Primavera/estate 1944: le vallate aretine grondano sangue

Dopo lo sfondamento di Montecassino degli Alleati, la ritirata delle truppe tedesche dalla Linea Gustav alla Linea Gotica si è portata dietro una lunga scia di sangue con una serie raccapricciante di eccidi, molto spesso pianificati da una strategia stragista.

La sensazione, che man mano diventava realtà, di non essere più un esercito invincibile, che il sogno di conquistare il mondo sarebbe rimasto tale, che la guerra si sarebbe persa, rese i nazisti, da Hitler all’ultimo soldato semplice, sempre più violenti e disumani. In più vi era quell’azione di guerriglia portata avanti dalle formazioni partigiane, atte a contrastare la loro ritirata, che logorava fino allo sfinimento il morale tra le file dei militari; militari già esasperati dalle condizioni di una guerra che per molti di loro si stava protraendo da quasi cinque anni, in giro per il mondo, lontano da casa e con la morte sempre ad un passo. E dall’alto del comando giungeva l’ordine di usare la mano pesante per debellare l’attività di coloro che venivano definiti “banditi”, ai quali, non essendo militari, non veniva riconosciuto nessun diritto delle leggi di guerra. Lo stesso Kesserling, comandate delle forze tedesche in Italia, era andato oltre auspicando un contegno durissimo ed intransigente anche verso i civili in quanto fiancheggiatori o possibili partigiani. Per lui il problema consisteva nel fatto che i partigiani non portassero la divisa per cui si poteva supporre che ogni civile fosse pronto a colpire facendo vivere i soldati tedeschi sotto continua minaccia. Il famoso “Befehl” del 17 giugno 1944, a sua ispirazione, redazione e firma che dice: “uccidete, e qualsiasi cosa vi accada vi difenderò, e se non vi scatenerete contro gli italiani vi punirò”, costrinse tutti i militari tedeschi a strafare.

E durante il passaggio del fronte di guerra nella provincia aretina il “Befehl” di Kesserling fu messo in pratica con una ferocia disumana che probabilmente andò anche oltre le intenzioni del comandante tedesco. Nessuna pietà né per donne, anziani e bambini, perfino un neonato di due settimane fu trucidato con una sventagliata di mitra. Nessuna pietà neanche per quella donna incinta che durante il tragitto della “marcia della morte” da Molin dei Falchi a San Polo stanca per il cammino si accasciò a terra e fu uccisa con il suo bimbo in grembo con un colpo alla pancia. Una follia rabbiosa che trovava nell’eccidio di esseri umani inermi la sua massima espressione e che a volte non aveva bisogno neanche di giustificazioni (se possono esistere giustificazioni) di ritorsioni per uccisioni nelle file tedesche. Si uccideva barbaramente per il solo gusto di uccidere, si uccideva solo perché gli italiani venivano considerati traditori: dal nonno al nipotino seppur innocenti ed estranei alla guerra per il solo fatto di essere italiani meritavano la morte…

Nel territorio aretino non avvennero grandi stragi per numero di vittime come a Marzabotto (oltre 800 vittime) o a Sant’Anna di Stazzema (560 vittime), ma si susseguirono una serie di eccidi, 42 per la precisione, sparsi per le colline e le campagne che nella primavera/estate del ‘44, in soli quattro mesi causarono quasi 1500 morti. Quel territorio costituiva l’ultimo baluardo per contrastare l’avanzata degli Alleati e dovevano resistere fintantoché non fosse ultimata la costruzione della Linea Gotica e quando le truppe tedesche lentamente si ritiravano facevano terra bruciata dietro a loro.

 

PERCHE’ LA MEMORIA NON SI CANCELLI

Nell’anno dell’ottantesimo Anniversario della Liberazione della provincia aretina, perché si tenga sempre alta l’attenzione e vivido il ricordo di ciò che è avvenuto, abbiamo individuato una sorta di “Sentiero Resistente” inteso come caduti per la Resistenza, dove narriamo e ripercorriamo alcune stragi meno note compiute nell’aretino. Nel corso di questo percorso andremo a visitare i vari monumenti dedicati alle vittime di quelle violenze compiute dai nazifascisti nell’estate del ‘44.

L’itinerario è lungo complessivamente 39 km, percorribili in automobile in circa un’ora, in bicicletta in due ore, oppure per i più “coraggiosi” amanti del trekking è possibile effettuarlo a piedi impiegando circa 8 ore di cammino.

 

Mappa del percorso

 

Le Tappe: Monumento ai caduti dell’eccidio di Badicroce – Monumento ai caduti dell’eccidio dell’Intoppo-Palazzo del Pero – Monumento ai caduti di Staggiano – Carcere di Arezzo – Cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio – Monumento ai caduti di San Leo – Monumento in memoria dell’eccidio di San Polo – Murales della Chiassa Superiore.

 

1° tappa: Monumento ai caduti dell’eccidio di Badicroce

Il nostro percorso inizia con la visita al monumento in ricordo delle 17 vittime civili trucidate dai tedeschi nella fattoria di Badicroce e nei suoi dintorni. Il monumento si trova in uno spiazzo al lato della strada provinciale che unisce Gambaronica a Palazzo del Pero.

Dalla metà di giugno questa era un’area di passaggio delle truppe tedesche che facevano la spola tra il fronte e il presidio di Arezzo. Una sera un ufficiale dopo essersi fermato a cenare alla fattoria aveva sparato in aria un colpo di pistola ottenendo come risposta una raffica di mitra in lontananza, segno inequivocabile che nella zona ci fossero uomini armati. Questo fu sufficiente a sospettare che il proprietario della fattoria, il dottor Alberto Lisi, fosse coinvolto con la Resistenza e a considerare la zona un ricettacolo di partigiani protetti dalla popolazione civile, cosicché nei giorni seguenti la morte di un soldato fece scattare subito la rappresaglia in quel luogo. Iniziarono mettendo a fuoco le case di contadini e boscaioli all’interno della tenuta eccetto la colonica detta “Aia vecchia”, che fu occupata dai tedeschi diventando la loro base logistica per i crimini dei giorni a seguire. Le stalle della casa furono adibite a centro di raccolta e detenzione, ma anche luogo di interrogatori e torture (e non mancarono in quelle stanze anche stupri per le malcapitate donne), per tutti gli abitanti e gli sfollati che furono presi in ostaggio durante le azioni di rastrellamento.

Il 3 luglio cominciava l’emorragia di civili: le prime vittime furono tre uomini arrestati a Palazzo del Pero e condotti a Badicroce per essere giustiziati e fino al 10 luglio caddero sotto i colpi nazisti diciassette persone (sei anziani, sette adulti, due donne e due bambini). Una delle donne era Olga Badini, giovane sposa sfollata ad Arezzo, la cui colpa fu solo quella di impedire, opponendosi energicamente, a due soldati tedeschi di usare violenza su alcune ragazze. I due inizialmente desistettero ma dopo alcune ore tornarono nella stalla dove erano reclusi gli sfollati, presero la Badini e la condussero fuori. Il suo cadavere fu trovato insieme ad altre vittime il giorno dopo la liberazione nel bosco con incredibili segni di violenza e con un fazzoletto alla gola, causa probabile di morte per asfissia[1].

L’opera in ricordo dell’eccidio è stata realizzata dagli studenti di terza dell’Istituto d’Arte “Piero della Francesca” di Arezzo, ed è stata inaugurata il 26 marzo 2011. La scultura rappresenta una donna che cerca di rialzare il corpo di un uomo, con accanto anche quello giacente di una ragazza. Sul basamento sono poste due targhe in metallo, una, quella a destra, in cui sono incisi i nomi dei caduti, l’altra, quella a sinistra, ha invece inciso il simbolo della Repubblica italiana, la dedica alle vittime e gli autori dell’opera.

 

Monumento eccidio Badicroce, a Pian di Usciano.

 

2° tappa: Monumento ai caduti dell’eccidio dell’Intoppo-Palazzo del Pero

Badicroce – Palazzo del Pero 3,4 km (4 minuti in auto, 46 minuti a piedi).

Proseguendo in direzione nord si oltrepassa l’abitato di Palazzo del Pero, in direzione Molin Nuovo e si arriva, dopo circa tre chilometri e mezzo, al monumento ai caduti dell’eccidio di Palazzo del Pero, posto in un ampio spazio nella parallela della strada statale 73.

In uno scontro a fuoco il 23 giugno, nelle vicinanze della fattoria Bianchini a Palazzo del Pero, fu ucciso un soldato della Wehrmacht. Immediata fu la reazione dei tedeschi che arrestarono il proprietario Domenico Bianchini insieme al figlio ed al nipote. Il mattino seguente furono rilasciati, ma un reparto tedesco, probabilmente appartenente alla polizia militare, tornò alla fattoria, catturò i contadini che stavano tranquillamente mietendo il grano e dettero fuoco ai loro poderi. Dal modo di comportarsi dei soldati si comprese fin da subito la gravità della situazione e che la loro azione di rappresaglia sarebbe stata molto dura e luttuosa. Infatti nove contadini vennero prelevati e portati nei pressi di una chiesa in località il Muraglione per essere giustiziati. A niente valsero le grida disperate dei parenti e le loro invocazioni di pietà per i propri cari cercando soprattutto di mettere in rilievo la loro innocenza. Il comandante del reparto fece rispondere all’interprete: “anch’io sono convinto della loro innocenza, come pure sono convinto che noi abbiamo perduto la guerra, però dobbiamo farli fucilare egualmente[2]. Quegli uomini vennero fatti allineare lungo la strada ed al comando uccisi con scariche di mitra.  La decima vittima, Giulio Bacci, fu sorpresa mentre tentava la fuga sulla via fra Maiano e Le Lastre. Sarà la madre il giorno dopo a ritrovare il corpo straziato del figlio sul ciglio della strada.

