione provinciale fascista dispose un aumento delle attività di vigilanza sugli antifascisti e incitò alle spedizioni punitive nei confronti degli elementi sospetti. Le bastonature riguardarono il capoluogo maremmano (dove si contarono circa 20 azioni violente) ed anche altri centri della Provincia, quali Orbetello, Follonica, Scarlino e Porto Santo Stefano. Il 5 aprile 1937 il federale Maestrini aveva comunicato al segretario nazionale del Pnf Starace di aver notato già da tempo una certa riorganizzazione da parte degli antifascisti locali[5]. Dal servizio di vigilanza da lui disposto era emerso che individui ritenuti sovversivi tendevano a ritrovarsi in gruppo per le vie cittadine, commentando la situazione grossetana e i fatti politici in generale. La ripresa delle azioni punitive su invito dello stesso federale aveva però trovato una netta contrarietà da parte della Prefettura, della Questura e dei carabinieri, che invitarono ripetutamente Maestrini a sospenderle, non risultando loro alcun indizio di attività sovversiva. «Da tali esortazioni non sono estranee preoccupazioni per la propria personale responsabilità», aggiunse polemicamente il federale. Nonostante tali inviti, la federazione provinciale fascista proseguì le attività di vigilanza e continuò ad incitare le azioni violente. Questa nuova ondata squadrista, promossa dal partito locale ma osteggiata dalle autorità statali in provincia, mal si conciliava però con quei compiti di “mediazione” a tutti i livelli a cui ormai il Pnf doveva adempiere. Significativo il fatto che lo stesso Starace girò la lettera di Maestrini al sottosegretario agli Interni Buffarini Guidi per gli avvertimenti del caso. Il radicalismo del federale che minava la stabilità in provincia non poteva più esser tollerato e fu, come vedremo, uno dei motivi principali dell’allontanamento di Maestrini dalla guida del partito e del suo insediamento alla guida comunale. Qui fu chiamato a sostituire il podestà Ezio Saletti, fratello del “martire” fascista Ivo, caduto nel corso della spedizione punitiva su Roccastrada del 24 luglio 1921, che pur essendo stato chiamato a svecchiare e spersonalizzare la carica podestarile dopo la lunga gestione Scaramucci, aveva deluso tutte le aspettative, mancando in quegli attributi giudicati fondamentali dal regime per la figura del podestà, quali la “fattiva operosità”, l’efficienza, la moralità e la capacità di accattivarsi la stima della popolazione[6]. Ennesima dimostrazione delle difficoltà del regime di garantire stabilità in provincia e di promuovere una nuova classe dirigente giovane, dichiaratamente fascista ed espressione dei ceti medi, che fosse preparata ed efficiente, nonché del malaffare dei gerarchi, che comprometteva il consenso della popolazione al regime.

Tornando al tema dell’ordine pubblico e delle violenze sui presunti sovversivi nel 1937, le forze dell’ordine grossetane nel corso dell’anno non avevano rilevato attività ostili al regime, in relazione anche agli avvenimenti spagnoli, tali da giustificare le spedizioni punitive promosse dal partito. Ne è un esempio questa relazione stilata dai carabinieri di Grosseto il 13 aprile 1937, avente ad oggetto la repressione della propaganda sovversiva.  « […] Si comunica che, l’11 detto, alcuni fascisti in Roselle, frazione di Grosseto,  percossero senza conseguenze tali Sandri Ippolito, Tenti Giuseppe, Capitoni Angelo, Doveri Cesiro, Scheggi Priamo, i quali pur non avendo militato nei partiti sovversivi, ad eccezione dello Scheggi di idee comuniste, mantengono un contegno non favorevole al Regime. Ieri, 12 corrente, verso le ore 19,30, altri fascisti percossero in Grosseto tali Bellucci Albo e Fanteria Giuseppe perché nutrono idee contrarie al fascismo. Solo il Bellucci riportò contusioni guaribili in giorni sei. Pur trattandosi di elementi infidi in linea politica, sui quali gli organi di polizia esercitano il dovuto controllo, il ripetersi di azioni punitive da parte dei fascisti, sta dando luogo a commenti poco favorevoli, specie perché in questa provincia non si sono verificati fatti tali da giustificare reazioni fasciste[7]». Già nel 1936 era stata segnalata una ripresa dell’attività sovversiva fra gli operai disoccupati, che aveva portato però semplicemente a un aumento delle attività di vigilanza senza particolari rilievi di sorta[8]. L’anno successivo vi furono varie segnalazioni di scritte sovversive sui muri (ad esempio “Abbasso Franco = Abbasso il fascismo = Impero di fame” con la sigla della falce e del martello nei bagni comunali di Roccastrada, “Abbasso il Duce, Viva il pane” sul muro esterno del palazzo del sindacato dei lavoratori dell’industria a Grosseto, “Viva la Russia, abbasso l’Italia” sul lavatoio pubblico di Orbetello ecc.), oltre che di invio di stampa sovversiva (il negoziante Giuseppe Barni di Roccastrada, caposquadra della milizia ed ex vice-segretario politico del fascio di Roccastrada, si vide recapitare da Pas de Calais due manifestini contenenti frasi contro l’intervento fascista in Spagna, mentre a Sassofortino giunsero cartoline del soccorso rosso per i bambini spagnoli firmate con la falce e il martello). I carabinieri di Grosseto segnalarono che in vari esercizi pubblici di Orbetello, nei quali erano installati apparecchi radio, venivano captate le comunicazioni della stazione comunista di Barcellona, oggetto di ascolto da parte degli operai dei vari stabilimenti industriali locali[9]. Nel complesso si trattava di una situazione con qualche tensione nelle aree minerarie o a vocazione più industriale, che poteva però esser tenuta sotto controllo con azioni di vigilanza.

L’allarme principale della federazione provinciale fascista era legato principalmente proprio ai fatti della guerra civile spagnola, che avevano riacceso le speranze degli antifascisti locali. Furono ben 25 i volontari della provincia, su un totale di 395 dell’intera regione Toscana, che si trasferirono nel paese iberico per difendere la Repubblica e combattere Franco[10]. Prevalentemente comunisti e appartenenti alle classi popolari, in gran parte erano già espatriati all’estero quali esuli politici, mentre cinque di loro (Vittorio Alunno, Angelo Rossi detto Trueba, Luigi Amadei, Pietro Aureli e Italo Giagnoni) riuscirono a raggiungere la Spagna dalla Maremma con un’impresa temeraria che rappresentò un vero e proprio smacco per le autorità fasciste. Acquistata una piccola imbarcazione a remi grazie alle sottoscrizioni degli antifascisti maremmani, il 21 agosto 1937 elusero i controlli e dalla spiaggia delle Marze, nei pressi di Castiglione della Pescaia, approdarono in Corsica, prima tappa della loro travagliata e avventurosa esperienza in Spagna. Questi episodi e la propaganda sovversiva interna accentuarono il radicalismo all’interno della federazione provinciale fascista, insofferente a qualsiasi forma di dissidenza nel periodo di ricerca massima del consenso e dell’inquadramento totalitario dei giovani. A tal fine il 29 ottobre 1937 nacque la Gioventù italiana del littorio, sorta dalla fusione dell’Opera nazionale balilla e dei fasci giovanili di combattimento e posta alle dirette dipendenze del segretario del Pnf, per la formazione politica e alla preparazione sportiva e militare dei giovani d’ambo i sessi dai 6 ai 21 anni. Di fronte a tali sfide, il partito grossetano non esitò a giocare la carta della violenza per reprimere qualsiasi opposizione. Dopo la fuga dei cinque in Spagna, il comunista e poi partigiano Aristeo Banchi (Ganna) scrisse nelle sue memorie che «le camicie nere grossetane  (Ragno, Catone e tanti altri delinquenti), infuriate per lo smacco subito, erano da evitare come la peste, ogni pretesto era buono per pestaggi malvagi e per “lezioni” che potevano costare la salute a chi le subiva, le provocazioni erano all’ordine del giorno, l’aria per noi oppositori era gravida di minacce[11]».  Lo stesso Banchi ricorda nel 1937 tafferugli e aggressioni a carico di antifascisti (tra di loro Aladino Fumi), che solevano andare in giro per la città ostentando provocatoriamente le cravatte rosse che acquistavano dai cinesi venditori per strada di oggetti e merci varie.

