Sempre per non dimenticare

Il nostro percorso storico, per mantenere viva la memoria, attraverso i luoghi che sono stati teatro della lotta per la Liberazione nella provincia aretina, iniziato con la città di Arezzo e proseguito via via con Molin dei Falchi, Pietramala, San Polo, Badicroce, Palazzo del Pero, Staggiano, Mulinaccio e Chiassa Superiore per giungere alla Valtiberina a Monterchi, Anghiari, Caprese Michelangelo e Badia Tedalda, si conclude, sempre in Valtiberina, con i comuni di Sansepolcro, Pieve Santo Stefano e Sestino, con gli ultimi due completamente rasi al suolo com’erano soliti fare i nazisti durante la loro ritirata verso nord, incalzati dall’avanzata degli Alleati, che costituiscono l’ennesima prova, se ce n’era ancora bisogno, dell’efferatezza e disumana azione messa in atto dai nazisti nelle vallate aretine. Vuoi per ostacolare l’arrivo delle truppe angloamericane, vuoi per vendicarsi di un paese ritenuto traditore, vuoi per la frustrazione che sentivano nel ritirarsi davanti al nemico o per ritorsione nei confronti della popolazione che appoggiava ed alimentava la Resistenza, i tedeschi quando si ritiravano facevano “terra bruciata” dei luoghi che si lasciavano dietro e spesso non solo dei luoghi ma anche di vite umane con stragi ed eccidi perpetrati senza alcuna pietà. E tutto ciò non era frutto di un’improvvisazione casuale, ma calcolato scientificamente dalle autorità germaniche: il famoso befehl di Kesserling del 17 giugno 1944 incitava le milizie tedesche ad uccidere senza ritegno e a mettere a ferro e fuoco tutti i paesi e le città che venivano lasciate alle spalle durante la ritirata.

 

Quest’ultimo itinerario che prende le mosse da Sansepolcro fino a giungere a Sestino percorre parte della Valtiberina toscana, una zona al confine con l’Umbria, le Marche e la Romagna, regioni con caratteristiche diverse che ne hanno influenzato la storia, la cultura ed il paesaggio, lasciando segni ancora tangibili. È un territorio a cavallo tra Tirreno e Adriatico, difficile da raccontare in poche parole poiché non è solo la valle dove è nato il Tevere, che ha designato per millenni la fertile pianura, ma è anche montagna, anzi possiamo dire che sia molto più montagna che pianura. Una specie di “terra di mezzo” ricca di contrasti e di diversità, di storia e di segni di una cultura rurale che in molte parti d’Italia è ormai scomparsa. Un territorio che in larga parte durante la seconda guerra mondiale è stato attraversato dalla Linea Gotica, quel fronte di fortificazioni che tagliava in due lo stivale, e che insieme a tutta la provincia aretina è stato in prima fila nella lotta di liberazione nazionale dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista.

 

SANSEPOLCRO

Iniziamo il percorso da Sansepolcro, paese più grande della Valtiberina, che si trova lungo la Superstrada E45, collegamento tra la Romagna e l’Umbria. È velocemente raggiungibile anche da Anghiari, solo 8 chilometri di strada completamente dritta. Si trova a 34 chilometri dalla città di Arezzo ed è situato ai piedi dell’Alpe della Luna.

Il Paese ha dato i natali al pittore rinascimentale Piero della Francesca, nato intorno al 1416. Fra le opere che Sansepolcro ha ricevuto in eredità dal pittore, la Resurrezione è diventata lo stemma della città: un affresco realizzato nel 1460 circa che si trova all’interno del museo civico, a due passi dal Duomo e dal Palazzo Comunale. Ed è grazie a la Resurrezione se furono evitati i bombardamenti e la conseguente distruzione della città nell’estate del ’44 per l’intervento di un uomo innamorato dell’arte.

In Valtiberina sono in molti a conoscere la storia del capitano Antony Clarke, un giovane ufficiale inglese comandante di una batteria di artiglieria dislocata sulle colline a sud di Sansepolcro, che salvò la città dai bombardamenti. Egli, secondo la ricostruzione storica, disobbedì all’ordine di aprire il fuoco sulla città pierfrancescana perché si ricordò della lettura fatta in gioventù del saggio di Aldous Huxley nel quale narrava di un viaggio da Arezzo a Sansepolcro che meritava di essere fatto perché lì in quel paese vi era la Resurrezione di Piero della Francesca, che Huxley descriveva come “la più bella pittura del mondo”. E Clarke pur di non distruggere l’opera disobbedì agli ordini e grazie a questo gesto la città fu salvata dal cannoneggiamento alleato, proprio mentre i partigiani locali riuscirono autonomamente a respingere i tedeschi e prendere il controllo del suo centro storico[1].

Clarke in occasione del ventesimo Anniversario della Liberazione della città fu invitato a Sansepolcro dove fu accolto con grandi festeggiamenti. Ma sedici anni dopo a seguito di una lunga malattia il salvatore della Resurrezione morì e l’anno seguente, nel 1982, la Giunta comunale di Sansepolcro gli intitolò una strada.

 

Sansepolcro dopo l’8 settembre fino al giorno della Liberazione:

Dopo l’8 settembre Sansepolcro visse il dramma dell’occupazione tedesca con i conseguenti rastrellamenti e sfollamenti[2], inoltre la città venne invasa da sbandati di ogni sorta ai quali si unirono i circa 5.000 internati slavi evasi dal Campo di Renicci nella vicina cittadina di Anghiari, molti dei quali si dettero alla macchia per sfuggire dai rastrellamenti tedeschi e molti si arruolarono nelle file della Resistenza.

A Sansepolcro il 19 marzo del ‘44 in seguito all’aggressione di un fascista, con un’improvvisa ordinanza prefettizia, venne decretato il coprifuoco su tutto il territorio comunale con inizio alle ore sei del pomeriggio. Era un giorno di festa, l’ordinanza venne affissa in ritardo e i cittadini per protesta contro l’ennesimo ingiustificato sopruso si riunirono in piazza Berta per protestare, mentre un nucleo corposo di partigiani, per lo più appartenenti alla banda di Eduino Francini[3], avuta notizia, discesero dall’Alpe della Luna e riuscirono ad infiltrarsi in città nella tarda serata. I partigiani approfittarono dell’occasione per effettuare un’azione dimostrativa: assalirono la caserma dei carabinieri, occuparono il telefono pubblico e si appropriarono di un autobus scorrazzando per la città, ma successivamente con l’intervento delle autorità fasciste, che avevano ottenuto i rinforzi da Città di Castello, i partigiani furono costretti a ritirarsi[4].

Gli eventi del 19 marzo – come scrive lo storico Alvaro Tacchini – «suscitarono vasto eco, soprattutto per il significato politico della spontanea protesta di massa contro il regime fascista»[5], e ancora oggi, ogni 19 marzo, la popolazione di Sansepolcro ricorda ciò che successe ottant’anni fa.

 

Monumento che ricorda l’insurrezione del 19 marzo inaugurato nel 2014 nella strada intitolata a tale data.

 

Dopo la giornata del 19 marzo le formazioni partigiane che operavano sul territorio si divisero in tre gruppi: Eduino Francini si mosse verso l’Umbria insieme ai suoi compagni e ad altri ragazzi che si unirono a loro presso la zona di Molin Nuovo, costituendo un gruppo di 18 partigiani; altri tornarono sull’Alpe della Luna, mentre un gruppo si spostò sull’Alpe di Catenaia. Il gruppo di Francini diretto verso Perugia, lungo il tragitto, sostò a Villa Santinelli. Questi occuparono per qualche giorno, con uno stratagemma, la villa qualificandosi inizialmente come militi della Guardia Nazionale Repubblicana e solo dopo, una volta entrati, dichiararono di essere partigiani che avevano bisogno di riposare e di rifocillarsi per qualche giorno. In pratica presero “in ostaggio” l’intera famiglia, ma una volta scoperta la loro presenza, furono assediati e costretti alla resa dalle truppe fasciste coadiuvate da un reparto corazzato tedesco. Dopo un eroico scontro durato oltre diciotto ore, il 27 marzo 1944, Eduino Francini insieme ad altri otto compagni furono barbaramente trucidati, mentre altri riuscirono a fuggire[6].

Nel cimitero comunale di Sansepolcro è presente un sacrario realizzato dal Comune e dalla locale sezione ANPI per dare onorata sepoltura e per ricordare i partigiani fucilati nei rastrellamenti nazi-fascisti a Villa Santinelli; mentre nel luogo dell’eccidio è stata posta invece una lapide commemorativa.

 

Monumento ai partigiani, cimitero di Sansepolcro.

 

Lastra rettangolare di marmo apposta lungo la parete esterna di Villa Santinelli. L’epigrafe, oltre alla comune data di morte, reca incisi i nomi dei nove partigiani caduti.

 

Nell’estate del ‘44 il territorio di Sansepolcro si trovò sulla linea del fronte bellico e gran parte della popolazione si diresse verso le campagne per sottrarsi ai bombardamenti. In città restò il vescovo Pompeo Ghezzi, punto di riferimento per quella parte di popolazione non sfollata, unico autorevole interlocutore degli ufficiali tedeschi, che tentò di ridare un minimo di organizzazione alla vita civile e salvare il borgo dai sabotaggi nazifascisti. Ma, ciò nonostante, i suoi tentativi furono vani: i nazisti distrussero la stazione ferroviaria e l’industria Buitoni che dava benessere e prestigio alla città e demolirono, prima di lasciare il centro abitato, la storica Torre di Berta, uno dei simboli della storia e dell’identità di Sansepolcro[7].

Le truppe tedesche lasciarono il paese prima dell’arrivo degli Alleati che entrarono in Sansepolcro il 3 settembre del 1944.

Una lastra apposta sul muro in piazza Garibaldi nel quarantesimo anniversario dalla Liberazione della città ne ricorda l’evento.

 

Lastra commemorativa 40° anniversario liberazione della città di Sansepolcro, Piazza Garibaldi.

 

Negli anni Settanta vennero istituiti per volere dell’ANPI locale il museo e la biblioteca della Resistenza di Sansepolcro con lo scopo di ricordare quei tragici fatti legati al passaggio del fronte, alla Resistenza e alla Liberazione del paese. La sede del museo si trova oggi in via Matteotti all’interno di un edificio di proprietà comunale.

Sempre negli anni Settanta a Sansepolcro venne realizzato, nel cimitero comunale, il Monumento Ossario che raccoglie gli slavi caduti durante la seconda guerra mondiale nel territorio dell’Italia settentrionale e centrale. Tra gli jugoslavi internati in Italia vi furono i quasi 8.000 che trascorsero mesi in condizioni proibitive nel Campo di concentramento internati civili di Renicci, nel comune di Anghiari.

Da questa iniziativa nacque un rapporto di amicizia con la Jugoslavia che si concretizzò negli anni Ottanta con un patto di gemellaggio con la città croata di Sinj.

 

Sacrario commemorativo dei caduti jugoslavi in Italia, cimitero comunale, Sansepolcro.

 

Sansepolcro negli anni Novanta è stata insignita della medaglia d’argento al valor militare per l’attività partigiana.

 

Percorrendo in direzione nord la Strada statale 3 bis Tiberina (SS3bis) si giunge a Pieve Santo Stefano dopo circa quindici minuti. A nord di Pieve (circa dodici chilometri), in direzione di Verghereto, sono conservate alcune permanenze territoriali legate all’intervento dei cantieri della società di costruzione TODT per l’apprestamento della Linea Gotica.

 

PIEVE SANTO STEFANO E LA CITTA’ DEL DIARIO

Il paese sorge sulla riva destra del Tevere a cinquanta chilometri da Arezzo, situato quasi al confine tra la Toscana, l’Umbria e la Romagna. La cittadina è famosa soprattutto per il suo Archivio Diaristico che si trova all’interno del Palazzo Pretorio, in piazza Plinio Pellegrini, dove sono raccolti diari, epistolari, memorie autobiografiche di vario genere scritti dalla “gente comune”. Non a caso Pieve è denominata la “Città del Diario[8]. L’archivio è stato fondato nel 1984 da Saverio Tutino e si configura quale “vivaio di memorie”, in quanto oltre alla sua attività museale di conservazione vuol far fruttare in vario modo la ricchezza che in esso viene depositata. A tale scopo l’Archivio ha istituito un premio letterario volto ad incentivare l’invio di materiali “nascosti nei cassetti” da coloro che amano scrivere. Da allora ad oggi il concorso continua a svolgersi ogni anno in autunno ed ha portato alla premiazione di oltre venti scritti e alla raccolta di numerosi testi pubblicati da vari editori. Nel 2001 è stata inoltre intrapresa una collaborazione con la casa di produzione di Angelo Barbagallo e Nanni Moretti, la Sacher Film, per trasformare alcuni scritti qui conservati nei “Diari della Sacher”, un film-documentario distribuito dalla Warner Bros.

(Per informazioni più dettagliate sulla storia di questo prezioso archivio si consiglia di contattare la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale Onlus situata sempre a Palazzo Pretorio).

 

 

 Pieve 1944: Il Paese cancellato

L’8 settembre la popolazione di Pieve Santo Stefano, credendo fosse finita la guerra, si riversò esultante nelle strade e molti osannavano pregando la Madonna dei Lumi che aveva accolto le loro richieste di pace (proprio l’8 settembre ancora oggi il popolo pievano la festeggia ed onora)[9]. Ma purtroppo la guerra non era finita e il peggio doveva ancora arrivare… L’Italia era divisa in due, da sud premevano gli Alleati, mentre al centro-nord la presenza dell’esercito tedesco divenne sempre più opprimente, e anche Pieve Santo Stefano visse il dramma dell’occupazione nazista con i conseguenti rastrellamenti. In più nel dicembre del ’43 si insediò in luogo del podestà un commissario prefettizio della Repubblica Sociale Italiana che andò ad affiancare nel controllo della popolazione e nella repressione il comando tedesco. Nello stesso periodo iniziarono in questa zona i lavori di costruzione della Linea Gotica con il conseguente reclutamento di manodopera locale da parte della società di costruzione Todt. E con la disfatta di Monte Cassino, Pieve Santo Stefano si ritrovò in prossimità del fronte, con i tedeschi in ritirata che attuarono ogni sorta di violenze e saccheggi nei confronti della popolazione. Poi alla fine di luglio il comando nazifascista impartì l’ordine di sfollamento: tutti i residenti dovevano essere deportati a nord, oltre la Linea Gotica, verso Rimini e Cesena e da qui verso la Val Padana; furono fatti viaggiare con convogli notturni per sfuggire ai bombardamenti alleati. La deportazione fu eseguita con particolare brutalità e molte persone furono uccise: «Le famiglie furono smembrate e disperse e obbligate a lasciare tutti i loro averi. La soldataglia si fece padrona di tutte le case, ne forzò i nascondigli, distrusse o sfregiò quello che non poté asportare. Un’intera colonna di autocarri fu addetta a svuotare le case. […] Né l’Ospedale, né il Ricovero per i vecchi furono rispettati: fatti sfollare, vennero adibiti rispettivamente a stazione radio e a deposito di munizioni»[10]. Inoltre, vi fu la distruzione completa del paese, ripetendo quello schema tristemente noto della ritirata, che nell’estremo tentativo di rallentare l’avanzata degli Alleati verso nord, prevedeva lo sbarramento di tutte le vie di transito distruggendo case e ponti. Il paese distrutto faceva parte di quel piano efferato del generale Kesserling: fare “terra bruciata” di tutto il territorio, ordine che riecheggiava ogni qual volta le truppe tedesche erano costrette a ritirarsi verso il nord Italia.  Il 99 percento delle abitazioni del capoluogo fu ridotto ad un cumolo di macerie, si salvarono solamente gli edifici ecclesiastici e parte del Palazzo Pretorio. Alla fine di agosto prima di evacuare il paese i tedeschi fecero saltare tutti i ponti sulla strada nazionale Tiberina 3Bis e posero delle mine nel palazzo comunale e nella torre campanaria che saltarono in aria dopo una decina di giorni che i tedeschi si erano ritirati. “Tra le granate e le bombe degli aerei dell’esercito che avanzava, (…), la nostra Pieve tutta coperta da una coltre di polverone e fumo nero, avrebbe rappresentato benissimo l’immagine più tetra dell’Apocalisse”[11].

Il 23 agosto ciò che rimaneva di Pieve venne raggiunto dalle truppe inglesi; il Paese completamente distrutto dalla furia nazista dovette pagare anche un tributo di 35 persone trucidate e 76 dilaniate dalle bombe.

A dimostrazione delle sofferenze patite dalla popolazione locale, nel 1957 il Comune fu insignito della “Croce di Guerra al Valor Militare” con la seguente motivazione: «Durante la guerra di liberazione sopportò, con la fiera tenacia della sua gente, persecuzioni, deportazioni ed intense offese aeree e terrestri che causarono numerose perdite tra la popolazione e gravi e dolorose distruzioni. Tanto sacrificio, serenamente affrontato con indefettibile dedizione alla propria terra, contribuì ad esaltare e a rinsaldare la fede nei destini della Patria»[12].

Una lapide apposta sul muro del Palazzo comunale in piazza Plinio Pellegrini ne ricorda l’evento.

 

Lastra in ricordo della Croce di Guerra al Valor Militare, Palazzo comunale, Pieve Santo Stefano.

 

Mentre una lastra commemorativa sempre sul muro del Palazzo comunale è stata posta in occasione del ventennale della Liberazione della città per ricordare le numerose vittime che si sacrificarono per la riconquista della libertà.