Due manufatti sono stati posti in tempi diversi in memoria della fucilazione di 10 uomini, tra civili e partigiani, avvenuta in questo luogo il 24 giugno del ‘44 per mano dei soldati tedeschi. Il primo, collocato a breve distanza dall’accaduto, è un cippo di pietra con incassata una lapide di marmo sulla quale sono riportati i nomi dei dieci caduti. L’altro monumento invece, posto nel cinquantesimo anniversario dall’eccidio, è costituito da un masso di pietra in cui è incastonato un bassorilievo che raffigura una Pietà in bronzo.

 

Monumento ai caduti dell’eccidio dell’Intoppo.

 

3° tappa: Monumento ai caduti di Staggiano

Palazzo del Pero – Staggiano 9,5 km (12 minuti in auto, un’ora e mezzo circa a piedi).

Dal monumento dell’eccidio di Palazzo del Pero torniamo indietro per pochi metri sulla strada provinciale e svoltiamo a destra prendendo la strada statale 73, per poi uscire dalla strada principale all’altezza del bivio con indicazione “Poti”; infine proseguiamo fino a Staggiano, una piccola frazione del comune di Arezzo, vittima di un altro eccidio nazista nel luglio del ’44.

Lungo la strada di fronte alla chiesa delle Sante Flora e Lucilla, in via Santa Fiora, si trova il monumento ai caduti di Staggiano, due lapidi di marmo nelle quali sono incisi i nomi dei caduti della prima e della seconda guerra mondiale.

L’11 luglio una pattuglia di soldati tedeschi giunse alla casa colonica Torri, situata in collina sopra il paese di Staggiano, in cui abitava la famiglia Carboni che aveva ospitato alcuni sfollati. Quel giorno era presente in casa anche un giovane capitato lì per caso che possedeva una pistola. Alla vista dei tedeschi egli si allontanò precipitosamente nascondendo l’arma sotto un covone di grano. Quel gesto non passò inosservato: il giovane fu catturato e la sua arma ritrovata. Ma nelle vicinanze vi era una compagnia della formazione “Pio Borri” guidata da Siro Rossetti, che si era attestata su Poggio Tondo, sopra Staggiano per prepararsi alla calata sulla città di Arezzo. I partigiani intervenuti prontamente per risolvere la questione riuscirono ad avere la meglio respingendo la pattuglia tedesca anche se nello scontro a fuoco persero la vita due suoi uomini. Inevitabilmente la ritorsione non tardò ad arrivare e dopo qualche ora i tedeschi ritornarono incendiando la fattoria, considerata una base dei partigiani, sterminarono il bestiame e fermarono sei uomini: i fratelli Angelo e Ferdinando Carboni, intenti a pascolare il gregge; Manlio, Alfonso e Alberto Mazzi, che si trovavano in casa ed il giovane Piero Poretti, il proprietario della rivoltella. Tutti quanti furono portati a villa Sacchetti, sede del comando tedesco, e qui barbaramente uccisi.  I loro corpi vennero rinvenuti quattro giorni dopo, il 16 luglio, giorno della liberazione di Arezzo, in una buca a Santa Fiora: “I corpi da quanto si poté constatare erano stati calcati a forza nella buca. In tasca a ciascuno era stata messa una quantità di esplosivo e si poté anche constatare che per rendere più tremenda la morte erano state sparate addosso a loro alcune fucilate con cartucce di pallini[3].

 

Monumento ai caduti di Staggiano

Nomi dei sei uomini caduti a Staggiano durante la Resistenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

4° tappa: Carcere di Arezzo

Staggiano- Arezzo carcere 5,5 km (10 minuti in auto, un’ora circa a piedi).

Da Staggiano proseguiamo in direzione nord-ovest verso Arezzo, prendendo via Anconetana fino a giungere nella zona del centro storico della città.

In via Garibaldi, distante dieci minuti dalla cattedrale dei Santi Pietro e Donato, troviamo la casa circondariale di Arezzo, dove il 15 giugno del ’44 vennero barbaramente trucidati, da componenti della Guardia Nazionale della Repubblica di Salò, Santino Tani (anima della Resistenza aretina), suo fratello don Giuseppe Tani e Aroldo Rossi, catturati il precedente 30 maggio nei pressi di Montauto (Anghiari)[4].

La cella dove i tre partigiani vennero sottoposti ad inaudite violenze e poi massacrati con decine di proiettili è oggi monumento nazionale. Nella lapide posta accanto alla cella sono raffigurati i loro volti, ritratti nei tre ovali apposti sulla sommità della lapide, che recita: “In odio alla libertà, qui furono imprigionati, straziati, uccisi Santino Tani, don Giuseppe Tani, Aroldo Rossi. La libertà risorta ne addita la fede e il sacrificio agli italiani”.

 

Targa posta accanto alla cella nel carcere di Arezzo dove vennero trucidati i tre partigiani.

 

5° tappa: Cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio

Arezzo carcere – Mulinaccio 2,3 km (6 minuti in auto, mezz’ora a piedi).

Si continua percorrendo via Giuseppe Garibaldi in direzione sud, per poi svoltare a destra all’altezza dell’incrocio con via San Lorentino e continuare per più di un chilometro fino ad arrivare al bivio con via Antonio Stoppani, svoltiamo a destra e proseguiamo fino a via Camillo Golgi, dove è visibile, prendendo una rampa pedonale, segnalata da un apposito cartello, che scende verso il torrente Castro, il cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio.

Il monumento inaugurato nel dopoguerra è stato restaurato, grazie ai parenti delle vittime, nel 2008.

La strage del Mulinaccio venne compiuta il 6 luglio del 1944, a dieci giorni dalla liberazione di Arezzo. Quindici uomini che stavano lavorando nei campi, residenti presso il podere il Mulinaccio, vennero presi dai tedeschi. Nonostante i giorni precedenti avessero intrapreso rapporti amichevoli con loro, i soldati quel 6 luglio li divisero dalle loro mogli e madri e li fecero camminare lungo il sentiero che porta verso il torrente Castro. Qui, poco oltre il guado, vennero uccisi a colpi di mitraglia e gettati in una fossa. Il giorno successivo gli stessi soldati ritornarono al podere intimando alle donne la partenza dalle case coloniche e comunicando loro la morte dei familiari, dicendo ripetutamente “Partisanen kaputt!”.  Le donne, non conoscendo la lingua, non capirono, e soltanto una settimana dopo si resero conto del crimine che era stato consumato scoprendo la fossa dei cadaveri.

Ancora oggi non si riesce a capire le motivazioni dietro a quella strage: la memoria locale suggerisce la motivazione della rappresaglia, ma per il partigiano e scrittore Enzo Droandi si tratta invece di “violenza ingiustificata” e non si esclude la possibilità che si possa parlare di “terra bruciata”: “i tedeschi erano esasperati e catturavano chiunque, vedendo partigiani un po’ ovunque e nelle donne vedevano delle informatrici ribelli[5].

 

Cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio.

 

6° tappa: Monumento ai caduti di San Leo

Mulinaccio- San Leo 2 km (cinque minuti in auto, venti minuti a piedi).

Procediamo in direzione est percorrendo via Fiorentina poi via San Leo e giunti all’angolo con via Gaetano Donizzetti scorgiamo in un’area verde al lato della strada il monumento ai caduti di San Leo.

Il 6 giugno 1944 in località San Leo la gendarmeria tedesca catturò tre giovani che riteneva partigiani e li passò immediatamente per le armi. Questi ragazzi, secondo il racconto del parroco di San Leo, don Guido Terziani, che li conosceva di persona, erano stati mobilitati contro la loro volontà dai repubblichini ed aggregati – come tanti altri giovani – all’esercito tedesco[6]. Successivamente decisero di disertare e andare in montagna con i partigiani, ma vennero catturati dai fascisti e consegnati ai tedeschi. Condannati alla fucilazione per diserzione furono condotti lungo il canale della Chiana (nei pressi della Chiusa dei Monaci), in una piccola valle: uno alla volta furono legati ad un palo, bendati e fucilati al petto.

Le vittime: Aldo Esalti di Rovigo, Bruno Greggio di Villadosa, Luigi Guerra di Bosco di Rubano, tutti ventenni, furono sepolti nel cimitero di San Leo. Sopra la tomba vennero poste tre croci di legno con i loro nomi incisi.

Nella lapide commemorativa figurano i nomi di altri tre giovani anche loro disertori che furono fucilati presso il ponte della Chiassa.