Elvino Boschi

Elvino Boschi

Il caso più eclatante della ripresa della violenza contro gli antifascisti nel 1937 riguardò l’aggressione compiuta nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre dallo stesso federale Maestrini ai danni di Elvino Boschi (classe 1906), un impiegato socialista all’epoca dei fatti disoccupato, noto alle forze dell’ordine e già sottoposto a periodi di vigilanza per la sua attività di ascoltatore delle radiodiffusioni comuniste sulla guerra civile spagnola. Originario di Livorno ma residente da tempo a Grosseto, nel suo fascicolo personale nel Casellario politico centrale era descritto come individuo irascibile e prepotente ma di discreta intelligenza e cultura, assiduo lavoratore di fede socialista, che frequentava elementi sospetti in linea politica, figlio di un impiegato ferroviere collocato in pensione nel 1931, già attivo propagandista delle idee socialiste prima dell’avvento del fascismo. Padre di due figli e coniugato con Licena Rosi, Boschi era il cognato di un altro volontario grossetano nella guerra civile spagnola, Siro Rosi, un militare di leva che nel 1937 si arruolò con i fascisti destinazione Cadice, con l’obiettivo di passare nelle file repubblicane, cosa che fece il 18 aprile 1937, quando passò le linee per dirigersi a Campillo[12]. Poco dopo la diserzione di Rosi, Boschi fu oggetto di prima una violenta aggressione. Come si evince dalla testimonianza della moglie Licena, il 22 maggio 1937 Elvino si trovava a passeggio per le Mura medicee quando, all’altezza del Parco della Rimembranza, l’archivista della federazione fascista Ferruccio Malandrini e altri tre fascisti (Giuseppe Tamburini, Carlo Faenzi e Mario Caciai) lo picchiarono selvaggiamente, provocandogli un’escoriazione all’occhio e una menomazione permanente alla gamba sinistra, che lo costrinse a un periodo di degenza a letto di due mesi e mezzo[13]. Questo triste episodio, che gli valse una diffida da parte della Questura, fu solo il prologo di quello che sarebbe successo pochi mesi più tardi. La notte del 31 ottobre 1937, Boschi stava girando per le vie del centro in compagnia di Guglielmo Marconi, un manovale schedato come anarchico. Dopo essersi ritrovati con alcuni amici (Bruno Bruni, Celso Checcacci, Adamo Innocenti, Gaspare Minucci Aristide Burroni), all’altezza di via Corsica il primo fu riconosciuto e chiamato dal segretario federale Maestrini, insospettito dal girovagare notturno di questo presunto gruppo di sovversivi. Il capo del partito grossetano passò immediatamente alle vie di fatto: Boschi fu preso per i capelli e schiaffeggiato e, dopo aver reagito, pesantemente bastonato e colpito a calci anche dagli altri gerarchi lì presenti[14]. Nella violenta lotta corpo a corpo, così come fu descritta dai carabinieri, Boschi fu spalleggiato da Marconi e Checcacci e alla fine perse i sensi e riportò lesioni alla testa guaribili in quattro giorni. Dopo questo incidente le autorità fasciste locali procedettero a una lunga serie di arresti e perquisizioni. Non mancarono altri atti di violenza da parte dei fascisti decisi alla resa dei conti coi sovversivi: solo per citarne uno, il 2 novembre fu violentemente percosso anche il calzolaio socialista Aldo Ginanneschi. Intanto, Maestrini trovò modo di rinfocolare la polemica con le forze di pubblica sicurezza, accusandole di eccessiva indulgenza verso gli antifascisti e riportando tutto a Starace:

«[…] Il Boschi era sorvegliato dai fascisti e nel mese di aprile ebbe una severa lezione (S. R.); fu poi arrestato ma quasi subito rilasciato perché secondo la Questura non vi erano colpe sicure da addebitargli. Noi sapevamo invece che poteva essere pericoloso perché avvicinava sempre operai fra i quali, sembra facesse propaganda antifascista. Si rende necessario che almeno questa volta le autorità di P.S. agiscano energicamente e senza pietà e non si trincerino nel dire che noi fascisti esageriamo nel considerare le cose. I fascisti fanno sempre il loro dovere e come l’animo squadrista ha loro insegnato».

Nella seconda lettera inviata a Starace in giornata (1° novembre 1937), Maestrini faceva presente che l’identificazione, il fermo e la relativa energicissima lezione degli individui che avevano ammesso di aver partecipato al fatto (tutti consegnati alla Questura e associati alle locali carceri giudiziarie)[15], era stato possibile per il solo intervento della milizia e dei fascisti. «Credo opportuno far presente all’E. V. che S. E. il Prefetto si è limitato a dichiararmi il suo dispiacimento per l’incidente accadutomi, invitandomi alla calma per il timore di altre complicazioni. Ho avuto poi la netta impressione che la Questura voglia considerare la cosa come un fatto di ordinaria amministrazione, felice che i colpevoli siano tutti assicurati alla giustizia e di aver potuto ringraziare chi ad essa si è sostituito con intuito e con prontezza fascista a rintracciare questi delinquenti. Non si sono fatte le indagini, almeno per ora, che la gravità del fatto richiedeva, tanto che fino alle ore 19 non era stato neppure ordinata la perquisizione domiciliare degli arrestati né si era allargato il campo delle indagini verso individui sospetti di sovversivismo, limitandosi, se mai, ad intralciare l’opera di giusto risentimento che i Fascisti della Città stanno esplicando», le sue polemiche parole[16]. Le violenze seguenti al fatto sono ancora ben descritte da Banchi:

«La mattina dopo i “neri” organizzarono, in grande stile, una battuta di caccia al “sovversivo”, durante la quale molti oppositori vennero bastonati per strada e persino nelle loro case, alla presenza dei familiari. Con delle tavolette chiodate fu percosso a sangue il compagno Memmo [Guglielmo, ndr.] Marconi […]. Negli stessi giorni i “salvatori dell’Italia” aggredirono Ettore Tognetti, soprannominato il Bèco, mentre stava giocando in un caffè. Tognetti, che aveva rinunciato a partire per la Corsica con Alunno perché la barca non dava, a suo giudizio, nessun affidamento, fu trascinato fuori dal locale e percosso con spranghe di ferro, finché non perse i sensi. […] Da quella bastonatura – la più grave fra le molte da lui subite – Tognetti non si riprese più: dopo esser passato da un sanatorio all’altro, morì qualche anno dopo per le conseguenze di quella terribile giornata. Le aggressioni dei fascisti proseguirono anche nei giorni seguenti: al bar della Posta, nel corso, Albo Bellucci venne ridotto a uno straccio a furia di manganellate, e in via Amiata lo stesso trattamento fu riservato a Lio Lenzi, un corniciaio comunista, venuto da Livorno, che i “neri” detestavano perché nel suo laboratorio si incontravano gli antifascisti grossetani. Anche a Lenzi, che sarebbe divenuto dopo la Liberazione il primo sindaco della nostra città, i medici negarono qualsiasi certificato sugli effetti dell’aggressione[17]».

Livornese classe 1898, Lenzi era stato uno dei fondatori del Pci e aveva militato negli Arditi del Popolo. Perseguitato dai fascisti e schedato, fu costretto a lasciare il suo lavoro per divenire agente di commercio e nel 1929 si trasferì a Grosseto. Nel capoluogo maremmano stabilì subito dei contatti proprio con Elvino Boschi – originario livornese come lui nonché cugino del noto comunista labronico Ilio Barontini, volontario in Spagna e poi partigiano in Etiopia, Francia e Italia – che lo introdusse nell’ambiente antifascista locale[18].

Il 19 novembre 1937, la commissione provinciale per i provvedimenti di polizia assegnò Boschi e Marconi al confino, rispettivamente per la durata di quattro e tre anni, mentre gli altri furono ammoniti. Tutto ciò nonostante lo stesso Boschi fosse considerato incapace di tenere conferenze, dirigere riunioni e svolgere lavori organizzativi e non avesse mai collaborato a giornali o riviste sovversive. Il 16 dicembre 1938 il segretario federale Elia Giorgetti espresse parere sfavorevole ad un atto di clemenza nei suoi confronti «in considerazione della responsabilità diretta da lui avuta nell’episodio e dei precedenti di irriducibile antifascista». Boschi scontò la pena ad Acerenza, Locri e Pisticci e fu prosciolto dai vincoli del confino per fine periodo il 19 agosto 1941. Successivamente fu trattenuto in arresto per altri tre mesi per contravvenzione agli obblighi del confino. Una volta liberato fu assunto dalla Società Anonima “Il Lavoro”, che aveva in appalto il servizio di facchinaggio nella stazione di Grosseto. Marconi scontò la pena alle Tremiti e a Toro e rimpatriò a Grosseto il 25 dicembre 1938, in seguito al proscioglimento condizionale disposto dal duce. [19] Per uno strano e beffardo destino, i due amici che avevano condiviso la fede antifascista e subito violenze e anni di confino, rimasero uccisi per “fuoco amico” nel corso del primo bombardamento alleato su Grosseto del 26 aprile 1943. Era il giorno di Pasquetta, quando 48 fortezze volanti americane scaricarono quasi 400 bombe da 300 libbre e circa 2000 bombe a frammentazione sulla città. L’obiettivo era la messa fuori uso dell’aeroporto militare e la distruzione della scuola di addestramento per piloti di velivoli aerosiluranti, ma la pioggia di fuoco colpì in particolar modo la zona fuori Porta Vecchia nel centro cittadino, dove erano state allestite le giostre per il giorno di festa[20]. 134 furono le vittime, tra cui molti bambini e i due sovversivi, che magari stavano trascorrendo insieme la giornata discutendo sulla crisi di quel regime da loro così odiato e che sarebbe caduto esattamente tre mesi dopo.

