L’eccidio di piazza Ferrucci ad Empoli

Sono 29 persone in marcia verso la morte in una mattina di luglio a Empoli.

Prima di addentrarci nella narrazioni dei fatti di piazza Ferrucci ad Empoli del 24 luglio 1944, è doveroso spiegare il contesto che portò alla fucilazione di 29 civili da parte delle forze armate tedesche. La popolazione toscana è stata vittima – dal 1943 al 1944 – di brutali eccidi perpetrati dall’esercito tedesco, aiutato delle squadre della Repubblica sociale, durante l’occupazione del territorio italiano in seguito all’armistizio. In particolare, le stragi nazifasciste nel territorio toscano si sono intensificate tra l’aprile e il settembre del 1944, in concomitanza con la ritirata tedesca dovuta all’avanzamento degli eserciti alleati. Da ricordare in questo caso vi è  l’Operazione Diadem, che portò allo sfondamento del fronte di Montecassino e di tutte le successive linee di difesa approntate da Kesselring tra la Linea Gustav e la campagna romana. Inoltre il 23 maggio, anche le truppe anglo-americane, ferme sul fronte di Anzio, iniziarono la loro marcia verso la capitale. Dopo il cedimento del fronte, le due armate tedesche iniziarono una disordinata ritirata, che si fece ancor più repentina dopo la liberazione di Roma – tra il 4 e il 20 giugno – dove gli alleati si spinsero fino alla linea del lago Trasimeno, venendo di fatto a mancare una linea di fronte stabile.

Le difficoltà delle truppe tedesche derivavano dalla difficile difesa che presentava il territorio posto sopra Roma. Con l’apertura delle valli del Tevere e dell’Arno il percorrimento si faceva assai ostico. Il Tevere non offriva alcuna protezione, rendendo solo difficili le comunicazioni. Solo l’Arno – dopo Firenze – rappresentava una linea di difesa naturale accettabile per le forze tedesche, oltre ad essere l’ultima difesa prima dell’arrivo alla Linea Gotica. Fu così che l’esercito tedesco mise in atto un riassetto organizzativo totale della linea difensiva che potremmo così riassumere: fu inizialmente costruita la cosiddetta  Linea Dora (Orbetello – lago di Bolsena – Narni – Rieti – L’Aquila – Pescara) e successivamente la Linea Albert (Grosseto – lago Trasimeno – Numana)[1]. La riorganizzazione tedesca riuscì inizialmente nel suo intento, rallentando l’avanzamento alleato e ritardando quindi la liberazione del territorio toscano, con conseguenze atroci per la parti civili. L’inizio di queste azioni di violenza inaudita contro le popolazioni locali va ricondotta anche all’interno di una logica di guerra psicologica viste le difficoltà dell’esercito tedesco nella gestione dei civili. Il casus belli  che portò al cambiamento dell’atteggiamento nei confronti della compagine civile può esser ricondotto all’attentato di via Rasella a Roma del 23 marzo, effettuato dal gruppo di Azione Patriottica (GAP), che portò alla morte di 33 soldati tedeschi e al ferimento di 53. Un’azione così marcata contro l’esercito tedesco in una delle principali capitali europee controllate dal Reich venne percepito a Berlino come un’onta indelebile che portò ad un cambio radicale di atteggiamento di cui l’eccidio delle fosse Ardeatine rappresentò solo l’inizio.

La tragedia di Empoli va quindi inserita in questo contesto storico, all’interno di una situazione già tesa da mesi a causa degli scioperi del marzo 1944, che ad Empoli avevano riguardato la storica vetreria Taddei e che avevano portato a deportazioni di massa in tutto il territorio circostante. Da un punto di vista bellico invece, con il cambiamento ulteriore del teatro di guerra nel luglio del 1944, vi era stato lo spostamento delle truppe tedesche sulla sponda meridionale dell’Arno in attesa dell’offensiva alleata proveniente dalla Val d’Elsa. Il fronte stava rapidamente cambiando. Con la liberazione di Grosseto (metà giugno) e Siena (3 luglio), gli Alleati risalivano verso Pisa e Livorno, e il fronte si avvicinava sempre più al territorio empolese. Ad ulteriore riprova va riportato l’ordine di evacuazione del centro cittadino diramato dall’occupante tedesco per i territori di Empoli e delle località limitrofe: Tinaia, Pontorme, Cortenuova, Avane, Santa Maria, Pagnana, Marcignana, Spicchio e Sovigliana, Capraia e Limite, Montelupo, Fucecchio, San Miniato e Castelfiorentino[2].

In concomitanza con ciò, il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) empolese aveva invece invitato le formazioni partigiane sparse nel territorio a convergere sulla città, per ostacolare gli spostamenti delle truppe tedesche nei dintorni di Empoli. Durante questa mobilitazione, il 23 luglio, un gruppo di partigiani – intenti a sistemare le proprie armi all’interno di una capanna nei pressi di Pratovecchio – vennero scoperti da un’unità tedesca in perlustrazione appartenente al 29 Grenadier-Regiment. Ne nacque uno scontro a fuoco che portò alla morte di sei, forse sette, soldati tedeschi. I superstiti riuscirono a raggiungere il comando tedesco, situato presso il Terrafino, dove comunicarono l’accaduto al capitano Lutz del 2° Battaglione, il quale informò prontamente il generale Hecker, comandante della 3. Panzer-Grenadier. La rappresaglia tedesca non si fece attendere. Già nel corso della serata vi fu l’arresto di alcune persone, che vennero però rilasciate dopo poche ore, in uno scenario di un’Empoli deserta. La vera reazione tedesca arrivò il giorno seguente, quando gli uomini della 3. Panzer-Grenadier prelevarono numerosi civili per poi condurli a Pratovecchio, nella stessa capanna della sparatoria del giorno precedente. Mentre gli ostaggi aspettavano nervosamente la punizione tedesca, un pagliaio andò a fuoco, probabilmente opera di un civile per cercare di creare un diversivo, ed effettivamente qualcuno riuscì a fuggire. Nel frattempo, oltre all’arrivo di altri soldati, iniziarono ad essere piazzate le mitragliatrici. L’intento era quindi chiaro, la fucilazione degli ostaggi come piena risposta delle azioni partigiane. Proprio durante la fine delle preparazioni, la scena venne notata da un ricognitore inglese, il quale si affrettò subito ad avvertire dell’accaduto l’artiglieria inglese, la quale sparò qualche colpo in zona di avvertimento, consentendo così ad altri civili di scappare. Nonostante le numerose problematiche, l’esercito tedesco, deciso a portare a termine l’operazione, scortò gli ostaggi rimasti nel centro cittadino. Alcuni di essi riuscirono a fuggire durante il tragitto, ma ne verranno catturati di nuovi[3].

Arrivati ad Empoli, i civili furono fatti sostare sotto il portico del mercato e condotti a gruppi di tre o quattro in piazza Ferrucci dove furono fucilati tra i due alberi di platano. In questa rappresaglia, la 3. Divisione uccise ben 29 persone:

– Bagnoli Luigi (31/05/1883);

– Bargigli Mario Bruno (12/10/1921);

– Bartolini Guido (05/05/1916);

– Bitossi Arduino (10/08/1885);

– Boldrini Orlando (24/07/1880);

– Capecchi Pietro (19/07/1883);

– Cerbioni Bruno (27/02/1926);

– Cerbioni Francesco (25/10/1887);

– Cerbioni Giulio (11/10/1915);

– Chelini Gaspero (26/09/1897);

– Chelini Gino (04/03/1892);

– Ciampi Giuseppe (10/05/1891);

– Ciampi Pietro (16/08/1896);

– Ciampi Virgilio (03/05/1893);

– Cianti Giulio (16/09/1911);

– Gimignani Pasquale (19/09/1898);

– Gori Corrado (30/12/1879);

– Martini Giulio (08/06/1878);

– Martini Pietro (10/04/1885);

– Morelli Mario Gino (15/08/1888);

– Nucci Palmiro (20/03/1888);

– Padovani Gaspero (22/10/1865);

– Parri Alfredo (02/05/1910);

– Parrini Antonio (56 anni);

– Peruzzi Carlo (02/11/1881);

– Piccini Gino (13/08/1895);

– Pucci Alfredo (06/10/1892);

– Taddei Gino (11/12/1906);

– Vizzone Domenico (03/03/1904)[4].

 

I loro cadaveri rimarranno in piazza fino al giorno seguente. Soltanto uno di loro riuscì a salvarsi, Arturo Passerotti. Tentò la fuga prima dell’esecuzione e, nonostante fosse stato colpito alla gamba destra e alla testa, riuscì a scappare[5]. Nei giorni successivi Empoli resterà teatro di altre manifestazioni di rappresaglia tedesca, questa volta tramite minamenti e bombardamenti, fino alla sua definitiva liberazione, il 2 settembre.

Oggi quei 29 nomi sono dignitosamente ricordati nella stessa piazza F. Ferrucci ad Empoli, rinominata piazza “XXIV luglio” in loro onore.

 

 

Note

 

[1] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 89-90.

 

[2] L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, Editore Riuniti, Roma, 1970, p. 487.

 

[3] G. Fulvetti, Ucciere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), regione Toscana, Carocci editore, Roma, 2009, pp. 157-159.

 

[4] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2395

 

[5] Per leggere la sua testimonianza si rimanda a Empoli negli ultimi cento anni: notizie, figure, personaggi: antologia di testi letterari e di varia documentazione, a cura di A. Morelli, Empoli, Comune di Empoli, 1977, pp. 96-99.

 

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




Le deportazioni dell’8 marzo 1944 nell’empolese

92 lavoratori in viaggio verso il campo di concentramento di Mauthausen. La loro unica colpa? Aver scioperato, aver cercato di rivendicare i propri diritti. Un atto ritenuto di un oltraggio tale, dall’autorità tedesca, che fu pagato con la vita.

Marzo 1944. Il fronte bellico interno presentava una situazione di assoluta impasse: era fallito il contrattacco tedesco di Anzio come l’avanzata alleata sul fronte del Cassino. Le notizie più entusiasmanti per la resistenza interna provenivano dal fronte orientale, con la liberazione dell’intera Ucraina da parte dell’Unione Sovietica e la loro repentina avanzata. Mentre i partigiani fantasticavano l’eventuale creazione di un secondo fronte di guerra alleato, paventato dagli entusiasmi di Radio Londra. È in questo contesto, di stallo italico ma di grande fervore internazionale che si inseriscono gli scioperi generali indetto dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) per la rivendicazione di un aumento delle razioni alimentari, dei salari e contro la deportazione degli italiani in Germania.

Non doveva essere una semplice rivendicazione. Nei mesi che la precedettero, crebbe continuamente la mobilitazione alla lotta clandestina nei territori dell’empolese. Lo sciopero sarebbe dovuto essere una dimostrazione di forza da parte del CNL nei confronti di fascisti e tedeschi. La dimostrazione di esser in grado di mobilitare la maggior parte della popolazione, di rendere pubblica l’insoddisfazione per l’autorità. E così fu.

Lo sciopero, inizialmente previsto per il 3 marzo, nella zona dell’empolese fu rinviato al giorno successivo. La notte tra il 3 e il 4 marzo varie riunioni tra le squadre di SAP e GAP portarono alla decisione di organizzare alcune postazioni con mitragliatrici e casse di bombe per proteggere il corteo, che furono posizionati già a partire dall’alba. Alle otto del mattino un corteo di donne partì da Avane dando inizio alla manifestazione. Passando dalle frazioni di Mangolo e Santa Maria si unirono altre centinaia di donne, formando un’onda rosa che andò presto ad unirsi agli operai delle fabbriche e ai contadini, oltre che ai piccoli commercianti una volta chiusi i loro negozi. Per le strade del centro cittadino, ormai invase dalla mobilitazione, era alta la voce della protesta collettiva, manifestata da vari cori, da «Pace e Pane» a «Fuori lo straniero». Una rabbia popolare che aveva una chiara connotazione anti-fascista ed anti-tedesca, le cui autorità non ebbero la forza di interrompere. Gli intenti del CLN si realizzarono completamente, con i fascisti che presero dolorosamente atto della situazione, ben consci che una risposta armata alla protesta avrebbe potuto portare – oltre che ad una possibile guerriglia con le forze partigiane – ad una successiva mobilitazione in cui fosse presente l’intera popolazione. La piena riuscita dello sciopero si verificò anche nelle altre località dell’empolese, solo a Limite e Capraia ci fu il tentativo da parte dei carabinieri e dei fascisti locali di sedare la protesta tramite lacrimogeni, senza però successo[1].