Il monumento ai caduti è composto da tre grandi stele rettangolari di pietra che poggiano su un comune basamento in muratura. Nella prima stele, dedicata ai sei disertori italiani fucilati dai tedeschi il 6 giugno ’44, vi è raffigurato un angelo che depone dei fiori in un prato costeggiato da dei cipressi e un’epigrafe che riporta i nomi dei fucilati. Le altre due stele invece sono dedicate, quella centrale, ai caduti della Grande guerra e, la terza, ai caduti della seconda guerra mondiale.

 

Monumento ai caduti di San Leo.

Stele in memoria dei sei disertori italiani fucilati dai tedeschi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7° tappa: Monumento in memoria dell’eccidio di San Polo

San Leo – San Polo 8 km e mezzo (12 minuti in auto, un’ora e cinquanta circa a piedi).

Dal monumento a San Leo prendiamo a ritroso via Fiorentina fino ad arrivare all’incrocio con viale Giovanni Amendola, dove svoltiamo a sinistra e proseguiamo in direzione nord-est percorrendo viale Filippo Turati. Giunti all’incrocio con via Buonconte da Montefeltro proseguiamo fino al bivio con via Fontebranda che percorriamo fino ad arrivare a San Polo.

La strage di San Polo  avvenne il 14 luglio del  ’44, due giorni prima della liberazione di Arezzo, e conta complessivamente 63 vittime. Fu un eccidio che si consumò a più riprese in diversi luoghi della stessa zona ed ebbe l’epilogo finale a San Polo presso villa Gigliosi. Rimane impressa nella Storia la terribile, raccapricciante violenza con cui si perpetrò questa strage ad opera dei nazisti che non risparmiarono neanche un neonato di due settimane.

 

Monumento in memoria della strage di San Polo.

 

8° tappa: Murales della Chiassa Superiore

San Polo – Chiassa Superiore 7,3 km (9 minuti in auto, un’ora e quaranta a piedi).

Da San Polo ci rechiamo ad Antria e intraprendiamo lo Stradone di Ca’ de Cio per svoltare successivamente all’altezza dell’incrocio della strada della Catona, che percorriamo fino ad arrivare al Murales della Chiassa, posto nel parco vicino al campo sportivo in ricordo dei due partigiani Giovan Battista Mineo e Giuseppe Rosadi, eroi della Chiassa che riuscirono ad evitare l’ennesima strage perpetrata dai tedeschi[7].

Una strage mancata:

Il 26 giugno del ’44 un colonnello tedesco, Maximilian Von Gablenz insieme al suo aiutante, vennero rapiti per la strada della Libbia da una banda partigiana autonoma capitanata da “il Russo” (erano partigiani slavi scappati dal campo di Renicci). Come rappresaglia il comando tedesco organizzò un rastrellamento di 500 civili (scesi poi a 209) che vennero rinchiusi nella chiesa della Chiassa, dando un ultimatum di 48 ore affinché fosse liberato l’ufficiale tedesco pena la fucilazione dei cittadini.

Il comando partigiano guidato da Siro Rossetti incaricò il partigiano siciliano Giovan Battista Mineo di farsi concedere una proroga di 24 ore e di riuscire a scoprire dove la banda partigiana teneva nascosto il colonello. Ottenuta la proroga, Mineo partì immediatamente alla ricerca dei partigiani che tenevano in ostaggio l’ufficiale tedesco riuscendo a trovarli nei pressi di Montercole, ad Anghiari, e dopo una lunga trattativa convinse “il Russo” a liberare il colonnello. Mineo con Giuseppe Rosadi e Bruno Zanghi, appartenenti alla banda del Russo, si misero in marcia verso la Chiassa portandosi appresso i due tedeschi. Dopo molte peripezie, quando ormai sembrava impossibile arrivare in tempo, i partigiani si fecero scrivere una lettera dal colonnello dove dichiarava che era stato liberato e presto sarebbe giunto presso il reparto tedesco. Mineo si mise subito in viaggio correndo verso la Chiassa e arrivò proprio mentre i primi ostaggi venivano portati fuori per la fucilazione. La lettera di Von Gablenz fermò così la strage e poco dopo arrivarono i partigiani con i due tedeschi.

 

Murales dedicato a Gianni Mineo e Giuseppe Rosadi.

 

Pieve di Santa Maria alla Chiassa. Qui possiamo trovare sulla sinistra della chiesa un’abitazione (si vede nella foto) con un’iscrizione che ricorda l’eroico gesto.

 

Ma in questo luogo, pochi giorni prima dalla strage mancata della Chiassa, il 23 giugno, i tedeschi avevano già giustiziato sei persone in segno di rappresaglia per l’uccisione di tre soldati tedeschi.

 

Lapide ai caduti dell’eccidio de “La Casina”, si trova affissa sulla parete esterna della villetta “La Casina”, un’abitazione privata ubicata sulle colline sovrastanti la Chiassa Superiore, dove si consumò la strage.

 

 

Questo fu il pegno da pagare per la popolazione della provincia aretina durante la ritirata delle truppe tedesche. Un sacrificio di vite umane per la Resistenza che sembrava interminabile: vittime di una violenza inaudita che non risparmiava niente e nessuno. Su su, paese per paese, borgo per borgo, porta per porta la furia barbarica nazista passava e livellava come una falce. In ogni luogo come belve feroci e affamate i tedeschi arrivavano balzando con i loro lanciafiamme, con i loro capestri, con i loro strumenti di sterminio, pronti ad impiccare, a fucilare, a torturare, ad incendiare, a massacrare, lasciando dietro di loro una lunga scia di sangue, di cenere e macerie.

 

NOTE:

[1] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 134.

[2]Citato in Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Tip. Badiali, Arezzo 1957. p. 486.

[3]Ivi, p. 505.

[4]La vicenda dell’uccisione dei fratelli Tani e Aroldo Rossi è stata ricostruita nelle pagine di “Una lira per tre vite” il libro scritto da Enzo Gradassi e Santino Gallorini.

[5]G. Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 133.

[6]A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, cit., pp. 482-483.

[7]Sull’eroica vicenda della Chiassa Superiore cfr. il libro di Martinelli Renzo, I giorni della Chiassa, Arti grafiche Cianferoni, Firenze 1946 ed il libro di Santino Gallorini, Vite in cambio: Gianni Mineo, il partigiano infiltrato, che salvò dalla strage la popolazione della Chiassa, Effigi, Arcidosso 2014.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di ottobre 2024.

 




LE CASE DEL POPOLO TOSCANE NELLA TORMENTA FASCISTA

Le fiamme che han distrutto le Case del popolo sono state l’inizio
d’un vasto incendio che minaccia di dar fuoco all’Europa.
(Angelo Tasca, 1938)

Non è certo un caso che, fra il 1920 e il 1923, anche in Toscana il primo obiettivo delle spedizioni fasciste, quasi sempre supportate dalle forze dell’ordine, furono le Case del popolo, costruite su iniziativa e con l’opera diretta dei lavoratori. Esse, infatti, dall’inizio del secolo rappresentavano, nelle città e forse ancor di più nelle campagne, un importante punto di riferimento per la socialità delle comunità locali e per le lotte della classe lavoratrice.
Le Case del popolo erano invise alla reazione filo-padronale in quanto offrivano occasioni di solidarietà e aggregazione sociale, alternative a quelle dell’osteria e della parrocchia. Al termine della giornata lavorativa e alla domenica, i lavoratori e le lavoratrici vi trovavano, oltre alla mescita, biblioteche popolari, spazi per pranzi sociali, feste, spettacoli, canto e ballo. Inoltre, vi si tenevano riunioni, inaugurazioni di bandiere dei sodalizi proletari e conferenze; talvolta erano anche sede delle Leghe operaie o bracciantili e, in qualche caso, della locale Camera del Lavoro.
Significativo il ritratto scritto dal repubblicano fiorentino Augusto Borchi nel 1921:

le case del popolo sono divenute oltre che i centri della mutualità soprattutto i centri della cultura e della educazione proletaria. Aggredirle costituisce dunque il peggiore dei delitti. Le case del popolo sono luoghi sacri e inviolabili poiché sono il simbolo di una fede che sopravanza le competizioni di potere. Davanti a esse si inchinino tutti gli uomini di onore e chi osa dichiararsi solidale con gli assassini di tali istituzioni sappia che egli non si qualifica soltanto un avversario del popolo ma anche e soprattutto un nemico della civiltà .

In tale ambiente, potevano quindi incontrarsi e confrontarsi lavoratori e lavoratrici di diverse categorie, così come aderenti alle rispettive tendenze politiche (sindacalisti, socialisti, anarchici, repubblicani, comunisti o senza partito), anche se talvolta la convivenza poteva essere problematica:

La scissione di Livorno, seguita in Empoli da gravi defezioni tra i socialisti, e perciò anche da una perdita di prestigio dei socialisti stessi nelle organizzazioni economiche, creò uno stato di tensione gravissima fra socialisti e comunisti. I socialisti empolesi, riunitisi dopo la scissione, decretarono immediatamente lo sfratto ai «secessionisti», sistematisi in due stanze della Casa del Popolo; per tutta risposta la «Guardia Rossa», passata armi, bagagli e bandiera ai comunisti, occupava la Casa del Popolo vietando il passo ai socialisti. Il dissidio in merito ai locali fu risolto con un accordo, che prevedeva l’uso del primo piano da parte dei socialisti e del secondo piano da parte dei comunisti .