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Angelo Maestrini, federale del PNF grossetano, poi podestà di Grosseto (photo credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

Il caso Boschi e le violenze sugli antifascisti furono uno dei motivi che portarono poi all’allontanamento di Maestrini dalla guida del partito e al suo insediamento come podestà (21 marzo 1938), in un ruolo statale comunque prestigioso ma più defilato politicamente, dove si pensava avrebbe potuto metter da parte il suo radicalismo. Come si ricava da un promemoria e da altra documentazione, la sostituzione dal comando della federazione provinciale del partito fu dovuta anche alla sua forte rivalità con il primo vero capo del fascismo maremmano, Ferdinando Pierazzi, ed al fatto che non lo si riteneva adatto a tal compito, ora che il partito doveva provvedere all’inquadramento totalitario dei giovani con la nascita della Gil [21]. Pensiamo inoltre che a suo carico continuasse a pesasse la grave crisi del partito verificatasi alla fine del 1935, quando varie ispezioni e la stessa corrispondenza del segretario amministrativo del Pnf dell’epoca, Giovanni Marinelli, avevano rivelato il suo malfunzionamento, l’impreparazione del personale addetto, gravi irregolarità amministrative e spese non giustificate, come ad esempio quelle relative all’utilizzo dell’auto del federale[22]. Anche nel ruolo di podestà, Maestrini continuò a distinguersi per i conflitti d’interessi, il cumulo delle cariche (fu nominato presidente e direttore tecnico del Consorzio maremmano delle cooperative di produzione e  lavoro e successivamente segretario provinciale dell’Ente nazionale fascista della cooperazione), nonché per l’affarismo, essendo tra l’altro uno dei perni locali di quel sistema di potere vischioso e votato all’illegalità retto esternamente da Biagio Vecchioni, ex federale di Grosseto divenuto poi deputato e infine presidente dell’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Infail)[23]. Protagonista anche al tempo della Repubblica sociale italiana, Maestrini fu tenente colonnello della 98ª Legione Guardia nazionale repubblicana (Gnr) di Grosseto, partecipò a diversi rastrellamenti e dopo la Liberazione del capoluogo maremmano fuggì al nord, dove trovò la morte per mano partigiana nei pressi di Recoaro Terme (Vi)[24]. Boschi e Marconi, vittime della sua violenza, erano già morti. Non fecero in tempo a vedere l’occupazione tedesca e il ritorno del fascismo nella veste della Repubblica sociale italiana, né a prender parte alla guerra di Liberazione nelle file della Resistenza. Ma il coraggio di chi osò disobbedire al regime negli anni del consolidamento della dittatura merita di esser ricordato come un atto di Resistenza.

NOTE:
[1] E. Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 47-48
[2] M. Millan, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Viella, Roma, 2014
[3] P. Corner, L’opinione popolare e il fascismo negli ultimi anni trenta, “Storia e problemi contemporanei”, n. 46, 2007, p. 17.
[4] M. Grilli, Il governo della città e della provincia in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2018.
[5] ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto. Lettera del federale Maestrini al segretario nazionale del Pnf Starace. Oggetto: situazione politica, 5 aprile 1937.
[6] Sulla sostituzione di Saletti vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, bb. 692, 861; ACS , fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto
[7] ASGR, fondo R. Prefettura, b. 677.
[8] ASGR, fondo R. Prefettura, b. 664. Circolare del prefetto Palici di Suni al questore e al Comando dei CC.RR. di Grosseto. Oggetto: risveglio di attività sovversiva, 9 marzo1936.
[9] Tutte queste segnalazioni sono riportate in ASGR, fondo R. Prefettura, b. 677.
[10] Sui volontari toscani nella guerra civile spagnola vedi: I. Cansella, F. Cecchetti (a cura di), Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2012, E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941), Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2017.
[11] A. Banchi, Si va pel mondo: il partito comunista a Grosseto dalle origini al 1944, a cura d F. Bucci e R. Bugiani, ARCI, Grosseto, 1993, p. 75.
[12] Condannato a morte in contumacia, una volta terminata l’istruzione militare Rosi si arruolò nella Brigata Garibaldi e fu ferito in combattimento. Internato in Francia dopo il ritiro dal fronte delle Brigate internazionali, fu partigiano nel paese transalpino e poi in Italia settentrionale dall’inizio del 1944. Un suo profilo è nel portale Isgrec: Volontari antifascisti toscani tra guerra di Spagna, Francia dei campi, Resistenze, all’indirizzo http://gestionale.isgrec.it/sito_spagna/ita/grossetani/rosi_ita.htm.
[13] ASGR, fondo Questura, b. 429, f. Malandrini Ferruccio. La denunzia a danno dei quattro fu prodotta da Licena Rosi ved. Boschi nell’agosto 1945. Mario Caciai e Carlo Faenzi erano deceduti in Albania in seguito a ferite di guerra, Ferruccio Malandrini fu amnistiato con sentenza del pretore di Grosseto del 25 luglio 1946. Quale iscritto al Partito fascista repubblicano (Pfr) aveva preso parte anche a diversi rastrellamenti antipartigiani. Nel dopoguerra risultava titolare dell’ufficio viaggi e turismo “Avet” e del locale ufficio affissioni, nonché fiduciario del CONI per la riscossione delle giocate effettuate in provincia per il totocalcio. Fu radiato dal Casellario politico centrale il 28 marzo 1955.
[14] Gli altri gerarchi erano il vice-segretario federale Emilio Bertocci, il segretario amministrativo della federazione Guido Chelli, il centurione della milizia Eraldo Ugo Lazzeretti e il segretario del fascio di Arcidosso Carlo Beoni. Nell’interrogatorio in carcere dell’8 novembre 1937 Boschi ricordò così l’accaduto: «La sera del 31 ottobre scorso, in compagnia di Marconi Guglielmo mi diressi alla palestra dell’Onb per assistere alla riunione pugilistica. Poiché il denaro che possedevo non era sufficiente per l’acquisto del biglietto d’ingresso, col Marconi mi misi a passeggiare per la città. In Via Bertani, nell’uscire dal Bar Dopolavoro Maremma, il Marconi si fermò a chiacchierare con un gruppo di conoscenti suoi […] in tutto eravamo sei o sette. Solo conosco il Checcacci, mentre gli altri erano da me conosciuti di vista. Non ricordo chi del gruppo propose di consumare un pollo al Giappone. Siccome detto ristorante ne era sprovvisto, dato anche l’ora tarda, circa le 24, si pensò di recarsi al moderno in Via Corsica. Nel transitare detta Via fu da noi notato il Federale con altri suoi amici, in tutto 4 o 5. Avendo trovato il Moderno chiuso, ritornammo verso la città. Giunti presso il gruppo predetto, fui chiamato dal Federale, al quale io mi avvicinai con ogni riguardo. Il Federale, prendendomi per i capelli, essendo io senza cappello, mi disse: “Che fai a quest’ora in giro” ed io gli risposi “non ho fatto nulla di male, e quindi ho diritto di girare”. Al che fui colpito al viso dal Federale con uno schiaffo. Io reagii. Fu allora che le persone che si accompagnavano al Federale intervennero. Ai colpi di bastone alla testa e di pedate, caddi privo di sensi a terra. Successivamente fui accompagnato, appena rimesso in qualche modo, nella Caserma dei CC. RR. Il Maresciallo Comandante la Stazione, visto il mio stato, mi condusse all’ospedale. Appena si verificò l’incidente vidi i compagni del mio gruppo darsi alla fuga. Non ho mai fatto politica ed ignoravo che qualcuno del mio gruppo fosse sovversivo». ASGR, fondo R. Prefettura, b. 659, f. Boschi Elvino, perseguitato politico.
[15] Oltre a Boschi e Marconi (classe 1905) vi erano i maglianesi Bruno Bruni (classe 1905) e Celso Cecchacci, terrazziere nato nel 1910, i grossetani Adamo Innocenti (classe 1909) e Gaspare Minucci (classe 1908), entrambi facchini, e Aristide Burroni, nato a Montemerano nel 1896, anche lui facchino.
[16] La corrispondenza tra Maestrini e Starace è in ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto.
[17] A. Banchi, Si va pel mondo, cit. pp. 75-76.
[18] L. Rocchi, La Liberazione di Grosseto. Storia di una Resistenza breve e di un lungo antifascismo nel primo capoluogo toscano liberato, www.toscananovecento.it.
[19] Per i procedimenti giudiziari a carico di Boschi e Marconi vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, b. 659, f. Boschi Elvino, perseguitato politico; Ibidem, fondo Questura, Cpc, b. 461, f. Marconi Guglielmo.
[20] Sul bombardamento del 26 aprile 1943 vedi: Silvio Ghiara, Guido Scarlini, Grosseto 26 aprile 1943. Operazione “Uovo di Pasqua”, Innocenti Editore, Grosseto 2003, La ricerca di Giacomo Pacini sul bombardamento del Lunedì di Pasqua del 1943, www.grossetocontemporanea.it. I documenti su questo episodio provenienti da fondi archivistici esteri son conservati presso l’archivio dell’Istituto grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea (Isgrec).
[21] ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto
[22] ACS, fondo Pnf, servizi vari e carteggi con le federazioni, b. 731.
[23] M. Grilli, Affarismo, corruzione e lotte di fazione: le difficoltà della riforma podestarile in Maremma (1926-1940) in M. Celuzza, E. Vellati (a cura di), La grande trasformazione. Maremma tra epoca lorenese e tempo presente, Isgrec-Effigi, Arcidosso – Gr, 2019, pp. 186-190, 198-202.
[24] ASGR, fondo Questura, b. 429 Cpc, f. Maestrini Angelo.