 

Lastra alle vittime delle rappresaglie tedesche, Palazzo comunale, Pieve Santo Stefano.

 

Presso i giardini pubblici Collacchioni possiamo invece scorgere il monumento ai caduti di Pieve Santo Stefano. Due blocchi distinti, il primo è il vecchio monumento ai caduti della Grande Guerra spostato da piazza Santo Stefano, affiancato dall’opera che ricorda “le vittime militari e civili di tutte le guerre”.

 

Monumento ai caduti di Pieve Santo Stefano, Giardini Collacchioni.

 

Usciti da Pieve Santo Stefano si prosegue l’itinerario in direzione di Sestino, percorrendo la Strada Provinciale Nuova Sestinese (SP50), per poi continuare in direzione est sulla Strada Statale Marecchia (SP258) ed infine arrivare a destinazione dopo un tratto della Strada Provinciale 49 (SP49). Il tragitto da Pieve Santo Stefano a Sestino è lungo complessivamente 40 chilometri e prevede almeno cinquanta minuti di macchina. Per chi volesse compiere una breve pausa lungo il percorso è poi possibile potersi fermare a circa metà del viaggio nel comune di Badia Tedalda, dove è presente il Parco Storico della Linea Gotica, ricco di sentieri che testimoniano le tracce delle fortificazioni costruite dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale.

 

SESTINO

Sestino, paese all’estremo margine della provincia aretina, praticamente immerso nel Pesarese, che durante la seconda guerra mondiale si trovava a ridosso della Linea Gotica. Nella primavera del ’44 la presenza militare dei tedeschi si fece sempre più massiccia con la conseguente crescita del calvario delle popolazioni che dovevano subire limitazioni di libertà, un continuo coprifuoco, prestazioni d’opera coatte per i lavori di fortificazione e requisizione di case per l’acquartieramento delle truppe e di mezzi di trasporto di materiale bellico[13]. La situazione era resa pesante anche da quella numerosa presenza di fuggiaschi provenienti dal campo di Renicci di Anghiari e da sfollati qui rifugiati per sfuggire dai bombardamenti. Come tutta la Valtiberina anche questa zona fu interessata da una forte presenza di formazioni partigiane che, loro malgrado, ebbero dei risvolti negativi per la popolazione civile per le dure misure di repressione adottate dai tedeschi e dai fascisti in risposta agli attacchi subiti. Negli scontri che si verificarono nei paesi di Monterone, Monteromano, Montecese, Palazzi e Sestino vi furono numerosi giovani caduti con un’età media di vent’anni. Merita una menzione particolare il sacrificio del giovane Ferruccio Manini, diciannovenne di Cremona, fucilato a Sestino il 27 luglio del ’44, che per unirsi ai partigiani disertò da un reparto fascista repubblicano quando fu mandato nella zona della Linea Gotica[14]. Fu poi catturato dai fascisti durante uno scontro a fuoco nel Sestinate e rifiutandosi di collaborare venne fucilato presso il cimitero del paese. Il Tribunale militare di Milano nel 1947 acclarò che a comandare il plotone di esecuzione fu il sottotenente Giorgio Albertazzi, futuro attore e regista, che venne però assolto perché «aveva agito in stato di necessità».

E in suo ricordo è stata posta una lapide presso il cimitero comunale di Sestino.

 


Lapide in ricordo di Ferruccio Manini, cimitero comunale, Sestino.

 

Anche a Sestino con l’avvicinarsi degli Alleati, i tedeschi costretti ad abbandonare la Linea Gotica, come ultima rappresaglia, il 24 settembre del ’44, fecero saltare in aria tutti i ponti sulle vie di comunicazione, strade, acquedotti, edifici pubblici e seminarono nel territorio una ventina di campi minati. Le macerie lasciate dalla guerra furono immense e tali da fare di Sestino uno dei paesi tra i più martoriati della Valtiberina. Soltanto il 1° ottobre il paese fu liberato dagli Alleati.

Nella Cappellina dei Caduti, eretta nel 1923 sul colle di Carletto, che domina Sestino, campeggia una targa con i nomi dei soldati sestinesi caduti sul fronte nella seconda guerra mondiale.

Due Lapidi commemorative sono invece poste in piazza Garibaldi sul muro del Municipio ai “caduti di tutte le guerre”.

 

Municipio, Piazza Garibaldi, Sestino.

 

Sestino. Caduti in tutte le guerre, Piazza Garibaldi, facciata del Municipio.

 

 

E in Piazza dei Martiri all’incrocio con via Roma sulla facciata di un edificio troviamo una lapide dedicata ai caduti della Resistenza, che così recita: “La popolazione sestinese pone questa lapide a ricordo dei partigiani caduti durante la Resistenza del 1944-45: Arcaro Danilo, Bragori Fermamdp, Chiarabini Gioseppe, Guazzolini Secondo, Nannini Adelfo, Santi Laurini Roberto. Sestino 26-6-1974”.

 

 

 

Lapide commemorativa ai caduti durante la Resistenza, Via VI Martiri, Sestino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE:

[1] Ivan Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana: la storia, la memoria, Pagnini, Firenze 1994, p. 53.

[2] Cfr. il testo di Giovanni Ugolini, E’ passata la rovina a Sansepolcro. Cronaca cittadina dall’8 settembre 1943 al 3 settembre 1944, Boncompagni, Sansepolcro 1945.

[3] Eduino Francini: giovane partigiano di Sansepolcro, ma originario di Massa Carrara, che arruolatosi in marina nell’ottobre del ’42, dopo l’8 settembre rientrò a Sansepolcro e pochi giorni dopo ottenne dal Comitato provinciale di concentrazione antifascista di Arezzo l’incarico di organizzare una formazione di partigiani nell’Alta Valle del Tevere, nonostante la giovane età, non ancora ventenne.

[4] L’episodio è raccontato da G. Ugolini nel suo libro del 1945 È passata la rovina a Sansepolcro, cit., pp. 20-25.

[5]  Alvaro Tacchini, La banda partigiana “Francini” e la rivolta di Sansepolcro, in La battaglia di Villa Santinelli e la fucilazione dei partigiani, Quaderno n. 12 dell’Istituto di Storia Politica e Sociale “Venanzio Gabriotti”, Città di Castello 2017, https://www.storiatifernate.it/id/la-banda-partigiana-francini-e-la-rivolta-di-sansepolcro/

[6] Sulla fucilazione di Eduino Francini insieme agli altri otto partigiani a Villa Santinelli cfr. il libro di Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Tip. Badiali, Arezzo 1957, pp. 468-69.

[7]  I. Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana, cit. p.53.

[8] Ivan Tognarini, Da Pieve Santo Stefano a Poppi, in Paesaggi della memoria. Itinerari della Linea Gotica in Toscana, Touring Club Italiano, Milano 2005, pp. 105-6.

[9] I. Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana, cit. p.49.

[10] A. Tacchini, La distruzione di Pieve Santo Stefano, in Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, cit., https://www.storiatifernate.it/id/la-distruzione-di-pieve-santo-stefano/

[11] Onelio Dalla Ragione (a cura di), La guerra 1940-1945 a Pieve Santo Stefano. Deportazioni – Razzie – Devastazioni – Massacri, Amministrazione comunale di Pieve Santo Stefano, Pieve Santo Stefano 1996, p. 28.

[12] Ivi, p. 31.

[13] Giancarlo Renzi, Sestino. Quarant’anni di repubblica (1946-1986), Grafica Vadese, Sant’Angelo in Vado (PS), 1986, l’autore ripercorre la storia del comune dal dopoguerra ad oggi con un breve paragrafo dedicato proprio alle tragedie della guerra, pp. 11-20.

[14] Cfr. Biblioteca comunale di Sestino, 45° anniversario della fucilazione di Ferruccio Manini. Sestino – Domenica 23 luglio 1989, Stampa Artigrafiche, Sansepolcro 1989, p 4.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di novembre 2024.




ARNALDO DELLO SBARBA, ANATOMIA D’UNA CADUTA

Era stato protagonista della politica toscana da fine ‘800 in poi. Nel 1924 Mussolini lo voleva nel “Listone” fascista.
Ma contro l’ex ministro riformista insorse lo squadrismo pisano.

 Dalla rilettura di archivi pubblici e privati, in parte inediti, il ritratto di una classe dirigente che allevò il fascismo e ne fu divorata.

1911, Arnaldo a Roma, appena eletto deputato socialista
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Che nel giro di pochi giorni, o forse di poche ore, si sarebbe giocato tutta la sua vita politica, Arnaldo Dello Sbarba (1) lo sapeva da tempo. E a quella vigilia elettorale dell’anno 1924 (2) era arrivato come lui sapeva fare: ben preparato.
Aveva dalla sua Benito Mussolini, vecchia conoscenza d’epoca socialista e ora duce del fascismo vittorioso. Aveva conquistato Cesare Rossi (3), numero due del regime e potente capo dell’ufficio stampa del governo. Nella circoscrizione, nella quale Dello Sbarba aveva recitato da primattore per quattro legislature, puntavano su di lui le élite fiancheggiatrici che speravano così di moderare e controllare lo squadrismo (4).
Nella base fascista Arnaldo poteva contare sul Fascio di Pisa, guidato dal capitano Bruno Santini (5), che sul “caso Dello Sbarba” aveva ricevuto istruzioni “inequivocabili” dal duce. Santini capeggiava in quei giorni il movimento dei “dissidenti” contro il segretario federale Filippo Morghen (6), sostenuto invece dai “ras” provinciali (7). E da quando Morghen s’era avventurato a giurare: «Nel fascismo, o me o Dello Sbarba» (8), Santini s’era convinto che poteva usare Dello Sbarba per togliersi Morghen dai piedi.

Considerati dunque tutti i pro e i contro, Arnaldo riteneva di poter vincere la partita. Sarebbe stato ammesso nella “Lista Nazionale” di Mussolini, con la certezza di tornare in parlamento. Voti personali ne aveva in quantità, al resto ci avrebbe pensato il diluvio di seggi garantiti ai fascisti dalla legge Acerbo.
Eppure, compiuti cinquant’anni il 12 agosto 1923, Arnaldo Dello Sbarba si avvicinava all’anno nuovo in stato di grande agitazione. Alla vigilia di Natale, il suo fedele segretario Carlo Conti (9) aveva riferito al fratello Bruno Dello Sbarba di «gravi preoccupazioni politiche non ancora ultimate [anche se] ben incamminate (…) Ci vorranno ancora dei giorni nei quali Arnaldo, che non sta bene soprattutto di cuore, ha bisogno di calma più assoluta (…) . Scrivigli per tranquillizzarlo e incitarlo a vincere la più aspra battaglia» (10).
Finito in mezzo alle lotte intestine del fascismo pisano, nel novembre del 1923 Arnaldo era stato addirittura aggredito alla stazione di Pisa da una squadraccia comandata dal conte Giuseppe Della Gherardesca (11).
Di questo si era immediatamente lamentato con Cesare Rossi. L’aggressione, scrive Arnaldo a Rossi il 10 novembre 1923, non è stata affatto «frutto di uno stato di esaltazione personale» ma della volontà di «costringermi fuori dalla vita pubblica».
Arnaldo riferisce a Rossi che in una riunione della federazione fascista, successiva all’aggressione,

in cui il Gherardesca urgentemente chiamato partecipò, […] si proclamò che io ero un comunista, antitaliano e anti-patriota, e che coloro che mi avevano fatto affronto avevano compiuta opera italianissima, da deplorar semmai per essere stata solo nei limiti di minacce e di ingiurie (…). Fui interventista della primissima ora, partecipai alla manifestazione di Quarto (12) e scoppiata la guerra mi scrissi volontario. Non ho, in coscienza, nulla da rimproverarmi (…) alle accuse di chi, come il Gherardesca fu in quegli anni noto tedescofilo.

Lei mi è testimone – continua la lettera di Arnaldo a Rossi – con quale ardore nel 1921 io, nella circoscrizione di Pisa Lucca Livorno e Massa Carrara, difesi il blocco nazionale ed affermai le ragioni del fascismo, allo stesso modo che nelle sventurate elezioni del 1919, per riaffermare le ragioni della guerra e della patria, fui esposto a tutti gli oltraggi e a tutti gli attentati dei socialcomunisti. Venuto il governo fascista gli ho dato disinteressatamente ed incondizionatamente tutto il mio consenso, fino a partecipare alla commemorazione della marcia su Roma. Della mia devozione per il Presidente non ho bisogno spero neanche di intrattenermi (13).

Primo maggio 1900. Arnaldo saluta il nuovo secolo con la prima pagina de L’Avanti.
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Questo Arnaldo Dello Sbarba del 1923 non era evidentemente più quello «degli anni della sua splendida gioventù», raccontati da Arnaldo Fratini (14) nella sua storia del socialismo volterrano, «che germogliò per la cura, l’ardore e il coraggio con cui lui, insieme ad altri ottimi compagni, volle e seppe coltivarlo». Non era più il battagliero direttore de «Il Martello», uno dei primi giornali del socialismo toscano (15), né il giovane avvocato che nel 1898 aveva difeso, a fianco di Pietro Gori, i lavoratori in sciopero a Campiglia e nel 1900 aveva combattuto per la grazia all’anarchico Cesare Batacchi, rinchiuso nel mastio di Volterra per una bomba mai lanciata (16).
Aveva cambiato rotta: c’era stato l’appoggio alla campagna coloniale di Libia del 1911 (17), l’espulsione dal PSI nel 1912, l’interventismo, la guerra, il “Biennio Rosso” vissuto dalla parte opposta della barricata, all’ombra del liberalismo giolittiano.
Deputato ininterrottamente dal 1911, nei governi di Nitti e Giolitti, Arnaldo era stato sottosegretario alla Giustizia nei mesi insanguinati dall’insorgenza del fascismo. Nel debole governo Facta era stato infine ministro del lavoro, finché la marcia su Roma non aveva mandato tutti a casa. Dopo di che, da deputato, aveva votato per il primo governo Mussolini, usando poi la presenza in parlamento per intessere relazioni nei palazzi del nuovo potere.

Il suo riferimento più importante era diventato Cesare Rossi, che in quell’inizio del 1924 stava lavorando per allargare il consenso al fascismo e farne la spina dorsale di un nuovo stato. La candidatura di un Arnaldo Dello Sbarba, ex ministro dell’era giolittiana, era funzionale a questa strategia.
Così Cesare Rossi si era fatto il regista della candidatura Dello Sbarba nel listone fascista. All’inizio del 1924 aveva ordinato a Luigi Freddi, capo ufficio stampa del PNF, di impedire all’ala intransigente del fascismo pisano di usare il settimanale «L’Idea fascista» per «scocciar l’anima a Dello Sbarba (…) poiché costui (che fra parentesi è molto intelligente e abbastanza ben visto dal Presidente, il quale gli ha anche affidato l’incarico, insieme ad altri due o tre Deputati, di costituire un gruppo di sinistri fascistofili) finirà per essere compreso nel Listone. (…) Io mi riprometto di difenderlo al momento opportuno» (18).
Il tandem Rossi-Freddi aveva anche imbastito una massiccia campagna di stampa per Arnaldo, trainata da «Il Nuovo Giornale» di Athos Gastone Banti e dal «Corriere italiano» di Filippo Filippelli (19).
Per dividere il fronte degli intransigenti, Cesare Rossi aveva mobilitato con un telegramma il principe Piero Ginori Conti (20), proprietario della Boracifera di Larderello e ras dei ras provinciali:

Consiglio inviare senz’altro Presidente Mussolini telegramma in cui si prospettino opportunità positive soprattutto elettorali inclusione Dello Sbarba testimoniando, come per mio conto ho già fatto e farò ancora, il suo contributo [di] affiancatore [del] movimento fascista in varie sue fasi.

Intanto Arnaldo Dello Sbarba stava preparando un promemoria per illustrare i suoi meriti «di affiancatore del fascismo». Nel suo archivio se ne trovano diverse bozze. Un primo schema lo redige Carlo Conti e per Arnaldo rivendica la lotta contro il popolare segretario provinciale del PSI Carlo Cammeo e le manovre messe in atto per destituire, in combutta col prefetto filofascista Renato Malinverno, i “sindaci rossi” Giulio Guelfi di Cascina ed Ersilio Ambrogi di Cecina (21).
Un canovaccio è incaricato di stenderlo anche l’altro segretario, il cavalier Vittorio Fagioli di Marciana Marina, luogotenente di Arnaldo per la provincia di Livorno:

I socialisti ufficiali gli dichiararono guerra implacabile […]. Nelle elezioni del 1919 la campagna bolscevica fu esclusivamente contro l’on. Dello Sbarba, che fu coperto di contumelie come guerrafondaio, indicato all’ira delle folle e in un sobborgo di Pisa gli fu perfino tirato in faccia manciate di sterco e di mota gridando: Eccoti la Patria! (22).

1920, Arnaldo sottosegretario alla Giustizia nel V° governo Giolitti
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Il promemoria definitivo, in terza persona e da spedire a Roma, Arnaldo lo scrive di suo pugno. Nella prima parte ripercorre le prove del suo amor di Patria, già ricordate nella lettera a Cesare Rossi. Poi passa agli esempi concreti, che letti oggi fanno venire i brividi.