Sin dal 1920 si registrarono le prime spedizioni fasciste contro le Case del popolo (talvolta denominate Case dei lavoratori, degli operai o del proletariato), ma fu soprattutto a partire dagli inizi del 1921 che furono sistematicamente assaltate e distrutte, così come le sedi di altri organismi associativi del movimento operaio e bracciantile quali Camere del lavoro, Società operaie di mutuo soccorso, Cooperative di consumo, Circoli libertari di studi sociali, Circoli socialisti di cultura, Circoli repubblicani e pure cattolici, Biblioteche e Teatri popolari: le distruzioni erano pressoché quotidiane ed estese ad ogni territorio, con centinaia di strutture rese inagibili, saccheggiate o date alle fiamme, con numerose vittime.
Solo nel primo semestre del 1921, secondo i dati forniti dallo storico fascista Chiurco, e ritenuti incompleti da Angelo Tasca, risultano distrutte dagli squadristi almeno 59 Case del popolo, così come 100 Circoli di cultura, 10 Biblioteche popolari e teatri, 53 Circoli operai e ricreativi.
Nelle stesse testimonianze degli squadristi vi si trova puntuale resoconto, come ad esempio nel diario dello studente Mario Piazzesi della Disperata di Firenze che vanta la “baldanza” nel devastare, senza difficoltà, molte Case del popolo durante le scorrerie per le campagne toscane e umbre.

CANNONATE CONTRO LE CASE DEL POPOLO

A copertura delle squadre “tricolorate” dei fascisti e dei nazionalisti vi era l’immancabile presenza di carabinieri, guardie regie e anche reparti del Regio esercito. Tale alleanza, in taluni casi, comportò persino l’impiego dell’artiglieria per espugnare alcune Case del popolo, come avvenuto a Siena il 4 marzo 1921 e a Casale Monferrato (AL) due giorni dopo. Analogamente, a Scandicci (FI) il 3 marzo era stata attaccata con mitragliatrici e un cannone da 75 mm. la sede della Società di Mutuo Soccorso costruita nel 1883 da operai, contadini, artigiani ed ex-garibaldini.
L’attacco del marzo 1921 alla Casa del popolo senese (che ospitava anche la Camera del Lavoro) fu sicuramente fra i più gravi. Per vincere la resistenza armata dei lavoratori che la difendevano, i fascisti ebbero bisogno dell’intervento dei carabinieri, affiancati da 200 soldati con due cannoni da 65 mm., mitragliatrici piazzate in piazza del Monte dei Paschi e due autoblindo. Contro la Casa del popolo furono lanciate bombe a mano, sparate alcune cannonate e almeno duemila colpi di fucile. Dopo la resa, i locali vennero incendiati con la benzina fornita dal Consorzio agrario; seguirono circa 80 arresti e violente rappresaglie. Questa la cronaca, pubblicata sull’«Avanti!» del 25 settembre 1921 (Dalla Toscana insanguinata):

Il segretario della Casa del Popolo [recte: Camera del Lavoro], Giulio Cavina, ora deputato [socialista], fu scovato nel suo ufficio a notte inoltrata e dopo che il cannone aveva operato una breccia nel muro dell’edificio operaio. Fu trascinato da basso, sotto i portici, percosso a sangue da tutti: i più feroci erano i carabinieri e gli ufficiali del Presidio. Quattro soldati, con baionetta inastata, furono messi alla sua guardia […] Intanto tutti gli ufficiali del Presidio, guidati dal capitano dei carabinieri Lucatelli, sfilarono davanti al Cavina strappandogli i peli della barba e schiaffeggiandolo. In breve […] fu tutto pesto e grondante di sangue e chiese un bicchiere d’acqua. Il capitano Lucatelli ed altri ufficiali dettero ordine che nessuno portasse l’acqua richiesta […] tutti i soldati e i carabinieri si dettero a bere il vino e i liquori presi nelle cantine della Casa del Popolo davanti al Cavina. Anche il capitano medico del Distretto, anziché curarlo […] si dette a dileggiarlo.

Il drammatico assedio sarebbe stato rievocato anche in versi dall’anarchica Virgilia D’Andrea nel 1922 :

Udite, udite, o miei compagni, a Siena
Città dolce e gentil romba il cannone.
Sessanta petti han fatto una catena
E d’ansia è la difesa e di passione.

Ma la bocca di fuoco arde sui volti
E s’apre un varco ne la Casa rossa:
Escono, i vinti, màdidi e sconvolti
E cadon, muti, su la terra smossa.

La difesa armata degli organismi e delle sedi del movimento d’emancipazione sociale rappresentò comunque un fatto abbastanza sporadico; si trattava infatti di una lotta impari non solo sul piano tattico, ma finanche su quello psicologico, come significativamente osservato da Angelo Tasca:

I lavoratori, al contrario, si agglomerano intorno alla loro Casa del popolo […] La Casa del popolo, la Camera del lavoro, sono il frutto dei sacrifici di due o tre generazioni, tutto il loro «capitale», la prova concreta del cammino compiuto dalla loro classe, e il simbolo ideale dell’avvenire sperato. I lavoratori vi sono affezionati, ed esitano, per istinto, a servirsene come se si trattasse di un semplice materiale di guerra.
Non si trasforma facilmente una casa in fortezza, se si tiene alla casa […] Per i fascisti la Casa del popolo non è che un bersaglio. Quando le fiamme si elevano da queste belle costruzioni, il cuore degli operai è straziato, invaso da una cupa disperazione, quasi paralizzato dall’orrore, mentre gli assalitori alzano grida selvagge di gioia. Di queste oasi di socialismo che coprono quasi tutta la pianura del Po, non resta più, alla fine della guerra civile, che un cupo deserto.

Pur essendo nate con spirito umanitario e di civile convivenza, le Case del popolo in numerose situazioni divennero comunque la sede ospitale e solidale per le prime organizzazioni unitarie dell’antifascismo militante, come avvenne ad Empoli dove, fin dal gennaio 1920, le ex-Guardie rosse costituirono, nella locale Casa del popolo, un corpo volontario armato per l’azione antifascista, mentre presso la Casa del popolo di Borgo Vittoria, a Torino, nel gennaio 1921, si riuniva la Federazione dei gruppi d’azione diretta rivoluzionaria, emanazione dell’USI (Unione sindacale italiana), con intenti sia difensivi che offensivi; altresì, sempre nel torinese, in alcune Case del popolo si organizzarono le squadre comuniste, come ad esempio, quella di Condove di Susa strettamente sorvegliata dalla polizia.
In seguito, dopo la loro comparsa a fine giugno 1921, gli Arditi del popolo difesero le Case del popolo e da queste furono accolti, così come ebbe a dichiarare Argo Secondari, loro fondatore:

fino a quando i fascisti continueranno a bruciare le case del popolo, case sacre ai lavoratori, fino a quando continueranno la guerra fratricida, gli Arditi d’Italia non potranno avere con loro nulla in comune. Un solco profondo di sangue e macerie fumanti divide fascisti ed Arditi.

Ad Ancona la sezione ardito-popolare si costituì presso la Casa del proletariato e a Roma la sede centrale degli Arditi del popolo fu la Casa del popolo in via Capo d’Africa; tanto che, in un’intervista a Secondari, pubblicata su «L’Ordine nuovo» del 12 luglio 1921, si poteva leggere il seguente commento:

Il tenente Secondari risponde alle mie domande con molta cordialità, ma anche con grande impazienza. Giungono ogni tanto dalla periferia dei giovani operai Arditi, che portano notizie, chiedono informazioni, ordini. Questa sera ha luogo una riunione di capi-centuria alla Casa del Popolo. È perfettamente naturale che gli «Arditi del popolo» si riuniscano alla Casa del Popolo.

Con l’avvento del regime fascista e in particolare nel 1923 – l’anno della grande repressione contro l’antifascismo – le poche Case del popolo superstiti furono chiuse d’autorità e requisite per essere destinate a Casa del Fascio o sedi rionali del Fascio, così come previsto dal Decreto Legge che nel 1924 impose lo scioglimento delle S.M.S. e delle associazioni similari. In questo modo, ad esempio, a le Case del popolo di Siena e Settignano (FI) divennero Case del Fascio, così come a Colle Val d’Elsa, dove la Casa del popolo e il modernissimo Teatro del popolo furono soppiantati rispettivamente dalla Casa del Fascio e dal Teatro del Littorio, mentre a Piombino la Casa del popolo diventò Casa d’Italia, nonché sede del Fascio (oggi Commissariato di Polizia).
In molte località della Toscana, per finanziare le Case del Fascio, i lavoratori, le operaie e i contadini furono inoltre costretti a versare contributi in denaro, acquistare azioni o prestare manodopera gratuita, onde evitare ritorsioni.
Parallelamente ai decreti prefettizi di scioglimento e alle chiusure violente di Case del popolo e S.M.S., i Fasci usavano convocare i consiglieri e i responsabili di queste esperienze di democrazia proletaria, così come di quelle indipendenti, per indurli, sotto minaccia, a rassegnare le dimissioni. L’associazionismo democratico fu quindi del tutto soppiantato dalle strutture dell’Opera Nazionale Dopolavoro, istituita con il Decreto legge n. 582 (significativamente datato 1° maggio 1925).
Il Dopolavoro operava, dichiaratamente, come organo di propaganda del regime, nel tentativo di affermare una propria politica sociale fra i lavoratori e i ceti popolari, attraverso paternalismo padronale e assistenzialismo demagogico, che ne confermava la subalternità. Nonostante una certa espansione, i Dopolavoro aziendali e Statali rimasero comunque – a differenza delle Case del popolo – istituzioni imposte e gestite dall’alto, in cui il «libero pensiero» era soppresso dal «clima spirituale della rivoluzione fascista».