Il grossetano Marino Magnani: dalla militanza socialista all’ingresso nel Pcd’I

1 Sebbene la sua scheda personale del Casellario politico dichiarasse che «in pubblico frequenta poca la compagnia dei suoi correligionari», il comunista grossetano Aristeo Banchi lo ricorda presente all’inaugurazione del monumento a Francisco Ferrer di Roccatederighi, nel settembre 1914, realizzata grazie a una sottoscrizione popolare. In seguito, Magnani si allontanò dai sindacalisti per rientrare nel PSI, dove diede impulso alla diffusione dei circoli giovanili legati al partito.2

Nel 1915 risultava già schedato nel Casellario politico, sebbene non avesse ancora ricoperto cariche pubbliche, per la sua militanza socialista e come «fervente propagandista» contro la guerra. Forte infatti il suo impegno antinterventista, legato alla mobilitazione crescente in Maremma: «durante i primi mesi del 1914 si organizzò infatti una vasta campagna fatta di scritti su “Il Risveglio” e di manifestazioni a favore del soldato Massetti (feritore del proprio colonnello per protesta contro la guerra di Libia), richiuso in manicomio militare», nella quale si distinse il giovanissimo Magnani, insieme a Emilio Zannerini. Ricordano infatti Carlo Cassola e Luciano Bianciardi che in Maremma, «nel complesso del partito prevalse una forte coscienza antimilitarista che aveva nei giovani la propria punta di diamante. Questi convocarono un proprio congresso provinciale il 6 ottobre, ove il rifiuto della guerra continuò a essere al centro del dibattito».3

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5Cattura

6 Del 1917, quindi, è il trasferimento di Magnani a Milano, poi a Brescia dove, debitamente sorvegliato dalla polizia, iniziò a lavorare come segretario alle dipendenze della Lega metallurgica.

9 classe 1858, descritto nel suo fascicolo del CPC come «uno dei più ferventi e accaniti comunisti residenti in questo luogo e mai ha tralasciato di fare propaganda sovversiva, sia pure spicciola, specialmente fra i contadini che egli ha facile occasione di avvicinare per la sua professione di causidico». Nel 1922 anch’egli, avvocato dei poveri, fu aggredito dai fascisti grossetani, che lo caricarono, seppur settantenne, di pugni e bastonate, ferendolo a un occhio; e ciò nonostante, nel suo fascicolo personale, veniva ammonito nel 1926 «per l’azione deleteria che ha compiuto e continua a compiere con pertinace ostinatezza in odio all’azione dei poteri dello Stato» e nel 1935 per le autorità era da considerarsi «ancora di idee sovversive».

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12 La direzione della Federazione fu assunta da Pietro Ravagli, un vecchio socialista di Roccatederighi, e dallo stesso Magnani. Quando l’agitazione in Maremma aumentò a causa dell’irrigidimento delle posizioni della Società Montecatini, che aveva il controllo di quasi tutti gli impianti maremmani, fu proprio Magnani, quindi, che un nuovo Convegno dei minatori inviò a Roma per tentare un accordo con i rappresentanti delle società minerarie. Al fallimento di quel tentativo in extremis seguirono tre mesi di mobilitazione e di scioperi, dai quali il movimento uscì, se non completamente vittorioso, in ogni caso estremamente rafforzato.

13 Fra le organizzazioni sindacali più importanti, si dichiararono comunisti Primo Lessi, segretario della Camera del lavoro di Grosseto, e Marino Magnani, per la FIAM. Magnani divenne fin da subito segretario della Sezione di Grosseto e collaborò quindi all’organizzazione del I Congresso provinciale comunista di Grosseto.

14 Magnani, che da poco è diventato direttore del nuovo giornale “L’Idea comunista”, organo del neo-nato partito grossetano, si occupa poi della questione della stampa, richiamando i compagni al dovere di garantire anche nella provincia la vita di un foglio «di propaganda e di battaglia per sostenere e diffondere le nostre idealità».

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18 Fu anche consigliere comunale e assessore dal 1946 al 1950. Candidato nelle liste del Partito comunista nel collegio XVII ( Siena-Arezzo-Grosseto), fu eletto all’Assemblea costituente con 6.796 voti e proclamato il 7 giugno 1946.

l'unità 08.06.1946

l’unità 08.06.1946

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20 Conclusasi nel gennaio 1948 l’esperienza parlamentare, Magnani si ritirò dall’attività politica di primo piano. Diresse il movimento cooperativo nella provincia di Grosseto e fu Segretario provinciale dell’Associazione nazionale perseguitati politici antifascisti. Morì il 23 settembre 1964.


BIBLIOGRAFIA:

Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma, 1900-1925, Cinque lune, Roma 1987.

Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseeto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.

Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, Laterza, Bari 1956.

AA.VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale, Ediesse, Roma 1988

Il Risveglio

ACS CPC b. 2927 f. 14718 Marino Magnani

ACS CPC b. 2927 f. 45147 Magnani Manfredo

ACS CPC b. 2927 f. 1511 Magnani Mantilio

ACS CPC b. 2927 f. 87525 Magnani Michele


NOTE:

1 Sulla complessa questione locale del rapporto fra PSI e sindacalismo rivoluzionario, cfr. Fabrizio Boldrini, Minatori di Maremma. Vita operaia, lotte sindacali e battaglie politiche a Ribolla e nelle Colline metallifere (1860-1915), Effigi, Roccastrada 2006.

2 Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseeto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.
3 Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, Laterza, Bari 1956.
4 ACS CPC b. 2927 f. 14718 Marino Magnani.
5 Adriano Arzilli, La provincia di Grosseto prima dell’avvento del fascismo: situazione socio-economica, mezzadri, braccianti, minatori, sindacati, partiti, Editrice Il mio amico, Roccastrada 1998, p. 190.
6 Manfredo Magnani, Nel movimeno giovanile socialista. SERRIAMO LE FILE, in “Il Risveglio” del 21 luglio 1918.
7 ACS CPC b. 2927 f. 45147 Magnani Manfredo.
8 ACS CPC b. 2927 f. 1511 Magnani Mantilio.
9 ACS CPC b. 2927 f. 87525 Magnani Michele.
10 Marino Magnani, Massimo e Minimo, in “Il Risveglio” del 2 marzo 1919.
11 Ivano Tognarini, “Marino Magnani”, in I deputati toscani all’assemblea costituente. Profili biografici, a cura di Pier Luigi Ballini, Consiglio regionale della Toscana, 2018, p. 393.
12 AA.VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale, Ediesse, Roma 1988, p. 118.
13 Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, cit.
14 Congresso provinciale comunista di Grosseto, in “L’Idea comunista” (anno 1 n. 2) del 27 marzo 1921.
15 Movimento sindacale, Camera confederale del Lavoro di Grosseto e provincia: Alle leghe! Ai sindacati! Alle cooperative!, in “Il Risveglio” del 6 febbraio 1921.
16 Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma, 1900-1925, Cinque lune, Roma 1987.
17 Adriano Dal Pont, Simonetta Carolini, L’Italia al confino: le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, La Pietra, Milano 1983.
18 Mauro Tognoni, Commemorazione dell’ex deputato Marino Magnani, in Camera dei deputati, IV legislatura, Discussioni, Seduta del 29 settembre 1964, p. 10056.
19 Il 26 aprile 1943, lunedì di Pasqua, Grosseto subì il suo primo bombardamento aereo durante la seconda guerra mondiale. Ne avrebbe subiti altri 18, ma questo sarà sempre ricordato per il tragico prezzo di vite civili che costò. Morirono infatti 134 grossetani, tra cui decine di bambini uccisi mentre stavano giocando sulle giostre di un Luna Park situato appena fuori Porta Vecchia (cfr. La ricerca di Giacomo Pacini sul bombardamento del lunedì di Pasqua del 1943, in www.grossetocontemporanea.it/la-ricerca-storica-sul-bombardamento-del-lunedi-di-pasqua/).
20 Mauro Tognoni, Commemorazione dell’ex deputato Marino Magnani, cit., p. 10057.

 




“Relazioni pericolose” nell’Africa orientale italiana

Il blitz compiuto dal collettivo femminista Non una di meno contro la statua di Indro Montanelli dei giardini di Porta Venezia a Milano lo scorso 8 maggio, ha nuovamente riportato al centro dell’agone mediatico il controverso rapporto tra gli italiani e il loro passato coloniale. I motivi che stanno alla base del gesto provocatorio delle attiviste (l’imbrattamento della statua con della vernice rosa lavabile), riguardano infatti una storia avvenuta in Etiopia tra il 1935 e il 1936, quando l’allora ventiseienne giornalista di Fucecchio prestava servizio nel Regio Esercito come comandante di un reparto di ascari impegnato nella guerra di aggressione scatenata da Mussolini contro il Paese africano. Milano. Statua di Indro Montanelli imbrattata. Di Clarita Di Giovanni

Com’è noto, in quel frangente, Montanelli intrattenne per alcuni mesi una relazione di concubinato (o per usare un termine più specifico, di madamato) con una ragazzina eritrea di soli 12 anni che egli aveva “acquistato” dal padre. Di questa esperienza – accusano le attiviste – Montanelli non si è mai pentito né scusato, neanche in tempi recenti quando le sensibilità verso tali tematiche erano ormai ampiamente mutate; al contrario ne ha sempre rivendicato la legittimità in virtù delle profonde differenze culturali tra il mondo civilizzato e l’Africa [1]. Valga come esempio paradigmatico l’ultima volta in cui il giornalista parlò della sua madama dalle colonne del Corriere della Sera, il 12 febbraio del 2000:

Mi presentai al comandante di Battaglione, Mario Gonnella, un piemontese di lunga e brillante esperienza coloniale, che mi diede alcuni consigli sul modo di comportarmi con gl’indigeni e con le indigene. Per queste ultime, mi disse di consultarmi col mio «sciumbasci», il più elevato in grado della truppa, che dopo trent’anni di servizio sotto la nostra bandiera conosceva i gusti di noi ufficiali.
Si trattava di trovare una compagna intatta per ragioni sanitarie […] e di stabilirne con il padre il prezzo. Dopo tre giorni di contrattazione a tutto campo tornò con la ragazza e un contratto redatto dal capo-paese in amarico, che non era un contratto di matrimonio ma – come oggi si direbbe – una specie di «leasing», cioè di uso a termine. Prezzo 350 lire (la richiesta era partita da 500), più l’acquisto di un «tucul», cioè una capanna di fango e paglia del costo di 180 lire.La ragazza si chiamava Destà e aveva 14 anni [sic!]: particolare che in anni recenti mi tirò addosso i furori di alcuni imbecilli ignari che nei paesi tropicali a quattordici anni una donna è già donna, e passati i venti è una vecchia. […]Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei Ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi dovunque mi trovassi […]. Arrivavano portando sulla testa una cesta di biancheria pulita, compivano – chiamiamolo così – il loro «servizio», sparivano e ricomparivano dopo altri quindici o venti giorni [2].