Sottosegretario alla giustizia con Giolitti – scrive di sé Arnaldo Dello Sbarba – si batté col noto maestro Cammeo in una elezione provinciale memorabile e difese i fascisti sempre. Avvenuta la uccisione Cammeo (Mussolini ebbe con lui in proposito una corrispondenza telegrafica) procurò la scarcerazione della Rosselli e degli altri accusati (23). Quando, dopo i fatti di Sarzana (24), fu arrestato Santini, andò a Massa per farlo scarcerare. Quando fu ucciso Menichetti (25) in una imboscata comunista a Ponte a Moriano, ne seguì a capo scoperto il feretro.
Ministro del lavoro, parlando in una solenne riunione a Larderello (il senatore Ginori Conti presente e testimone) fece pubblica esaltazione del fascismo. Idem per l’inaugurazione del monumento ai caduti a Bagni di San Giuliano [e] il 26 ottobre 1922 in un pubblico discorso a Casanova di Piemonte […].
Dopo l’avvento del governo fascista, […] si fece sollecito di infondere nelle masse operaie, su cui ha vivo ascendente, il senso di fiducia e disciplina al governo dell’on. Mussolini, che esaltò […] ai metallurgici di Viareggio, ai contadini di Rosignano, agli operai di Ponte a Moriano, ai cavatori di alabastro di Castellina, ai mezzadri di Collesalvetti. […]. Nell’anniversario della Marcia su Roma – a dimostrare che fascismo e nazione si identificano – partecipò ai pubblici cortei (26).
È perseguitato dai ras locali con la scusa che egli ha una mentalità socialista, quella che servì sempre senza infingimenti […] e che anche oggi, per la parte che tende all’elevazione morale e materiale delle classi lavoratrici, non avulse ma integrative dei supremi interessi della Patria, ha il suo più grande interprete in Mussolini e la pratica nei sindacati nazionali fascisti.

La candidatura Dello Sbarba viene discussa a Roma dalle massime cariche del fascismo dal 4 all’11 febbraio 1924. Ne abbiamo sul «Messaggero Toscano» il resoconto di Bruno Santini, presente come segretario del fascio di Pisa, che riferisce di aver dichiarato in diverse riunioni tra il 4 e il 9 febbraio, a Costanzo Ciano, presente Morghen, a Cesare Rossi, alla Pentarchia (la commissione elettorale a cinque) presieduta da Aldo Finzi

che l’on Dello Sbarba aveva forti correnti contrarie nel partito Fascista e una ragguardevole forza sua fuori dal partito, tra tutti coloro che per quindici anni erano stati da lui beneficiati, aiutati, sorretti. Se l’on. Dello Sbarba fosse entrato nella Lista Nazionale del Partito Fascista, questa avrebbe guadagnato voti di molti elementi non fascisti.

Alla seduta decisiva dell’11 febbraio 1924 partecipa Mussolini in persona, che ha l’ultima parola sulle candidature. «Davanti a S.E. Mussolini, presente S.E. De Bono – racconta Santini – ripetei le stesse dichiarazioni. Il Presidente mi lesse alcuni appunti riguardanti l’on. Dello Sbarba, che riflettevano la sua posizione rispetto al Fascismo», e qui Santini cita a memoria la scarcerazione degli assassini di Cammeo, quella dello stesso Santini a Massa e il discorso filo fascista a di San Giuliano Terme. «Altro lesse il Presidente che io non ricordo. Ricordo che le dichiarazioni del Presidente furono esplicite, nette, recise» (27).
Ai vertici fascisti Mussolini aveva letto dunque proprio il promemoria scritto da Arnaldo. E aveva deciso. L’annuncio arriva a Dello Sbarba con un biglietto proveniente dai corridoi della Pentarchia:

Caro Arnaldo, stamani la tua questione è stata decisa favorevolmente. Tu sei stato ammesso come era giusto e doveroso. [La firma è purtroppo indecifrabile].

«Comincia circolare voce tua inclusione, studio affollato, entusiasmo vivissimo» telegrafa Conti ad Arnaldo il 12 febbraio. Il mattino dopo il segretario viene convocato dal prefetto Renato Malinverno, preoccupato della piega presa dagli avvenimenti. Alle 16,30 Conti riferisce ad Arnaldo:

Alle 11:00 sono stato chiamato dal prefetto. Ha cominciato col prospettarmi il pericolo di dimissioni, di astensioni eccetera. L’ho fermato subito su questa strada dicendogli chiaro e tondo che avevo saputo da Dario Lischi (28), tornato stanotte da Roma, le parole chiare e inequivocabili dette dal Duce al Santini: “Dì ai Pisani che Dello Sbarba è nella lista per mio volere e nessuno ce lo toglie, che è anche l’ora di smetterla con i campanili – essendo la lista Nazionale – anche se i campanili sono storti e artistici come quelli di Pisa”.
Il prefetto evidentemente non conosceva questo episodio che gli ha fatto impressione. Allora ho cominciato a parlare descrivendogli la situazione vera, (i grandi consensi eccetera) che è in tuo favore. Quanto a dimissioni, astensioni ecc ., gli ho detto saranno in numero molto ridotto seppur vi saranno. Che in ogni modo si tratterà di qualche capo malinconico e scornato. (…) Che la verità vera è questa: Medoro (29) e gli altri della federazione avevano corso troppo nel farti la guerra e si trovavano perciò impegnati fino al collo (…) per giustificare dinanzi alla Pentarchia la loro imbecillità e creare fantasmi di agitazione.
Poi uscendo gli ho detto: Scusi lei sente di essere il prefetto? Lui mi ha risposto: Ah per questo Le assicuro che io eseguirò e farò rispettare gli ordini! Basta così! Ho la convinzione di averlo lasciato persuaso.

Il 14 febbraio anche la stampa dà la notizia dell’inclusione di Arnaldo nel listone fascista. Ma gli avversari non si sono dati per vinti.
Il 15 febbraio una lettera proveniente da Pisa avverte Dello Sbarba:

Carissimo onorevole, sono arrivati stamani da Roma gli energumeni Carosi, Biscioni, De Guidi, Parenti ed altri che lunedì notte, appena appresa la notizia della sua inclusione nel Listone, partirono per impressionare le direzione del partito. Minacciarono distacco dal Partito ufficiale, costituzione di fasci autonomi, rappresaglie ecc. e secondo quanto essi affermano sarebbero riusciti a persuadere il Direttorio e l’on. Giunta a far pressione presso il Duce per ottenere il loro intento (30).

Il 17 febbraio il segretario provinciale Filippo Morghen – che si era istallato in permanenza a Roma presso l’hotel Continental, a due passi dalla stazione – dirama a tutti i fasci l’ordine di inviare ai vertici nazionali telegrammi contro l’inclusione di Dello Sbarba nel listone.
Morghen ha dalla sua la deliberazione del 2 febbraio della federazione fascista pisana che si era pronunciata per l’esclusione di Dello Sbarba e un’ordine del giorno approvato dall’assemblea dei sindaci fascisti in cui essi «confermano di ritenere Dello Sbarba politicamente non degno di essere compreso nella Lista Nazionale». Se Mussolini lo avesse ciò nonostante inserito, i sindaci fascisti minacciano di dimettersi in massa. E se qualcuno se ne fosse dimenticato, il 18 febbraio ci pensa il sindaco di Collesalvetti Gino Lavelli de Capitani, proprietario di fabbriche nella piana pisana, a spedire a tutti i sindaci una copia della delibera approvata, invitandoli a passare ai fatti (31).

Il 19 febbraio Carlo Conti informa Arnaldo dei metodi adottati dagli intransigenti.

Alla famosa adunanza, molti sindaci non erano presenti e, tolti 3 o 4, gli altri dichiarano che fu loro imposto di votarti contro. A Volterra si vive nel terrore, girano col nerbo per impedire che ti si facciano telegrammi o si faccia il tuo nome. Sono 7 o 8, ma armati, e fanno paura alla gente. Soltanto perché il Quadri fece pubblica dichiarazione di soddisfazione per la tua inclusione, la farmacia ora è guardata dai carabinieri”.

Lo stesso Conti è stato minacciato con un biglietto anonimo: «Diciamo a lei diabolico segretario di smetterla perché prima del suo padrone sarà soppresso». Conti commenta: «Niente po’ po’ di meno! Povero, grande Mussolini, da qual gente è qui rappresentato!».

Il fatto è che il «povero grande Mussolini» ha già fatto marcia indietro, cedendo alle pressioni del fascismo intransigente. Accade così ora nel microcosmo pisano ciò che in grande si ripeterà nel gennaio del ’25, come reazione al delitto Matteotti. Messo di fronte all’alternativa drastica, e rimangiandosi le promesse di moderazione, il duce sceglierà sempre di appoggiarsi all’ala più violenta del fascismo.
Alla sera di quel tormentato 19 febbraio 1924, l’agenzia Stefani batte infine il dispaccio che riporta la versione definitiva della Lista Nazionale per la Toscana. Arnaldo Dello Sbarba non vi compare più.

È successo che per tagliare la testa alle lotte interne, Mussolini ha deciso per la Toscana una lista “fascistissima”, composta di sole camicie nere. Accanto ai 24 nomi scelti dal duce vengono indicate con puntigliosità le cariche fasciste e i meriti di guerra: combattente, decorato, grande invalido e così via. Per Pisa in lista compaiono Guido Buffarini Guidi (32), sindaco e presidente dei combattenti, e Lando Ferretti (33), «ferito in guerra e decorato», entrambi candidati proposti dalla federazione pisana. Non vi compare invece l’uomo che il direttorio aveva proposto come primo: Filippo Morghen. L’eliminazione di Dello Sbarba ha trascinato con sé anche il suo arcinemico – almeno in questo Bruno Santini aveva visto giusto.
Il quale Santini, qualche giorno appresso, si prende pure la soddisfazione di rivelare sulla stampa gli intrallazzi di Morghen, che, mentre scatenava le camicie nere contro Dello Sbarba, dietro le quinte tentava un accordo con il vituperato ex ministro. Santini racconta che, nelle concitate giornate in cui a Roma si discuteva della candidatura Dello Sbarba, Morghen lo aveva fatto contattare da tre suoi uomini della commissione elettorale pisana che gli avevano promesso di «cessare la campagna contro di Lei» in cambio dell’impegno dello stesso Dello Sbarba a sostenere l’ingresso nel Listone «di nomi nostri, designati dalla Federazione» – tra i quali compariva come primo proprio il Morghen (34). È probabile che questo doppio gioco abbia convinto il duce a escludere pure lui dalla lista.

«Che farà ora Dello Sbarba?» si chiede il Messaggero Toscano la mattina del 20 febbraio. Il giornale prospetta due strade: presentare una lista propria, o aderire alla lista “Democratici Sociali” creata da due sue vecchie conoscenze, Mario Supino, avvocato, esponente della “democrazia massonica” di Pisa, e Augusto Mancini (35), filologo e deputato radicale, che di questa «lista parallela» aveva già informato Arnaldo per lettera il 15 febbraio.
In realtà, Arnaldo avrebbe avuto anche una terza opzione: confluire nella “lista bis” in cui Mussolini aveva dirottato in Toscana i tre deputati liberali uscenti, restati anche loro fuori dalla lista “fascistissima”. E cioè il livornese Guido Donegani, presidente della Montecatini, il senese Gino Sarrocchi, liberale della destra salandrina contiguo al fascismo, e l’agrario grossetano Gino Aldi Mai (36). Questa “lista bis” avrebbe pescato nei seggi spettanti all’opposizione, ma era appoggiata dal governo e sarebbe poi confluita nella maggioranza. Teoricamente, l’opzione ideale per Dello Sbarba: garantita nel risultato, indipendente nella forma, fascista nella sostanza. Ma – informava il «Messaggero Toscano» – «i liberali non ne vorranno sapere di Dello Sbarba», ormai sgradito al fascismo locale e temibile concorrente nelle preferenze.

1916, Arnaldo sottotenente nei gruppi di artiglieria avanzata della Val Lagarina a Coni Zugna e Zugna Torta.
(Fondo A. Dello Sbarba Biblioteca Guarnacci di Volterra)

La mattina del 20 febbraio Arnaldo è ancora deciso a non mollare. Solo e arrabbiato nel suo ufficio di deputato a Roma, prende carta e penna e scrive a Mussolini per annunciargli che lui si candiderà comunque.

Caro Presidente, ieri discutendosi in Pentarchia la lista per la Toscana, il mio nome non fu incluso nella lista nazionale, non già perché mi si potesse rimproverare alcuna colpa verso la Patria o verso il Fascismo, ma solo perché tal Morghen, segretario provinciale di Pisa, per risentimenti personali spintisi fino ad una vera e propria caccia all’uomo, ha creato una situazione di grottesco imbottigliamento antisbarbiano che ieri (domandalo al comm. Cesare Rossi) egli non riuscì a giustificare […]. D’altronde io so di non avere demeritato né della Patria né del Fascismo, cui ho dato lealmente consigli e aiuti; so di avere numerosi amici in Toscana, i quali non possono e non vogliono tollerare questa forma di ostruzionismo politico, e quindi, non perché malato di parlamentarismo, ma perché […] devo difendere la mia dignità umana, io vado ad appellarmi al giudizio degli elettori, ai quali chiarirò che […] solo da loro, che mi diedero per 4 legislature il viatico, io posso accettare oggi il congedo dalla vita politica” (37).

Alla sera, però, Arnaldo ci ripensa. Per tutto il giorno ha ricevuto messaggi che lo spingono a più miti consigli. Il fedele e accorto Carlo Conti, già la sera del 19 febbraio, lo ammoniva: «I pochi amici coi quali ho parlato sono poco favorevoli a liste bis o parallele».
La mattina dopo anche Gino Sossi, avvocato, compagno in politica, socio negli affari e marito della sorella Adele, gli aveva scritto:

Non so se tu accetterai di fare parte di una lista parallela, ma il mio avviso è che tu debba accettare se sicuro della riuscita. Se dovessimo fare la lotta delle preferenze con Donegani, Sarrocchi ecc. credo che potremo essere battuti. Perciò sii vigile, l’unica cosa da evitare è di accingersi alla lotta e rimanere a terra.

Anche l’industriale farmaceutico pisano Alfredo Gentili, suo fedele sostenitore, lo metteva in guardia dal candidarsi «nella lista bis, che qui è chiamata la lista dei cani rognosi». Infine, da Pisa gli aveva telegrafato la moglie Maria Ziffo:

Amici interpellati ritengono conveniente tuo disinteressamento eventuale lista liberale perché lotta ridurrebbesi favorire influenti liberali privilegiati [da] centri elettorali industriali.

A sera, dunque, Arnaldo Dello Sbarba si era di nuovo seduto alla scrivania per scrivere una seconda lettera a Mussolini e poi fargliela recapitare subito a mano dal servizio parlamentare. Sono le ultime parole – almeno per ora! – di una lunga carriera politica:

Illustre Presidente – scrive Arnaldo – la situazione di ostilità e di dissenso che si è riacutizzata, in questi giorni, fra fascisti pisani per la cocciuta volontà di alcuni di essi, ingiustamente prevenuti contro di me ed immemori della mia opera sempre onesta e fermamente patriottica anche in ore oscure, che rivendico in pieno, mi decide a rinunciare alla formazione di una lista propria […]. Ma se rinuncio a rientrare in Parlamento, ove le mie forze elettorali mi avrebbero certamente riportato, non intendo disertare il campo della lotta imminente. Perciò, inviterò con pubblico manifesto i miei amici a votare compatti e fervorosi la Lista Nazionale, con l’augurio che gli infatuati miei oppositori non mi impediscano almeno di portare il mio personale disinteressato aiuto alla forte battaglia che tu combatti – con pugno sicuro – per la più grande vittoria dell’Italia.

In soli cinque giorni Arnaldo Dello Sbarba si era giocato la sua carriera politica, e aveva perso.

Qualche settimana dopo lo conforta sua madre da Volterra:

Arnaldino mio – scrive Isola Veroli – non posso descriverti la consolazione. Sapendo la guerra che ti facevano e conoscendo questa gente, avevo sempre paura che ti facessero del male. Anche Bruno mi scrive che è contentissimo della tua decisione, prega e spera che tu non cambi. Mi dici che presto verrai a Volterra. Io non ci credo finché non ti vedo e il desiderio è tanto grande” (38).

Il 4 aprile 1924, alla vigilia di elezioni che a Pisa si sarebbero svolte per la prima volta da vent’anni senza un Dello Sbarba in qualche lista, si fa vivo di nuovo l’amico industriale Alfredo Gentili:

Il governo dovrebbe esserle grato (esiste oggi la gratitudine a Roma?) per il suo atteggiamento. Avremo la possibilità non lontana di vedere un segno della gratitudine mussoliniana per lei?

Gentili allude a quella prossima “infornata di nuovi senatori” per nomina governativa di cui già parlano i giornali (39). Il Duce avrebbe ripescato anche Arnaldo? Amici, sostenitori, segretari, e prima di tutti lui stesso, ci contano.
Le “infornate” arriveranno una dopo l’altra, ma il turno di Arnaldo Dello Sbarba non arriverà più. Al contrario, il fascismo pisano vuole liberarsi definitivamente di lui.
Il 2 gennaio 1925, al culmine della crisi seguita al delitto Matteotti e alla vigilia del discorso con cui Mussolini assumerà in parlamento la responsabilità dell’assassinio (40), un corteo di fascisti furibondi attraversa Pisa come “una colonna di fuoco” (41). Oltre a distruggere il circolo repubblicano e il quotidiano cattolico «Il Messaggero toscano», al grido di “fuori i massoni dal fascismo” i fascisti devastano la loggia massonica, l’abitazione e lo studio del gran maestro Alfredo Pozzolini e l’abitazione e lo studio al Palazzo alla Giornata di Arnaldo Dello Sbarba.
Pochi mesi dopo, Arnaldo deciderà di abbandonare Pisa per Roma: «Ho dovuto constatare scrive al fratello Bruno (42) – che a Pisa non c’è aria per me, e non c’è lavoro».