IL PRIMO ASSALTO, LA PRIMA VITTIMA

Il primo assalto fascista ad una Casa del popolo in Toscana vide anche la morte di un suo difensore: il diciottenne Enrico Lachi (Monteriggioni 29 luglio 1902 – Siena 11 marzo 1920), figlio di Giulio e Giulia Pagni.
Nato in località Poggiolo (Fontesdevoli), la sua numerosa famiglia si era trasferita a Siena quando aveva quattro anni, in via Fiorentina 88. Giovanissimo, aveva iniziato a lavorare come operaio avventizio delle Ferrovie, subito attivo sul piano sindacale e politico, iscrivendosi al Fascio giovanile socialista “Andrea Costa” e partecipando allo sciopero ferroviario del gennaio 1920.
Quel 7 marzo 1920 si trovava in prima fila a difendere la sede della Casa del popolo di Siena, costruita e inaugurata nel 1905 con il determinante contributo della Banca Cooperativa Ferroviaria e su iniziativa di ferrovieri e tipografi. L’edificio, in via Pianigiani, ospitava anche la locale Camera del lavoro e comprendeva una Biblioteca popolare, un Teatro, un Caffè e altre attività commerciali.

Il 7 marzo 1920, approfittando di un corteo di protesta di ex-combattenti, i fascisti riuscirono a farlo parzialmente deviare verso la Casa del popolo, simbolicamente presidiata dai carabinieri. Infatti, i fascisti – armati – poterono vandalizzare i locali del Caffè, mentre i carabinieri bloccavano i pochi lavoratori schierati a difesa della Casa del popolo. In questa fase, in piazza della Posta, un appuntato dei carabinieri sparò con la rivoltella colpendo Enrico Lachi che stava affrontando un fascista. Soccorso all’interno del Caffè e subito trasportato all’Ospedale civico, Lachi sarebbe morto alle 0.45 dell’11 marzo, dopo giorni di sofferenze.

Contro le violenze dei fascisti e dei carabinieri, subito iniziò uno sciopero prima spontaneo e poi proclamato unitariamente dalla Camera del lavoro, dalla Sezione socialista, dal Circolo giovanile socialista, dal Circolo anarchico Germinal e dalla Federazione socialista. Lo sciopero risultò generalizzato e al comizio, tenutosi la sera dell’8 marzo, in piazza Umberto I (ora piazza Matteotti), intervennero gli onorevoli Grilli e Bisogni; il segretario della Camera del lavoro. Giulio Cavina; Meini per il Partito socialista e Guglielmo Boldrini per gli anarchici: comune fu l’accusa contro, oltre ai fascisti, tutte le autorità, di cui chieste le dimissioni. I funerali di Lacchi si svolsero sabato 13 marzo, con la partecipazione di quindicimila persone. Sin dalla sera precedente la sua salma era stata esposta presso il Circolo di Cultura della Casa del popolo. Tra le tante corone risaltava una con la dedica «Alla vittima del piombo regio. Le donne del popolo». Inoltre vi erano quelle del Personale di Macchina e Depositi Locomotive, del Personale Viaggiante, dei compagni di lavoro dell’Officina ferroviaria, dei Soci della Pubblica Assistenza. L’ultimo saluto fu affidato a Bisogni per i socialisti, a Boldrini per gli anarchici e a Carlucci per i giovani socialisti. Nei giorni seguenti gli Operai delle officine ferroviarie inviarono una lettera pubblica al dirigente reclamando spiegazioni sul licenziamento di Lachi l’indomani del suo mortale ferimento.
La sua tomba si trova ancora al cimitero del Laterino, appena dietro la cappella centrale.

La Casa del popolo di Siena avrebbe subito altri tre assalti: il 4 maggio 1920, il 4 marzo 1921 e il 23 maggio 1921; nel 1923, dopo l’avvento del fascismo, fu estorta e trasformata in Casa del Fascio. Dato che, dopo le devastazioni, l’edificio necessitava di lavori di ristrutturazione, la Casa del Fascio contrasse un mutuo con il Monte dei Paschi, ma il debito non sarebbe mai stato onorato. Per recuperare il danno, la Banca acquisì gli immobili gravati da ipoteca, e contemporaneamente acquistò Palazzo Ciacci, in via Malavolti, donandolo nel 1936 alla Federazione fascista. Quella che era stata la Casa del popolo venne quindi venduta al Consorzio Agrario a un prezzo irrisorio. Il Partito fascista mantenne la propria sede a Palazzo Ciacci sino alla fine; fu qui la famigerata Casermetta in cui, nel periodo della Repubblica Sociale, centinaia di oppositori al regime, ebrei e partigiani senesi furono imprigionati, interrogati e torturati.

Anche dopo la Liberazione, la Casa del popolo non venne mai restituita ai lavoratori senesi, e tutt’ora è sede del Consorzio Agrario; a Enrico Lachi, invece, è stata dedicata una piazza del quartiere senese di Petriccio.

 




L’occupazione tedesca di Prato

Mesi infernali tra rastrellamenti e bombardamenti alleati. È questa la tragica situazione a cui dovettero sopravvivere i cittadini pratesi durante l’occupazione nazifascista. L’attenzione che fu data a questa città merita però una premessa obbligatoria, per spiegare perché ricevette un trattamento simile. Prato è una città industriale, definita proprio “di industria”, dove le imprese risiedono direttamente all’interno della città e non in zone periferiche esterne al perimetro abitativo, come nel caso di Firenze. Qui sono collocate proprio nel centro cittadino, creando un rapporto strettissimo tra realtà industriale e città. Ecco perché i bombardamenti avranno conseguenze ancor più devastanti, perché colpirono il centro abitativo e l’industria simultaneamente, mettendo in alcuni momenti in ginocchio la popolazione.

Dopo i fatti del 25 luglio 1943, anche Prato fu fra le città che videro una forte mobilitazione della cittadinanza che pretendeva il ritorno alla libertà e alla pace. Una sommossa popolare e antifascista che si interruppe il 10 settembre, con l’irruzione dell’esercito tedesco che occupò la città e restaurò il potere fascista, rendendo la vita impossibile per tutti quegli antifascisti che si erano maggiormente esposti tra il 25 luglio e l’8 settembre, e che furono arrestati o costretti a scappare dalla città. Per fronteggiare questa nuova situazione iniziò l’organizzazione delle formazioni partigiane. Di fatto il primo vero scontro con le forze fasciste arriverà soltanto nei primi giorni dell’anno seguente: la battaglia di Valibona. Si svolse la mattina del 3 gennaio del 1944 in località Valibona, sulla Calvana, al confine fra i comuni di Calenzano e Prato. Fra i casolari di Valibona si era, infatti, fermata un gruppo partigiano guidato da Lanciotto Ballerini nel corso di una marcia verso il pistoiese per raggiungere la formazione guidata da Manrico Ducceschi. I rastrellamenti sempre più frequenti resero pericolosa la permanenza sul Monte Morello, in prossimità di Firenze, dove Ballerini si trasferì dopo l’8 settembre del ’43, dando vita ad una formazione armata, e lo spinsero al trasferimento. Mentre molti partigiani comunisti si erano diretti dai propri compagni sul Monte Giovi, con Ballerini ne rimasero diciassette, prevalentemente sestesi e campigiani, fra cui anche due prigionieri russi, due slavi e un prigioniero inglese. Giunti a Valibona, il gruppo decise di sostare per riposarsi. Ma nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 1944 furono circondati da elementi del 1° Battaglione volontari Bersaglieri “Muti”, una formazione della guardia repubblichina guidata da Duilio Sanesi, comandante del presidio di Prato, Carabinieri e fascisti dei Comuni limitrofi, reparti agguerriti, ben armati e equipaggiati, giunti sia da Vaiano che da Calenzano, che li avevano individuati grazie alla delazione di una spia. Il soldato sovietico Mirko, svegliatosi per un bisogno, accortosi del nemico, avvisò Ballerini. Rifiutata la resa combatterono intensamente. La battaglia divampò per circa tre ore e mezzo. Considerata la situazione Ballerini comprese che l’unica via d’uscita era tentare una sortita per spezzare l’accerchiamento. E lanciò il contrattacco. L’iniziativa riuscì e, nonostante la disparità di numero e di mezzi, nove componenti del gruppo sfuggirono all’assedio. Lo scontro si concluse con cinque perdite fasciste e tre partigiane, dimostrando l’organizzazione e la tenacia della resistenza toscana. Fu questo scontro a dare vigore e consapevolezza sul territorio dell’esistenza di forze che si opponevano all’occupazione nazifascista, dando più forza alla Resistenza. Un processo rafforzato ancor più dallo sciopero dei primi di marzo[1].