Fin dall’inizio della dominazione italiana in Eritrea sul finire del XIX secolo, il madamato si era imposto come la cornice istituzionale in cui si realizzavano i rapporti asimmetrici – e non di rado violenti – tra i coloni italiani e le donne indigene. L’esistenza di questo tipo di convivenza more uxorio che spesso si completava con la nascita di figli, veniva giustificata facendo riferimento al demoz (o dumoz), un complesso contratto matrimoniale a termine diffuso in alcune zone della colonia e caratterizzato da reciproci obblighi da parte dei contraenti; tra di essi il riconoscimento dei figli nati all’interno del rapporto, il pagamento da parte dell’uomo di un compenso annuo alla donna, e l’obbligo, sempre da parte dell’uomo, di provvedere alla prole nel momento in cui il legame fosse stato sciolto. Tuttavia, come hanno osservato Barbara Sòrgoni e Giulia Barrera, le convivenze stabili che coinvolgevano coloni italiani e donne eritree interpretavano il demoz in una forma peculiare che ovviamente andava tutta a vantaggio dell’uomo bianco: in qualche caso esso si configurava come una variante della prostituzione, in ragione del compenso che l’uomo doveva pagare alla donna; in qualche altro caso il madamato diveniva una sorta di concubinaggio attraverso cui l’uomo bianco poteva avere rapporti sessuali con la madama ed usufruire dei suoi servizi in ambito domestico, senza esser sottoposto ad alcun obbligo legale [3]. A prescindere che prevalesse l’una o l’altra interpretazione, raramente i figli nati da relazioni di questo genere venivano riconosciuti dal padre e pertanto erano destinati il più delle volte alla marginalità sociale. Allo stesso modo le donne abbandonate dai partner italiani si ritrovavano escluse dai contesti familiari di provenienza, non trovando spesso altra strada che quella della prostituzione.

Ufficio Postale

E. De Seta, Ufficio postale
Cartolina ad uso delle truppe nell’AOI
Milano, Edizioni d’Arte Boeri, 1935-36

Già nei primi anni del XX secolo, tra il 1909 e il 1914, l’amministrazione coloniale italiana aveva tentato di porre un freno a fenomeni di questo tipo attraverso una serie di norme incorporate in uno speciale diritto coloniale che miravano a ridurre al minimo qualsiasi commistione tra coloni (in modo particolare i funzionari coloniali) e popolazioni indigene [4]. Tuttavia, fu solo con l’avvio della fase imperiale del fascismo che l’orientamento segregazionista, già contenuto in nuce nella legislazione di epoca liberale, trovò uno sviluppo coerente e definitivo attraverso un progressivo irrigidimento del confine tra i “cittadini italiani” e i “sudditi eritrei ed etiopici”. L’arrivo a Massaua, tra il 1935 e il 1936, dei soldati e lavoratori italiani mobilitati per la guerra con Etiopia, aveva infatti alterato drammaticamente le proporzioni tra i maschi bianchi – passati da qualche migliaio a più di mezzo milione in brevissimo tempo – e le donne indigene, traducendosi in un aumento vertiginoso delle relazioni interetniche (il madamato, ma anche matrimoni e rapporti occasionali). Al fine di depotenziare il pericolo rappresentato da questa situazione promiscua, il regime fascista emanò quindi, nella seconda metà degli anni Trenta, una legislazione coloniale articolata su un impianto ideologico fortemente razzista che disciplinava la vita quotidiana in colonia, istituendo spazi differenziati per gli italiani e i nativi e riducendo al minimo i contatti tra le razze. I provvedimenti più importanti riguardavano la definizione delle categorie di “cittadino” e “suddito” (R.dl. 1 giugno 1936, n. 1019, Sull’ordinamento e l’amministrazione dell’Africa orientale italiana), la difesa del “prestigio della razza” e il divieto assoluto di rapporti matrimoniali o sessuali interetnici (L. 30 dicembre 1937, n. 2590, Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi; R.dl 17 novembre 1938, n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana; R.dl. 29 giugno 1939, n. 1004, Sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa Orientale), la definizione dello status giuridico dei meticci (L. 13 maggio 1940, n. 822, Norme relative ai meticci) [5].

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E. De Seta, Al mercato
Cartolina ad uso delle truppe nell’AOI
Milano, Edizioni d’Arte Boeri [1935-1936]

Sebbene tali leggi furono largamente eluse dagli italiani presenti in colonia, che fino alla caduta dell’impero continuarono a praticare il madamato e unirsi a donne indigene nonostante il rischio di finire in carcere, esse ebbero indubbiamente degli effetti devastanti sulla popolazione italo-africana. Essendo stati equiparati ai nativi dal punto di vista giuridico, sul finire degli anni Trenta, i meticci nati dalle unioni miste videro infatti svanire le già tenui possibilità di acquisire la cittadinanza italiana [6] così come l’opportunità di accedere alle «scuole e gli altri istituti di carattere sociale ed educativo, che storicamente avevano servito le comunità a retaggio misto» [7]. Nella gerarchia imperiale imposta dal fascismo per salvaguardare il prestigio della razza italica, il meticcio finì insomma per rappresentare un elemento destabilizzante che doveva essere in qualche modo occultato o comunque assorbito all’interno della categoria dei nativi.

I programmi di ortopedia sociale proposti dal regime fascista per ridefinire lo spazio imperiale secondo dettami razziali si scontravano però con l’esistenza dei cosiddetti «insabbiati», cioè uomini che non solo avevano familiarizzato con l’elemento indigeno ma la cui esistenza era ormai radicata profondamente nella condizione coloniale. Nel periodo di cui ci stiamo occupando, l’accusa di insabbiamento veniva rivolta, molto spesso, ai «vecchi coloniali». Con questa espressione si definivano tutti quei funzionari statali, agenti di commercio e militari che, avendo passato gran parte della propria vita in colonia, avevano contribuito a strutturarne la vita sociale, economica e culturale, grazie anche alla conoscenza degli usi, dei costumi e delle lingue delle popolazioni locali. Non di rado essi avevano instaurato relazioni più o meno formali con donne indigene e riconosciuto i figli nati da tali unioni.

Alberto Pollera. Foto in: Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Alberto Pollera.
Foto in: B. Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

A questo proposito è di estremo interesse affrontare il caso di Alberto Pollera, la cui peculiare esperienza di amministratore coloniale ed etnografo ci permette di osservare i temi che abbiamo precedentemente passato in rassegna all’interno di un contesto di vita vissuta, che si svolse quasi interamente nel Corno d’Africa coprendo tanto la fase liberale del colonialismo italiano, quanto quella fascista [8]. Quinto di undici figli, Pollera nacque in una famiglia della piccola aristocrazia lucchese il 3 dicembre 1871. Ottenuto il diploma liceale entrò nel 1890 all’Accademia Militare di Modena, dove rimase per tre anni, per poi trasferirsi prima a Brescia e poi, dopo sua esplicita richiesta, nella neonata colonia Eritrea dove giunse nel 1894 con il grado di sottotenente. Un anno dopo viene raggiunto dal fratello Ludovico, anch’egli destinato a divenire un funzionario coloniale di un certo rilievo. Dopo esser entrato a far parte del Corpo Speciale d’Africa al comando del governatore Oreste Baratieri, fu coinvolto, pur senza parteciparvi direttamente, nella disfatta di Adua (1° marzo 1896), poi in alcune operazioni militari contro i dervisci e nella delimitazione del confine tra l’Eritrea e il Sudan anglo-egiziano. Nel 1903, svestita l’uniforme militare, divenne per sei anni un funzionario civile incaricato di amministrare la turbolenta regione del Gasc e Setit come “primo residente”. Fu nel periodo immediatamente precedente a questo incarico che egli conobbe Unesc Arai Araià Capté, una giovane donna originaria della regione di Axum, dalla quale ebbe quattro figli: Giovanni e Michele, nati nel 1902, Giorgina, scomparsa prematuramente a un anno tra il 1907 e il 1909 e infine Giorgio (1912). Stabilitasi ad Asmara con i figli, Unesc Arai rimase al fianco di Pollera per alcuni anni e, dopo la fine del loro rapporto, continuò ad essere mantenuta dall’ex compagno che le aveva acquistato un’abitazione. In seguito, Pollera fu nominato commissario della provincia del Seraé (1909-1917) e regio agente a Dessiè e ad Adua, in territorio etiope, fino al suo temporaneo collocamento a riposo nel 1928. Egli tuttavia, in quello stesso anno, accettò di prendere parte alla spedizione organizzata da Raimondo Franchetti in Dancalia, occupandosi dei preparativi logistici e mettendo a disposizione le sue conoscenze in ambito antropologico. Come molti altri funzionali costretti – in un certo senso – a conoscere gli usi, i costumi e le lingue delle popolazioni locali per poter assolvere al meglio alle pratiche dell’amministrazione coloniale, Pollera era infatti divenuto un “etnografo per necessità”, dedicandosi nel corso della sua vita alla stesura di numerose monografie di carattere storico-giuridico-antropologico [9]. In questa attività egli poté contare sull’aiuto determinante di Chidan Menelik, la sua seconda compagna, che aveva conosciuto nel 1912 e che gli diede altri tre figli: Mario (1913), Marta (1915) e Alberto (1916).