NOTE:

(1) Arnaldo Dello Sbarba (1873-1958) è stato dalla fine dell‘800 alla prima metà del ‘900 un protagonista della politica in provincia di Pisa (compresa l’area da Rosignano all’Elba). Laureato in Giurisprudenza a Pisa, consigliere in comune a Volterra e poi in provincia, è parlamentare dal 1911 al 1924. Diviene sottosegretario nei governi Nitti e Giolitti (1920-1921) e ministro per il Lavoro nei governi Facta (1922). Naufragata la candidatura nel “Listone” fascista del 1924 e entrato nel mirino dei fascisti, abbandona Pisa per Roma. Fino al 1929 è sottoposto a vigilanza di polizia. Nel 1943 il prefetto della RSI emette contro di lui mandato di cattura. Dopo la Liberazione di Pisa, il 29 dicembre 1944 è ammesso nel CLN provinciale su nomina del neonato “Partito Democratico del Lavoro”, nonostante la decisa opposizione di partigiani e CLN di Volterra che lo accusano di complicità col fascismo. Nel dopoguerra ricopre numerose cariche, tra cui quella di Presidente della Cassa di Risparmio di Pisa e della Domus Galileiana. Cfr. A. Biscioni, Dello Sbarba Arnaldo, in Dizionario biografico degli italiani Treccani, 1990, https://www.treccani.it/enciclopedia/arnaldo-dello-sbarba_(Dizionario-Biografico).
Gran parte delle sue carte sono conservate nel Fondo A. Dello Sbarba nell’archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra (d’ora in poi BGVolterra/FAdS), Cfr. E. Dello Sbarba e S. Trovato, Inventario dell’archivio di Arnaldo Dello Sbarba, «Rassegna volterrana», a. 90, 2013. Per questo articolo sono stati esaminati inoltre archivi privati ancora inediti, custoditi dalla famiglia (d’ora in poi APAdS), l’Archivio di Stato di Pisa, la Biblioteca Capitolare dell’Arcidiocesi di Pisa, la SMSBiblio di Pisa, la Biblioteca delle Oblate e l’Archivio di Stato di Firenze. Un piccolo “fondo Dello Sbarba” è anche presso l’Archivio centrale dello Stato.
(2) Sulle elezioni del 6 aprile 1924 Cfr. R. De Felice, La legge elettorale maggioritaria e le elezioni politiche del 1924, in Mussolini il fascista, 1. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966. Sulla situazione in Toscana in quel periodo si v. A. Giaconi, La fascistissima: il fascismo in Toscana dalla marcia alla “notte di San Bartolomeo”, Foligno, Il formichiere, 2019.
(3) Cesare Rossi (1887-1967), sindacalista rivoluzionario, interventista, giornalista con Mussolini al «Popolo d’Italia», co-fondatore dei Fasci nel marzo 1919. Mussolini lo incaricò di organizzare la “Ceka fascista” che rapì e uccise Matteotti. Accusato del delitto, in un memoriale indicò Mussolini come mandante. Fu prosciolto in istruttoria. Scappò in Francia, ma fu arrestato nel 1928 e condannato dal Tribunale speciale a diversi anni di carcere e confino. Nel 1947 al nuovo processo Matteotti – in cui chiamò a deporre in suo favore anche Arnaldo Dello Sbarba – venne assolto per insufficienza di prove. Cfr. M. Canali, Cesare Rossi da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1991; M. Franzinelli, Matteotti e Mussolini, Milano, A. Mondadori, 2024.
(4) Cfr. P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa, 1919-1925, Pisa, Giardini, 1995. La responsabilità delle vecchie élite dominanti nello sviluppo del fascismo (sottovalutazione o condivisione?) è un nodo storiografico fondamentale, oggi particolarmente attuale. Le élite politiche formatesi in epoca liberale stentarono a comprendere la natura del fascismo e che sarebbe diventato il loro “rottamatore”. Ma furono proprio le vecchie classi dirigenti a contribuire a creare, ciascuna corrente a modo suo, il clima favorevole al fascismo e a sostenerlo. Molti liberali lo tennero addirittura a battesimo. Giovani liberali furono tra i fondatori del fascio di Pisa e mantennero a lungo la doppia militanza. Furono originariamente liberali diversi fascisti di spicco qui citati, come Piero Ginori Conti, Costanzo Ciano, o lo stesso Filippo Morghen. C’era poi la composita galassia dei “democratici” (“democrazia massonica” inclusa) che si era candidata nel 1919 nell’”Unione democratica” e nel 1921 nel “Blocco Nazionale”, sempre con capolista Arnaldo Dello Sbarba. La loro convinta campagna interventista per la guerra come compimento del Risorgimento e rigeneratrice dei popoli incontrò il dannunzianesimo prima e il fascismo poi. A Pisa, dove l’interventismo attingeva al mito di Curtatone e Montanara, il fascismo partì da una generazione di studenti-combattenti motivati da una parte del vecchio corpo docente a combattere il “nemico interno” dei neutralisti, degli anti-nazionali, dei socialisti.
Tra gli interventisti democratici, inoltre, i social-riformisti finirono per sottomettere la lotta di classe agli “interessi della Nazione”, tanto più che nei mesi della neutralità italiana il Partito socialista riformista, cui apparteneva Arnaldo Dello Sbarba, puntellò al potere un liberale di destra come Salandra, già orientato all’intervento e sabotatore dei negoziati con l’Austria. Questo composito “radicalismo nazionale”, intriso di polemica antigiolittiana, antisistema e soprattutto antisocialista, pervase buona parte dell’intellighenzia italiana e nel dopoguerra accompagnò consapevolmente l’ascesa del fascismo, condividendone i valori e spesso anche le azioni.
(5) Bruno Santini, nato a Carrara nel 1895, studente di giurisprudenza a Pisa, capitano degli alpini, avvocato. Alla guida della componente ex combattentistica, animata da toni anti-borghesi, diventa segretario del Fascio di Pisa nel dicembre 1920 e guida gli assalti alla sinistra, ai sindacati, alle leghe rosse, ai sindaci socialisti. Entrerà in conflitto col segretario federale Filippo Morghen e dopo alterne vicende verrà espulso e costretto ad lasciare Pisa nel 1925. Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista, Pisa e il caso Santini, 1923-1925, Roma, Bonacci, 1983.
(6) Filippo Morghen nasce a Castellina Marittima nel 1882 da una famiglia di incisori e acquafortisti (il nonno Raffaello era al servizio del granduca Ferdinando III). Laureato in giurisprudenza a Pisa, è combattente, avvocato e possidente. Da Filippo Morghen Arnaldo Dello Sbarba aveva acquistato in società col fratello Bruno la cava di alabastro del Marmolajo di Castellina Marittima, dove sindaco era proprio quel Carlo Conti che fu amico, segretario e consigliere di Arnaldo (vedi nota 6). In APAdS sono conservati gli atti di compra-vendita della cava e il relativo carteggio.
(7) Sul “dissidentismo” pisano e il conflitto Santini-Morghen è bene non fermarsi alla semplice dicotomia “normalizzatori contro intransigenti”. C’è infatti da chiedersi quanto di “ideale” ci fosse nei conflitti tra fascisti per i quali, dopo la marcia su Roma, si erano spalancate le porte del potere assoluto. Il controllo del partito consentiva loro di occupare importanti posizioni e ottenere consistenti arricchimenti personali. Più forte del confronto sulle idee, era dunque la lotta per accaparrarsi i rilevanti vantaggi derivanti da un movimento che stava trasformandosi in regime. Vedi i già citati lavori di P. Nello e M. Canali, oltre a M. Mazzoni, Livorno all’ombra del fascio, Firenze, L.S. Olschki, 2009.
(8) Sull’aut aut di Morghen Cfr. il «Messaggero Toscano», 29 febbraio 1924.
(9) Carlo Conti (1879-1943), più volte sindaco di Castellina Marittima ‒ suo feudo politico ‒, amico, segretario particolare e ascoltatissimo consigliere di Arnaldo Dello Sbarba, è stato poeta e giornalista per diverse testate, tra cui: «La nuova Italia», da lui fondato, «La Nazione», «Il Telegrafo», «Il Giornale d’Italia», «Il Ponte di Pisa», «Camicia nera», il giornale della corrente di Santini, di cui era amico. Collaboratore della casa editrice Nistri-Lischi, repubblicano filodemocratico e massone, tentò senza successo di riunificare in un’unica formazione le varie anime della “democrazia massonica” pisana. Nell’aprile 1923 inaugurò il suo terzo mandato da sindaco con un discorso di entusiastico sostegno al governo Mussolini. Cfr. In memoria di Carlo Conti, Lallo, a cura dei giornalisti pisani, Pisa, V. Lischi e figli, 1963, e Discorso di Carlo Conti pronunciato per l’insediamento dell’amministrazione comunale di Castellina Marittima il 20 aprile 1923, Pisa, Nistri-Lischi, 1923, ristampato da Tagete, Pontedera, 2005.
(10) Lettera di Carlo Conti a Bruno Dello Sbarba, fratello minore di Arnaldo, del 24 dicembre 1923 in APAdS.
(11) Giuseppe Della Gherardesca (1876-1968), Conte Palatino, Nobile dei Conti di Donoratico, Patrizio fiorentino, di Pisa e di Volterra, Nobile di Sardegna. Esponente di spicco dell’aristocrazia agraria e del fascismo toscano, dominatore della zona di Castagneto Carducci e Bolgheri. Podestà di Firenze dal 1928 al 1933, Senatore del Regno dal 1929 al 1943, carica da cui decadde nel 1945 in seguito all’epurazione antifascista.
(12) A Quarto il 5 maggio 1915, per il 55° anniversario della spedizione dei Mille, Gabriele D’Annunzio pronunciò, davanti a oltre ventimila persone, un’“orazione” per invocare l’intervento nella guerra contro l’Austria-Ungheria, che ebbe una forte eco e segnò la definitiva egemonia nazionalista sul movimento interventista, agli inizi spinto dall’“interventismo democratico” di personaggi come Leonida Bissolati, compagno di partito di Arnaldo Dello Sbarba.
(13) Lettera di Arnaldo Dello Sbarba a Cesare Rossi del 10 novembre 1923, in BGVolterra/FAdS, Carteggio, b. 4. I documenti citati di seguito, salvo diversa indicazione, si intendono provenienti da questo archivio, stessa posizione.
(14) Arnaldo Fratini (1895-1973) è stato la memoria storica del socialismo a Volterra. Alabastraio, entrato giovanissimo nel PSI, dal 1919 ne fu più volte segretario e consigliere comunale e fu perseguitato dal fascismo. Cfr. A. Fratini, Appunti per una storia del socialismo volterrano, «Volterra», dal n. 9 (set. 1969) al n. 11 (nov. 1970).
(15) «Il Martello» venne fondato il 6 ottobre 1894 dal ventunenne Arnaldo Dello Sbarba con Giulio Topi (nel 1920 primo sindaco socialista di Volterra) sull’onda delle lotte contro il governo Crispi. Il giornale dovette chiudere il 13 settembre 1895 avendo collezionato tre processi in 12 mesi.
(16) Cfr. D. Benvenuti, Le cravatte nere, storie degli anarchici a Volterra, Volterra, Distillerie, 2009.
(17) L’appoggio alla conquista della Libia comportò l’espulsione dal PSI (con una mozione promossa da Benito Mussolini) della corrente riformista di Bissolati e Bonomi di cui faceva parte anche Arnaldo Dello Sbarba. Cfr. M. Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori riuniti, 1976, anche I. Bonomi, Dal socialismo al fascismo, Milano, Garzanti, 1946.
(18) Cfr. Canali, Il dissidentismo fascista…, cit., p. 55.
(19) Athos Gastone Banti (1881-1959), giornalista “spadaccino” (molte sue polemiche finivano in duello) fu amico e sostenitore di Arnaldo Dello Sbarba. Redattore capo del «Telegrafo», corrispondente di guerra per il «Giornale d’Italia», dal 1919 al «Nuovo Giornale» di Firenze, organo ufficioso degli ambienti massonici, la cui sede venne data alle fiamme nel 1924 dai fascisti. In seguito Banti torna al «Giornale d’Italia», ma finisce nei guai con Mussolini per un articolo sul caffè bevuto dal Duce in tempi d’autarchia. Nel dopoguerra fonda e dirige «Il Tirreno» di Livorno fino al 1957. Filippo Filippelli (1890-1961), fascista della prima ora, giornalista dal 1920 al «Popolo d’Italia», nel 1922 diventa segretario di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Nell’aprile 1923 è azionista, amministratore delegato e direttore del «Corriere Italiano», creato dai vertici fascisti con fondi messi a disposizione da gruppi industriali come Ansaldo, Eridania, Ilva, Fiat ecc. Il giornale funzionava anche come collettore di finanziamenti occulti gestiti da Arnaldo Mussolini per il fascismo e per la stessa famiglia Mussolini. Filippelli fornì a Amerigo Dumini (per il «Corriere italiano» ispettore delle vendite) la Lancia con cui Matteotti venne rapito ed ucciso. Ricercato, rivelò in un memoriale l’esistenza della “Ceka del Viminale”, comandata da Dumini. Venne arrestato il 17 giugno 1924 e due giorni dopo il giornale cessò le pubblicazioni. A proposito di fondi, nell’archivio Arnaldo Dello Sbarba (BGVolterra/FAdS, carteggio, b. 4) esistono le lettere indirizzate ad Arnaldo, firmate dal direttore dello stabilimento Solvay di Rosignano, che accompagnano quattro assegni di £ 5.000 ciascuno emessi dalla Solvay a favore dei due giornalisti: due intestati a Filippelli datati 22 febbraio e 27 marzo 1924, due intestati a Banti datati 14 aprile e 7 maggio 1924. Arnaldo fa da intermediario tra la Solvay e i beneficiari.
(20) Piero Ginori Conti (1865-1939), Principe di Trevignano, conte palatino, nobile romano, patrizio di Firenze e di Pisa e nobile di Livorno. Parlamentare dal 1900 al 1921. Sposa Adriana del Larderel e ne eredita le proprietà. Alla guida della Società Boracifera Larderello, inventa lo sfruttamento della geotermia per produrre elettricità. Crea il primo fascio fuori dalla città di Pisa e stronca così lo sciopero del 1920 alla Boracifera, imponendo l’eliminazione di molti diritti, licenziamenti di massa e successivamente l’obbligo di iscrizione al PNF per i dipendenti. Sostenitore di Mussolini, alla sua morte il fascismo lo celebra con funerali di Stato. Cfr. il volume apologetico di R. Martinelli, Il fascismo a Larderello, Firenze, Sansoni, 1934. Inoltre, M. Fontani e M. G. Costa, Come la chimica Toscana si prostrò di fronte al fascismo: il caso di Piero Ginori Conti, https://chimicanellascuola.it/index.php/cns/article/view/chimica-toscana-fascismo-il-caso-piero-ginori-conti/65
(21) Promemoria Carlo Conti, due pagine scritte a mano: “Chiedere chi, a proposito di sindaci rossi, aiutò il Comune di Cascina a liberarsi del famigerato sindaco Guelfi, insistendo presso l’autorità governativa e giudiziaria perché promuovessero un’inchiesta amministrativa contabile prima, la procedura penale poi? Il prefetto Malinverno dirà che tutta questa opera fu compiuta dall’onorevole Dello Sbarba (…)”. Su Giulio Guelfi (1888-1939) Cfr. Massimiliano Bacchiet, “Guelfi Giulio” in ToscanaNovecento: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16235-guelfi-giulio?i=12. Renato Malinverno fu prefetto filofascista di Pisa dal 1° settembre 1921 al 14 aprile 1924.
(22) Promemoria Fagioli: sette pagine scritte a mano intestate Camera dei Deputati. “Si venne alle elezioni del 1921 e Dello Sbarba fu accolto come capo del Blocco Nazionale (…). In quell’occasione corse tutta la circoscrizione, parlando patriotticamente ed esaltando le nuove correnti del fascismo (…). A Volterra, dove nel 1919 i bolscevichi avevano proibito a Dello Sbarba l’entrata, egli fu ricevuto trionfalmente da cortei capitanati dai fascisti Pedani, Maffei ecc. (…)”. Paolo Pedani era ispettore della zona di Volterra, Gherardo Maffei segretario del fascio di Volterra e commerciante di alabastro. Nel 1924 entrambi furono protagonisti della campagna contro la candidatura Dello Sbarba.
(23) Il commando fascista che uccise Carlo Cammeo era composto dallo studente Elio Meucci, da Mary Rosselli-Nissim, figlia di un patriota mazziniano e fanatica attivista interventista durante la Prima guerra mondiale, e da Giulia Lupetti, figlia del comandante del presidio militare di Pisa. Cfr. Massimiliano Bacchiet, Un’ora di dolore per il proletariato pisano, in ToscanaNovecento: https://www.toscananovecento.it/custom_type/unora-di-dolore-per-il-proletariato-pisano/
(24) Il 21 luglio 1921, Sarzana fu attaccata da una colonna di circa 500 squadristi comandati da Amerigo Dumini, ma stavolta furono affrontati da Carabinieri e Guardie regie, cui seguì la resistenza antifascista spontanea della popolazione e degli Arditi del Popolo. Fu uno dei pochi episodi di resistenza armata ai fascisti, che ebbero diversi morti e feriti e molti arrestati.
(25) Tito Menichetti, giovane fascista ex ufficiale, fu ucciso il 25 marzo 1921 durante una spedizione punitiva a Ponte a Moriano e celebrato come il “primo martire” del fascismo pisano. I Fasci organizzarono i suoi solenni funerali cui parteciparono tutte le istituzioni. L’Università accolse il feretro in Sapienza con la partecipazione del senato accademico oltre che del Rettore Ermanno Pinzani, che poi, sugli studenti universitari fascisti caduti nel 1921, così scrisse : Nell’anno scolastico testé decorso (…) quei martiri (…) hanno offerto la loro vita giovanile, preziosa e piena di entusiasmi in olocausto ai santi ideali di patria, giustizia e libertà”. Cfr. E. Pinzani, Inaugurazione degli studi. Relazione del Rettore, «Annuario della R. Università di Pisa per l’Anno Accademico 1921/1922», Pisa, Tip. Mariotti, 1922, p. 24.
(26) Nel corteo che attraversa “una città imbandierata”, Arnaldo Dello Sbarba è in prima fila insieme al sindaco Buffarini Guidi, al prefetto Malinverno, al senatore Supino e al deputato Ruschi. Cfr. «Messaggero toscano», 29 ottobre 1923.
(27) Cfr. «Messaggero Toscano», 21 febbraio 1924.
(28) Dario Lischi “Darioski” (1891-1938), giornalista, colonna dell’«Idea fascista», organo della federazione fascista pisana, del cui consiglio federale fu più volte membro, autore di numerosi libri, tra cui La marcia su Roma con la colonna Lamarmora (1923), Viaggio di un cronista fascista in Cirenaica (1934) e Tripolitania Felix (1937). Cfr. P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo…, cit., p. 136.
(29) “Medoro” nomignolo dato dai pisani a Filippo Morghen a causa delle sue traversie coniugali. Ispirato alle vicende di Angelica nell’Orlando Furioso.
(30) Sandro Carosi (1899-1965), uomo di fiducia di Morghen, era farmacista e sindaco di Vecchiano, definito dal prefetto Malinverno «uno squilibrato per temperamento violento». Tra gli altri, uccide a freddo il tipografo Ugo Rindi l’8 aprile del 1924. Ebbe il compito di minacciare ripetutamente Arnaldo Dello Sbarba. Giuseppe Biscioni, “ras” di Calci, partecipò all’assassinio Rindi. Daniele De Guidi era il “ras” di Rosignano Marittimo. Lamberto Parenti era squadrista a Cascina e Navacchio. Francesco Giunta (1887-1971), segretario del PNF dal 1923 al 1924 e parlamentare dal 1921 al 1943, fu il persecutore della minoranza slovena di Trieste. Nel 1945 la Jugoslavia lo dichiarò criminale di guerra, ma l’Italia non concesse l’estradizione.
(31) L’ordine del giorno dei sindaci e la lettera del sindaco di Collesalvetti viene spedita da Carlo Conti ad Arnaldo il 19 febbraio 1924.
(32) Guido Buffarini Guidi (1895-1945), laureato in Giurisprudenza, volontario nella Prima guerra mondiale, massone nella loggia Darwin di Pisa. Avvocato e sindaco fascista di Pisa dove fu anche podestà e federale, membro del Gran consiglio del fascismo, sottosegretario agli interni (1933-1943), fu ministro dell’Interno nella Repubblica Sociale Italiana e corresponsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Venne fucilato dai partigiani il 10 luglio 1945.
(33) Lando Ferretti (1895-1977), combattente di due guerre, capo-corso alla scuola Normale di Pisa, deputato fascista dal 1924 al 1939. Dirigente sportivo, in era fascista fu presidente del CONI e commissario della Federazione italiana gioco calcio. Nel 1942 tenne una conferenza a Firenze nel 1942 indicando “il comune nemico nel trinomio giudaismo, plutocrazia, bolscevismo” e proponendo la ghettizzazione degli ebrei. Nel dopoguerra fu a lungo senatore del MSI (1953-1968) e membro del comitato organizzatore delle olimpiadi di Roma del 1960.
(34) Cfr «Il Messaggero Toscano» del 21 febbraio 1924.
(35) Mario Supino (1879-1938), avvocato, collega e amico di Arnaldo, già dirigente dell’Associazione nazionale combattenti di Pisa, per conto della massoneria si candidò alle elezioni politiche del 1924 nella lista democratico sociale, con scarso successo. Augusto Mancini (1875-1957) fu docente di filologia all’università di Pisa. Interventista, deputato repubblicano dal 1913 al 1924. Primo presidente del CLN di Lucca e primo rettore dell’università di Pisa liberamente eletto.
(36) Guido Donegani (1877-1947) fu presidente della società Montecatini, deputato del partito fascista dal 1921 al 1939, massone. Nel 1921 era stato eletto con Arnaldo Dello Sbarba nella lista dei “Blocchi Nazionali”. Gino Sarrocchi (1870-1950), deputato della destra liberale dal 1913 al 1929, ministro ai Lavori pubblici del primo governo Mussolini, si dimise dopo il delitto Matteotti. Nel 1929 fu nominato senatore. Dopo il 25 luglio 1943 si ritirò a vita privata. Gino Aldi Mai (1877-1940) eletto deputato a Siena in una lista agraria-liberale che poi confluisce nel PNF, rieletto dal 1924 al 1934, poi nominato senatore.
(37) APAdS, minuta a mano di 15 pagine in piccolo formato intestate “Camera dei Deputati”.
(38) In APAdS.
(39) Cfr. «La Nazione» del 17 giugno 1924, che cita indiscrezioni su possibili nomi.
(40) Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, 1. La conquista del potere 1921-1925, cit., cap. 7: Dal delitto Matteotti al discorso del 3 gennaio.
(41) Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista…, cit., pp. 80-83.
(42) Lettera del 26 agosto 1925, in APAdS.