La situazione più interessante la troviamo ad Empoli. Dove la riuscita della mobilitazione derivò dall’unione delle rivendicazioni portate avanti dai contadini – forti proteste per la consegna di ulteriori 15 kg di grano all’ammasso e la richiesta del diritto di libera macinazione – e dagli operai, rappresentati soprattutto dai lavoratori della vetreria Taddei, il complesso industriale più grande dell’empolese. L’unione di questi due ceti, storicamente divisi, creò la forza necessaria per dimostrare alle autorità locali la presenza di un dissenso strutturato e ormai impavido di fronte alle minacce fasciste. Una delegazione di scioperanti fu anche ricevuta in Comune per ricevere tutte le rassicurazioni di rito. Le autorità fasciste si dimostrarono così inermi e succubi della situazione, facendo percepire il loro netto disagio nel constatare la presenza di un dissenso non controllabile[2].

Le conseguenze dello sciopero furono chiare. Una situazione di ordine pubblico non più sostenibile e a cui andava posto un rimedio. La rappresaglia non ebbe però luogo nella stessa giornata, per le ragioni già scritte, ma arrivò qualche giorno più tardi. Il clamore della mobilitazione, che ricordiamo, ebbe una grande impatto in tutte le parti d’Italia sotto il controllo tedesco, ebbe una risonanza tale che arrivò direttamente alla scrivania dello stesso Hitler. Il quale, una volta informato, diede disposizione a Himmler, il comandante delle SS, di deportare il 20% di coloro che avevano partecipato agli scioperi in Germania per “lavorare”. Fu così che tra il 4 e l’8 marzo del 1944 i dirigenti locali repubblichini stilarono varie liste di nomi che avrebbero deportato da lì a breve. Decisione, questa, accolta con grande gioia e soddisfazione dai comitati fascisti locali, desiderosi di poter stilare liste arbitrarie più rivolte a connotazioni politiche e personali che riguardanti i fatti del 4 marzo (basti pensare che molti fra gli uomini che verranno deportati non avevano partecipato allo sciopero generale). Sorgeva però un problema logistico e di ordine pubblico. Vista la grande solidarietà della popolazione allo sciopero di quattro giorni prima, sarebbe stato assai rischioso svolgere queste operazioni di giorno, con il rischio di una nuova mobilitazione. L’operazione fu allora svolta la notte tra il 7 e l’8 marzo, dove i repubblichini locali, coadiuvati dalla GNR, dai poliziotti e dai carabinieri, iniziarono un rastrellamento mirato sul territorio dell’empolese. Per evitare troppe problematiche fu utilizzato un modus operandi assai semplificato: gruppi di persone armate si presentavano a casa della persona da prelevare invitandola a seguirli nella caserma più vicina dove, dicevano gli squadristi, ci sarebbe stato un maresciallo o un suo vice che aveva delle domande da porgli. L’incursione in piena notte, il sonno, la paura e la mancata conoscenza del fatto che non si trattasse di un fatto isolato ma di una deportazione generale, portò tutti gli uomini a seguire i poliziotti o chi per loro senza scappare o reagire. Un’operazione che nella sua malvagità fu gestita con rara lungimiranza e dove fu curato ogni particolare. A Montelupo, ad esempio, i fascisti, consci che sarebbe stato impossibile con questo metodo prelevare chi era già scappato dal paese – la maggior parte si rifugiò nella zona di Botinaccio – organizzarono l’imboscata utilizzando un’ambulanza per evitare ogni tipo di sospetto. Un’altra tattica diversificata fu utilizzata per i lavoratori della vetreria Taddei di Empoli, i quali furono direttamente prelevati in azienda con una retata. Stessa sorte sarebbe dovuta toccare anche agli operai di un’altra vetreria empolese, la CESA. In questo caso però, intuendo la situazione che si stava creando, il capo fabbrica Betti Rinaldo ebbe la lungimiranza di azionare l’allarme che fece scappare tutti gli operai, i quali vennero a conoscenza soltanto il giorno seguente di esser sfuggiti non ad un guasto all’impianto ma ad una deportazione di massa[3].

Come dicevamo, esclusa la CESA, il rastrellamento riuscì perfettamente. Ad Empoli, oltre ai 26 operai della Taddei, furono arrestate altre 30 persone, a Montelupo gli arrestati sono 22, a Limite sull’Arno 11, a Vinci 7, a Fucecchio 9 e a Cerreto Guidi 7[4]. L’indomani, tra lo sgomento e l’incredulità della popolazione, ignara della sorte dei loro concittadini, gli arrestati furono trasferiti con dei pullman a Firenze, precisamente alla Scuole Leopoldine, in piazza Santa Maria Novella. Qui, dopo esser stati registrati, ed in alcuni casi interrogati, furono scortati dalle forze tedesche presso la Stazione Centrale. Lì si trovarono di fronte alcuni carri ferroviari, quelli usati per il trasporto del bestiame, dove furono costretti a salire. Dopo tre giorni interminabili di viaggio, ammassati, senza dormire né mangiare, l’arrivo ad una stazione ferroviaria austriaca. Stanchi, impauriti e sprovvisti di un abbigliamento adeguato alla neve pungente furono costretti ad intraprendere una marcia di sei chilometri fino ad una fortezza abnorme, con due torri unite da un muro in pietra al centro del quale si trovava una grande portale di legno. In pochi di loro riuscirono, in quelle condizioni, a scorgere una scritta che inaugura il campo: «Il lavoro rende liberi!». Erano arrivati a Mauthausen.

Dei 92 lavoratori ed antifascisti prelevati la notte tra il 7 e l’8 marzo e spediti al campo di concentramento, soltanto 5 o 6 avrebbero successivamente fatto ritorno alle loro famiglie, tutti gli altri non riuscirono a sopravvivere alle condizioni disumane dei campi.

 

 

Note:

 

[1] L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, Editore Riuniti, Roma, 1970, pp. 469-470.

 

[2]  A. Dini, La notte dell’odio, Editore Nuova Fortezza, Livorno, 2000, p. 23.

 

[3]  Ivi, pp. 26-29.

 

[4]  L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, p. 472.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




La Liberazione di Siena

Fra la rocca di Radicofani, nel sud della provincia di Siena, e Radda in Chianti, a nord, la distanza è di un centinaio di chilometri. Le truppe alleate impiegarono un mese, dal 18 giugno al 18 luglio 1944, per percorreli. Velocità media: meno di 3 chilometri e mezzo al giorno. L’avanzata dei reparti inglesi a est del terrirorio provinciale, di quelli americani a ovest e del Corpo di spedizione francese al centro incontrò, infatti, un forte contrasto da parte dei tedeschi, i quali si ritiravano ordinatamente, combattendo attestati su una serie di linee difensive predisposte, volta per volta, laddove la conformazione del terreno rendeva più efficace il fuoco di sbarramento di mitragliatrici e cannoni.

Alcuni centri abitati (Radicofani, Chiusi, Poggibonsi) furono teatro di scontri duri e prolungati fra i soldati dei due eserciti contrapposti. Altri (Casole d’Elsa, S. Gimignano) subirono cannoneggiamenti da entrambi. Ad altri ancora vennero invece risparmiate vittime e distruzioni perché ubicati in luoghi di scarsa rilevanza tattica.

Le bande partigiane, che avevano fortemente destabilizzato l’apparato militare fascista della RSI fra i mesi di marzo e maggio, nel giugno-luglio moltiplicarono l’attività tesa a ostacolare gli spostamenti dei tedeschi e accrebbero così il loro contributo di sangue alla libertà, un contributo che superò i trecento caduti fra uccisi in combattimento e fucilati in rastrellamenti e rappresaglie.

È in questo contesto che, il 3 luglio, avvenne la Liberazione di Siena ad opera dei tirailleurs e dei fantassins del generale J.G. De  Monsabert, rimasto un benemerito nella storia cittadina per non aver dato l’ordine di aprire il fuoco dei suoi cannoni sia per non colpire i monumenti senesi che conosceva ed apprezzava, sia perché era stato informato che i tedeschi se ne stavano andando da un luogo che non era inserito lungo le loro linee difensive.

Si trattò di circostanze fortunate che limitarono i danneggiamenti. Andarono ad aggiungersi ad un’altra circostanza non meno fortunata, ovvero l’ubicazione della stazione ferroviaria, bersaglio principale dell’aviazione alleata, quasi in aperta campagna. Un fatto che, a sua volta, aveva contenuto gli effetti sul centro storico dei ripetuti bombardamenti aerei.

Nelle settimane precedenti l’arrivo del Corpo di spedizione francese le forze antifasciste e il CLN di Siena si erano arrovellati intorno ad un’alternativa drammatica: tentare un’insurrezione o cercare un compromesso e una convivenza con le autorità fasciste in attesa degli Alleati? La prima ipotesi, oltre che dal  timore dei combattimenti fra case, piazze, palazzi, chiese, era stata ostacolata dal fatto che le bande partigiane, abbastanza forti, come ricordato, nelle campagne, si trovavano lontane dalla città. La più vicina, il 2° Distaccamento della Brigata Garibaldi “S. Lavagnini”, era a una quindicina di chilometri, nella zona di Tegoia. Un rastrellamento tedesco, avvenuto il 24 giugno, ne aveva bloccato l’intento di attraversare le linee in direzione di Siena. L’altra ipotesi si era scontrata, invece, con la difficoltà morale, prima ancora che politica, di scendere a patti con nemici quali il prefetto fascista Giorgio Alberto Chiurco e con rastrellatori di partigiani come Alessandro Rinaldi.

Fra spinte contrapposte e comunicati contraddittori, alla fine era prevalsa la linea che, dall’esterno del Comitato, aveva tracciato l’autorevole esponente dell’antifascismo Mario Bracci. Consultatosi con una cerchia di amici, fra i quali Ranuccio Bianchi Bandinelli, il Bracci si era recato in prefettura nell’intento di convincere Chiurco a rimanere in città per mediare con i tedeschi, con i quali aveva un ottimo rapporto.

Annotò Bracci nel suo diario: «Colloquio quasi drammatico: deve restare al suo posto […]. E se il mio governo mi ordina di ritirarmi? Disobbedire […]. Io ero commosso, lui piangeva. Si è persuaso».

Conseguenza implicita dell’accordo era l’incolumità di Chiurco. Nessun GAP avrebbe dovuto sparargli. Bracci non faceva parte del CLN, agiva un po’ da battitore libero. E il CLN non se l’era sentita di sposare ufficialmente la sua iniziativa, suscitandone il sarcasmo: «Naturalmente l’ineffabile Comitato […] mi ha quasi sconfessato e non si è voluto impegnare[…]. Vorrebbero che [Chiurco] rimanesse, ma liberi loro di ammazzarlo in qualunque momento. Bei tipi».

D’altra parte, neppure Chiurco era stato del tutto ai patti. Asserragliato in prefettura, aveva lasciato Siena un giorno e mezzo o due prima dell’ingresso dei francesi, mentre le retroguardie germaniche abbattevano le mura cittadine a Porta S. Marco, facevano saltare in aria ponti e infrastrutture, saccheggiavano i negozi portando via le merci esposte sui banchi e quelle imboscate nei retrobottega. Che erano molte di più, come avrebbe annotato con una punta di perfidia l’arcivescovo Mario Toccabelli.