A differenza di altri coloniali che abbandonavano i meticci nati dalle relazioni con donne africane al loro destino, Alberto riconobbe tutti i suoi figli, sebbene dal punto di vista giuridico egli non potesse legittimarli. Secondo il codice civile italiano, infatti, il padre naturale non poteva legittimare i propri figli naturali a meno di non sposarne la madre. Come abbiamo visto in precedenza però, in colonia tale strada non era percorribile, i quanto di decreti governatoriali del 1909 e del 1914 integrati nel diritto coloniale rendevano virtualmente impossibili i matrimoni misti, costringendo il cittadino a dare le dimissioni dal pubblico impiego in caso di nozze con una donna indigena. Nonostante la mancanza di legittimazione, i figli di Pollera poterono comunque frequentare scuole italiane e poi, intorno alla prima metà degli anni Venti, spostarsi in Italia per completare gli studi presso alcune strutture educative religiose.

La visione che il funzionario lucchese aveva del colonialismo spiega almeno in parte questi peculiari atteggiamenti nei confronti delle compagne e dei figli. Facendo riferimento ai suoi scritti, Pollera fu senza dubbio animato, da un lato, dall’ideale della missione civilizzatrice compiuta dai bianchi in Africa, e dall’altro, da un razzismo paternalistico giustificato da un paradigma evoluzionistico attraverso cui le razze umane venivano collocate su una scala di sviluppo. Pur rimanendo convinto della superiorità degli europei sugli africani e dei diversi livelli di civilizzazione che a loro volta contraddistinguevano le popolazioni colonizzate, egli rigettava però ogni riferimento al determinismo biologico. In altre parole, egli attribuiva un carattere temporaneo alla presunta inferiorità di certi popoli rispetto ad altri, in quanto tale inferiorità non era stabilita da dati naturali o biologici, ma piuttosto da fattori storici, sociali e culturali. «Il diverso grado di civiltà esistente nel paese del quale parliamo [l’Etiopia] – affermava Pollera nel corso di una conferenza tenuta a Torino nel 1927 –, non deriva da una congenita ragione di razza, ma da cause estranee che ne hanno arrestato o ritardato lo sviluppo, cessate le quali un risveglio non è solo possibile ma probabile» [10]. La condizione di inferiorità dei popoli africani, insomma, non era una condizione immutabile ma transitoria e dunque facilmente superabile attraverso lo studio, l’educazione e, più in generale, l’«aiuto» dell’uomo bianco.

Alberto Pollera con i figli Giorgio ( a sinistra) e Gabriele (a destra) Foto in: Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Alberto Pollera con i figli
Giorgio ( a sinistra) e Gabriele (a destra)
Foto in: B. Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Sebbene il razzismo paternalistico di Pollera fosse una concezione molto diffusa nell’Italia di inizio secolo, alla metà degli anni Trenta, esso appariva come l’anacronistica espressione di un pensiero piuttosto isolato in un panorama culturale ormai egemonizzato da forme di determinismo che di fatto ponevano in relazione diretta la psiche e le facoltà mentali al dato razziale inteso in senso biologico. Negando ogni possibile progresso alle «razze inferiori», tale orientamento, propugnato in maniera sempre più massiccia da antropologi di regime come Lidio Cipriani, fornì la base scientifica su cui fu legittimata la legislazione razziale nell’Africa Orientale Italia.

In questa fase crebbe l’isolamento di Pollera all’interno del contesto coloniale, nonostante egli avesse continuato a ricoprire cariche importanti (console di Gondar, in Etiopia dal 1929 al 1932; responsabile della biblioteca governativa e capo della sezione studi e propaganda presso l’Ufficio affari generali del personale del governo dell’Eritrea ad Asmara dal 1932 al 1939; consigliere personale del governatore dell’Eritrea Daodiace a partire dal 1937). Da un lato egli fu colpito dall’”offensiva” lanciata dai nuovi funzionari fascisti verso i “vecchi coloniali” accusati – come abbiamo visto in precedenza – di infangare il prestigio della razza e di essere ormai avvezzi ai costumi dei nativi. Dall’altro, come funzionario di stato, Pollera dovette conciliare la sua immagine pubblica con la sua sfera privata, gli imperativi richiesti ad un esponente del governo coloniale ai suoi legami affettivi con la compagna e i figli. In questo senso è facile riscontrare molte contraddizioni tra una adesione, probabilmente superficiale e di facciata, alle politiche governative e prese di posizione nette a favore dei meticci nati da unioni miste tra cittadini e sudditi.

La famiglia Pollera, riunitasi in Eritrea a partire dai primi anni Trenta, visse sulla sua pelle il mutato clima della colonia: la figlia Marta, ad esempio, fu espulsa dall’organizzazione delle Giovani Fasciste poiché meticcia; il figlio Giovanni allontanato dai luoghi di ritrovo in cui soleva recarsi per lo stesso motivo; la compagna Chidan tenuta lontana dalle cerimonie ufficiali dove non sarebbe potuta più comparire. Lo stesso Alberto eluse accuratamente ogni pretesto di vita mondana per ripiegare su un onorevole concubinaggio a cui metterà fine poco prima della sua morte, sposando la sua compagna nel 1939.

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Marta Pollera, figlia di Alberto
Foto in: B. Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Pur accettando, almeno ufficialmente, alcuni punti della politica razziale fascista (il divieto di matrimonio tra donne italiane e indigeni; la limitazione, entro una certa misura, del fenomeno del concubinaggio; la preferenza dei meticci nati da padre italiano e madre locale su quelli nati dall’unione opposta), Pollera si oppose in più occasioni alla legge del 1936 sull’ordinamento dell’Africa Italiana che ometteva ogni riferimento alla cittadinanza per i meticci, aprendo così la strada alla cancellazione di questa possibilità dalla legislazione vigente [11]. La sua preoccupazione maggiore era infatti legata al fatto che i suoi figli sebbene riconosciuti, rimanevano tecnicamente “illegittimi” e pertanto avrebbero potuto perdere da un momento all’altro la cittadinanza italiana ed essere parificati, dal punto di vista giuridico, agli nativi. Nel 1937 la questione fu portata davanti alla Corte d’Appello di Addis Abeba che alla fine riconobbe la piena cittadinanza ai figli del funzionario.

L’anno successivo, mentre i legislatori stavano preparando la legge che avrebbe definitivamente risolto il problema del meticciato dal punto di vista giuridico (la futura L. 13 maggio 1940, n. 822, Norme relative ai meticci), Pollera tornò ad occuparsi della questione relativa agli Italo-Eritrei indirizzando un appello accorato direttamente a Mussolini.

Scrive Pollera il 10 dicembre 1938:

Questi nostri figli meticci sono dunque per sangue del padre, per fisico prestante, per l’educazione, per sentimenti, perfettamente italiani. Sono ufficiali, funzionari, professionisti, commercianti, artigiani, onesti operai; e le femmine buone madri di famiglia, coniugate ad Italiani, ebbero prole per qualità intellettuali, morali, e fisiche spesso superiori agli italiani di razza pura […]. L’Albo d’oro dei caduti durante la guerra europea, ed in quella etiopica, segna i nomi di diversi nostri figli meticci, partiti volontari, colla benedizione paterna, perché da noi educati ad amare quella Patria per la quale non inutilmente consumammo la vita in terra d’Africa. Noi vogliamo, o Duce, restare orgogliosi della loro memoria, e non dover rimpiangere di averli spinti all’olocausto della propria vita per una Patria che avesse a rinnegarli […]. Nessuno pensa di chiedere modificazioni ad una legge che promana da Voi: chiediamo solo che detta legge sia chiarita con senso di umanità, come fu promesso [12].

Il passaggio centrale di questo brano mette in luce il tentativo di Pollera di ricomprendere i meticci nati da unioni miste all’interno della comunità nazionale, segnalando come prova tangibile di questo fatto la disponibilità dimostrata da quest’ultimi a morire per la Patria. Così facendo, il funzionario lucchese rievocava la dolorosa esperienza della perdita del figlio Giorgio che, arruolatosi come volontario per la guerra italo-etiopica, cadde in combattimento contro i ribelli abissini nei pressi del fiume Omo Bottego, al confine con il Kenya, il 12 dicembre 1936, ricevendo una medaglia d’oro al valor militare.

Nelle intenzioni dell’autore, l’appello a Mussolini avrebbe dovuto parlare a nome di tutti gli Italo-Eritrei che si trovavano ancora nello stato di figli riconosciuti e che la nuova proposta di legge sembrava voler integrare nella categoria di “suddito”. La sentenza che aveva sancito il riconoscimento della cittadinanza italiana ai Pollera, era stata probabilmente viziata dall’influenza del padre nella società coloniale, come sembra esser confermato dal fatto che decine di richieste analoghe furono respinte, nello stesso periodo, dai giudici della Corte d’Appello di Addis Abeba.