Riccardo Dello Sbarba
Volterra, 1954. Laureato in filosofia a Pisa, docente di ruolo, giornalista professionista. Fin da giovanissimo partecipa ai movimenti degli studenti medi e universitari, milita nel gruppo del “Manifesto” di Pisa e scrive corrispondenze per il quotidiano. Dal 1986 al 1988 è nominato dalla Regione Toscana nel CdA del Parco di S. Rossore. Collabora con «Il Tirreno». Nel 1988 si trasferisce a Bolzano, dove lavora al quotidiano «Alto Adige» fino al 1992, al settimanale in lingua tedesca «ff» fino al 2001 e dirige il quotidiano «Il Mattino» fino al 2003. Cura il volume: Alexander Langer, Scritti sul Sudtirolo – Aufsätze zu Südtirol, Merano, A&B, 1996 ed è autore di: Südtirol-Italia: Il calicanto di Magnago e altre storie, Trento, Il Margine, 2003. Per quattro legislature, dal 2004 al 2023, è consigliere per i Verdi del Sudtirolo nel Consiglio provinciale di Bolzano, di cui è stato presidente dal 2006 al 2008. Collabora alla Biblioteca F. Serantini su temi inerenti la storia politica e sociale della provincia di Pisa.




Valtiberina: un itinerario fra i luoghi intrisi di storia e di memoria della Resistenza

Proposta per una gita nei primi tre comuni della Valtiberina, Monterchi, Anghiari e Caprese Michelangelo, ricordando per ogni luogo quanto accaduto durante la Liberazione dal nazifascismo: partenza da Monterchi fino ad Anghiari (spostamento in auto 10 minuti e in autobus in circa 15 minuti); si prosegue poi verso Caprese Michelangelo (22 minuti in auto, circa mezz’ora in autobus). In totale sono 25,6 chilometri.

Il percorso è possibile anche effettuarlo a piedi in circa 5/6 ore di cammino.

 

Mappa del percorso da Monterchi a Caprese Michelangelo.

 

1° Tappa

MONTERCHI

 

Monterchi è un paese della Valtiberina a ventotto chilometri da Arezzo ed è posto su un piccolo colle da cui domina il territorio circostante. È proprio quest’altura a dare il nome al paese, infatti era detta fin dall’antichità Mons Herculis (Monte di Ercole), da qui Monterchi.

Il comune è attraversato dalla strada statale, dalla Toscana all’Umbria, che durante la seconda guerra mondiale aveva un’importanza strategica notevole in quanto rappresentava una via di ritirata delle truppe tedesche.

Nella zona di Monterchi operavano diverse bande partigiane sempre sorrette ed assistite dalla popolazione locale sia da un punto di vista logistico che di sostentamento nonostante le continue requisizioni di vettovaglie e le razzie di bestiame con le quali i tedeschi tentavano di arginare questa preziosa collaborazione del mondo contadino.

Ricordiamo nel territorio di Monterchi la figura del parroco Don Fiorenzo Moretto che aderì all’antifascismo fin dall’ottobre ’42 scoraggiando i giovani del paese dopo l’8 settembre del ’43 ad arruolarsi nella repubblica sociale italiana (RSI) e mettendo a disposizione la sua canonica per nascondere armi e munizioni per i partigiani. Purtroppo quattro di questi giovani cattolici morirono per mano nazifascista subito dopo essersi arruolati nelle brigate partigiane: era il 26 giugno del 1944, quel giorno i tedeschi rastrellavano l’intera zona di Anghiari; la mattina venne fermato Sabatino Mazzi, giovane partigiano, e poco dopo, probabilmente a seguito di una spiata, fu la volta dei quattro giovani monterchiesi, Enrico Riponi, Francesco Franceschi, Tommaso Calabresi e Pasquale Checcaglini; essi avevano deciso di unirsi ai partigiani la mattina stessa ed erano passati da Anghiari per prendere contatto con le formazioni partigiane locali. Tutti e cinque furono giustiziati per impiccagione dopo essere stati interrogati e torturati[1].

Alvaro Tacchini in “Guerra e Resistenza nell’Alta valle del Tevere[2] ci racconta l’orribile fine che fecero questi poveri ragazzi: verso sera vennero impiccati con il fil di ferro ad un tronco d’albero poggiato su due colonne in prossimità del Valico della Scheggia, nel luogo nel quale oggi campeggia una lapide che li ricorda, a fianco di Villa La Speranza. Compiuta la carneficina appesero poi sulla testa della forca un cartello con la scritta “Partigiani puniti, camerati sparate”.

Da quella sera i tedeschi che passavano dal valico per scendere in Val di Tevere o in quella dell’Arno, fermavano il veicolo, leggevano la scritta ed ubbidivano all’invito, scaricando le pistole sui cadaveri ormai ridotti a brandelli di carne… era stato impedito anche ai parenti di rimuovere e dare degna sepoltura alle loro salme[3].

Finalmente qualche giorno dopo un gruppo di partigiani che passava di lì, nonostante il pericolo, riuscì ad appoggiare a terra i loro corpi, che furono poi bruciati all’arrivo delle truppe alleate ai primi di agosto. Uno di essi raccontò come andarono esattamente le cose: «In cima alla Libbia ci fermammo a staccare i cinque impiccati, fra i quali c’era il nostro compagno Sabatino Mazzi: lo seppellimmo nel piccolo cimitero di Colignola. […] Agli altri, per risparmiargli lo scempio delle soldataglie in transito, che scaricavano su quei poveri corpi i loro mitra, tagliammo le corde e li adagiammo per terra. Era l’unica cosa che potevamo fare»[4].

Oggi il percorso pedonale che attraversa il parco fluviale di Monterchi è stato intitolato “ai caduti martiri di Via Libbia” e in Piazza Umberto sulla torre civica sono poste tre lastre in memoria dei caduti di Monterchi nelle due guerre mondiali e una di queste è dedicata proprio ai cinque giovani partigiani traditi e barbaramente uccisi dai nazisti. Mentre nel cimitero locale è presente invece la tomba dei quattro partigiani.

 

Cartello del percorso pedonale del parco fluviale di Monterchi intitolato “ai martiri di via Libbia”.

 

Cimitero di Monterchi, tomba dei quattro giovani partigiani uccisi al Valico della Scheggia.

 

Lastra posta sulla Torre Civica in Piazza Umberto I a Monterchi in ricordo dei giovani monterchiesi uccisi per mano nazista.

Torre Civica, Monterchi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alcuni giorni prima della liberazione del comune, a Monterchi i nazisti fecero saltare l’antico ponte sul torrente Cerfone, obbligando con la forza alcuni civili a mettere le mine lungo le strade del capoluogo e per scongiurare una reazione da parte della popolazione e dei partigiani del luogo tennero in ostaggio una decina di capifamiglia in una casa nei pressi di via del Borghettino. Ma fortunatamente vennero rilasciati incolumi quando i soldati si allontanarono dal paese con l’avanzare dell’esercito alleato.

Il 26 luglio 1944 Monterchi venne liberata dalle truppe alleate.

 

Monumento ai Caduti di tutte le guerre di Monterchi, in via della Piaggia.

 

 

Da Monterchi si intraprende la Strada Provinciale 42 (SP42) e si procede in direzione nordovest per poi prendere dopo alcuni chilometri la Strada Statale 73 (SS73) ed infine la Valcelle San Lorenzo che ci porterà ad Anghiari, dopo circa dieci minuti di tragitto.

 

 

2° Tappa

ANGHIARI

 

Borgo situato a 429 metri di altezza sul livello del mare, su una dorsale che divide la Valtiberina dalla valle del torrente Sovara, posto all’estremo ovest della Toscana non lontano dal confine con l’Umbria. In questo luogo si combatté nel 1440 la mitica battaglia di Anghiari tra la Repubblica di Firenze e le truppe milanesi dei visconti, battaglia resa celebre da un murale di Leonardo Da Vinci oggi andato perduto.

Percorrendo la strada che da Anghiari conduce a Caprese Michelangelo si arriva alla minuscola frazione di Motina. Qui alla nostra destra era situato il campo di internamento di Renicci, uno dei peggiori campi di concentramento d’Italia per numero di internati e per i comportamenti tenuti dal personale di sorveglianza[5]. Inizialmente realizzato per ospitare prevalentemente prigionieri sloveni e croati, dall’agosto del 1943, con la caduta del fascismo e l’avvicinarsi delle truppe alleate, vi vennero traferiti anche i confinati politici, provenienti dalla colonia di Ustica, ed altre centinaia di confinati, fra cui gli anarchici, dalle colonie di Ventotene e Ponza.

 

Campo di Renicci, estate 1943.

 

Con l’arrivo dei prigionieri politici cambiò l’atmosfera nel campo ed iniziarono proteste, scioperi della fame e dimostrazioni. E dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43, quando diversi soldati italiani cominciarono a disertare alla spicciolata e dunque il servizio di guardia si era allentato, gli internati, temendo di cadere nelle mani dei nazisti, abbatterono i cancelli del campo e lo evacuarono in massa. Si parla di circa 5.000 fuggiaschi e molti di essi si unirono alle formazioni partigiane della zona. Per questo motivo agli inizi di novembre venne effettuato un capillare rastrellamento ad opera dei nazifascisti che investì tutto il territorio: dai monti della Valtiberina toscana ai due lati del Tevere, tra Caprese Michelangelo e il passo di Viamaggio. L’operazione si proponeva di ripulire tutta la zona dalla variegata comunità di fuggiaschi che vi avevano trovato rifugio: oltre agli internati slavi, vi erano anche renitenti e disertori italiani ed ex-prigionieri anglo-americani. Ma il rastrellamento produsse risultati molto modesti, anche perché la popolazione continuò a mostrarsi sempre solidare con gli uomini alla macchia[6].

Per decenni il luogo nel quale si trovava il Campo di Renicci è rimasto sepolto nella memoria storica, fino a che, nel 2009, all’interno dell’area del campo è stato realizzato un giardino[7], che ospita ogni anno le celebrazioni legate alla Giornata della Memoria. All’interno del giardino sono riportati dei cartelloni che spiegano la storia del campo di concentramento e un monumento realizzato dagli studenti dell’Istituto d’Arte di Anghiari.

 

Ingresso del giardino della memoria, Anghiari.

 

Cartello informativo.

 

A lato della strada provinciale della Libbia è posta una lapide commemorativa all’interno di una piccola area di rispetto per ricordare l’atroce eccidio al Valico della Scheggia di quei cinque giovani partigiani di Monterchi di cui abbiamo narrato i fatti nella tappa precedente.

 

Lapide in memoria dell’eccidio al Valico della Scheggia, Anghiari.

 

Anghiari a metà luglio del ‘44 si ritrovava poco più a sud della Linea Gotica e forti erano i combattimenti nell’area di Arezzo che era stata appena liberata dagli Alleati. In questo contesto di forte presenza militare a causa della vicinanza del fronte, a Tortigliano, una frazione del comune di Anghiari, il 17 luglio 1944 si verificò un brutale episodio: don Domenico Mencaroni, giovane parroco di Toppole a Verrazzano, venne fucilato dai tedeschi dopo essere stato pesantemente percosso per farsi rivelare informazioni riguardanti i partigiani. Egli era da tempo ricercato per gli stretti rapporti di collaborazione che aveva con i partigiani della zona e per il sospetto che conservasse copie dell’“Osservatore Romano” e dell’“Avvenire” con articoli di contenuto ostile al nazionalsocialismo[8]. Il suo contributo era risultato in più di un’occasione determinante per la riuscita delle azioni di guerriglia.

Chi oggi volesse conoscerne il volto lo trova raffigurato nella lapide collocata nel decennale della fine della guerra all’interno dell’ex Seminario di Sansepolcro (l’attuale scuola di Ragioneria). Mentre in località Subbiano (confine meridionale del Casentino) nel cimitero locale è presente una cappella dedicata ai caduti della Resistenza ed una delle quattordici lapidi è proprio quella di don Domenico Mencaroni.