Sta di fatto che l’opzione insurrezionale era stata accantonata. Alla guida del Comune si trovava il notabile Luigi Socini Guelfi. In quanto podestà aveva accettato tutte le scelte del fascismo, comprese le leggi razziali, e non si era dissociato dal rastrellamento degli ebrei del novembre 1943 né dalla fucilazione di partigiani alla caserma Lamarmora avvenuta nel marzo dell’anno successivo. Non gli venivano però attribuite responsabilità dirette. Era stato dunque considerato un fascista con cui si poteva collaborare.

E così, per vari giorni, Socini Guelfi e e gli esponenti del CLN avevano convissuto nelle sale del Palazzo pubblico e insieme avevano formato una Guardia Civica, con compiti “esclusivamente difensivi” e di “ordine pubblico”.

Alcuni fascisti (fra di essi il federale Giovanni Brugi e il milite della X Mas Walter Cimino) erano stati uccisi, i prigionieri politici ancora detenuti nel carcere di S. Spirito, a disposizione dei tedeschi, erano stati liberati con un’irruzione dei GAP, ma il “patto” aveva retto. E gli Alleati alla fine erano arrivati.

Tuttavia, proprio in quel 3 luglio, mentre la popolazione festeggiava la libertà, il nemico era ancora a due passi, appena al di là delle rovine della stazione ferroviaria, sulla collina di Vicobello. Lì morirono tre giovani della Guardia Civica che, precedendo le pattuglie francesi, si scontrarono con una retroguardia tedesca. Furono i primi caduti della schiera di oltre ottocento partigiani della provincia di Siena i quali, dopo la liberazione del loro territorio, si sarebbero arruolati nel “Cremona”, il gruppo di combattimento italiano a fianco degli Alleati, e avrebbero partecipato nel nord Italia alla liberazione dell’intero Paese.

 

Articolo pubblicato il 1° luglio 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Il 21 gennaio 1944, Giovanni Martelli e Otello Frangioni si erano recati alla Casa Manna, un luogo di ritrovo per gli antifascisti comunisti livornesi e situato in via Trieste, col fine di prender parte a una riunione. Il punto di ritrovo era però fissato in un altro luogo e, visto che nessuno si presentò all’appuntamento, Frangioni e Martelli si recarono alla Casa Manna. Una volta entrati, caddero in una trappola, perché ad attenderli vi era un commando unificato composto da ufficiali tedeschi, repubblichini e questori.
Il terzo arresto mette a dura prova l’animo di Martelli e lo segna nel profondo perché i rischi che poteva correre erano maggiori del passato. Viene arrestato perché le autorità fasciste identificavano in lui il «filo conduttore» col movimento di liberazione e l’esponente ideale da cui trarre informazioni sulle formazioni partigiane della Brigata Garibaldi[1]. In quei giorni viene ripetutamente interrogato dal questore Moraglia, dal capitano della polizia Porquier, dai marescialli Marchesi e Artieri[2].
Martelli continua a negare qualsiasi coinvolgimento o relazione con gli altri membri della Resistenza livornese, afferma che non sapeva niente sui manifesti della propaganda partigiana e sui volantini del movimento di liberazione. Martelli ricorda il suo terzo interrogatorio con le seguenti parole:

«[…] A domanda risposi: io, nella mia prima giovinezza mi ero interessato di politica, ma soprattutto in seguito ai due arresti ed alla condanna cui fui sottoposto, nonché per l’essermi trovato in luogo di capofamiglia, non mi era interessato più di nulla. Da allora a quel momento, aggiunsi, c’era anche l’esperienza dell’Africa Orientale e, immediatamente dopo la vita di fabbrica come operaio specializzato, alla qualcosa tenevo al di sopra di tutto. Citai la esperienza del cantiere Orlando, […] e, infine, la esperienza alla Moto Fides. Le domande che attorno a queste risposte mi furono date furono sempre pronunciate dal tenente Purchié e dall’agente repubblicano Hippert. Sia l’Altieri come il Marchesi, non solo non mi fecero mai domande ma mai si opposero alle mie risposte. E, sia chiaro, solo loro due potevano farlo! Questo comportamento mi fu di grande conforto e non mancai di riferirlo a chi, dopo di me, doveva passare sotto quel “torchio”. Ciò che soprattutto poteva incutere maggiore timore, cosa che io stesso subii, era che a quell’interrogatorio erano sempre presenti uno o due rappresentanti della “Gestapo” e, spesso, erano loro a suggerire domande […]»[3]

Alla domanda posta dalle autorità repubblichine sul perché non fosse fascista, lui risponde con fermezza dicendo che non lo era e che non lo sarebbe mai stato, perché si definiva come eticamente diverso da loro. Nel periodo della terza detenzione presso il carcere Don Bosco di Pisa conosce esponenti di spicco della Resistenza locale e ebbe degli scambi epistolari con alcuni di questi, come Fortunato Garzelli e Oberdan Chiesa[4]. Purtroppo, venne a conoscenza di una tragica notizia, ovvero che un mese prima erano stati catturati all’Ardenza tutti i frequentatori della Casa Manna, come Vasco Iacoponi, Corrado Faiani e lo stesso Oberdan Chiesa[5]. Prima condividevano le celle in comune con altri, ma con l’arresto di Frangioni e di Martelli vennero messi in celle di isolamento.
Chiesa ebbe degli scambi epistolari con Martelli e gli chiese quale fosse la sua posizione, aveva un brutto presentimento e temeva per la sua vita. Quando Martelli cercò di inviare un biglietto di risposta, venne a conoscenza che Chiesa era stato fucilato. I due si erano incontrati due mesi prima a Cevoli, perché quest’ultimo attendeva Chiesa per l’invio di materiali col fine di realizzare dei documenti falsi. La scomparsa di Chiesa ebbe «l’effetto di una doccia fredda sull’intero gruppo e richiamò alla mente di ognuno la realtà del momento» che stavano vivendo[6].
Il 12 febbraio per ordine del prefetto Fac-Duelle viene messo in isolamento e conosce di nuovo la dura vita nel carcere fascista, soffre la fame, la sete, il freddo, la solitudine, la paura di non potercela fare. L’esperienza di Modena lasciò un segno indelebile, soprattutto per le condizioni in cui viveva: predominava una sensazione di insicurezza, perché spesso venivano prelevati alcuni prigionieri da parte dei nazisti e dei repubblichini per fucilarli[7]. Alle azioni di sabotaggio della Resistenza corrispondevano spesso queste rappresaglie nelle carceri.
Quattro mesi dopo viene trasferito nel carcere Sant’Eufemia di Modena e tenta una fuga durante il bombardamento dell’11 giugno. Il giorno successivo viene chiamato per un presunto interrogatorio, ma Martelli teme di non far ritorno. Al suo ingresso nella stanza dell’interrogatorio si trova davanti due marescialli tedeschi, i quali gli chiedono di spogliarsi per effettuare una valutazione delle sua condizioni fisiche. Molti detenuti e rivali politici venivano sottoposti a queste fittizie valutazioni che servivano per “attestare” l’idoneità fisica dell’individuo. È facile intuire che qualora una persona fosse risultata debole, malata o anziana, veniva mandata in Germania con la scusa fittizia che sarebbero stati inseriti in nuovi contesti lavorativi. In realtà venivano spediti nei campi di concentramento.
Nella medesima occasione, un capitano delle brigate nere gli promette che, in caso avesse preso parte a delle opere di volontariato, sarebbe stato scarcerato. Molti aderirono all’iniziativa perché ciò avrebbe permesso ai detenuti di uscire dal carcere e di raggiungere le altre formazioni partigiane attive nel modenese. Martelli rifiuta la proposta perché non lo convince, non si fida delle promesse dei repubblichini.
Nell’ultima settimana di luglio, i nazifascisti realizzano degli attacchi contro la Repubblica partigiana di Montefiorino, a cui i gappisti della sessantacinquesima Brigata “Walter Tabacchi” rispondono con diversi attacchi contro gli automezzi e le strutture delle forze di occupazione tedesche. Nella tarda mattinata del 30 luglio i militari del Rustungskommando di Bologna ricevono la notizia dell’ennesimo attentato nel centro storico di Modena, dove è detenuto Martelli: nel primo pomeriggio una delegazione parte dalla città felsinea e raggiunge la Ghirlandina. Convocate le autorità̀ civili e militari della RSI, i soldati del Rustungskommando invocano una rappresaglia esemplare. In un primo momento propongono di rastrellare venti persone da catturare nei caffè del centro storico e di fucilarle in Piazza Grande, ma le obiezioni di alcuni fascisti li convincono a desistere. Dopo una breve discussione, i tedeschi accettano che gli ostaggi siano prelevati dalle carceri di Sant’Eufemia, ma impongono di eseguire la missione nel più breve tempo possibile poiché vogliono tornare a Bologna per cena. Mentre i venti detenuti scelti per la strage vengono incolonnati e fatti uscire dalla prigione, suona l’allarme aereo e i modenesi affollano il rifugio di Piazza Grande. Sul selciato, il plotone d’esecuzione fa distendere le vittime sul ventre formando due file e tutti vengono uccisi con dei colpi alla nuca. Dopo il cessato allarme, la popolazione della città resta inorridita dal macabro spettacolo della piazza: i venti corpi inerti vengono lasciati sul selciato per quasi ventiquattro ore, poi un autocarro li trasporta al cimitero di San Cataldo.
La paura di non poter tornare a casa si materializza per Martelli: i prossimi che verranno condannati a morte sono proprio i detenuti antifascisti toscani. Sulla base di ciò che accadeva fuori dalle mura di Sant’Eufemia, ognuno poteva avere le ore contate. Molte persone che aveva conosciuto in quel periodo erano già morte per fucilazione o per impiccagione. La speranza di rivedere la sua amata Livorno si affievolisce, così tanto che sostiene:

«noi tutti fondavamo la nostra speranza sul fatto che i nostri verbali fossero rimasti a Livorno, per mio conto ciò voleva dire fino ad un certo punto, poiché io ero negativo, ma così non era per altri compagni, che in seguito a prove schiaccianti o accuse, o per non aver saputo resistere all’interrogatori avevano dovuto ammettere qualche cosa. Un giorno fummo di nuovo chiamati ed interrogati, insistemmo sull’atteggiamento assunto al primo interrogatorio e questa volta – ormai delusi delle volte precedenti – che non credevamo più a nessuna possibilità di uscirne, fu proprio la volta decisiva […]».[8]

Alla fine di agosto, Martelli viene scarcerato insieme ad altri compagni di Partito come Otello Frangioni ed è proprio a Otello che dedica la sua Autobiografia, proprio perché con lui ha «condiviso la vita nel partito subendo insieme rischi ed arresti»[9]. Di quel periodo così difficile, Martelli racconta:

«[…] Dopo alcuni giorni da quel triste episodio [dell’uccisione dei venti detenuti del Carcere di Sant’Eufemia] fu inviato al carcere, per interrogarci, un giudice istruttore. Uno alla volta fummo tutti interrogati e tenuto conto che quel giudice non aveva nulla in mano, in quanto i documenti istruttori erano rimasti al di là del fronte, fu relativamente facile a tutti a confermare le dichiarazioni già fatte e, chi si era troppo esposto, a rettificare la propria posizione. Capimmo di lì a pochi giorni che quel giudice era stato inviato dal Prefetto Repubblichino (credo di chiamasse De Santis), il quale era in rapporti con il Cnl.
Fu veramente la volta buona: a fine settembre – così mi sembra ricordare – fummo invitati tutti ad uscire con gli indumenti personali. Ci fu chiaramente detto che eravamo liberi. L’unico che rimase, per uscire dopo un mese circa, fu Vasco
Iacoponi. Una volta in libertà io fui incaricato dai compagni, eravamo tutti alloggiati in un grande albergo di Modena, di recarmi in una segheria nei dintorni di Modena dove conobbi il Baroni che era stato al confino con Vasco, il quale mi consegnò i documenti falsi, naturalmente repubblichini, con i quali avremmo dovuto viaggiare nei territori occupati […]»[10].