Alla fine, la legge sul meticciato, emanata nel maggio 1940 pochi mesi dopo la morte di Pollera, non ebbe effetti retroattivi, conservando la cittadinanza al novero ristretto degli Italo-Eritrei che l’avevano già ricevuta o fossero in procinto di riceverla all’entrata in vigore della legge stessa. Tuttavia, allo stesso tempo, per la stragrande maggioranza dei meticci dell’Africa Orientale Italia si apriva una fase drammatica: ogni residua possibilità di essere riconosciuti dai padri naturali, di essere adottati da cittadini, di ricevere un’istruzione adeguata e di ottenere la cittadinanza italiana si perdeva per sempre.


Note:

[1] Questa storia deve la sua popolarità ad alcune interviste televisive rilasciate dal giornalista nel corso degli anni Settanta e Ottanta. Nel 1972, durante il programma L’ora della verità condotto da Gianni Bisiach, Montanelli parlò per la prima volta della sua madama ricevendo un duro attacco da parte della giornalista femminista di origine eritrea Elvira Banotti che lo accusava di giustificarsi sulla base di pregiudizi razzisti di tipo biologico – e non solo culturale – nei confronti delle popolazioni del Corno d’Africa. Dieci anni dopo, in un’intervista rilasciata ad Enzo Biagi per la Rai, egli fece di nuovo riferimento alla propria esperienza coloniale in Etiopia cambiando però versione sull’età (da 12 a 14 anni) e sul nome (da Fatima a Destà) della ragazzina, forse per porsi al riparo da eventuali critiche. Cfr. la sezione Multimedia.
[2] La Stanza di Montanelli in «Corriere della Sera», 12 febbraio 2000.
[3] Sull’istituto del madamato e la sua diffusione i riferimenti sono Barbara Sòrgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori Editore, Napoli 1998 e Giulia Barrera, Sex, Citizenship, and the State. The Construction of the Public and Private Spheres in Colonial Eritrea, in Perry Willson (a cura di), Gender, Family, and Sexuality: The Private Sphere in Italy 1860-1945, Palgrave Macmillan, New York 2004.
[4] Mi riferisco ai R.D. 19 settembre 1909, n. 839 e R.D. 10 dicembre 1914, n. 16. Nel primo caso, l’articolo 43 specifica che è «inibito ai funzionari coloniali di coabitare con donne indigene»; nel secondo caso l’articolo 42 specifica invece che «il funzionario coloniale che contragga matrimonio con una indigena è considerato dimissionario».
[5] Per una panoramica sulla legislazione razziale Cfr. Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 441-424.
[6] Il vuoto legislativo relativo allo status dei meticci era stato colmato con la L. 6 luglio 1933, n. 999, Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia, attraverso cui i figli nati nelle colonie d’Eritrea e Somalia da un genitore di «razza bianca» rimasto ignoto, avrebbero ottenuto la cittadinanza italiana previo possesso di specifici requisiti culturali e morali e al compimento del diciottesimo anno d’età. La legge prescriveva inoltre accurati procedimenti di «diagnosi antropologica etnica» al fine di discernere il «bianco scuro» dal «nero bianco» e dunque di ridurre la platea dei potenziali beneficiari.
[7] Gian Paolo Calchi Novati, L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Carocci, Roma 2011, p. 246.
[8] Sulla vita di Alberto Pollera il riferimento imprescindibile è Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939, Bollati Boringhieri Torino 2001.
[9] Tra le più importanti segnaliamo I Baria e i Cunama, Reale Società Geografica, Roma 1913; La donna in Etiopia, Ministero delle Colonie, Roma 1922; Lo Stato Etiopico e la sua Chiesa, SEAI, Roma-Milano 1926; La battaglia di Adua del 1° marzo 1896 narrata nei luoghi ove fu combattuta, Carpigiani e Zipoli, Firenze 1928; Le popolazioni indigene dell’Eritrea, Cappelli, Bologna 1935; Storie, Leggende e Favole del Paese dei Negus, Marzocco, Firenze 1936; L’Abissinia di ieri, Scuola Tipografica Pio X, Roma 1940.
[10] Alberto Pollera, Che cos’è l’Etiopia, Tipografia editrice Riva, Torino 1927, p. 6.
[11] Cfr. supra la già citata L. 6 luglio 1933, n. 999, Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia.
[12] Lettera di Alberto Pollera a Benito Mussolini, Asmara 10 dicembre 1938 citata in Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo, cit., p. 210.

Articolo pubblicato nel giugno del 2019.




«…quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire»

Cingolani-Guidi

Angela Guidi Cingolani

Nella primavera del 1946 le italiane hanno votato nella prima tornata di consultazioni amministrative, ma sono le elezioni del 2 giugno del 1946 ad essersi impresse nella memoria collettiva come un evento storico: quasi 13 milioni di donne, ora pienamente cittadine, hanno votato per eleggere l’Assemblea costituente e hanno scelto tra Monarchia e Repubblica. Tredici donne hanno già partecipato a un altro importante organismo, la Consulta Nazionale, composta da 430 esponenti dell’antifascismo nominati dai partiti politici. Tra loro 5 future madri costituenti[1], tra cui Angela Guidi Cingolani, prima donna a parlare in un’Assemblea istituzionale – la Consulta, appunto – e a chiedere ai colleghi uomini di essere considerata

«come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale, elevazione morale»

Filomena Delli Castelli

Filomena Delli Castelli

Alle elezioni del 2 giugno sono entrate in lista pochissime donne, poco meno del 7% di tutti i candidati. Sono state elette 21. Poche, quindi, si sono guadagnate l’onore e l’onere di partecipare attivamente al varo della nuova Costituzione. Ma chi sono? Quali esperienze hanno alle spalle? Cosa rappresenta e cosa potrà fare questo 3,7% su un totale di 556 deputati?

Delle 21 madri costituenti, nove sono del Partito Comunista[2], tra cui cinque fondatrici/attiviste dell’UDI; nove appartengono alla Democrazia Cristiana[3], tra cui 5 tra attiviste o dirigenti della FUCI, altre attiviste del CIF o dell’Azione cattolica; due sono socialiste[4]; una soltanto, Ottavia Penna Buscemi, è eletta nella lista ”Uomo Qualunque”. Impressionante il numero di preferenze che le elette hanno avuto, basti pensare che Bianca Bianchi nel collegio di Firenze ha preso il doppio delle preferenze di Sandro Pertini, il partigiano, l’eroe, il perseguitato dal regime, l’incarnazione di tutto ciò che è stata la vittoriosa lotta antifascista.

Bianca Bianchi

Bianca Bianchi

Rita Montagnana Togliatti

Rita Montagnana Togliatti

La più anziana è Lina Merlin, 59 anni; la più giovane è Teresa Mattei, 25 anni; entrambe parteciperanno ai lavori della “Commissione dei 75”, il ristretto gruppo che materialmente scriverà la Costituzione. Sette madri costituenti[5] sono nate tra il 1887 e il 1900; hanno esperienze politiche e sindacali alle spalle: Angela Merlin è stata una delle prime donne iscritte al Partito socialista, collaboratrice di Matteotti; Rita Montagnana, già iscritta al Partito socialista, è stata con Teresa Noce tra le fondatrici del PCI nel 1921; Angela Guidi è stata iscritta al Partito popolare di Don Sturzo. Molte di loro sono state costrette durante il fascismo a scappare all’estero; Montagnana e Noce, mogli rispettivamente di Togliatti e Longo, sono state esuli in tutta Europa, hanno partecipato alla guerra civile spagnola, in seguito hanno fatto parte dei movimenti resistenziali nei paesi di accoglienza, subendo anche il carcere e l’internamento.

Lina Merlin

Lina Merlin

Teresa Mattei

Teresa Mattei

La maggior parte delle donne che fa parte di questo “gruppo anagrafico” ha una cultura suffragista per via dei forti legami dei partiti clandestini con i movimenti europei. Anche le cattoliche, fortemente impegnate nell’associazionismo, sono state perseguitate o “attenzionate” dalla polizia politica; Maria Federici ha avuto un trascorso all’estero, al seguito del marito, militante antifascista; Elisabetta Conci, presidente della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana), di Roma, è conosciuta come la “pasionaria bianca” per la tempra con la quale porta avanti le proprie battaglie politiche e religiose.

Altre sette madri costituenti[6] sono nate tra il 1902 e il 1908, hanno quindi compiuto almeno gli studi superiori non universitari nel periodo liberale, trovandosi poi a dover fronteggiare le privazioni di libertà del periodo successivo. Alcune, soprattutto le comuniste, hanno condiviso la sorte dell’esilio: Adele Bei, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi. Le cattoliche Laura Bianchini, Maria De Unterrichter e Angela Gotelli hanno trovato nell’azionismo cattolico e nella FUCI, di cui sono diventate anche dirigenti, il terreno di formazione culturale e politica. Ottavia Penna, eletta con l’Uomo Qualunque ha assistito i siciliani poveri e i fanciulli abbandonati, ribellandosi alle dure regole del regime sull’ammasso di beni alimentari in periodo di guerra e al mercato nero.