Un altro sacerdote attivo sempre ad Anghiari che trovò la morte il 15 giugno del ’44 nel carcere di Arezzo fu il parroco di Casenevole, don Giuseppe Tani, fratello di Sante Tani, capo della Resistenza aretina. Egli era stato arrestato alla fine di maggio insieme al fratello e ad Aroldo Rossi, entrambi partigiani aretini rifugiatisi nella sua canonica. A lungo sottoposti a interrogatorio e torturati in carcere, i tre prigionieri furono fucilati insieme ad altri tre partigiani che tentarono di farli evadere.

Il 16 agosto ad Anghiari arrivarono i tanto attesi liberatori: un distaccamento alleato composto da polacchi ed indiani. Ma purtroppo i lutti e le sofferenze non erano finiti… due giorni dopo esplose un ordigno ad alto potenziale, nascosto dai nazisti in ritirata nel pozzo della caserma dei carabinieri, provocando la completa distruzione dell’edificio e causando la morte di 17 persone fra carabinieri e civili.

Antonio Ferrini, subito sopraggiunto, così racconta: “Al posto della caserma non si scorgeva che qualche rudere fumante ed un ammasso di macerie cosparsi di frammenti di carne umana e di arti troncati; rimasi come pietrificato dinanzi ad un sì orrendo spettacolo, accorsero altre persone ed allora mi riscossi, ponendomi con esse a ricercare e liberare i corpi affioranti di carabinieri e civili semisepolti, straziati nelle carni dalla terribile esplosione[9].

Sulla tragedia di Anghiari sottolinea Alvaro Tacchini nel suo libro “Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere”, incombono ancora dubbi e sospetti, in quanto da giorni si sapeva che i nazisti avrebbero piazzato una bomba nella cisterna dell’edificio e forse questo rischio fu gravemente sottovalutato[10].

Sul luogo del misfatto è oggi posto un cippo per ricordare qui tragici fatti

 

Cippo in memoria della strage collocato in via Nova, vicino ai giardini.

 

Da Anghiari prendiamo la Strada Provinciale 47 (SP47) e la percorriamo per circa venti minuti fino ad arrivare a Caprese Michelangelo.

 

3° Tappa

CAPRESE MICHELANGELO

 

Caprese Michelangelo è un paese circondato da splendidi boschi a nord-est dell’Alpe di Catenaia che deve il suo nome al famoso pittore che vi nacque nel XV secolo. Da questo paese si accede a numerosi sentieri dell’Alpe sul versante della Valtiberina.

Oltre che per la natura che la circonda Caprese Michelangelo è nota per l’antica tradizione della coltivazione delle castagne, un tempo principale fonte di sostentamento della popolazione locale. Ed è proprio in quei castagneti che trovarono rifugio e nascondiglio, durante la seconda guerra mondiale, centinaia di slavi e croati, fuggiti dal vicino campo di internati civili di Renicci d’Anghiari, all’indomani dell’8 settembre ‘43, dove sostarono alcune settimane prima di disperdersi nelle macchie appenniniche o di raggiungere la riviera adriatica per tentare il loro ritorno in patria. Ricevettero aiuto e sostentamento da tutta la popolazione capresana che era solita dare asilo a fuggiaschi e perseguitati. Tutti i giorni le famiglie consideravano un loro dovere cristiano il portare una minestra calda e un tozzo di pane ai rifugiati[11]. Il parroco di Sigliano nel suo diario così scriveva: “I fuggiaschi si annidavano nei boschi vicini, ma non tardarono a venire, spinti dalla fame nelle nostre case, e tutti si fece a gara nel prodigare a loro aiuti ed assistenza. Devo dire, in verità, che si comportarono assai bene, si contentarono di quello che si poteva dare loro e si mostravano educati e rispettosi. Feci amicizia con molti e tenni la mia tavola apparecchiata per loro ogni volta che venivano[12].

Questo moto di solidarietà trovò immediato sostegno anche nel Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista di Arezzo che promosse l’assistenza ai prigionieri alleati e slavi evasi dal campo di Renicci e da quello di Laterina.

Gli slavi di Renicci rappresentarono una componente di rilievo del movimento di Resistenza dell’Appennino umbro-tosco-marchigiano: nel dicembre del ’43 coloro che erano rimasti ancora nei boschi di Caprese costituirono due bande agguerrite per combattere a fianco dei partigiani aretini fino alla Liberazione.

Il 14 giugno 1944 in uno scontro a fuoco presso Chiusi della Verna alcuni partigiani slavi uccisero un tedesco e come risposta i nazisti scatenarono la loro rabbia contro la popolazione inerme di Chiusi ammazzando dieci civili innocenti e quanti incontrarono per la strada provinciale che scendeva verso Pieve Santo Stefano, secondo la loro legge che per ogni tedesco ucciso bisognava ammazzare dieci italiani. Alcuni soldati tedeschi di passaggio su un camion lungo l’arteria uccisero i due fratelli Elmo e Quinto Romolini abitanti di Caprese Michelangelo. Essi commerciavano in uova e legname e stavano scendendo a piedi all’alba del 14 giugno a Pieve Santo Stefano per il mercato[13].

Nel luogo dell’uccisione dei due fratelli lungo la strada provinciale 208 della Verna che conduce a Pieve Santo Stefano è stato eretto un cippo commemorativo.

 

L’iscrizione sul cippo così recita: “In una triste sera di sangue, il 14 luglio 1944, trucidati dal ferro tedesco caddero qui i fratelli Elmo e Quinto Romolini, senza un saluto delle famiglie in attesa, senza sapere perché morivano”.

 

Il 13 aprile del ’44 il territorio di Caprese Michelangelo fu investito da un massiccio rastrellamento volto ad eliminare la presenza partigiana dalle posizioni della Linea Gotica. Vi fu un duro scontro tra slavi e nazifascisti, nel corso del quale persero la vita, per proteggere la ritirata dei propri compagni nella boscaglia, lo studente sloveno Dusan Bordon e il russo Pjotr Fesiipovic.

Il 13 aprile 2024, a ottant’anni esatti dalla loro uccisione, è stato inaugurato, presso Samprocino, nei pressi di Caprese Michelangelo, il monumento ai partigiani caduti in combattimento che hanno dato la loro vita per la libertà.

 

Monumento ai partigiani Dusan Bordon e Pjotr Fesiipovic caduti in combattimento, Caprese Michelangelo.

 

Il territorio di Caprese Michelangelo per tutto il mese di agosto durante la ritirata dei nazisti e l’avanzata dell’esercito alleato fu teatro di scontri con bombardamenti aerei e fuoco incessante delle opposte artiglierie. Nel corso delle operazioni furono distrutte e danneggiate gran parte delle case del paese. Il capoluogo fu liberato il 24 agosto ma le operazioni nel vasto territorio comunale continuarono fino alla fine del mese.

 

Monumento ai Caduti di tutte le guerre a Caprese Michelangelo, in via Capoluogo, posizionato in un’area verde a lato della strada.

 

 

NOTE:

[1] Giuseppe Bartolomei, I sentieri della guerra. Zibaldone di voci, di impressioni e di notizie sulla guerra in Valtiberina e dintorni, ITEA Editrice, Anghiari 1994, pp. 119-22.

[2] Alvaro Tacchini, Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.

[3] Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Tip. Badiali, Arezzo 1957, p. 487.

[4] Valico della Scheggia, Anghiari 26 giugno 1944 in https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3570

[5] Cfr. Giorgio Sacchetti, Renicci 1943. Internati anarchici. Storie di vita del campo 97, Aracne, Roma 2013.

[6] Ivan Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana: la storia, la memoria, Pagnini, Firenze 1994, p. 20.

[7] Il Giardino fu istituito su iniziativa promossa dal Comune, in collaborazione col Teatro di Anghiari, Compagnia dei Ricomposti, Mea Revolutionae, ANPI, Istituto d’Arte, Associazione Cultura della Pace, e con la messa in opera delle sculture di Gianfranco Giorni.

[8] Tersilio Rossi, La valle dei castagni. Memorie di lotta partigiana tra i monti di Caprese, ILA Palma, Palermo-Sào Paulo 1986, pp. 226-7.

[9] A. Tacchini, L’esplosione della caserma dei carabinieri ad Anghiari, in Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, cit., https://www.storiatifernate.it/id/lesplosione-della-caserma-dei-carabinieri-ad-anghiari/

[10] Ibidem.

[11] Lorenzo Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina in La Resistenza dei cattolici sulla Linea Gotica, (a cura di) Silvio Tramontin, Edizioni cooperativa culturale “Giorgio La Pira”, Sansepolcro 1983, p. 172.

[12] A. Tacchini, Gli internati slavi di Renicci: fuga e solidarietà popolare, in Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, cit., https://www.storiatifernate.it/id/partigiani-slavi-nel-capresano/

[13] Sull’uccisione dei fratelli Romolini di Caprese Michelangelo cfr. T. Rossi, La valle dei castagni, cit., pp. 217-25; e Fiori Giovannino (a cura di), La memoria della gente comune. Nel cinquantesimo Anniversario della Liberazione di Caprese Michelangelo, ITEA, Anghiari 1994, pp. 114-5.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di novembre 2024.




Matteotti a Siena

Nel fine settimana che precede il Natale 1920, si tiene a Siena il congresso provinciale del Partito socialista: le elezioni amministrative sono state vinte quasi ovunque (tranne che nel capoluogo) ed ora ci sono i Comuni da amministrare e dei compagni che nella gran parte dei casi non sono molto preparati.

Il Partito invia a Siena alcuni deputati e tra di loro c’è Giacomo Matteotti, uno che in tema di finanze e di istruzione non ha niente da imparare da nessuno.

Su quanto però i socialisti senesi abbiano ascoltato Matteotti è lecito nutrire dubbi, essendo l’attenzione di tutti rivolta all’ormai prossimo congresso di Livorno.

Non è la prima volta che Matteotti passa per Siena: lui e la moglie Velia, ambedue appassionati dell’arte senese, erano stati attratti non solo dal Palazzo comunale ma anche dalle tante botteghe artigianali, comprese quelle dei bravissimi falsari del tempo.

Quando due anni e mezzo dopo Matteotti tornerà a Siena, la sua vita e quella della sua famiglia saranno ormai completamente stravolte.

Giacomo arriva in città alla fine di giugno 1923, proprio nei giorni che precedono il Palio, reduce da un non facile viaggio tra i compagni siciliani, pesantemente sorvegliato dalla polizia. Rientrando a Roma in un momento in cui i lavori parlamentari sono sospesi, egli scrive a Velia proponendole qualche giorno da passare assieme “in Lucchesia o in Umbria”; poi si eclissa e lo vediamo spuntare in segreto a Siena. Lo ha preceduto Velia, arrivata da Milano con un gruppo di amici di cui fanno parte, quasi certamente, la sorella ed il cognato, anche loro consapevoli di quanto sia opportuno farsi notare il meno possibile.

A Siena è stato allertato il cavaliere del lavoro, Giovanni Romei, affermato industriale del ferro e forse grazie a lui il gruppo trova alloggio all’Hotel Royal, dalle cui finestre si possono scorgere i giardini della Lizza e la statua equestre di Garibaldi. Velia e Giacomo visitano di nuovo la città e di certo si recano al negozio di ferri battuti di Pasquale Franci, che si trova proprio dove si esce dalla Piazza del Campo per risalire via del Casato: lì acquistano una lumiera per la casa che stanno arredando a Roma.

Poi i due visitano certamente qualche palazzo o qualche chiesa ed ancora le botteghe artigiane: falegnami, pittori, decoratori i cui lavori riportano a secoli passati, quelli della grande arte senese. Ovunque essi si presentano come “signori Steiner”, usando il cognome del cognato milanese.

Sono giornate abbastanza convulse: in città, acclamato dal popolo, c’è il ministro dell’istruzione pubblica, Gentile, chiamato a garantire la sopravvivenza della locale università minacciata da possibili riforme.

Ci sono i deputati locali, a cominciare dall’avvocato liberale Gino Sarrocchi, protagonista alla Camera di duri scontri con Matteotti.

C’è Dario Lupi, sottosegretario di Gentile, l’uomo che ha inventato i parchi della rimembranza e che soprattutto ha riportato il crocifisso nelle aule scolastiche.

E poi Cesare Rossi, il segretario della presidenza del consiglio, che un anno dopo si sarebbe personalmente occupato del rapimento e dell’uccisione di Matteotti; con lui presumibilmente gente del mondo della milizia.

Probabilmente però nessuno di loro si accorge della scomoda presenza di Matteotti: del resto su quanto poi accadrà, ogni giornale ed anche il prefetto danno versioni diverse.

In ogni caso, nel pomeriggio del 2 luglio, mentre la comitiva si divide per trovare posti da cui assistere alla corsa, Matteotti viene individuato, aggredito e rapidamente allontanato da Siena.

Come era accaduto nel 1921, in occasione della clamorosa aggressione avvenuta a Castelguglielmo, nel Polesine, Matteotti non ama fare clamore sulla violenza subita, dunque non si sofferma sull’episodio senese. Pochi giorni dopo c’è però la visita del Romei a Montecitorio, per il desiderio di  stigmatizzare l’accaduto e portare solidarietà a Matteotti; ci sono soprattutto le lettere scambiate nei giorni seguenti con Velia a dimostrare come l’aggressione subita avesse aumentato i timori della donna.

In seguito, né Giacomo, che avrebbe comunque continuato ad affrontare con infinito coraggio il regime, né Velia che con un coraggio ancor maggiore avrebbe continuato ad amare e sostenere il marito, avrebbero potuto farsi illusioni sulla fine della loro storia. Basta scorrere i resoconti apparsi sui giornali, cominciando da quello sprezzante pubblicato sul «Popolo d’Italia», firmato con uno pseudonimo che può appartenere solo ad uno dei fratelli Mussolini.

Siena ricorrerà nelle vicende di Matteotti giusto il giorno seguente il rapimento: la prima notizia del fatto appare sull’edizione serale del «Corriere della sera», 12 giugno 1924, e riporta il disperato invito di Velia a cercare Giacomo o a Siena o dalla madre, a Fratta Polesine.

Oggi è comunque bello ricordare quanto Cesare Biondi, noto medico e professore dell’Università senese, scrisse in quei giorni a Filippo Turati: “Ricordo, guardando da una finestra del mio studio la Torre del Mangia e le ondulazioni cretacee della campagna senese, come proprio l’ultima volta che vidi Matteotti parlammo di Siena e del fascino mistico di questa campagna silenziosa… egli conosceva bene l’arte senese ed io gli avevo detto che in un momento più sereno gli avrei mostrato qualcosa che egli non conosceva, in qualche cantuccio inesplorato, e che avremmo goduto insieme”.




Tra bombardamenti ed eccidi, l’anno buio della guerra a Dicomano

Dicomano rappresenta al meglio la specificità delle valli appenniniche durante la resistenza nell’estate del 1944. La liberazione del 10 settembre simboleggia la fine di un incubo durato mesi e reso ancor più nefasto dalle stragi nazifasciste verificatesi a luglio. Prima è però importante per il lettore capire il significato di quelle stragi. Dobbiamo quindi illustrare che cosa rappresentano quelle zone nel contesto di guerra. Stiamo parlando di valli strette e ritenute abbandonate, al limite della regione, quindi considerate sicure. Sono al contrario estremamente strategiche perché rappresentano il passaggio tra Toscana e Emilia Romagna. Un passaggio decisivo, soprattutto la parte aretina, nella primavera del 1944, quando i comandi delle brigate Garibaldi decidono di creare una grande armata partigiana che doveva operare sull’Appennino per colpire sul forlivese e sull’aretino. Un progetto poi smantellato in seguito all’operazione di rappresaglia e rastrellamento nazista, deciso subito dopo le Ardeatine, che potremmo definire il punto di svolta sulla concezione da parte di Kesselring e dei comandi nazisti del pericolo partigiano, considerato da li in avanti potenzialmente pericolosi per le proprie truppe. Fino a quel momento non vi erano state stragi di matrice nazista infatti, era stato lasciato ai fascisti il controllo del territorio. Da quel momento cambia tutto. A quel punto, tutte le brigate partigiane che si stavano portando sull’Appennino per raggrupparsi, ovviamente devono separarsi per non essere catturate. Ed è per questo che quindi si verificò la divisione sui territori. Da quel momento l’Appennino diviene strategico, in quanto zona centrale dei combattimenti, e lo resterà finché la linea non si attesterà a Bologna, nell’autunno del 1944[1].

Per omaggiare al meglio il ricordo di quei mesi è doveroso quindi cercare di creare un itinerario che possa contenere tutti i luoghi della memoria di Dicomano, sia quelli in paese, sia i ceppi in ricordo delle vittime stragiste situate nelle varie località adiacenti.