Il 5 settembre 1944, lui e Otello Frangioni tornarono a Livorno, a seguito di un lungo viaggio per l’Emilia-Romagna e dopo aver attraversato le zone di Vergato e di Marzabotto. Dovettero superare i campi minati, evitare le pattuglie e i rastrellamenti. Il rientro a Livorno non fu facile, ma Martelli riuscì a tener fede all’obiettivo: tornare a casa. Livorno era stata liberata il 19 luglio e il loro rientro venne consacrato con una festa all’interno della Federazione comunista livornese.
Il nuovo Segretario era Aramis Guelfi, che assegnò Martelli alla Federazione di Pisa col compito di dirigere le attività dell’organizzazione sindacale Federterra. Pisa resterà un luogo caro a Martelli, perché proprio lì aveva avuto origine il suo percorso di resistenza attiva al nazifascismo e lì aveva pianificato le attività dei Nuclei del Fronte Nazionale di Liberazione in Toscana. Inizialmente, crede che col suo incarico possa entrare più in contatto con l’anima di quei luoghi che conosceva bene. In realtà, già nei primi mesi del 1945 lascia la mansione perché «non [lo] entusiasmava»[11]. In compenso, viene incaricato della propaganda presso la redazione del bollettino della Federazione. Martelli nella Nota autobiografica del 1987 si lascia ad una confessione, in cui afferma:

«[…] Tutti quegli incarichi, tuttavia, rappresentavano per noi le prime esperienze di vita legale del partito per cui non mancavano, da parte di ognuno di noi, comportamenti tutt’altro che idonei alle responsabilità che ci erano state affidate […]»[12].

Effettivamente, Martelli all’epoca ha 32 anni e conosce ben poco la vita di partito, forse non l’ha nemmeno sperimentata fino in fondo. Martelli ha lavorato in ambito propagandistico e nel contesto della lotta armata al nazifascismo, ma sapeva ben poco di politica. La ridefinizione e il ripristino delle istituzioni democratiche sarà un problema che in realtà coinvolgerà tutto il Paese, la vita politica, le istituzioni pubbliche, i civili.
Dopo la liberazione, Aramis Guelfi venne trasferito alla Federazione comunista di Taranto e poi di Lecce, e Ilio Barontini successe alla guida della Federazione livornese. Martelli diventò Vicesegretario nel periodo in cui Ilio Barontini entrò a far parte prima della Consulta e poi della Costituente.
Negli anni successivi, Martelli diventerà una figura di spicco nell’ambito sindacale e svolgerà una serie di impieghi che lo porteranno lontano da Livorno per diversi anni. Diventerà segretario delle Federazioni comuniste di Treviso e di Carrara, poi svolgerà degli impieghi presso la FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) e la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro). Rientrerà nella città labronica solo negli anni Sessanta, anni in cui verrà nominato come presidente della Commissione di Controllo del PCI locale e come Presidente del Bacino del Carenaggio[13]. Martelli è morto il 22 ottobre 1992 a Livorno.

Conclusioni.

Da decenni la storiografia sta producendo numerose monografie sulle vite degli antifascisti e sulle esperienze di lotta durante la Resistenza (1943-1945), col fine di esaminare complessivamente i valori condivisi e le azioni compiute dai gruppi antifascisti. Allo stesso modo, questo elaborato ha cercato di esaminare i valori di un uomo molto attivo nella resistenza toscana e livornese. Il tema è quindi importante per ricostruire le storie e le figure di chi si è fatto testimone di libertà in un periodo segnato dalla violenza e dall’autoritarismo.

Nello sviluppo dell’elaborato, una domanda è emersa: come si potrebbe descrivere l’esperienza politica di Giovanni Martelli?

L’esperienza politica di Martelli ricorda le esperienze di tanti altri militanti attivi nel periodo della Resistenza all’occupazione nazifascista, in cui questa lotta ha rappresentato un punto di svolta e una chiave di lettura per il futuro repubblicano e democratico del Paese. Per Martelli, la verità è stata rivoluzionaria e ha sempre fatto riferimento a questo valore in qualunque sua battaglia, nelle fabbriche, nella sua città, a livello nazionale. La storia di Martelli è la storia di un uomo resiliente, che ha saputo adattare i suoi ideali davanti a qualsiasi difficoltà o situazione storica; di un militante determinato e fedele agli ideali del Partito; di un sindacalista che poneva le questioni operaie e sociali al centro di qualsiasi analisi sulla realtà circostante.

L’analisi ha evidenziato quanto sia difficile saper racchiudere le esperienze di vita e di militanza politica in poche semplici parole. Ogni storia, seppur piccola, può esser densa di sfumature ed un caso emblematico è proprio quello della vita di Martelli.

Le problematiche emerse nello sviluppo dell’elaborato possono esser riscontrate consultando le fonti utilizzate. Metter insieme di documenti così personali e all’apparenza scollegati ha significato entrare in contatto con dei materiali biografici vivi, che non hanno delle vere e proprie controparti, ovvero: non ci sono dei documenti da confrontare con quanto racconta lo stesso Martelli. Le fonti consultate sono principalmente fonti primarie, arricchite da ricerche realizzate personalmente sui destinatari dei documenti o sui contenuti.

L’augurio da fare per un futuro è che la storiografia possa approfondire maggiormente le biografie di quegli uomini e di quelle donne che hanno apportato notevoli contributi alla causa dell’antifascismo e della Resistenza, col fine di poter comprendere maggiormente quali sono stati quei valori e quelle speranze che hanno permesso la nascita della Repubblica italiana e della Costituzione.

NOTE

1 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 10.
2 Martelli conosceva bene il capitano della polizia Luigi Porquier (alias Porchié) perché, come racconta nella Nota autobiografica, era quel ragazzo che aveva percosso nel 1928 durante i corsi premilitari. Dopo le percosse che dette a Porchié, venne mandato al commando di polizia (all’epoca in via Cairoli), dove successivamente venne sottoposto a un interrogatorio e radunato con altri in via Ippolito Nievo. Dopo i rituali di circostanza, venne invitato ad uscire ed espulso per indegnità. Per fortuna, Porchié non lo riconosce durante la terza cattura di Martelli.
3 Allo stesso modo, Martelli conosce anche il brigadiere Marchesi perché è sempre stato presente ai suoi interrogatori, ma lo definisce comunque come una brava persona. L’impressione di Martelli sul brigadiere Marchesi viene descritta anche nel testo: Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 354.
4 Fortunato Garzelli (1902-1944): nasce in una famiglia proletaria e si trasferisce a Livorno perché lavora come aiuto macchinista presso le Ferrovie dello Stato. Aderisce al Partito Comunista e nel 1933 subisce i primi fermi, arresti e perquisizioni. Nel 1941 costituisce il primo Fronte nazionale antifascista ed è membro della Concentrazione antifascista, poi diventato CLN di Livorno. Muore a pochi giorni dalla liberazione di Livorno mentre guida una pattuglia partigiana nei pressi di Quercianella (una frazione di Livorno), in uno scontro a fuoco avvenuto con i tedeschi il 15 luglio del 1944.
Oberdan Chiesa (1911-1944): nasce in una famiglia liberale e aderisce al Partito Comunista. Ben presto viene schedato dall’OVRA e definito come pericoloso antifascista. Negli anni Trenta, vive per un breve in Francia e partecipa alla Guerra Civile spagnola. Al suo rientro viene nuovamente arrestato e liberato in vista dell’8 settembre. Successivamente prende parte alle formazioni partigiane nell’entroterra livornese, ma viene arrestato il 22 dicembre del 1943 e trasferito al carcere Don Bosco di Pisa. Da quell’arresto non vi farà più ritorno, viene infatti fucilato a Rosignano Solvay (LI) il 29 gennaio 1944. Per un approfondimento sul tema, vedi: Brunetti G., Oberdan Chiesa: un uomo, una vittima, un mito. Pisa: Edizioni ETS, 2022.
5 L’Ardenza è un quartiere periferico situato a sud del comune di Livorno.
6 Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 355.
7 Ivi, p. 357.
8 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 12.
9 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 12.
10 Ibidem.
11 Id, Nota autobiografica riferita al “dopo Liberazione”, marzo 1987, p. 2.
12 Ibidem.
13 Quando viene nominato Presidente del Bacino del Carenaggio, Martelli mostra delle doti manageriali che fino ad allora non era riuscito a sperimentare, contribuendo alla costruzione della Lips (la Società addetta alla progettazione e commercializzazione di eliche e alberi di trasmissione nel campo navale) e della piattaforma Sincrolift (una piattaforma della Darsena Morosini). Lasciò la Presidenza nel 1979, perché a lui successe Nelusco Giachini.

Articolo pubblicato nel giugno 2024.




L’uccisione di Roberto Bartolozzi.

Sono le 15.30 del 29 giugno 1944. Ci sono sei uomini sul muretto del ponticello di via dei Fossi, davanti alla storica Porta San Gervasio, nel centro di Lucca. Appartengono alle squadre partigiane cittadine e stanno pianificando gli ultimi dettagli per un’azione contro i carabinieri che dovrà svolgersi quella stessa sera. Il loro capo è Roberto Bartolozzi, un operaio specializzato della compagnia telefonica Teti. Ha trent’anni, è di La Spezia, ma si è trasferito a Lucca da un anno, da quando la centrale spezzina è stata colpita da un bombardamento.

Bartolozzi è comunista. Il suo è stato un percorso ideologico maturato nel tempo: a diciannove anni è partito volontario per la Tripolitania e l’esperienza gli ha fatto capire tante cose sul regime fascista, tant’è che, quando nel 1937 è rientrato in Italia e iniziato a lavorare alla Teti, ha provato a sensibilizzare i colleghi sulle ingiustizie sociali cui sono sottoposti. Con scarso successo, però. Nel frattempo si è sposato con Linda Bessolo e la coppia ha avuto una figlia, Anna Maria. Trasferitosi a Lucca ha finalmente conosciute persone che la pensano come lui e dopo l’armistizio la prospettiva di fare qualcosa contro i tedeschi che hanno occupato la città e contro la neonata Repubblica Sociale Italiana lo ha spinto a un iperattivismo antifascista.

C’è da trafugare armi e nasconderle? Nessun problema, Bartolozzi le sottrae al picchetto armato della Teti e le nasconde nella sede di via Santa Croce.

C’è da aiutare ebrei a fuggire dalla città o ufficiali inglesi evasi dai campi di prigionia? Bartolozzi li traveste da operai della Teti, li carica sul furgone e li porta fuori città.

C’è da andare a prendere una macchina tipografica dalle parti di Firenze? Bartolozzi, ancora una volta sfruttando il suo impiego, va e procura.

C’è da organizzare squadre armate? Ecco, questo avviene a dicembre 1943, quando Bartolozzi – ormai acquisita tutta la fiducia dal CLN comunale – viene incaricato di tale missione. La prima squadra è quella di via dei Borghi, poi nei primi mesi del 1944 se ne costituiscono altre, in centro storico e in alcuni quartieri di periferia. Il riferimento è sempre lui, che cerca anche di stabilire contatti con formazioni operanti nel resto della provincia, in particolare con il Gruppo Valanga stanziato sulle Apuane.