Fu promosso dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia) a partire dal 1° marzo del 1944 in tutti i territori ancora occupati dall’esercito tedesco. Furono principalmente i comunisti ad insistere per lo sciopero, per consolidare i successi ottenuti dai primi episodi della Resistenza, per migliorare le condizioni materiali dei lavoratori, per chiedere la fine della guerra e per dare un ulteriore segnale di lotta. Ebbe ovunque un successo inaudito. Dagli oltre sessantamila operai di Torino a Milano, dove fu bloccata la circolazione dei mezzi pubblici, l’Italia occupata si ribellava platealmente al comando tedesco. A Prato i giorni che lo precedettero furono di alta tensione, proprio a causa del modello produttivo della città, dell’inattività totale o parziale di alcune aziende e del timore di una ritorsione da parte di fascisti e nazisti. Per questo lo sciopero ebbe inizio solo il 4 marzo, ma la mobilitazione fu totale. Nonostante le iniziali preoccupazioni sopra descritte, la partecipazione riguardò non soltanto i lavoratori comunisti o vicini al partito, ma persino molti che erano stati fascisti convinti. L’entità dell’adesione sorprese non soltanto le autorità fasciste ma anche gli stessi organizzatori. Prato era presente. Lo scioperò proseguì anche lunedì 6 e martedì 7 marzo, in un clima di mobilitazione totale, tanto è che il CLN perse il controllo dello sciopero stesso, a causa della mancanza di collegamenti e referenti nelle molte aziende del territorio pratese. La situazione si stabilizzò solo a partire dall’8 marzo, dove la quasi totalità dei lavoratori tornò al lavoro. Ma subito iniziò la dura risposta da parte dei nazifascisti[2].

Ma proprio in quelle ore Prato visse un altro terribile dramma: i bombardamenti degli alleati. La città nei mesi precedenti ne aveva subiti una decina, arrivando a contare più di cinquanta morti. E quello della mattina del 7 marzo non fu da meno. L’incursione alleata devastò vaste aree del centro storico e della periferia a nord, come via Strozzi, Montalese, Bologna, Filicaia, Santa Margherita e San Fabiano, oltre alle piazze Mercatale, del Duomo, Sant’Agostino e Ciardi. Furono colpite fabbriche e abitazioni, con un bilancio di sedici morti, diciotto feriti, centouno aziende danneggiate, cinquantaquattro case distrutte e quasi trecento danneggiate[3]. Il dolore dei familiari dei morti, lo sgomento di chi non aveva più una casa, la paura di un nuovo bombardamento, furono queste le sensazioni che in quel 7 marzo inondarono le strade di Prato e che presero velocemente il posto dell’orgoglio portato dallo sciopero. Eppure, quell’azione che, nell’idea degli alleati, tanto doveva destabilizzare i tedeschi, finì per farlo alla popolazione, talmente straziata e stanca che non capì subito quello che stava per accadere.

Contemporaneamente scattò la repressione nazista. Arrivò da Hitler in persona l’ordine di deportare il venti per cento della manodopera in seguito agli scioperi di marzo. Un ordine che dimostra tanto la collera dell’azione punitiva quanto la sorpresa che ebbero i tedeschi davanti alla capacità di mobilitazione dei lavoratori italiani. In base agli ordini arrivati da Berlino, i fascisti locali avrebbero dovuto consegnare millenovecento scioperanti: una cifra al limite dell’irraggiungibile se si considera che la popolazione di Prato al tempo non arrivava alle quarantamila unità. Ma questo, ad una Germania arrivata al culmine dello sforzo bellico e bisognosa di manodopera, non interessava affatto. Fu così che allora i fascisti pratesi, aiutati dalle forze della RSI fiorentina e lucchese, bloccarono gli incroci principali della città e catturarono tutti gli uomini che ebbero la sfortuna di passarci davanti. Oltre che per le strade, i lavoratori furono prelevati direttamente anche in tre aziende: alla Guido Lucchesi, alla Campolmi e alla Sbraci Vasco. Questo rastrellamento indiscriminato fece sì che non tutti gli arrestati fossero degli antifascisti o lavoratori aderenti allo sciopero: la situazione si era talmente confusa che furono deportati anche dei fascisti convinti. Per tutto il giorno del 7 marzo, e fino a quando lo si ritenne redditizio continuò il rastrellamento indiscriminato di persone. Alla fine, i circa centotrentasette arrestati furono trasferiti con dei pullman a Firenze, precisamente alla Scuole Leopoldine, in piazza Santa Maria Novella. Qui, dopo esser stati registrati, ed in alcuni casi interrogati, furono scortati dalle forze tedesche presso la Stazione Centrale. Lì si trovarono di fronte alcuni carri ferroviari, quelli usati per il trasporto del bestiame, dove furono costretti a salire. Dopo tre giorni interminabili di viaggio arrivarono a Ebensee, uno degli oltre quarantanove campi che dipendevano da Mauthausen. Ne torneranno solo ventuno[4].

Eppure, anche con questa prova di forza perpetuata dai tedeschi, il lavoro nelle aziende non riprese regolarmente, sia perché una parte delle maestranze era stata deportata, sia perché la situazione era radicalmente cambiata proprio in virtù di quella reazione, che aveva profondamente inciso sulla mentalità degli operai. Essi, infatti, una volta tornati al lavoro, sperando in una rapida avanzata alleata, iniziarono a boicottare la produzione come mai avevano fatto. La stessa struttura produttiva della città era stata notevolmente ridimensionata dai bombardamenti alleati e molti industriali preferirono allora aspettare il risarcimento dei danni di guerra anziché cercare di rimettere in funzione gli impianti per i tedeschi. A causa di tutto ciò, la produzione di guerra a Prato subì un vero tracollo[5].

Questo resta il culmine di un’occupazione che vedrà la città nei mesi seguenti ancora vittima dei bombardamenti alleati e delle ritorsioni nazifasciste. Bisognerà aspettare il 6 settembre per assistere alla liberazione di Prato, un giorno di isperata felicità ma che coincide con l’ennesimo eccidio di matrice nazista nel pratese: ventinove giovani partigiani vengono catturati alla fine di uno scontro a fuoco avvenuto nella notte precedente e vengono impiccati nel paese di Figline.

 

 

 

Note

 

[1] M. Di Sabato e G. Gregori, Fatti e personaggi della Resistenza di Prato e dintorni: dalla caduta del fascismo alla Liberazione (luglio 1943-settembre 1944), Pentalinea, Prato, 2014, pp. 19-46.

 

[2] M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Bologna, 1987, pp. 79-97.

 

[3] M. Di Sabato, La guerra nel pratese 1943-1944, Pentalinea, Prato, 1993, pp. 54-66.

 

[4] M. Di Sabato e G. Gregori, Fatti e personaggi della Resistenza di Prato e dintorni: dalla caduta del fascismo alla Liberazione (luglio 1943-settembre 1944), Pentalinea, Prato, 2014, pp. 52-55.

 

[5] M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Bologna, 1987, p. 104.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nell’ottobre 2024.




Pio Borri (1923-1943)

Sfogliando le pagine dedicate alla guerra di Liberazione nella provincia di Arezzo ci si imbatte frequentemente nella XXIIIª Brigata Garibaldi “Pio Borri”, una delle formazioni più attive ed importanti della Toscana orientale durante l’occupazione nazifascista. Ma chi era Pio Borri e perché gli venne intitolato un gruppo partigiano? Le informazioni a nostra disposizione sono scarse e limitano la loro attenzione ai dati anagrafici e alla cronaca della morte, avvenuta l’11 novembre 1943 a Molin di Bucchio. Le poche notizie che ci permettono di poter delineare in forma seppur minima il carattere e gli ideali del giovane protagonista di questo articolo provengono dal libro che Giuseppe Bartolomei dedicò alla lotta partigiana nella provincia di Arezzo: “Conoscevo Pio. Abitavamo vicini e ci frequentavamo nei pomeriggi liberi dalla scuola. Non era loquace. Carattere appassionato ed introverso, pareva nascondere in fondo all’anima un grumo irrisolto di angoscia, il risentimento impotente per un’ingiustizia, che a volte si manifestava in uno scatto improvviso. O nella ricerca della solitudine. Il padre, militante liberale, era morto per una bastonatura di squadristi: la più tetra espressione della volgarità imbecille del regime, prima che si mettesse le ghette[1].