 

Percorso

 

  • Percorso: Via Nazionale, località Contea, Dicomano (Cippo di Contea) – Piazza Francesco Buonamici, Dicomano (Lapide del bombardamento) – Piazza Trieste, Dicomano (Monumento ai caduti della resistenza) – Località Santa Lucia, Dicomano (Cippo di Santa Lucia)
  • Tempo di percorrenza: 2 ore
  • Distanza: 7,2 km
  • Dislivello: pianeggiante (+ 263 m – 143 m)

 

Il nostro percorso inizia da Via Nazionale, precisamente dalla località Contea, tra Montebello e Rufina, dove ci troveremo davanti al Cippo di Contea, in ricordo della doppia strage nazifascista del 7-8 luglio 1944. Ricordiamo che Dicomano sin dalla fine del giugno 1944 è stato teatro di requisizioni e rastrellamenti tedeschi, nonché di attività di bande partigiane. Già ai primi di luglio, a seguito di uno scontro armato con i partigiani tra Monte e Santa Lucia furono catturati come ostaggi quattordici persone del luogo, poi rilasciate grazie all’intervento di don Mario Faggi pievano di Dicomano. Il 7 luglio 1944 a Contea quattro contadini furono casualmente visti da un tedesco intento a lavarsi nel torrente Sieve mentre asportavano alcune bombe da una cassa di munizioni di provenienza non nota. I quattro probabilmente intendevano usare gli ordigni per pescare, ma furono accusati invece di volerli portare ai partigiani. Dopo che furono stati fermati, ai contadini venne intimato di scavare una fossa. Probabilmente infastidito dalle numerose e reiterate suppliche che gli rivolsero per aver salva la vita, il soldato tedesco li freddò a colpi di pistola. Subito dopo l’eccidio, una ventina di persone rastrellate in zona fu condotta dai militari sul luogo dell’uccisione dei quattro contadini per prendere visione, come monito, di quanto accaduto. I militari tedeschi, venuti a conoscenza che una delle quattro vittime, Albino Cecchini, era fratello del partigiano Armando Cecchini, ucciso in località Fungaia il 20 luglio, decisero di recarsi presso l’abitazione del Cecchini in località Capraia, nella parrocchia di Celle. L’8 luglio alcuni soldati vi irruppero sterminando la madre Rosa, la moglie Maria, il figlio Antonio di appena sei mesi e una nipote lì presente di sei anni. La casa venne in seguito incendiata e le salme dei familiari mantenute a lungo senza sepoltura per ordine del comando tedesco[2]. Una strage spietata che, come ricorda anche la lapide, non deve alla guerra questi morti, bensì:

 

«Non la guerra ma la ferocia

nazi-fascista

volle l’eccidio inconsulto e barbaro

che i limiti della storia non contengono

e che gli uomini non dimenticheranno»

 

Ci spostiamo poi a Dicomano paese, precisamente a piazza Francesco Buonamici, dove troveremo la lapide dedicata al bombardamento, che recita:

 

«…prima ci sono state altre guerre.

alla fine dell’ultima

c’erano vincitori e vinti.

fra i vinti la povera gente

faceva la fame. fra i vincitori

faceva la fame la povera gente ugualmente»

(B. Brecht)

Il riferimento è al bombardamento del 27 maggio del 1944, dove fu raso al suolo quasi tutto il Paese, ad eccezione dell’Oratorio di Sant’Onofrio. Quest’ultimo fu risparmiato dagli alleati in quanto consapevoli del fatto che al suo interno fossero presenti numerose opere d’arte. Venuti a conoscenza del fatto anche i nazisti, il 30 luglio 1944 il colonnello Langsdorff, senza nessun accordo o autorizzazione da parte della Soprintendenza fiorentina, si recò a Dicomano e caricò alcuni camion tedeschi con circa 26 casse contenenti alcune sculture conservate nell’oratorio. Questa operazione venne giustificata in quanto ritenuto più sicuro allontanare le opere da territori che avrebbero potuto essere potenzialmente pericolosi per custodirle all’interno di nuovi depositi istituiti in Alto Adige (territorio in pieno controllo nazifascista). L’autorizzazione per questo spostamento venne data dal Generale Wolff, il quale diresse le operazioni di trasporto indirizzandole prima verso enti ecclesiastici, come parrocchie e monasteri, poi verso i due nuovi depositi: il Castello di Neumelands a Campo Tures e il carcere abbandonato a San Leonardo in Passiria, entrambi lungo il passo del Brennero. L’11 agosto 1944 furono trasferite a Campo Tures le opere provenienti dall’Oratorio di Sant’Onofrio. Torneranno in Toscana soltanto a guerra conclusa, il 22 luglio del 1945, con un’importante cerimonia, in Piazza della Signoria a Firenze, dove furono accolte da tutti gli abitanti della città e ricollocate nei rispettivi musei di appartenenza[3].

Dopodiché ci spostiamo di qualche centinaio di metri verso piazza Trieste, dove potremmo ammirare il Monumento ai caduti della resistenza, inaugurato nel 1964 e portante i nomi dei cittadini che hanno dato la vita per la libertà. Ultima tappa, ma non per importanza, è il Cippo di Santa Lucia, situato nell’omonima località, in ricordo di Arturo Fabbri, Armando Cecchini e Aimo Fritelli che caddero durante quel luogo durante uno scontro da arma da fuoco.

 

 

 

Note

 

[1] Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, Badiali, Arezzo, 1957, pp. 23-45.

 

[2] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi nazifasciste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma, 2009, pp. 191-192.

 

[3] Frederick Hartt, L’Arte Fiorentina Sotto Tiro, Edizioni Clichy, Firenze, 2014, pp. 150-179.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nel novembre 2024.




Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi

 

Nada da giovane

Nada Giorgi con Renato Ciandri

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1].  Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.

«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».

Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.

Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.

I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html

Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare  svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/

Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.

La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].

I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.

Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].

Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].

Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.

Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.

Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].

Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.

Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.

Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.

Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.

È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.

Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.

In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.

Come lei stessa ha detto:

Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]

Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.

Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.

Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.

Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.

Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere.  Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.

«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»

Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].

Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.

Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].

Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.

Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).

Claudia Cardinale e George Chakiris in una scena del film di Comencini

Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].

Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.

Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].

A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa»,  rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].

Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:

“Bube”

Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)

E voi imparate che occorre

vedere e non guardare in aria

questo mostro stava una volta

per conquistare il mondo

i popoli lo spensero

ma ora non cantiamo

vittoria troppo presto

il grembo da cui nacque

è ancora fecondo

Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/

La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.

Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.

Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

 

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704

Note

1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.

2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].

3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.

4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.

5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.

6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.

7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.

8.  M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85

9. Ivi, p. 93

10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]

11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.

12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.

13. Ivi, pp. 100-103.

14. Ivi, p. 109.

15. Ivi, p. 129.

16. Ivi, pp. 133-137.

17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.

18. Ivi, p. 145.

19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.

20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]

 

Bibliografia

Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006

Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]

Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di novembre 2024.




Le stragi nel Mugello (1944)

Fucilazioni. Massacri. Vittime innocenti. Sono questi gli episodi che caratterizzarono i paesi del Mugello durante l’occupazione nazifascista nel 1944, in attesa della liberazione alleata. Quale fu il significato di quelle stragi? Perché interessò proprio quella zona?  Dobbiamo prima capire cosa rappresentano le montagne circostanti il Mugello nel contesto di guerra. Stiamo parlando di valli strette e ritenute abbandonate, al limite della regione, quindi considerate sicure. Sono al contrario estremamente strategiche perché rappresentano il passaggio tra Toscana e Emilia Romagna. Un passaggio decisivo, soprattutto la parte aretina, nella primavera del 1944, quando i comandi delle brigate Garibaldi decidono di creare una grande armata partigiana che doveva operare sull’Appennino per colpire sul forlivese e sull’aretino. Un progetto poi smantellato in seguito all’operazione di rappresaglia e rastrellamento nazista, deciso subito dopo le Ardeatine, che potremmo definire il punto di svolta sulla concezione da parte di Kesselring e dei comandi nazisti del pericolo partigiano, considerato da lì in avanti potenzialmente pericolosi per le proprie truppe. Fino a quel momento non vi erano state stragi di matrice nazista infatti, era stato lasciato ai fascisti il controllo del territorio. Da quel momento cambia tutto. A quel punto, tutte le brigate partigiane che si stavano portando sull’Appennino per raggrupparsi, ovviamente devono separarsi per non essere catturate. Ed è per questo che quindi si verificò la divisione sui territori. Da quel momento l’Appennino diviene strategico, in quanto zona centrale dei combattimenti, e lo resterà finché la linea non si attesterà a Bologna, nell’autunno del 1944[1].

Dopo le Ardeatine vi è quindi un punto di svolta che portò agli episodi stragisti interessati da questo articolo e che colpirono quasi tutti i paesi del Mugello. Volendo fare una raccolta seguendo un principio temporale, la prima tragedia avvenne a Vaglia, tra il 10 e l’11 aprile 1944, nel cosiddetto «eccidio di Pasqua».

Il 10 aprile, lunedì di Pasqua, iniziò sulle pendici di Monte Morello una grossa operazione antipartigiana ad opera del Reparto esplorante della Divisione Herman Göring, comandato dal colonnello G.H. Von Heydebreck, con lo scopo di stroncare la presenza del movimento partigiano locale[1]. La mattina del 10 aprile, le compagnie del Reparto esplorante giunsero in località Cercina, nel comune di Sesto Fiorentino, razziando le case e rastrellando la popolazione civile. Proseguì poi in direzione di Paterno e Cerreto Maggio, località limitrofe poste nel comune di Vaglia. I paracadutisti fecero irruzione nella casa del guardaboschi Gabriello Mannini, dove trovarono anche la moglie Giulia, la giovane figlia e il suo sposo. Seguì una perquisizione durante la quale venne trovata una pistola, per la quale Gabriello possedeva regolare permesso. L’attestato non fu però sufficiente, dato che i tedeschi, forse già a conoscenza dell’ospitalità che Gabriello diede ad alcuni partigiani, lo condussero fuori dall’abitazione e lo uccisero con un colpo di arma da fuoco alla testa. Poco dopo, i soldati si spostano in direzione di Vaglia, in località Morlione, dove irruppero nelle abitazioni delle famiglie Biancalani e Sarti, note per la loro assistenza data ai partigiani. Furono uccisi i fratelli Giovanni e Sabino Biancalani, il colono Affortunato Sarti e il nipote Aurelio. L’operazione di rastrellamento nell’area riprese il giorno successivo. Una nuova irruzione venne compiuta in località Cerreto entro la casa dei Paoli, allora abitata dalle famiglie dei fratelli Cesare e Giovanni. Dopo la perquisizione dell’abitazione, venne intimato ai fratelli di allontanarsi. Atteso però che il gruppo giungesse alla distanza di alcune centinaia di metri, i militi aprirono il fuoco e uccisero colpendolo alle spalle Cesare Paoli[3]. Questi martiri sono oggi ricordati dal Monumento posto in via Cerretto Maggio, a Vaglia.

Ci spostiamo ora a Marradi, protagonista di due episodi efferati. Ricordiamo che Marradi, per la sua posizione strategica di confine con la Romagna e la sua rilevanza di snodo viario e ferroviario, nell’estate del 1944 costituiva un territorio di estrema importanza ai fini dell’occupazione tedesca e in particolare per l’ultimazione delle fortificazioni sul versante orientale della Linea Gotica. Proprio a protezione dei lavori di completamento della linea difensiva da possibili sabotaggi e attacchi partigiani, con ordine del 18 giugno 1944 vennero dislocate tra il Mugello e la Romagna Toscana alcune compagnie del 3. Polizei Freiwilligen Bataillon Italien, il reparto di polizia italo-tedesco guidato dal capitano Gerhard Krüger allora ancora impegnato col grosso del proprio organico in Maremma (dove si rese responsabile delle stragi di Niccioleta e Castelnuovo Val di Cecina). Il 20 giugno, i soldati tedeschi si imbatterono in un gruppo di sette giovani (tra i quali vi è il trentunenne Carlo Milanesi, di fatto, l’unico identificato del gruppo), che avevano da poco disertato dall’organizzazione Todt, dandosi alla macchia nei dintorni di Marradi. Catturati, i sette furono condotti quindi presso Villa Poggio, sede della compagnia tedesca, dove vennero interrogati e trattenuti sino al 22 giugno, quando infine furono trasportati presso il cimitero comunale di Marradi e qui fucilati[4].

Il mese successivo invece avvenne il dramma le cui ferite ancora non sono state rimarginate dalla comunità. Il 15 e il 17 luglio due tedeschi furono uccisi da dei gruppi di civili – non bande partigiane organizzate – con altri che furono feriti e costretti a scappare dal paese. La rappresaglia che ne seguì fu particolarmente dura.  I tedeschi, arrivati dal comando SS di Ronta, si lasciarono andare a grandi violenze nell’area circostante il luogo dell’attentato per 24 ore. Lo stesso 17 luglio furono fucilate 28 persone che vivevano o erano sfollate nel paese di Crespino, la mattina dopo altre 13 persone furono passate per le armi nelle località di Fantino e Lozzole, altre tre vittime furono fatte lungo le strade che collegavano i piccoli paesi. A Crespino i tedeschi passarono prima dal podere “Il Prato” e poi dal “Pigara”; i contadini che stavano lavorando alla mietitura nella zona furono tutti fermati e passati per le armi vicino al fiume. Il parroco, don Fortunato Trioschi, fu l’ultimo ad essere fucilato. La mattina dopo a Lozzole furono passati per le armi tutti i maschi della famiglia, mentre le donne furono risparmiate[5]. In memoria delle vittime sono presenti vari luoghi della memoria a Marradi: dalla lapide commemorativa posta al cimitero alla Lapide del Capanno dei Partigiani, in località Monte Lavane, ma soprattutto, l’imponente monumento-cripta ossario a Crespino sul luogo della strage.

Una breve menzione la merita anche quello che successe a Palazzuolo su Senio il 17 luglio, dove mentre tedeschi e italiani del 3. Polizei-Freiwillingen-Bataillon erano impegnati nella strage sopra descritta di Marradi, i soldati di tale reparto si scontrarono nuovamente con alcuni partigiani e, pur senza patire alcuna perdita, scelsero ugualmente di punire la comunità locale, uccidendo quattro persone.

Per l’ultimo episodio stragista ci spostiamo a Vicchio, dove il mattino del 10 luglio 1944 si presentò alla fattoria di Padulivo – che ospitava circa centocinquanta sfollati – un reparto di SS composto da una sessantina di uomini. Il proprietario, Aldo Galardi, aiutava saltuariamente le locali formazioni partigiane. Durante la perquisizione i tedeschi si accorsero della mancanza di un cavallo che era stato nei giorni precedenti requisito dai partigiani, i quali furono avvertiti della presenza dei tedeschi e tesero un’imboscata poco lontano da Padulivo mentre le SS si stavano ritirando. Cadde un tedesco e un altro rimase ferito. La rappresaglia nazista fu spietata. I soldiati tornarono indietro e arrestarono tutti coloro che trovarono e incendiarono sia la fattoria sia l’abitato circostante. Incolonnarono i prigionieri in direzione di Vicchio e giunti al ponte dove aveva avuto luogo l’imboscata giustiziarono dieci uomini e una donna. Dopo una notte di prigionia i cento catturati subirono un interrogatorio e furono rilasciati, tranne quattro uomini e tre donne. Gli uomini furono portati di nuovo nel luogo dell’agguato partigiano e uccisi, mentre le donne vennero liberate[6]. Quattordici vittime, oggi ricordate dal comune di Vicchio con una lapide posta in località Padulivo, che recita:

 

«La storia non si ripete,

se non nella mente

di chi non la conosce»

K. Gibran (1883-1931)

 

Note

 

[1] Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, Badiali, Arezzo, 1957, pp. 23-45.

 

[2] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 37-38.

 

[3] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi nazifasciste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma, 2009, pp. 191-192.

 

[4] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 102-103.

 

[5] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=4920

 

[6] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2412

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nel novembre 2024.




Licio Nencetti (1926-1944)

Fra coloro che presero parte alla Resistenza non vi furono solamente individui spinti da autentici e solidi ideali di libertà, ma anche persone motivate da ragioni all’apparenza meno nobili e genuine. Nel corso dell’occupazione vi fu chi aderì alla lotta armata per spirito d’avventura, per poi ritornare rapidamente alla vita di tutti i giorni dopo aver scoperto i disagi della vita del ribelle, oppure chi partecipò per opportunismo, ritenendo la vittoria alleata ormai imminente o chi preferì entrare nelle formazioni partigiane piuttosto che arruolarsi nella Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Certamente il diciassettenne Licio Nencetti, nato a Lucignano in Val di Chiana il 31 marzo del 1926, non rientrava all’interno di queste categorie. A differenza di molti altri il giorno dell’armistizio (8 settembre 1943) non lo colse impreparato e non generò in lui alcun dubbio in merito alla decisione da dover prendere: il ragazzo, nonostante la giovane età, aveva da tempo maturato una scelta ed aveva ben chiaro il mondo che avrebbe voluto che sorgesse dopo la conclusione della guerra.

A contribuire a questa rapida presa di coscienza avevano avuto un ruolo di fondamentale importanza i genitori: dalla madre aveva appreso l’importanza dei valori cristiani, come l’amore e l’altruismo nei confronti del prossimo, mentre dal padre aveva imparato a non piegarsi di fronte alle ingiustizie e a mantenere una propria libertà di pensiero. Con l’ascesa del fascismo iniziò per la famiglia Nencetti un periodo di declino: tra gli anni Venti e Trenta vennero ripetutamente colpiti da malattie che talora si rivelarono mortali, mentre il padre venne perseguitato a più riprese dai fascisti locali per le sue idee politiche. Numerosi furono i casi nei quali Silvio Nencetti venne maltrattato e intimorito; in un’occasione lo spavento fu tale che egli da quel giorno vide la propria salute peggiorare gradualmente e “per sette anni non fu più lui, una malattia lenta lo prese[1]. Nella seconda metà degli anni Trenta vi fu l’apice delle disavventure della famiglia con la morte tra il 1935 e il 1937 della sorella minore e del padre. In questo frangente Licio e la madre si trovarono costretti a dover fronteggiare una situazione complicata, cercando di garantire al contempo la sopravvivenza del nucleo e pagare le spese mediche necessarie per curare l’unica sorella rimasta in vita. Licio iniziò ad affiancare allo studio qualche lavoro, ma i soldi che riusciva a guadagnare non erano sufficienti per il loro sostentamento, allora iniziò ad ingegnarsi per avere un guadagno maggiore, inviando i suoi disegni al Comune, che inizialmente li accettava e puntualmente li rigettava quando venivano a conoscenza delle idee politiche del defunto padre[2].