E arriviamo così agli eventi del 29 giugno. Due settimane prima è venuto a Lucca Alessandro Pavolini e ha preannunciato la trasformazione del PFR in partito armato con la nascita delle Brigate nere. La prima di queste formazioni si costituirà proprio a Lucca e prima ancora che venga pubblicato il decreto istitutivo. Proprio quel 29 giugno il giornale del fascismo lucchese, “L’Artiglio”, chiama a raccolta i fascisti affinché ritirino l’equipaggiamento base per iniziare la loro attività nella Brigata nera. Insomma, c’è movimento in città. Ma i partigiani lucchesi, come accennato, non se ne curano: in base ad alcune informazioni fornite da un tenente dei carabinieri sembra che sia possibile disarmare due caserme, quella di Borgo Giannotti e quella di San Concordio. Viene deciso per la prima perché vi sono nascoste più armi automatiche. Il piano prevede che un gruppo si presenti all’ingresso principale e un altro entri da un piccolo portone che dà su una strada laterale: sarà un attacco simultaneo sfruttando il fatto che a quell’ora dovrebbero essere presenti soltanto un piantone e un carabiniere. Per la fuga verranno utilizzati due carretti dei netturbini. Uno dei patrioti, Vannuccio Vanni, non è convinto della segnalazione e va a Borgo Giannotti per capire meglio la situazione: vede una camionetta tedesca ferma sulla strada e riesce ad avvertire i compagni per sospendere l’azione.

Bartolozzi e gli altri sono perciò costretti a tornare alla palazzina Teti per riporre le armi nel nascondiglio. Stanno per uscire quando sentono bussare alla porta. Sono tre militi dell’Ufficio Politico Investigativo della Guardia Nazionale Repubblicana. Il giorno prima hanno arrestato un antifascista, Roberto Diena, e gli hanno trovato un biglietto firmato “Roberto”. Diena non fa nomi, ma è pure lui spezzino trapiantato a Lucca e le autorità fasciste sono risalite a Bartolozzi di cui fino a questo momento hanno ignorato l’attività clandestina. Così vanno alla Teti e quando si vedono di fronte i partigiani chiedono chi di loro è Roberto: la risposta arriva immediata con un paio di gomitate allo stomaco sferrate proprio dal comandante che poi, ancora in tuta da lavoro, scappa in direzione di piazza Bernardini, mentre gli altri che sono con lui fuggono dalla parte opposta, mettendosi in salvo. Infatti, i tre militi decidono di inseguire Bartolozzi e lo raggiungono in una piazzetta poco distante, di fianco al cinema “Littorio”. Inseguitori e fuggitivo combattono, richiamando alcuni avventori di un ristorante che si affaccia proprio sulla piazzetta. Tra di loro c’è un avvocato, Giulio Carignani, che, non sapendo e non capendo il motivo della colluttazione, interviene per placare gli animi:

Giunto all’altezza del ristorante “Passeggiero” vidi in distanza sull’angolo della piazza San Quirico un gruppo di persone che si accapigliava (…) avvicinatomi rapidamente al gruppo per vedere di intervenire e cercare di pacificare gli animi se fosse stato necessario, ebbi subito le spiegazioni di quello strano pugilato, in quanto vidi cadere in terra un oggetto nero, che non era altro che una rivoltella, la quale percuotendo sul selciato lasciò partire un colpo. Io mi precipitai subito sulla rivoltella e l’afferrai prima che quello dei contendenti a cui era sfuggita riuscisse a riprenderla.

C’è un altro avvocato nelle vicinanze che assiste alla scena ed è Mario Frezza, del CLN cittadino:

la colluttazione tra l’avvocato Carignani e lo sconosciuto terminò quasi subito e l’arma rimase in possesso di quest’ultimo il quale avvicinatosi rapidamente al gruppo dei tre sparava quasi a bruciapelo 3 colpi di pistola all’uomo in tuta che veniva mantenuto col viso contro il muro dagli altri due.

I tre aggressori fascisti fuggono, mentre Bartolozzi, pur gravemente ferito, in qualche modo si rialza ed entra nel cinema per rifugiarsi nella cabina di proiezione. Nel frattempo, un ufficiale della GNR, Giuseppe Natale Scacchiotti, che si trova a cena al ristorante “Il Passeggero”, sente i colpi di pistola: esce dal locale e si imbatte in due dei tre militi che gli spiegano quanto è successo. Insieme a loro torna in piazzetta, ma Bartolozzi non c’è più:

voltandomi indietro e non avendo più visto i due militi, per richiamarli e per richiamare l’attenzione eventualmente di altre persone ho sparato mentre mi trovavo proprio all’angolo in prossimità della “Tazza d’oro” tra via dell’Arancio e piazzetta S. Quirico una raffica di sten in aria di circa 7 od 8 colpi e forse anche più.

Gli spari di Scacchiotti inducono diverse persone a uscire dal cinema e qualcuno lo avverte che Bartolozzi si è rifugiato dentro. Prosegue il racconto dell’ufficiale:

Recatomi colà e senza salire nella cabina ho visto il ferito che aveva il volto imbrattato di sangue e ferite nel viso e che versava in gravissime condizioni, tanto che alle mie domande rivoltegli per apprendere l’accaduto rispose: “è finita, è finita!”.

Bartolozzi viene poi portato all’ospedale da un automezzo della Misericordia e lì muore alle 2.45 per «ferita d’arma da fuoco alla regione sacrale sinistra con foro di uscita alla coscia anteriore destra ed una ferita transfossa al terzo inferiore della stessa coscia con foro d’entrata lateralmente e foro d’uscita medialmente in basso». Prima di spirare, interrogato dal vicebrigadiere Ragonese, il capo partigiano dichiara di essere stato aggredito a scopo di rapina e derubato di mille lire.

L’episodio del 29 giugno è un punto di svolta per la resistenza armata a Lucca. Scriverà anni dopo Vannuccio Vanni:

Quel 29 giugno fu un giorno tragico per l’intera nostra organizzazione, anche perché il riconoscimento del Bartolozzi come partigiano da parte delle camicie nere poteva essere frutto solo di un tradimento. E questa consapevolezza impose serie riflessioni a tutti i livelli, dalla compagine direttiva del CLN al Comando militare, al movimento. Furono intensificate le verifiche per accertare che le norme della clandestinità fossero severamente applicate da tutti, per evitare infiltrazioni e provocazioni. Anche tutto l’apparato politico fu richiamato ad essere più preciso nel lavoro, sia durante i contatti con gruppi già organizzati, sia durante il reclutamento. Fu anche controllato che le decisioni prese dal Comando in merito alle armi venissero eseguite solo da uomini fidati.

Il Comitato militare affiderà a Mario Bonacchi l’obiettivo di riorganizzare i vari gruppi in uno solo comandato da lui.

Articolo pubblicato nel giugno 2024.




13 aprile 1944: la pasqua di Vallucciole

Vallucciole

Vallucciole è un piccolo borgo dell’alto Casentino, situato sul versante meridionale del Monte Falterona, appartenente all’attuale comune di Pratovecchio-Stia [1]. L’area intorno alla località, comprendente gli abitati di Molino di Bucchio, Serelli, Monte di Gianni ed alcuni gruppi di case e poderi sparsi nella zona, è tristemente nota per la strage avvenuta il 13 aprile 1944, in cui persero la vita 108 civili, in prevalenza donne, anziani e bambini.

 

Rimasta a lungo isolata e distante dai grandi avvenimenti della storia, la quiete del borgo e delle località limitrofe venne bruscamente interrotta nella primavera del 1944. Il 13 aprile la 2ͣ e la 4ͣ compagnia della Hermann Göring invasero la piccola vallata, saccheggiando le abitazioni, distruggendo le case ed uccidendo i civili che incontrarono durante il loro cammino.

 

La notte del 13 aprile i reparti comandati dal capitano Loeben partirono da Stia in direzione di Molin di Bucchio, arrestandosi dopo pochi chilometri al casale di Giuncheto, dove abbandonarono i mezzi motorizzati per proseguire a piedi. In base alle fonti inglesi il contingente, composto da circa ottocento uomini, venne diviso in tre gruppi, due agirono indipendentemente, compiendo un accerchiamento della vallata, mentre uno più esiguo, posto nelle retrovie, svolse funzione di controllo, impedendo l’accesso e la fuga dall’area.

 

Le formazioni che operarono la manovra a tenaglia occuparono, perquisirono e distrussero tutti i centri abitati che incontrarono nel corso dell’avanzata. Durante il loro passaggio i soldati della Hermann Göring uccisero tutte le donne, gli anziani e i bambini che individuarono lungo il tragitto, mentre utilizzarono gli uomini adulti per il trasporto delle casse di munizioni e degli oggetti prelevati dalle abitazioni. Una volta terminata la distruzione e la perquisizione delle case, le colonne proseguirono il loro cammino in direzione del Falterona, alla ricerca delle formazioni partigiane segnalate dalle autorità fasciste locali. Conclusasi quest’ultima fase dell’operazione, la colonna tornò a valle, dove vennero infine uccisi gli uomini che erano stati utilizzati per il trasporto delle munizioni e degli oggetti frutto della precedente razzia [2].

 

Dalle prime ore del 13 aprile 1944 tutti i paesi e i poderi sparsi nella vallata vennero colpiti uno dopo l’altro dall’avanzata tedesca: la popolazione di Vallucciole, Monte di Gianni, Molin di Bucchio, Serelli e i casali di Giuncheto e Moiano vennero inesorabilmente colpiti dall’azione. Dovunque si ripetè la medesima scena, i soldati facevano irruzione nelle abitazioni, prelevavano gli uomini abili al trasporto delle casse di munizioni e degli oggetti depredati dalle case, mentre donne, bambini ed anziani venivano immediatamente uccisi sul posto.

 

Il sopravvissuto Giovanni Bardi ricorda in questo modo quell’orribile esperienza: Così camminammo per delle ore. Ad ogni casa ci fermavamo e dappertutto la stessa storia. I tedeschi entravano: gli uomini venivano buttati fuori e caricati con le cassette: la nostra fila si allungava. Nelle case le donne e i bambini venivano ammazzati subito. E le bestie, anche, nelle stalle. E poi davano fuoco. Cambiavano soltanto il modo; qui con la benzina, in un’altra casa con le bombe incendiarie, e massacravano con le bombe, coi fucili, coi mitra, con le mazze, coi coltelli. Avevano arsenali di armi e le adoperavano [3].

 

La scena si ripeté in tutti i caseggiati attraversati dall’avanzata tedesca. Dopo aver distrutto e seminato il panico in un abitato la colonna proseguiva il suo cammino alla ricerca delle abitazioni successive. Durante l’ascesa del Falterona coloro che non riuscivano a trasportare i materiali venivano uccisi lungo il tragitto. Il trentasettenne Severino Seri, incapace di poter seguire la colonna a causa della sua cecità venne ucciso a Vallucciole, mentre Pietro Vadi e Angiolo Marchi, il primo sessantasei anni e il secondo settantotto, vennero eliminati lungo il percorso per non esser riusciti a trasportare i materiali [4].

 

Nel corso della giornata non mancarono le violenze sessuali ai danni delle donne, testimoniate in particolar modo nel caseggiato di Moiano di Sopra, dove vennero abusate prima di essere barbaramente uccise.

 

La furia nazista non risparmiò nessuno e non si fermò nemmeno di fronte alla presenza dei più piccoli. Nel corso dell’avanzata vennero uccisi bambini appartenenti a tutte le età: undici furono le vittime con meno di dieci anni. A Vallucciole avvenne probabilmente l’episodio più macabro, l’uccisione di Angiola Vadi Gambineri e del figlio Viviano, partorito pochi mesi prima [5].

 

Il piccolo Vivivano foto scattata da Prasildo Giachi il 15 aprile 1945

 

In questo caso, come per ampia parte della strage, non disponiamo di testimonianze dirette, poiché pochissimi furono coloro che riuscirono a salvarsi quel giorno. Le poche informazioni di cui disponiamo provengono dalle notizie fornite dai pochi sopravvissuti, da coloro che per primi si recarono a prestare soccorso nei paesi colpiti dal rastrellamento e dall’indagine condotta nel 1945 dagli alleati.