Come molti altri giovani della sua generazione dopo l’armistizio (8 settembre 1943) Pio Borri decise di darsi alla macchia ed unirsi alle neonate formazioni partigiane che nel frattempo stavano sorgendo sul territorio. Nell’autunno 1943 il principale gruppo della Resistenza aretina era situato a Vallucciole, piccolo borgo dell’alto Casentino, distante pochi chilometri da Stia. Nel periodo a cavallo tra settembre e ottobre l’abitato venne designato dagli esponenti del Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista (CPCA)[2] quale centro della Resistenza aretina. La decisione di concentrare nel piccolo borgo l’opposizione al nazifascismo era motivata in particolar modo dal rilevante quantitativo di armi presenti nell’abitato[3] e dalla marginalità del borgo, che garantiva al contempo la possibilità di poter mantenere un certo livello di segretezza riguardo ciò che vi accadeva e di potersi facilmente sganciare in caso di attacchi nemici.

Nella fase iniziale il gruppo concentrò le proprie energie nel consolidamento della formazione, cercando armi, coordinando l’arrivo dei prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento[4] e istruendo all’uso delle armi coloro che non avevano avuto esperienza militare. Le dimensioni della formazione crebbero rapidamente e nel giro di un mese il gruppo giunse a superare le cento unità, grazie al continuo afflusso di nuovi partigiani provenienti da gruppi della zona e di prigionieri alleati. L’aumento degli effettivi non tardò a creare le prime complicazioni: alla fine di ottobre nel territorio di Stia i fascisti effettuarono un rastrellamento che portò all’arresto di due importanti elementi della formazione[5], mentre pochi giorni dopo un gruppo diretto a Vallucciole, costituito da ventitré prigionieri alleati, venne intercettato nei pressi di Stia, provocando uno scontro a fuoco che portò all’uccisione di un uomo.

I recenti sviluppi avevano portato i comandi della formazione ad optare per lo spostamento del quartier generale in una località ancora più remota, il podere le Pescine. La nuova locazione offriva migliori garanzie di fronte ad un’ipotetica incursione fascista, evitando la possibilità di un accerchiamento e favorendo la fuga del raggruppamento. Contemporaneamente allo spostamento della formazione giunse a Molin di Bucchio un’importante rifornimento del CPCA, costituito in prevalenza da viveri, come farina, pasta e marmellata, e da altri oggetti fondamentali per la sopravvivenza in montagna, come una bombola di carburo e un riflettore. Malgrado la situazione sconsigliasse qualsiasi tipo di movimento che allontanasse la formazione dalle pendici del Falterona, l’acquisizione di un tale quantitativo di materiale avrebbe garantito la sopravvivenza del gruppo, senza che questo gravasse eccessivamente sulle popolazioni locali.

Per l’occasione vennero predisposte due piccole unità, una guidata da Borri e l’altra da Alfredo Donnini: le squadre avrebbero dovuto discendere separatamente la vallata, per poi ritrovarsi a Molin di Bucchio verso l’una di notte; una volta giunti a fondovalle i gruppi si sarebbero dovuti impossessare del carico e riportalo al podere le Pescine seguendo l’itinerario precedentemente intrapreso. Sfortunatamente il piano non si svolse nel modo ipotizzato, e l’unità di Borri giunse a destinazione in anticipo rispetto alla squadra di Donnini. Ad attenderli a Molin di Bucchio erano presenti 45 militi della MVSN (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) guidati da Emilio Vecoli: nello scontro a fuoco Borri venne colpito alla scapola, mentre i compagni vennero disarmati e subito interrogati per conoscere il luogo dove era nascosto il rifornimento; Borri venne interrogato per ultimo, e nonostante fosse ferito ed ormai prossimo alla morte non rivelò nessuna informazione ai suoi aguzzini, che stanchi dell’infruttuosità dell’interrogatorio lo lasciarono morire di dissanguato nel gelo della notte[6].

Vecoli, intenzionato ad individuare la formazione ed eventualmente scontrarsi con essa nel caso vi fossero state le condizioni per un combattimento, diresse la maggioranza degli uomini a sua disposizione in direzione di Vallucciole, Una volta giunti nel borgo gli uomini del capo manipolo non incontrarono nessun partigiano, ma rinvennero per le strade del borgo e nelle abitazioni tracce che testimoniavano l’inequivocabile passaggio dei ribelli per l’abitato. I militi proseguirono dunque la loro ricerca continuando l’ascesa per le pendici del Falterona, ma anche in questo caso non incontrarono nessun partigiano lungo il loro cammino e rientrarono a Stia nel tardo pomeriggio. Nel progetto di Vecoli in seguito all’identificazione e alla localizzazione del gruppo sarebbe seguita, nei giorni successivi, un’ampia operazione volta alla distruzione del gruppo, ma ciò non si verificò mai.

La morte di Borri coincise con la fine della formazione partigiana: la scomparsa del giovane studente sconvolse la Resistenza aretina e rappresentò per essa una drammatica presa di coscienza dei drammi e dei dolori che la guerra di Liberazione avrebbe comportato. La scomparsa di Borri aveva interrotto un periodo nel quale nazifascisti e partigiani non si erano mai fronteggiati in rilevanti scontri, preferendo semmai concentrare le loro attenzioni nel consolidamento delle loro forze e limitandosi a qualche scaramuccia o a qualche azione di disturbo. Altro aspetto che determinò la rapida conclusione della formazione fu l’immediato abbandono da parte degli elementi casentinesi: la defezione di questi individui, probabilmente terrorizati per delle potenziali ripercussioni ai danni dei loro familiari, causò la perdita delle figure probabilmente più importanti del gruppo per la loro conoscenza del territorio.

La fine della formazione aveva messo in evidenza i limiti del raggruppamento ed aveva sottolineato i rischi legati ad una strategia che concentrava la maggioranza delle unità in un unico luogo. In una riunione avvenuta a Subbiano il 23 novembre i principali esponenti della Resistenza avevano dunque optato per un cambio di strategia, prediligendo la presenza sul territorio di formazioni dalle dimensioni più esigue e dal carattere locale[7]. Nonostante le tendenze centrifughe e il carattere eterogeneo della nuova impostazione, i capi della Resistenza decisero di porre le varie formazioni all’interno di una grande brigata posta sotto il comando di Siro Rosseti e alle dipendenze del CPCA. Nei mesi successivi la formazione cambierà denominazione diverse volte, inizialmente verrà dedicata al giovane scomparso e verrà ribattezzata Raggruppamento “Pio Borri”, successivamente diverrà la XXIIIª Brigata Garibaldi “Pio Borri” ed infine diverrà nelle ultime fasi della guerra di Liberazione la Divisione Partigiani “Arezzo”[8]. L’uccisione di Borri aveva poi messo in luce la profonda disparità tra fascisti e partigiani: i primi potevano contare su una fitta rete di collaborazionisti che tenevano informate le autorità sugli spostamenti del gruppo, mentre i secondi non potevano vantare ancora un solido sostegno da parte dei civili, inclini semmai a fornire le informazioni ai fascisti pur di aver qualche tipo di favoreggiamento.

Malgrado la morte di Borri avesse gettato nel panico la Resistenza aretina ed avesse portato allo sgretolamento della formazione Vallucciole, aveva contemporaneamente offerto ai ribelli la possibilità di poter convogliare intorno alla sua figura il risentimento nei confronti dei nazifascisti. Le modalità della morte del giovane studente si prestavano perfettamente a questo scopo: da un lato la brutalità e la vigliaccheria della sua uccisione non avevano fatto altro che ricordare alla popolazione quale fosse il carattere dei fascisti, mentre dall’altro il contegno e la tenacia dimostrate da Borri furono elementi fondamentali affinché la sua morte non rimanesse solamente la scomparsa di un partigiano, ma venisse utilizzata quale esempio di sacrificio per una causa maggiore. I membri del CPCA riuscirono ad utilizzare a proprio favore gli eventi successivi, creando e diffondendo false notizie con l’intento di aumentare lo scontento della popolazione nei confronti dei fascisti. In tal senso i bombardamenti avvenuti il 12 novembre, giorno nel quale si tenne il funerale di Borri, divennero per il Comitato un evento potenzialmente utile: nei giorni successivi la Resistenza fece circolare per la città numerosi volantini che correlavano l’attacco aereo con la morte del giovane studente. Chiaramente i due eventi non avevano nessun tipo di legame, ma l’invenzione ebbe il merito di sconsigliare ai fascisti l’estensione della repressione e di incrementare parallelamente l’astio nei loro confronti[9].

In prospettiva gli eventi dell’11 novembre 1943 segnarono in modo drammatico il futuro del borgo. Malgrado dopo l’uccisione di Borri il paese non avesse più ricoperto un ruolo rilevante all’interno della Resistenza questo continuò ad essere etichettato dai fascisti locali come “covo di partigiani”, fornendo un’immagine enormemente amplificata riguardo la presenza dei ribelli nel Casentino e nei pressi di Vallucciole. Nel corso dell’inverno 1943-1944 nel paese non avvennero movimenti degni di particolare attenzione, ma divenne meta occasionale di alcuni gruppi fiorentini che operavano nella zona e che transitavano nell’abitato o vi giungevano per rifornirsi. Alimentata dai fascisti casentinesi tale credenza continuò a sopravvivere ed assunse dimensioni superiori alla sua reale entità, costituendo uno dei motivi che portò la 2ª e la 4ª compagnia della Hermann Göring ad agire in modo così determinato e massiccio il 13 aprile 1944.