 

Rita e Silvio Nencetti con le figlie Irma e Lilia

 

Questo momento invece che demoralizzarlo e renderlo passivo aumentò in lui l’avversione nei confronti del regime. Negli anni Licio seguì le orme del padre e sviluppò una coscienza antifascista che lo portò a stringere legami con gli oppositori del regime presenti nella provincia. Dopo l’armistizio il giovane fu tra i primi ad aderire alla Resistenza, abbandonando temporaneamente la Val di Chiana e dirigendosi frequentemente nel Casentino dove, nel frattempo, stavano sorgendo i primi gruppi partigiani. Nei primi mesi d’occupazione Licio mantenne una discreta libertà di movimento, facendo la spola tra le terre natale e la zona di Talla, recandosi talvolta a salutare clandestinamente la madre ormai rimasta sola dopo la morte nel 1942 dell’ultima sorella. Rispetto alla Valdichiana, prevalentemente pianeggiante e collinare, l’angusta vallata a nord di Arezzo offriva un terreno ideale per la lotta partigiana fatta di imboscate e di rapide fughe.

In una lettera inviata alla madre il 9 novembre 1943 Licio le chiedeva perdono per le preoccupazioni che le procurava con tale scelta, ma al contempo non rinnegava la propria decisione, descrivendola alla stregua di un evento ineludibile: “Io non potevo più stare quassù in mezzo a una masnada di vigliacchi, lo vado con i ribelli per difendere l’idea di mio padre che è sempre viva in me e per ridare ancora una volta l’onore alla mia bella Patria. Mamma non piangere perché io presto tornerò e poi perché devi piangere se sai che tuo figlio è a combattere per un’idea leale e giusta[3]”. Malgrado la forte emozione Licio in questa prima comunicazione evidenziava una notevole lucidità che sarebbe poi emersa nella lotta dei mesi successivi: “Non dire a nessuno che io sono con i ribelli perché faresti la mia perdita e quella dei miei compagni. Di a chi ti domanda di me che io sono da Tullio[4]”.

 

Licio con la Madre Rita

Due biglietti che Licio e la madre si scambiarono segretamente

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nonostante non avesse ancora raggiunto la maggior età Licio venne nominato dai suoi compagni comandante della formazione attiva nella zona di Talla. Tutte le testimonianze riguardanti la sua figura concordano nell’attribuire al giovane un carisma ed una determinazione inusuali per un ragazzo della sua età. Il partigiano Raffaello Sacconi lo ricorda in questo modo: “Mi fece subito una buona impressione: viso aperto, simpatico, occhi vivacissimi. Mi colpì specialmente la sua insofferenza per l’inazione cui eravamo costretti, in attesa di organizzarci per cominciare la lotta contro i fascisti e i tedeschi[5]. Malgrado la naturale inesperienza Licio emanava una notevole sicurezza, e quando vi fu da scegliere a quale formazione fornire del materiale bellico, di fondamentale importanza, arrivato nel febbraio 1944, Sacconi ricorda che “non ebbi alcuna titubanza ad assegnare al suo gruppo una delle due mitragliatrici di cui disponevamo. Sapevo di affidarla in buone mani[6]. Ad accrescere l’ascendente nei confronti dei compagni contribuiva il coraggio che il giovane metteva in ogni operazione, portandolo ad essere sempre in prima linea.

Il gruppo guidato da Licio si differenziava per alcuni aspetti dalle altre formazioni che operavano nel Casentino. In primo luogo, il comandante della formazione non era stato un militare e non aveva nessun tipo di esperienza bellica, questo determinava all’interno del gruppo l’assenza di una rigida gerarchia e la presenza di un rapporto maggiormente democratico, improntato sul confronto e il dibattito tra i membri. In secondo luogo, la formazione era composta da ragazzi particolarmente giovani, dediti ad azioni fulminee e rischiose. Questa caratteristica portò alcuni a ribattezzare la formazione la “squadra volante”; come ricorda Domenico Peruzzi, uno dei principali componenti del gruppo, erano soliti compiere azioni rapidissime: giungevano nella zona delle operazioni all’imbrunire e alle prime luci del giorno dopo erano già in montagna a diverse decine di chilometri di distanza[7]. Dopo i primi mesi di lotta i componenti del gruppo iniziarono a chiamarsi la “Teppa” come scherno agli appellativi che le autorità fasciste utilizzavano per identificarli.

Nei primi mesi la formazione inquadrata all’interno del “Gruppo Casentino” (diverrà successivamente la XXIIIª Brigata “Pio Borri”) si occupò prevalentemente di questioni organizzative, impossessandosi di armi, materiali e viveri, senza però disdegnare allo stesso tempo la possibilità di compiere azioni di sabotaggio ai danni dei nazisti e dei fascisti che operavano nei loro territori. Ad esempio, il 4 novembre Licio ed altri tre compagni riempirono di sabbia i radiatori di alcune autocisterne che da Foiano erano dirette verso Cassino, rendendole inutilizzabili dopo pochi chilometri[8]. I ragazzi della “Teppa” si impegnarono anche nell’occultamento e nel sostentamento dei prigionieri Alleati fuggiti dai campi di detenzione della provincia di Arezzo e nel reclutamento dei soldati del disciolto Esercito sparsi per il Casentino.

Dal marzo 1944 i diversi gruppi aventi base territoriale si trasformarono in compagnie e gli ultimi partigiani che ancora vivevano con le loro famiglie abbandonarono le loro case e si diedero alla macchia nascondendosi sulle montagne. Il gruppo guidato da Licio divenne formalmente la IV Compagnia[9]. La disparità delle forze in campo obbligò i partigiani a compiere azioni di piccolo calibro: raramente miravano all’uccisione dei fascisti, puntando semmai al loro disarmo e al conseguente aumento dell’arsenale a loro disposizione. Al contempo lo scopo era anche quello di impressionare le popolazioni locali e di disorientare il nemico sulla reale entità del numero dei partigiani. Questo atteggiamento riuscì a fruttare alcuni risultati, obbligando le forze occupanti a dispiegare i soldati nelle zone nevralgiche e ad accompagnare i convogli che si muovevano sul territorio, costituendo in questo modo una continua minaccia per i nazifascisti. Rispetto alle altre unità operanti nella vallata i ragazzi della “Teppa” mantennero sempre una discreta indipendenza nei confronti degli altri gruppi casentinesi.

Dopo esser stato una spina nel fianco dei nazifascisti per tutta la primavera del 1944, il 24 maggio Licio venne catturato in località Bottigliana, sul versante casentinese del Pratomagno. Di ritorno da un incontro con alcuni esponenti della Resistenza, avvenuto sul massiccio, il comandante della “Teppa” venne accerchiato dagli uomini della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Dopo averlo disarmato i fascisti lo obbligarono a condurli nel punto dove era avvenuto l’incontro: facendosi scudo con Licio gli uomini arrivarono all’altezza dell’Uomo di Sasso, dove vennero investiti dal fuoco dei partigiani, che riuscirono successivamente a dileguarsi lungo le pendici del massiccio. La posizione di Licio era fortemente compromessa, venne trovato in possesso di armi e di documenti che riportavano le azioni svolte dalla sua formazione. Il comandante della “Teppa” venne dunque trasportato al Distretto Militare di Poppi, dove venne interrogato e torturato per diverse ore, ma nonostante le percosse e la promessa di avere salva la vita Licio non rivelò nulla ai suoi aguzzini[10].

La mattina del 26 maggio Licio venne trasportato a Talla e fucilato nella piazza principale. Il parroco, presente durante l’esecuzione, sostenne che dopo averlo confessato venne passato per le armi da un gruppo di repubblichini senza che vi fossero difficoltà nello svolgimento delle operazioni[11]. Questa versione differisce invece dall’esposizione contenuta all’interno delle motivazioni per il conferimento della medaglia al valore conferita a Licio nel 1990: il documento sostiene che il plotone di fronte alla solennità e alla fermezza tenute dal comandante durante la fucilazione non eseguì l’ordine e che fu lo stesso tenente Sorrentino ad occuparsi personalmente dell’uccisione sparandogli in bocca[12]. Ancora oggi non sappiamo a quale versione fare riferimento, se credere alla dichiarazione che il parroco rilasciò al Sacconi, oppure attenersi alle motivazioni per il conferimento della medaglia. Certamente durante la fucilazione perse la vita anche il giovane Marcello Baldi, colpito da un proiettile vagante mentre si affacciava dalla chiesa incuriosito dal trambusto.

Anche per quanto riguarda la cattura sono presenti due versioni in netto contrasto tra loro. I compagni di Licio hanno sempre sostenuto che l’arresto del loro comandante fosse dovuto ad una delazione compiuta da parte dei Versari, padre e figlio e del loro compaesano Brucche. Certi della loro colpevolezza i membri della “Teppa” giustiziarono pochi giorni dopo Giuseppe Versari e Brucche, mentre il figlio, Virgilio, riuscì a fuggire[13]. A porre in dubbio la solidità di tale interpretazione hanno contribuito nel corso del dopoguerra le dichiarazioni rilasciate da parte di Salvatore Vecchioni, comandante della 2ª compagnia della Brigata “Pio Borri” operante nel territorio di Partina. Dopo l’arresto di Licio, il Vecchioni fu l’unico che ebbe l’occasione di scambiare qualche parola con il comandante prima che questi venisse fucilato, visto che anch’egli era trattenuto presso il Distretto Militare di Poppi per un’altra vicenda. Alle domande del Vecchioni, in merito alla possibilità che vi fosse stato un tradimento, Licio rispose negativamente, affermando che non aveva avuto nessun tipo di presentimento e che non aveva sospetti. Inoltre è importante ricordare che i Versari militarono all’interno della Resistenza e che questi videro la loro casa bruciare ,con all’interno una delle loro mogli, dopo l’uccisione del repubblichino Mistretta[14]. Alla luce di questi elementi pure Raffaello Sacconi, che nel 1944 aveva sostenuto la colpevolezza dei Versari e di Brucche, ha progressivamente mutato le proprie convinzioni, sostenendo che un individuo lucido e sveglio come Licio si sarebbe certamente accorto che l’incontro sul Pratomagno non era altro che un’imboscata orchestrata ai suoi danni[15].

 

Salvatore Vecchioni, comandante della 2ª compagnia della Brigata “Pio Borri”

 

Ancora oggi, ad oltre ottant’anni di distanza dalla morte il nome di Licio riecheggia tra i monti del Casentino e le colline della Val di Chiana. La scomparsa del giovane partigiano non ha coinciso con la lenta e triste scomparsa della sua figura, ma ha combaciato semmai con la nascita e la diffusione di un mito utilizzato quale esempio di integrità e libertà. Percorrendo la provincia di Arezzo ci si imbatte in svariati luoghi intitolati alla memoria di Licio o che ricordano il suo sacrificio e quello dei suoi compagni attraverso targhe e monumenti: questo accade in prevalenza nelle aree dove i partigiani della “Teppa” operarono maggiormente, come la zona nei dintorni di Lucignano in Val di Chiana e nei pressi di Talla e Castel Focognano nel Casentino meridionale. A Lucignano, paese natale di Licio e di molti suoi compagni, è possibile ancora oggi poter vedere dall’esterno l’abitazione nella quale Licio nacque e dove è apposta una targa[16]. Sempre nello stesso comune è poi presente un monumento collocato nei giardini pubblici “Don Valentino della Mazza”: l’opera, dedicata ai partigiani Nencetti, Toti e Masini, raffigura probabilmente l’uccisione del comandante della “Teppa”, con un uomo con le mani legate dietro alla schiena che grida e un soldato che imbraccia un fucile[17]. Nonostante non fosse originario di Talla il comune ha poi intitola a Licio la piazza dove avvenne la fucilazione ed ha inserito il suo nome sul cippo che ricorda le vittime provenienti dal comune cadute durante il secondo conflitto mondiale[18].

 

L’abitazione dove è cresciuto Licio Nencetti                       

 

Monumento in ricordo dei partigiani Nencetti, Toti e Masini

 

Il cippo in ricordo delle vittime di Talla durante la Seconda guerra mondiale situato in piazza “Licio Nencetti”

 

Nell’area di Castel Focognano sono presenti invece alcune iscrizioni che testimoniano il buon rapporto che vi fu nel corso della guerra di Liberazione fra gli uomini della “Teppa” e le popolazioni della vallata. In una sorta di dialogo che non si è mai interrotto le targhe e i monumenti della zona sono un esplicito ringraziamento ai partigiani e ai civili per il contributo fornito durante il conflitto. Nella frazioni di Calleta e San Martino, appartenenti al comune di Castel Focognano, sono presenti due targhe molto interessanti, la prima certifica l’unione tra le due parti con la seguente frase “Qui a Caletta Licio Nencetti e i suoi ribelli trovarono gente amica che li ospitò, li curò e li sostenne condividendo con loro gli ideali e il rischio della vita[19], mentre la seconda, posta sulla facciata della chiesa di San Martino ricorda che in quel luogo gli uomini di Licio si recarono tra il febbraio e il maggio 1944 ad assistere alla messa domenicale[20]. A pochi chilometri di distanza, nel paese di Carda, troviamo infine un monumento interamente dedicato alle popolazioni della vallata, alle quali giunge il sentito ringraziamento dei ragazzi della “Teppa”[21]. Questi sono solamente alcuni degli indizi che testimoniano l’eccellente rapporto che vi fu tra i componenti della “squadra volante” e i civili durante il periodo dell’occupazione, un legame fondato sul reciproco sostegno.

 

La targa a Calleta

Lapide a Carda

 

Il nome di Licio non è stato solamente scolpito sulla pietra, ma è stato impresso e “inciso” nelle memorie delle persone anche attraverso un notevole numero di canzoni dedicategli. In particolar modo questi canti vennero ideati negli anni della lotta al nazifascismo o nel periodo immediatamente successivo alla liberazione, quando ancora il ricordo e il dolore della morte del giovane partigiano erano vivi tra le popolazioni, come nel caso del testo di Libero Vietti[22] o della canzone “La fucilazione del partigiano Licio Nencetti” attribuita a un poeta di nome Casini[23]. Il repertorio non si limita solamente alla seconda metà del Novecento, ma trova anche una sua realizzazione più contemporanea nella canzone realizzata nel 2005 dai Casa del Vento un gruppo combat folk aretino[24].

Come spesso è avvenuto nel corso della Liberazione la formazione assunse il nome del defunto comandante, l’aspetto però probabilmente più curioso ed affascinante legato alla figura di Licio nasce da una promessa che i ragazzi della “Teppa” fecero dopo la scomparsa del loro leader: provati e traumatizzati i giovani giurarono che avrebbero chiamato almeno uno dei loro figli con il nome di Licia o di Licio.  I componenti della formazione mantennero l’impegno, e ancora oggi, a diversi anni di distanza, sono numerose le persone che in provincia di Arezzo continuano a portare tale nome in ricordo del comandante della “Teppa”.

 

Note:

[1] S. Mugnai (a cura di), Madre di partigiano. Il diario di Rita Nencetti, Comune di Lucignano, Roma 1984, p. 29.

[2] Ivi, pp. 41-42.

[3] Lettera inviata da Licio Nencetti alla madre Rita il 9 novembre 1943, https://memoria.provincia.arezzo.it/biografie/licio_nencetti_corrispondenza1.asp.

[4] Ibid.

[5] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 192.

[6] Ibid.

[7] Intervento di Domenico Peruzzi detto “Mireno” nel filmato Racconti di vita partigiana. La squadra volante de la “Teppa”, realizzato dalla Banca della Memoria del Casentino,  https://www.youtube.com/watch?v=AQMStAhI6jg&t=1066s.

[8] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., p. 28.

[9] Ivi, pp. III-IV.

[10] Memoria scritta di Salvatore Vecchioni citata in ivi, pp. 195-196.

[11] Memoria scritta di don Gino Vignoli citata in ivi, pp. 84-85.

[12] Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, https://www.anpi.it/biografia/licio-nencetti.

[13] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., pp. 194-195. Nonostante siano passati diversi anni dall’accaduto nel filmato registrato dalla Banca della Memoria del Casentino i compagni di Licio continuano a sostenere che si fosse trattata di un’imboscata, https://www.youtube.com/watch?v=AQMStAhI6jg.

[14] Memoria scritta di Salvatore Vecchioni in R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., pp. 195-198.

[15] Ivi, p. 199.

[16] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/lastra-commemorativa-a-licio-nencetti/.

[17] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-giardini-di-lucignano/.

[18] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-dedicato-a-licio-nencetti-a-talla/.

[19] MEMO, il progetto delle memorie, https://memo.anpi.it/monumenti/3794/lapide-a-nencetti/.

[20] MEMO, il progetto delle memorie, https://memo.anpi.it/monumenti/4172/lapide-a-nencetti/.

[21] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/cippo-ai-partigiani-della-teppa-carda-di-castel-focognano/.

[22] https://memoria.provincia.arezzo.it/canti/canzoni/Libero%20Vietti%20-%20Canzone%20per%20Licio%20Nencetti.mp3.

[23] Il Deposito, Canzone su Licio Nencetti partigiano – Testo accordi e musica | ilDeposito.org.

[24] https://www.youtube.com/watch?v=Dzm53rjZa8U.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Questo articolo è stato pubblicato nel novembre 2024