 

Dopo aver seminato il panico per la vallata, la colonna continuò l’ascesa del Monte, alla ricerca dei partigiani segnalati dalle autorità fasciste. Quest’ultima fase dell’operazione fu un insuccesso e non portò all’individuazione di nessun gruppo partigiano. La colonna di trasportatori percorse dunque a ritroso il sentiero precedentemente compiuto, passando per Monte di Gianni e Vallucciole, fino ad arrivare a valle. A Molin di Bucchio venne intimato a quattro uomini di posare l’attrezzatura e di tornare alle loro case, ma avviatosi verso le loro abitazioni vennero raggiunti dagli spari dei soldati tedeschi. La medesima scena si ripeté pochi istanti dopo al casale di Giuncheto, con la morte di dodici uomini, colpiti alle spalle dalle raffiche di mitra.

 

Il sopravvissuto Santi Trenti ricorda così quel momento: Dal Monte Falterona fummo invitati a tornare a Giuncheto, frazione che rimane nella parrocchia di S. Maria sotto Vallucciole (…) Scaricata tutta la roba a Giuncheto fummo inviati a ritornare alle nostre case, ma appena fummo partiti venimmo presi a fucilate dai tedeschi [6].

 

Ancora oggi ad oltre ottant’anni di distanza dal terribile evento, storici e comunità locali non sono concordi nell’individuare la causa che scatenò il massacro. A lungo è prevalsa la versione che attribuisce la responsabilità della strage all’uccisione a Molin di Bucchio di due soldati tedeschi da parte dei partigiani della Faliero Pucci, avvenuta l’11 aprile, appena due giorni prima della strage di Vallucciole [7].

 

Negli ultimi anni gli studiosi hanno ridimensionato tale interpretazione, collocando la strage all’interno di una grande operazione di rastrellamento promossa dai comandi nazisti. Le ricerche e i risultati emersi dai processi hanno avvalorato tale versione, confermando che l’incursione a Vallucciole non rappresentava una rappresaglia per l’uccisione dei due nazisti, ma era parte di un’azione organizzata precedentemente, volta a bonificare il territorio appenninico compreso tra la statale 71 del Passo dei Mandrioli e la statle 67 del Passo del Muraglione.

 

Allo stesso tempo questa versione non pare sufficiente a giustificare il livello di violenza raggiunto nella valle casentinese. Rispetto ai rastrellamenti compiuto lo stesso giorno nelle vicine località di Partina e Moscaio, a Vallucciole si assistette all’eliminazione di un’intera comunità, con l’uccisione indiscriminata di donne, anziani e bambini.

 

Un elemento che in parte spiega il livello di violenza raggiunto nella piccola vallata risiede nei reparti che furono protagonisti della strage. L’operazione venne affidata alla 2ͣ e alla 4ͣ compagnia della Hermann Göring, reparti ai quali appartenevano i due soldati tedeschi precedentemente uccisi a Molin di Bucchio. Inoltre la Hermann Göring era una divisione profondamente politicizzata, costituita da volontari particolarmente zelanti e da convinti sostenitori del nazionalsocialismo.

 

Nel quadro della presenza tedesca in Italia la strage di Vallucciole si inserisce in una fase di progressiva radicalizzazione della politica d’occupazione. In seguito all’attentato di via Rasella, avvenuto a Roma il 23 marzo 1944, i vertici militari giunsero a ritenere la penisola un territorio di difficile gestione ed invitarono i reparti ad agire in modo risoluto e a rispondere in modo deciso a qualsiasi attacco proveniente dall’esterno. Dalla primavera del 1944 si assiste dunque ad un generale inasprimento dell’occupazione tedesca in Italia e alla progressiva tendenza ad equiparare i civili ai membri della resistenza.

 

Vallucciole e la vallata circostante si inseriscono in questo triste fenomeno, rappresentando nella primavera del 1944 il primo caso di strage indiscriminata condotta dalle forze occupanti ai danni dei civili in Toscana.

 

Nel secondo dopoguerra la prima cerimonia pubblica in ricordo delle vittime della strage si tenne nel 1954. In quell’occasione venne inaugurato presso la chiesa dei Santi Primo e Feliciano di Vallucciole un ossario, accompagnato da una lapide recante i nomi dei 108 caduti [8].

 

L’ossario e la lapide con i nomi delle 108 vittime della strage.

 

Nel 1979 è stato creato il primo monumento dedicato alle vittime della strage, realizzato dagli allievi della Scuola del Ferro Battuto. Collocato inizialmente in piazza Pertini, nel 2006 venne spostato nel vialetto che conduce al vecchio cimitero di Stia, dove attualmente si trova e dove è anche presente una lapide con i nomi di coloro che morirono il 13 aprile 1944 [9].

 

Monumento ai Martiri di Vallucciole.

 

 

Note:

[1] Dal 1° gennaio 2014 i centri di Stia e Pratovecchio si sono fusi, dando vita ad un’unica amministrazione.

[2] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944. Storia, ricordo e memoria pubblica di una strage nazifascista, Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2017, p. 107.

[3] Citato in G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 78.

[4] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944, cit., pp. 114-117.

[5] I primi soccorritori testimoniarono che sul corpo del piccolo Viviano erano presenti numerosi segni di violenza.

[6] Citato in G. Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 77.

[7] Tesi sostenuta in P. Paoletti, Vallucciole: una strage dimenticata. La vendetta nazista e il silenzio sugli errori garibaldini nel primo eccidio indiscriminato in Toscana, Le Lettere, Firenze 2009.

[8] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944, cit., pp. 180-181.

[9] https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-ai-martiri-di-vallucciole-stia/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno 2024.




8 giugno 1944: l’eccidio della Pievecchia che scosse Pontassieve

L’8 giugno 1944, in località Pievecchia, piccola frazione del Comune di Pontassieve, (del plebato di San Lorenzo e San Giovanni a Montefiesole), in occasione della festa del Corpus Domini, scoppiò il caos.

Pievecchia dall’alto

Un gruppo di circa cinquanta partigiani di Monte Giovi, infatti, poche ore prima aveva assaltato una delle caserme della Guardia Nazionale repubblichina di Pontassieve, allora in una villa in via Palagi, per reperire armi e munizioni [1]. Forse, con l’aiuto degli stessi carabinieri, i partigiani riuscirono a prendere il bottino sperato, che venne caricato su due carri trainati dai buoi diretti verso poggio Bardellone, in direzione di Monte Giovi [2].

Occorre, però, ricordare che nella caserma assaltata erano presenti anche militanti fascisti, due dei quali vennero portati via dai partigiani. Gli altri, rimasti indenni, accorsero subito ad avvisare dell’accaduto i nazisti, allora di stanza a San Francesco.

Di ritorno da questa azione, un gruppetto di partigiani, distaccatisi dagli altri, si fermò imprudentemente a Pievecchia, dove erano confluiti nei mesi molti sfollati, benché le dinamiche non siano tuttora chiare.

Pontassieve, snodo ferroviario essenziale, era infatti più soggetta ai bombardamenti e molti civili quindi si erano spostati nelle campagne. Ne è un esempio il bar Nannoni, trasferitosi da Pontassieve a Pievecchia, quel giorno luogo dello scontro.

I partigiani, sebbene avessero potuto passare per i boschi, decisero di attraversare un centro abitato, forse per sfida ai soldati occupanti.

Nella locanda del paese, rimasta aperta nonostante la raccomandazione di chiudere da parte degli stessi insorti, dato il loro passaggio muniti di armi, i partigiani trovarono due soldati tedeschi, forse anche grazie all’avvistamento di qualcuno del luogo, e decisero, pare, di ucciderli. I ribelli, infatti, presi dalla foga, avrebbero lanciato una o più bombe a mano nella locanda, colpendo a morte un soldato tedesco e un giovane pontassievese, allora colono a Grignano, Ruggero Morandi, di 20 anni. L’altro soldato tedesco, sopravvissuto allo scontro, riuscì a fuggire e, scappando da una finestra, avvisò prontamente la contraerea tedesca dell’accaduto, accampata a circa 4 km dalla Pievecchia.

La risposta fu immediata: poco dopo, la zona della Pievecchia venne prima bombardata, per impedire a chiunque di fuggire, poi invasa dai soldati. Si parla di 40 o 50 uomini arrivati con camionette e camion, quasi sul calar della sera.

Arrivati sul posto, i soldati nazisti spararono alla prima vittima, Furio Montelatici, poi gettato in un pagliaio, che venne incendiato. Vennero bruciati anche altri pagliai, una bettola e una casa. Alcune famiglie si erano, intanto, riparate e nascoste nel sottosuolo della villa Tesei, ma i tedeschi irruppero nelle stanze della stessa e nelle altre abitazioni per rastrellare gli uomini presenti e, dopo aver rilasciato quelli più anziani, sopra i cinquantacinque anni, uscirono per l’esecuzione. Le donne furono radunate davanti alla Villa, inermi.

I partigiani dovettero, invece, a causa dei bombardamenti e della rapida risposta tedesca, abbandonare le armi e le munizioni, che furono prontamente prese dai nazisti.

I tedeschi decisero di fucilare gli uomini in fila rivolti verso il muro della fattoria. Due dei condannati però, stando alle testimonianze, riuscirono a fuggire. Libero Rigacci si girò di scatto e strappò il fucile dalle mani del soldato tedesco, riuscendo a fuggire nel campo di grano. Il soldato sparò contro di lui mentre correva nel campo e, complici il sopraggiungere della sera e l’essere inciampato, fu creduto colpito e morto. Anche Faustino Volpi scappò nel buio [3].

Gli altri furono perciò fucilati assieme, al muro, subito dopo, dove ancora oggi sono presenti i segni dei proiettili, onde evitare che si ribellassero[4]. Quattordici le vittime di quel giorno: Ruggero Morandi, ucciso durante lo scontro a fuoco tra partigiani e soldati tedeschi, e le tredici persone inermi fucilate per rappresaglia. Erano uomini dai 17 ai 47 anni, quelli che persero la vita quel giorno di giugno, 7 di Pievecchia e 6 sfollati. Altri, circa 20, vennero invece portati via. Prima furono rinchiusi nel carcere di Firenze, per poi essere impiegati in lavori di carattere militare presso Prato.

Il piccolo borgo fu quindi saccheggiato, così come la fattoria limitrofa e i due spacci cooperativi.

Il Pretore, da Tassinaia, dove era sfollato anch’egli, arrivò sul luogo per la constatazione di legge e per organizzare le sepolture. Nessun’altra autorità locale si fece viva, stando alle testimonianze del tempo. Ma non finì lì: tre corpi straziati rimasero nella strada per ore. Solamente sabato 10 giugno le quattordici salme vennero trasportate al cimitero in attesa della sepoltura, compresa quella di Morandi, che i tedeschi avevano portato via e che il padre Amedeo lottò per riavere. Oramai a Pievecchia non c’era quasi più nessuno. La domenica giunsero due spazzini comunali, con un biglietto del Commissario prefettizio, per seppellire le salme e recar conforto alle famiglie.

Era stata una vera e propria rappresaglia per punire e intimorire la popolazione, per creare panico e far sì che la popolazione non aiutasse e non collaborasse con i partigiani [5][6].

Un comando tedesco si installò a Pievecchia. Don Ferruccio Biffoli, il parroco locale, tentò di mediare con i tedeschi, affinché gli uomini che erano stati portati via potessero tornare a casa, ma invano. Questi però riuscirono a fuggire e a tornare, ma di Ernesto Manzalvi (41 anni, di ignoti), non si sono avute più notizie .

Bisognerà attendere l’11 agosto 1944, data della liberazione di Firenze e, nel caso di Pontassieve, il 21 agosto 1944, per cominciare a ricostruire la memoria della Pievecchia, oggi incisa nel marmo delle lapidi.