Teresa Noce

Teresa Noce

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Maria Federici Agamben

Le 7 madri costituenti più giovani[7] sono nate tra il 1913 e il 1921, sono cresciute e hanno compiuto gli studi durante il regime, hanno respirato pienamente l’ideologia fascista. Non hanno avuto esperienza diretta di attività politica e sindacale, pur tuttavia al fascismo si sono ribellate; molte hanno tratto ispirazione dalle tragiche vicende dei familiari perseguitati o vittime del regime e dell’alleato occupante (lo sono, ad esempio, il padre e il fratello – poi morto suicida per non tradire i compagni partigiani – di Teresa Mattei e i fratelli e il marito di Nadia Gallico).

Il loro primo apprendistato politico, quindi, si è compiuto principalmente nell’ambiente privato per poi riversarsi, in maniera spesso dirompente, sulla scena pubblica. Eclatante, ad esempio, il gesto di una appena adolescente Teresa Mattei: la contestazione pubblica delle lezioni in difesa della razza le costa l’espulsione da tutte le scuole del Regno.

Ottavia Penna Buscemi

Ottavia Penna Buscemi

Elisabetta Conci

Elisabetta Conci

Quasi tutte, comuniste, socialiste e cattoliche, giovani e meno giovani, sono state protagoniste del movimento di Liberazione. Lina Merlin, Laura Bianchini e Angela Gotelli sono state membri del Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia; Angela Minella ha fatto parte di una Brigata Garibaldi del savonese; Teresa Mattei è stata combattente di una formazione garibaldina a Firenze e organizzatrice dei Gruppi di difesa della donna nell’alta Toscana, così come Nilde Iotti in Emilia Romagna e Lina Merlin in Lombardia. Filomena Delli Castelli, Maria Nicotra e Angela Gotelli sono state crocerossine, quest’ultima con compiti di grande responsabilità negli scambi tra ostaggi civili e prigionieri tedeschi; Bianca Bianchi ha fatto la staffetta in Toscana; Maria Federici e Angela Guidi hanno appoggiato in vari modi la lotta antifascista a Roma.

Nilde Iotti

Nilde Iotti

Resistenza civile e Resistenza militare: tutto si è intrecciato nella storia di queste donne. Compresa la Resistenza all’estero: quella di Nadia Gallico in Francia; di Elettra Pollastrini, Rita Montagnana e Teresa Noce prima in Spagna nelle Brigate Internazionali, poi durante la guerra nei campi di concentramento e ai lavori forzati. Hanno subito il carcere e il confino anche Adele Bei (già attiva nel movimento di Liberazione in Belgio) e Maddalena Rossi, così come Angelina Merlin nei primissimi anni della dittatura.

Adele Bei

Adele Bei

Geograficamente le 21 elette rappresentano tutte le zone d’Italia: Trentino (2), Piemonte (3), Lombardia (2), Veneto (1), Liguria (1), Emilia Romagna (2), Toscana (2), Marche (1), Abruzzo (2), Lazio (1), Puglia (1), Sicilia (2). Nadia Gallico è nata a Tunisi ma ha forti legami con la Sardegna, terra d’origine del marito, Velio Spano, antifascista e perseguitato politico, anch’egli costituente.

angiola minella2Ben 14 delle elette hanno una laurea, le più in filosofia, lettere e pedagogia ma non mancano laureate in lingue e letterature straniere e in chimica.

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Maria Maddalena Rossi

Quattordici hanno lavorato come insegnanti/maestre; Lina Merlin è stata sospesa dall’insegnamento perché si è rifiutata di prestare giuramento al partito fascista, obbligatorio per i dipendenti pubblici; Bianca Bianchi perché insegnava cultura ebraica nelle sue ore di lezione. Le altre sono state operaie o artigiane (4), una ha lavorato come ispettrice del lavoro. Molte in alcuni passaggi della vita sono state redattrici/giornaliste, occupandosi principalmente della stampa e della propaganda rivolta alle donne. Alcune di loro proseguiranno questa attività anche durante o dopo l’attività parlamentare, la maggior parte di loro nella redazione di “Noi donne”, giornale dell’UDI.

Maria Nicotra

Maria Nicotra

Quattordici madri costituenti sono sposate al momento dell’elezione, molte di loro hanno figli. Lina Merlin è vedova da un decennio; Teresa Mattei, accompagnata ad un uomo sposato, rimarrà incinta durante i lavori dell’Assemblea costituente, la prima “ragazza madre” delle Istituzioni repubblicane. 5 le “coppie costituenti”: Teresa Noce e Luigi Longo; Rita Montagnana e Palmiro Togliatti, Nadia Gallico e Velio Spano; Maria de Unterrichter e Angelo Raffaele Jervolino; Angela Maria Guidi e Mario Cingolani.

Nadia Gallico Spano

Nadia Gallico Spano

Per alcune di loro la situazione familiare avrà ripercussioni sulla carriera politica: isolate progressivamente dal Partito dopo le separazioni da Togliatti e Longo, Rita Montagnana (che sarà abbandonata per un’altra costituente, Nilde Iotti) e Teresa Noce (che saprà dai giornali dell’annullamento del matrimonio da parte della Sacra Rota richiesto e ottenuto dal marito) usciranno in breve tempo dall’arena politica; Teresa Mattei, la “maledetta anarchica” nella definizione di Togliatti, “scandalosamente” incinta, entrerà in forte dissidio con un Partito moralista e bigotto e deciderà di non ricandidarsi alle elezioni del 1948. Tre comuniste: per loro lo “scandalo”, subìto o provocato, segnerà la fine dell’esperienza politica.

Elettra Pollastrini

Elettra Pollastrini

Ad esclusione di Mattei, che concluderà l’esperienza politica con la Costituente, la maggioranza delle costituenti, ben 8 di loro, si fermerà dopo la prima legislatura (1948-1953); 3 dopo la seconda (1953-1958), 5 dopo la terza (1958-1963), 3 dopo la quarta (1963-1968). Nilde Iotti, che tra i tanti primati[8] potrà vantare anche quello di essere stata la prima Presidente della Camera nel 1979, sarà eletta ininterrottamente fino alla XIII legislatura nel 1996, tre anni prima della sua morte.

Laura Bianchini

Laura Bianchini

Non tutte le madri costituenti prenderanno parte ai lavori della “Commissione dei 75”, composta da tre sottocommissioni. Della prima, che si occuperà dei diritti e dei doveri dei cittadini, farà parte Nilde Iotti; Maria Federici, Angelina Merlin e Teresa Noce saranno membri della terza, che si occuperà dei diritti economico-sociali. Nessuna donna farà parte della seconda, dedicata all’ordinamento costituzionale. Ottavia Penna si dimetterà dopo pochissimi giorni dalla Commissione dei 75, lasciando il posto all’on. Gennaro Patricolo. Angela Gotelli entrerà nella prima sottocommissione nel febbraio 1947 in sostituzione dell’on. Carmelo Caristia.

Angela Gotelli

Angela Gotelli

L’attività di queste 5 madri costituenti si concentrerà soprattutto sul ruolo delle donne nel nuovo assetto sociale, lavorativo e familiare, riuscendo a far inserire nella Carta articoli, commi e in alcuni casi poche ma significative parole (si pensi al “senza discriminazioni di sesso” dell’art. 3 Cost., che dobbiamo a Lina Merlin), che saranno alla base del successivo sviluppo della legislazione a garanzia dei diritti delle cittadine. Le altre 16 saranno molto attive in Assemblea generale con interrogazioni su vari argomenti, non solo concentrate su tematiche tradizionalmente femminili. Quello che colpisce, seguendo il filo delle attività che le lega l’una all’altra, è la consapevolezza che la partecipazione alla Costituente e il varo della Costituzione sono solo i primi passi di un più lungo e tormentato percorso che – sperano tutte, cattoliche, comuniste, socialiste – porterà all’uguaglianza sostanziale tra i due sessi. Per usare le parole di Teresa Mattei: «Il riconoscimento della raggiunta parità esiste per ora negli articoli della nuova Costituzione. Questo è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo. Guai se considerassimo questo un punto di arrivo, un approdo». Parole profetiche in un’epoca come la nostra dove i diritti delle donne – e con essi la partecipazione alla vita sociale, politica ed economica – sono rimessi costantemente in discussione.

Vittoria Titomanlio

Vittoria Titomanlio

NOTE:
[1] Elettra Pollastrini, Laura Bianchini, Teresa Noce, Adele Bei e Angela Guidi Cingolani.
[2] Adele Bei, Nadia Gallico Spano, Nilde Jotti, Teresa Mattei, Angiola Minella, Rita Montagnana, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi
[3] Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria Nicotra, Vittoria Titomanlio

Maria De Unterrichter Jervolino

Maria De Unterrichter Jervolino

[4] Angelina Merlin e Bianca Bianchi
[5] In ordine di anno di nascita: Angelina Merlin, Rita Montagnana, Elisabetta Conci, Angela Guidi Cingolani, Vittoria Titomanlio, Maria Federici, Teresa Noce
[6] Maria De Unterrichter Jervolino, Laura Bianchini, Adele Bei, Maria Maddalena Rossi, Angela Gotelli, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini
[7] Maria Nicotra, Bianca Bianchi, Filomena Delli Castelli, Nadia Gallico Spano, Angiola Minella, Leonilde Iotti, Teresa Mattei
[8] Nel 1987 è incaricata dal Presidente della Repubblica Cossiga di mandato esplorativo per la soluzione della crisi di governo, sfociata poi nelle elezioni anticipate; un doppio primato: fu la prima donna e la prima comunista a ricevere tale incarico.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2018.