Di seguito le vittime della Pievecchia:

Rogai Guido, 46 anni                                                  Masini Dario, 17 anni

Rogai Attilio, 25 anni                                                 Morandi Ruggero, 20 anni

Rogai Aldo, 19 anni                                                    Poggi Guido, 47 anni

Pestelli Ugo, 29 anni                                                   Poggi Paolo, 38 anni

Tacconi Bruno, 17 anni                                               Bulli Giovacchino, 42 anni

Cammelli Guido, 29 anni                                            Pratesi Mario, 31 anni

Montelatici Furio, 29 anni                                          Vitali Alessandro, 36 anni

La memoria di quel triste giorno ci è giunta grazie alla ricostruzione dei fatti scritta dal parroco don Ferruccio Biffoli nel Libro Cronico della Parrocchia, poi ripresa da L’Evangelo della mia Resistenza di don Silvano Bellucci e grazie ai vari testimoni [7].

Le due lapidi e i fori ben visibili nel muro
8 giugno 1945 – la prima
8 giugno 1956

Sul muro della villa ci sono varie targhe, una del primo anniversario (8 giugno 1945), posta in un clima mutato, ma di forte contrapposizione tra l’allora PC e le forze di sinistra contro la DC con la Chiesa [8].

L’anno dopo nascerà la Repubblica in Italia e i pontassievesi, nel territorio, saranno tra i più convinti sostenitori della stessa, nel celebre referendum che, finalmente, vide protagoniste anche le donne.

È solo nel 1947, però, che i 14 martiri trovarono una degna sepoltura: domenica 4 maggio vennero riesumate le salme, benedetti i corpi e, finalmente, sepolti nella cappellina d’uopo presso il cimitero parrocchiale. La popolazione è numerosa alla cerimonia. Non mancarono comunque le polemiche, come quelle di don Biffoli, riguardo il comportamento dei comunisti, numerosi alla commemorazione.  L’8 giugno 1947 verrà poi posta un’altra lapide, a firma del C.L.N [9].

Il 25 aprile 1955 il Comitato cittadino per la celebrazione del decennale della Resistenza consegna ai familiari dei martiri una pergamena in loro memoria e l’anno dopo verrà aggiunta un’ulteriore targa.

Quei tragici fatti hanno portato al conferimento al Gonfalone del Comune di Pontassieve della Medaglia di bronzo al Merito Civile, grazie al decreto del 23 dicembre 2005 dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sancito ufficialmente durante la cerimonia presieduta nel dicembre 2006 dall’on. Ministro Vannino Chiti.

Il Comune ha, inoltre, istituzionalizzato tale giorno e, ogni anno, bambini, giovani e adulti partecipano alla commemorazione di quel triste evento.

È bene ricordare il restauro del muro, inaugurato nel giugno 2008, che ha riportato alla luce l’originario intonaco e i fori dei proiettili, oggi visibili a tutti.

Per il sessantesimo della Liberazione, è stata coniata una medaglia da Cesare Alidori (2004), per i familiari delle vittime. In tale occasione è stata presentata la ballata popolare “Quand’ecco un grido spalancar le stelle”, scritta da Leoncarlo Settimelli, riprodotta in un CD, con testi e musiche che ripercorrono i fatti del 1944 [10].

Sempre con ricorrenza annuale, viene celebrato il raduno dei partigiani e dei giovani a Monte Giovi, un’ulteriore occasione di ricordo e di memoria.

Roberto Smorti, Eccidio alla Pievecchia (Olio su tela, 2007)

 

Note:

  1. Fusi, Francesco, Comunità in guerra: Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, p. 325
  2. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008, pp. 37- 38
  3. Verbale interrogatorio Raffaello Tacconi, vedi Biagioni M., op. cit., pp. 72-77
  4. Biagioni M., op. cit., p.54
  5. Cfr., AA.VV., Il nonno racconta…Memorie della guerra e della resistenza,  Pontassieve, 1999
  6. Cfr., Fusi F., op. cit., pp. 322 e 326-328
  7. Casalini Giovanni, La strage della Pievecchia a Pontassieve, in Del Buffa, Roberto (a cura di), Cronache di guerra fra Arno e Sieve (1943-1944), Pagnini, Milano, 2011, p. 67-68
  8. Biagioni M., op. cit., pp. 87-90
  9. Ivi, pp. 93-119
  10. Ivi, pp. 129-139

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno del 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Come affermato in precedenza, Giovanni Martelli viene arrestato a Livorno l’11 giugno 1932, ha solo diciannove anni e definisce negli anni quell’evento come «un duro colpo».[1] Allo stesso modo, il 1932 rappresenta un anno difficile per la riorganizzazione della Federazione comunista livornese, in quanto molti militanti adulti e di spicco vengono arrestati.

Dapprima, Martelli viene fermato e perquisito da un poliziotto dell’OVRA, successivamente gli viene trovato un biglietto che testimonia la sua attività nell’organizzazione del Soccorso rosso.[2] Viene interrogato alla Questura Centrale dal Commissario dell’OVRA Parlagreco, il quale deduce che non solo egli militava nel PCd’I, ma che addirittura apparteneva alla Federazione insieme ad altri esponenti che erano già stati arrestati nei giorni precedenti. Martelli è costretto a riconoscere ed a identificare gli altri compagni di partito, come Leonardo Leonardi, Roberto Vivaldi e Giovanni Tardini. Martelli affermò che non conosceva nessuno, se non qualche individuo adulto dell’organizzazione comunista. Resistere però non è sempre facile e si può comprendere dalle parole usate nell’Autobiografia, in cui egli stesso racconta:

«[…] Pur insistendo a negare […], essi mi fecero uscire e dopo poco fui di nuovo chiamato e così mi trovai di fronte al Vivaldi, il quale – disgraziato – era in uno stato da fare pietà.

Mi domandarono: lo conosci?

No, risposi, non l’ho mai visto.

Essi allora si rivolsero al Vivaldi il quale mi disse: è inutile Martellino, non negare, sanno tutto, essi sanno e conoscono tutto del nostro movimento e quindi non vale la pena insistere, del resto hanno confessato tutti.

Per la verità rimasi molto colpito, non riuscivo a comprendere come esso avesse capitolato così; tuttavia, continuai a negare […]»[3]

Successivamente, viene sottoposto a una perizia calligrafica per vedere se davvero fosse stato lui l’autore del biglietto sul Soccorso rosso. Il biglietto conteneva un prestito in denaro da fare ad alcuni esponenti del Partito ed era stato realizzato da un altro militante, Iedo Tampucci. Martelli non rivelerà mai il nome dell’autore e il contenuto del biglietto.

Durante l’interrogatorio scopre che la denuncia era stata avanzata dal dirigente della Federazione, Roberto Vivaldi. Vivaldi era stato costretto a denunciare proprio perché, come si legge nell’Autobiografia, l’OVRA aveva scoperto l’organizzazione comunista. Effettivamente, molte cose erano cambiate all’interno della Federazione durante l’arresto di questi esponenti: l’organizzazione sembrava essersi sfasciata e sembrava aver smarrito le linee guida necessarie per ricostituirla. L’unica speranza era quella di riedificare il movimento con una nuova linfa, ma i militanti rimasti si rifiutavano di prendere parte a questo processo in quanto temevano l’intervento della polizia fascista.

Nel luglio 1932 Martelli viene mandato in prigione presso il carcere S. Leopoldo e denunciato al Tribunale speciale con l’imputazione prevista dall’articolo 270 del Codice Penale. Viene poi trasferito al carcere dei Domenicani e liberato nell’ottobre dello stesso anno in occasione dell’amnistia per il decennale dalla Marcia su Roma. Quell’arresto fu uno dei più grandi realizzati dall’OVRA, non solo per il numero di arrestati, ma anche perché raggiunse i compagni che stavano espatriando. Con la scarcerazione poco sarebbe cambiato nella vita di Martelli, perché sa che la condizione di vita in clandestinità e la lotta al fascismo sarebbero continuate. Lui stesso racconta:

«[…] La libertà era certo bella per tutti noi tuttavia, quasi spontaneamente, una parte di noi giovani decise di dare continuazione alla propria attività clandestina. Dico una parte perché, sia nel campo giovanile come in quello degli adulti non pochi si ritirarono a vita cosiddetta privata. Non ce ne facemmo motivo di scandalo. Pertanto ci rimettemmo a lavoro […] con una maggiore attenzione […]».[4]

Nel 1933 prende parte alla rifondazione del movimento comunista, un’iniziativa profondamente sostenuta dai giovani livornesi come Renzo Tamberi, Garibaldo Benifei, Otello Frangioni, Marte Corsi, Angiolo Giacomelli. In quel breve periodo, Martelli realizza dei volantini di propaganda e contribuisce alle attività della stampa clandestina.

A nove mesi dalla scarcerazione, il 1° agosto 1933 viene fatto salire su un’automobile in cui lo attendevano tre fascisti. Martelli è tranquillo perché sa che i materiali eversivi del PCd’I sono rimasti a casa sua e viene accompagnato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, un luogo tristemente noto per esser teatro di interrogatori e di torture che i fascisti infliggevano agli oppositori politici. Successivamente, viene bendato e portato in una stanza dove ad attenderlo c’è il tenente Gagliano. Il motivo della cattura è il seguente: Gagliano ha scoperto chi è l’autore dei volantini sovversivi, vuole sapere con chi collabora e dove sono custoditi. Il tenente gli mostra i volantini che effettivamente erano stati realizzati da lui e Tamberi, ma Martelli continua a negare tutto.

Gagliano lo invita a spogliarsi ed esamina le sue mani con una lente di ingrandimento. A quel punto, dei giannizzeri iniziano a picchiare violentemente Martelli soprattutto sulle mani, considerate il vero «corpo del reato».[5] Però, la polizia fascista non si limita a interrogare Martelli e decide di indagare su Tamberi. A seguito di diverse indagini compiute nelle settimane precedenti, la polizia fascista aveva scoperto che Martelli e Tamberi collaboravano insieme alla realizzazione dei volantini eversivi.

Quando si consultano delle autobiografie, ciò che sorprende sono sia le emozioni che possono produrre anni dopo sullo stesso lettore, che i minimi dettagli che vengono raccontati. L’Autobiografia di Martelli è un vero e proprio racconto dettagliato di tutte le vicende e le torture subite durante il Ventennio fascista, ma forse non è la minuziosità del racconto a sorprendere un qualsiasi lettore, quanto il pathos che trasmette quando narra le torture subite dagli amici e dai compagni di Partito, i giorni in carcere, la difficoltà a comunicare e a mantenersi in contatto con loro. Durante quell’interrogatorio, Martelli non vedrà mai arrivare Tamberi e crede che l’amico possa aver fatto dei nomi di altri militanti, che possa aver tradito tutti e che sia ceduto davanti alle violenze fasciste. In realtà, Tamberi non verrà interrogato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, ma direttamente a casa sua.

Martelli non sa che fare, continua a dire che non era a conoscenza di niente, ma a che scopo? Col passare delle ore e con l’aumento delle percosse subite ha anche egli paura di non farcela, di non saper resistere e di non sapere per quanto potrà mentire. La coercizione fascista era in grado di permeare la psiche di molti giovani e antifascisti che erano stati catturati. Martelli vede l’interrogatorio come una sfida in cui non vuole cedere, anche perché non ha un’altra scelta: deve resistere alla violenza per tutelare non solo l’organizzazione, ma anche i suoi compagni di Partito.

Il militante livornese seppe resistere a quelle brutalità, ma non per questo va raffigurato (e non avrebbe mai voluto definirsi) come “eroe”, piuttosto seppe assolvere le mansioni perché credeva fervidamente a un sistema valoriale basato su libertà e resilienza, così come altri compagni di Partito che cedettero alle violenze. Il raccontare determinati dettagli sulle attività o sulle organizzazioni considerate come eversive, non era sinonimo di “codardia”: non era facile resistere alle violenze e alle percosse che i fascisti infliggevano alle persone col fine di estorcere con mezzi disumani la verità.

L’interrogatorio durò sette ore e l’arrestato venne ripetutamente percosso dal maresciallo Niccoletti, verrà interrogato alla Questura di San Leopoldo e lì vi rimarrà in prigione per diverse settimane. A tre giorni dall’arresto alcuni suoi compagni della stessa organizzazione vengono arrestati e scoprirà che la denuncia era partita dal militante Sirio Vincensini. Vincensini aveva confessato da chi aveva avuto il manifesto originale, ovvero da Garibaldo Benifei che a sua volta aveva fatto il nome di altri militanti. Lo stesso Martelli racconta:

«[…] il Vincensini (un altro militante) informò il fascio che tanto io come il Tamberi quella sera eravamo a stampare, però non sapendo il luogo indusse i fascisti ad attendermi. Preso me, essi pensavano di cavarmi di bocca sia il luogo ove eravamo stati a stampare, come il nome Tamberi, questo per salvare il delatore […]».[6]

Insieme agli altri militanti livornesi, egli promise che avrebbe evitato di compromettere la posizione degli altri compagni, altrimenti il processo sarebbe andato avanti all’infinito.

Il 9 dicembre del 1933 Martelli viene condannato a due anni e cinque mesi di reclusione da scontare alla Casa di pena di Civitavecchia. Il periodo di detenzione non è così duro, a detta di Martelli stesso, perché le condizioni igienico-sanitarie in cui viveva erano buone, aveva diritto due ore di aria invece che una, e poteva prendere parte a laboratori di scrittura e di traduzione. Questa esperienza costituisce un punto di svolta nella sua formazione politica nella quale potrà sperimentare delle nuove forme di mobilitazione politica ed attività pratiche che non aveva mai testato a Livorno. All’interno della cella stipula delle relazioni con esponenti di spicco come Giovanni Parodi e Pietro Carsano, i quali gli trasmettono i principi fondamentali del comunismo e lo avviano a un vero e proprio percorso di formazione sul comunismo.[7] A Civitavecchia, Martelli studia dalla mattina alla sera ed è sottoposto a una disciplina ferrea, perché «il Partito pretendeva che i giovani fossero preparati nel migliore dei modi».[8] L’obiettivo prefissato dal PCd’I era quello di insegnare varie discipline concernenti il materialismo storico, l’economia politica, la letteratura.

Il capo della cella era Giovanni Parodi, ma vi erano comunque altre celle separate dove vi erano esponenti illustri del Partito. Tra una cella e l’altra avvenivano degli scambi di informazioni grazie alla complicità di alcune guardie carcerarie, le quali si rendevano disponibili allo scambio di «farfalle», ovvero biglietti scritti su cui venivano annotati gli argomenti di discussione da trattare nelle ore di aria.[9]

Nel settembre del 1934 viene scarcerato grazie ad un indulto concesso straordinariamente in seguito alla nascita della prima figlia di Re Maggio, il luogotenente dell’epoca della Casa di pena di Civitavecchia. Martelli sa bene che niente sarebbe stato più come prima, perché non vuole più essere il semplice ragazzo che diffonde volantini eversivi ed ha capito che per rovesciare il regime è necessario agire diversamente.

Nel febbraio del 1935 il padre muore e deve far fronte a una difficile situazione economico-finanziaria che travolge tutta la famiglia, tenta più volte di poter far rientro ma senza successo. Dapprima viene mandato al settantacinquesimo di Fanteria di Siracusa, un reggimento di disciplina composto dai criminali più disparati (ladri, stupratori, pochi antifascisti e qualche renitente alla leva) e poi viene assegnato alla scuola di Allievi Ufficiali.[10] In quel breve periodo cerca più volte di tornare a Livorno dai suoi cari, ma senza successo. Nei suoi tentativi di rientrare a casa viene ostacolato perché non aveva completato i corsi premilitari in età adolescenziale che soltanto gli avrebbero permesso di tornare nella città di residenza. Il 5 marzo dello stesso anno viene inserito nel corpo di spedizione in partenza per l’Africa Orientale, per l’Abissinia.  Secondo il figlio, Walter Martelli, la sua esperienza nella Guerra in Africa Orientale non fu completamente negativa per il padre, in quanto non prese parte a delle iniziative militari e riuscì a stabilire delle buone relazioni con gli abitanti del luogo.[11] Martelli ha raccontato ai suoi figli di aver diffuso nei villaggi dei consigli medici e delle nozioni generali per migliorare le condizioni igienico-sanitarie.

Al suo rientro a Livorno, avvenuto nel 1936, molte cose erano cambiate. Alla fine del 1936 venne assunto presso i Cantieri Orlando, un’esperienza positiva che l’autore definì come una «grande conquista».[12] Lo stabilimento racchiudeva la storia del movimento operaio antifascista livornese e, per queste ragioni, riuscì a mettersi nuovamente in contatto con i compagni antifascisti che aveva conosciuto durante la clandestinità. La rete dei rapporti tra i militanti comunisti venne prima stabilita all’interno del cantiere e poi estesa al di fuori, ed era retta proprio dallo stesso Martelli.

A livello nazionale, il PCd’I abbandonò il precedente carattere settario che negli anni precedenti aveva portato il movimento ad isolarsi rispetto alle iniziative di altri partiti antifascisti. Tra il 1934 e il 1938 venne creato un Fronte popolare, in cui erano riunite tutte le forze politiche in aperta opposizione al regime. Questa fu anche la fase in cui i due partiti operai – il Partito Socialista e il Partito Comunista – ripristinarono delle forme di dialogo e di collaborazione dopo anni di scissione, culminate con la stesura di un patto di unità di azione nel 1934.

A livello locale, la Federazione livornese si ricostituì con esponenti di spicco e di varia provenienza come militanti storici, intellettuali, teorici, professori, figure pubbliche e notorie della comunità labronica. Un lieve passo avanti che venne messo di nuovo a dura prova da un’ondata di arresti senza precedenti.[13] Grazie alla rete di relazioni che Martelli aveva edificato ai Cantieri Orlando col militante comunista Mario Galli, l’organizzazione potè stabilire delle relazioni con intellettuali del calibro di Vittorio Marchi, Antonio Maccaroni, Aldo Balducci, Giorgio Stoppa. Le riunioni del nuovo partito si tenevano presso la casa dell’intellettuale Umberto Comi ed affrontavano temi svariati, come il rapporto tra il fascismo e la guerra, la Germania nazista, l’utilizzo della cultura e degli ideali comunisti come unica soluzione davanti alla violenza.[14] Mentre, Martelli e altri esponenti di partito che avevano vissuto direttamente sulla loro pelle la condizione proletaria, si facevano portavoce di altre tematiche, come i problemi della fabbrica e dello sfruttamento dei lavoratori.

Martelli non condivideva la nuova struttura della Federazione perché «nonostante i nuovi componenti si dichiarassero comunisti erano ben lungi dall’esserlo».[15] Secondo il militante di adozione livornese, gli ideali che quest’ultimi condividevano erano ideali social-liberali e poco affini ai principi marxisti-leninisti. Inoltre, a suo giudizio, esisteva una profonda differenza tra chi studiava il marxismo dalla cattedra e chi conosceva il marxismo perché apparteneva alla classe operaia.

Nel 1939 non gli viene riconosciuto più l’esonero dalla leva, riconosciutogli nel 1935 in quanto orfano di padre e unico capofamiglia, ed è per questo motivo che lascia il suo impiego ai Cantieri Orlando. L’ingegnere Bechi, all’epoca direttore dei Cantieri Orlando, si oppone al suo trasferimento inviando una lettera alla Questura di Livorno, ma senza successo. Inizia quindi a lavorare per un’azienda che produceva bombe a mano a Fiume, nota come Motofides. Durante quel periodo lavora alla realizzazione dell’Incrociatore San Giorgio, prende parte ad azioni di insubordinazione dalla catena di montaggio e viene licenziato nel 1942, perché considerato politicamente pericoloso.

Nel 1943 viene mandato a Torino alla Caserma Marmora ma, in seguito ai bombardamenti, viene mandato a Massa Marittima, una città in provincia di Grosseto. In quel piccolo centro rafforza il proprio legame con altri militanti comunisti locali e lì vi rimane fino alla ratificazione dell’Armistizio di Cassibile. Grazie all’aiuto di un militante locale, riesce a scappare dalla città grossetana e a raggiungere la famiglia sfollata ai Bagni di Casciana, dove si trovava anche sua moglie insieme alla sua famiglia. Si unisce alle formazioni partigiane locali nate dopo l’8 settembre e fa parte del Partito del Comitato militare ed ha come compito quello di organizzare i vari nuclei di partigiani della zona prima dell’arrivo del fronte di liberazione.[16]

NOTE

[1] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[2] Il Soccorso rosso, noto anche come “Soccorso rosso internazionale per i combattenti della rivoluzione” in sigla MOPR, è stata un’organizzazione internazionale legata all’Internazionale Comunista con il compito di fornire supporto ai prigionieri comunisti e alle loro famiglie. Il Soccorso rosso è rimasto attivo tra gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale e condusse campagne di solidarietà sociale, di supporto materiale e umanitario, a sostegno dei prigionieri comunisti.

[3] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[4] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso. Livorno 1935: processo ai comunisti. Livorno: Media Print, 2020, p. 346.

[5] Come compare sul dizionario Treccani, originariamente il giannizzero era un soldato di un corpo scelto di truppe a piedi dell’impero Ottomano, spesso adibito alla guardia del corpo del sultano. Nel periodo fascista si indicavano invece tutte quelle persone al servizio di qualche personaggio illustre della milizia fascista. Ma lo stesso termine può anche esser usato in senso dispregiativo per indicare uno scagnozzo o tirapiedi, forse questo è il significato a cui fa riferimento Martelli nella sua Autobiografia. La citazione compare in: Martelli G., Autobiografia, cit., p. 4.

[6] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 6.

[7] Giovanni Parodi (1889-1962) nasce in una famiglia operaia e diventa ben presto militante del PCd’I, viene arrestato nel 1927 dal Tribunale Speciale Fascista e gode dell’amnistia nel 1937. Fugge in Francia nel 1940 e viene arrestato l’anno successivo. Fortunatamente riesce ad evadere e a continuare il lavoro politico clandestino, nel dopoguerra fu membro del Comitato centrale del Partito Comunista Italiano e Segretario generale della Federazione Italiana Operai Metallurgici (in sigla, FIOM).

Giovanni Carsano (1891-1965): inizialmente operaio torinese, aderisce al PCd’I e partecipa al biennio rosso. Come Parodi viene arrestato nel 1927 e rilasciato dopo dieci anni, viene mandato al confino nel 1943 dove rimane fino alla liberazione. Dopo la guerra lavora presso i sindacati dei pensionati e presso l’Unione internazionale dei sindacati dell’Alimentazione.

[8] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 349.

[9] Ibidem.

[10] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[11] Intervista dell’autrice a Walter Martelli, svoltasi il 2 aprile 2024 presso l’abitazione di quest’ultimo a Livorno.

[12] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[13] Tra gli esponenti di spicco vengono arrestati Garibaldo Benifei e Aramis Guelfi.

Aramis Guelfi (1905-1977): inizialmente maestro d’ascia, viene condannato nel 1939 dal Tribunale speciale a scontare quattro anni di reclusione. Viene liberato anch’egli con l’Armistizio dell’8 settembre, ma continua a combattere nella zona di Volterra. Diventa esponente di spicco del Partito Comunista livornese, per poi aderire nel 1963 al Partito Socialista Democratico.

[14] Umberto Comi era vicedirettore del giornale fascista “Sentinella Fascista” e spesso scriveva articoli non proprio conformi all’ideologia fascista, ma erano spesso difficili da decifrare nei loro contenuti e, proprio per la sua adesione al Partito, si crearono delle divisioni all’interno del movimento.

[15] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 9.

[16] L’area sottoposta al controllo di Giovanni Martelli è relativamente grande e comprendeva molte piccole città della provincia di Pisa, come: Lari, Cascina, Crespina, Terricciola, Chianni, Peccioli.

Articolo pubblicato nel maggio 2024.