Dalla seconda metà del Novecento la figura di Pio Borri è stata ampiamente celebrata nella provincia di Arezzo attraverso la monumentalistica, l’intitolazione di spazi dedicati all’istruzione scolastica e mediante la rievocazione del suo sacrificio in occasione dell’anniversario della sua morte. A Molin di Bucchio sono presenti due monumenti che ricordano la figura del giovane studente: una lapide recante la frase “Prima vittima dei nazifascisti, primo esempio di sacrificio per gli ideali di giustizia e libertà” e a pochi metri di distanza una colonna in metallo inserita all’interno di un articolato spazio dedicato ai principali eventi avvenuti nel borgo durante la seconda guerra mondiale.

A Molin di Bucchio la figura di Pio Borri viene poi annualmente celebrata in occasione dell’anniversario della sua morte attraverso una cerimonia alla quale partecipano le principali istituzioni della zona e i ragazzi delle scuole medie della zona. Infine nel 1973 venne inaugurata ad Arezzo la scuola elementare “Pio Borri”, mentre ad alcune centinaia di metri di distanza, nell’attuale liceo classico musicale “Francesco Petrarca”, frequentato dallo stesso Borri negli anni dell’adolescenza, l’aula magna è stata intitolata al giovane partigiano[10].

 

Lapide a Molin di Bucchio

 

Anniversario della morte di Pio Borri

 

Note:

[1] G. Bartolomei, I sentieri della guerra. Zibaldone di voci, di impressioni e di notizie della guerra in Valtiberina e dintorni, ITEA Editrice, Anghiari 1994, pp. 86-87.

[2] Nato il 2 settembre 1943 grazie all’iniziativa del cattolico Sante Tani e dell’azionista Antonio Curina.

[3] Il 13 settembre 1943 alcuni stiani insieme ad altri individui provenienti da Bibbiena riuscirono ad impossessarsi di un elevato numero di armi del Regio Esercito.

[4] I campi di Renicci, Laterina e Poppi.

[5] Molto probabilmente la cattura di Cianferoni e Bartolucci era frutto di un’indicazione fornita da una spia interna al gruppo partigiano.

[6] L. Grisolini, Vallucciole: 13 aprile 1944. Storia, ricordo e memoria pubblica di una strage nazifascista, Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2017, pp. 84-86.

[7] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 75.

[8] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 29.

[9] A. Curina, Fuoco sui monti dell’Appennino Toscano, Badiali, Arezzo 1957, pp. 70-71.

[10] All’interno dell’aula è possibile leggere il documento di accompagnamento alla medaglia al valore: «Organizzatore della prima formazione partigiani dell’aretino sempre volontario nelle azioni più rischiose, caduto in una imboscata, rispondeva prontamente con il fuoco della sua arma al nemico che gli intimava la resa. Colpito gravissimamente al petto, catturato e sottoposto ad atroci torture teneva contegno superbo e spavaldo rifiutando ogni delazione. Gettato per disprezzo nella neve, quindi esalava l’ultimo respiro, con sulle labbra il nome della madre e quello della Patria. Bellissima figura di patriota e di martire della libertà».

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nell’ottobre 2024.




La liberazione di Pisa: chi entrò per primo in città?

Chi furono i primi a entrare a Pisa il 2 settembre 1944? Questa domanda ha sollevato negli anni passati un polverone di polemiche e discussioni: sono stati i partigiani della Nevilio Casarosa o i soldati alleati a fare i primi passi nella Pisa liberata? Sicuramente alla fine dell’agosto 1944 le truppe naziste arretrarono a causa della pressione dell’esercito alleato, così come la precedente scelta militare degli angloamericani di fermarsi sulla sponda sud dell’Arno dalla seconda metà del luglio 1944 era stata all’origine del periodo più duro per la popolazione pisana, che per 45 giorni visse in un incubo fatto di razzie, stragi e fame.
L’andamento della guerra dipende soprattutto dalle scelte degli eserciti armati fino ai denti e dotati di risorse per sostenere scontri e attese. Nell’Italia del 1944-1945 però fu spesso la Resistenza a risultare determinante per la liberazione delle città. A Firenze, ad esempio, i partigiani diedero il via alla riscossa e combatterono strada per strada contro fascisti e nazisti. Non così a Pisa, dove le formazioni partigiane erano mal ridotte e poco armate. La città era devastata, la popolazione, terrorizzata e affamata, era concentrata nella zona a nord dell’Arno, intorno all’Ospedale e alla Piazza dei Miracoli. Migliaia di sfollati sopravvivevano cercando giorno dopo giorno cibo e protezione. Le forze di occupazione naziste avevano imposto un rigido coprifuoco, che prevedeva la possibilità di uscire solo due ore al giorno, dalle 10 alle 12. Coloro che venivano trovati per strada fuori da questo orario rischiavano la fucilazione. Presso le caserme poco fuori dal centro abitato venivano condotti continuamente numerosi giovani rastrellati in città o per le campagne vicine e inviati ai lavori forzati. Il 4 agosto il Comando tedesco ordinò di adunare tutti gli uomini dai 16 ai 50 anni in piazza del Duomo, il successivo rastrellamento portò a un totale di circa 470 deportati. La notte tra il 5 e il 6 sopra Molina di Quosa, sulla porzione occidentale del Monte Pisano, un’azione tedesca catturò 200 uomini: di questi, una settantina di imprigionati fu in seguito fucilata a gruppetti nelle campagne tra Pisa e Lucca.
Ma non erano solo i tedeschi a terrorizzare la popolazione. Alla fine di luglio 1944, il commissario straordinario Mario Gattai, rappresentante civile della città, annotava sul suo diario:

La vita cittadina è rimasta completamente paralizzata perché i proiettili arrivano ovunque e ormai non c’è più uno spazio di cento metri imbattuto. Fare un tratto di strada anche breve significa affrontare la morte. Nell’Ospedale, che ieri ho visitato, gli ammalati e i rifugiati si affollano promiscuamente nelle corsie basse e negli scantinati. In città tutti hanno lasciato i piani superiori e le parti della casa che guardano l’Arno.

In questo contesto, dunque, la disputa su chi entrò per primo a Pisa e si rese protagonista della Liberazione riguarda soprattutto gli attori simbolici di un evento decisivo per la vita della popolazione. È necessario immaginare l’attesa spasmodica del passaggio del fronte, in quanto termine di una quotidianità intrisa di terrore e ansia, conclusione cosciente di un incubo terrorizzante.
Da parte delle forze della Resistenza armata si trattava anche di dimostrare la presenza di un soggetto organizzato, che aveva dato prova di sé nella lotta antifascista e pronto a diventare un interlocutore affidabile per i comandi alleati. La versione più affidabile finora è stata che un drappello di membri della formazione Nevilio Casarosa entrò a Pisa prima dei militari alleati, la mattina del 2 settembre 1944, e si fermarono presso la Piazza del Duomo.
Adesso però emergono delle nuove informazioni, che potrebbero cambiare – e non di poco – la nostra conoscenza dei fatti. Grazie a una documentazione inedita è di recente emersa l’esistenza di un’altra piccola formazione partigiana, la squadra Audace di Coltano, che sarebbe entrata a Pisa il giorno precedente, il 1º settembre. Non si tratta solo di una gara simbolica: si tratta di restituire un quadro più complesso e articolato degli attori in gioco, dell’impegno a vario titolo che gruppi di persone si assunsero per contribuire alla lotta contro tedeschi e fascisti. Seguendo ancora le parole di Gattai, è importante ricostruire la storia di tutti coloro che stavano andando nella direzione di un recupero di una moralità attiva che sarebbe stata alla base della ricostruzione politica del paese:

occorre che il pubblico collabori, che metta da parte quel losco egoismo che ha fatto di questa disgraziata gente pisana quasi un branco di pecore matte. Solo uscendo dalla propria cerchia personale e prendendo parte attiva alle cose cittadine, alla vita comunale, si può sperare di rifare un’Italia indipendente che si governi da sé libera da qualunque da qualunque gioco [recte: giogo] straniero.

Il 21 luglio gli americani erano arrivati da Livorno a Coltano, in una tenuta agricola frutto di una bonifica condotta dall’Opera Nazionale Combattenti. Qui alcuni uomini, coordinati da Giuseppe Batazzi, si organizzarono in una formazione partigiana per supportare le attività militari di controllo del territorio e organizzare l’alimentazione della popolazione sfollata (la documentazione relativa a questa formazione, di cui non si hanno ancora ricostruzioni a livello storiografico, è custodita nelle carte personali di Rossana Bernardini, figlia del partigiano Pietro Nello Bernardini). Conoscevano perfettamente il territorio e potevano svolgere dei compiti di gestione territoriale, tra cui reperire cibo, ovvero recarsi ai mulini funzionanti per macinare il grano e far preparare il pane, curarsi degli sfollati e controllare i movimenti delle persone di passaggio. Si creava così una sorta di cordone di collegamento tra i comandi alleati piazzati a Collesalvetti e le strisce di terreno che arrivavano fino alla cerchia urbana di Pisa.
La mattina del 1º settembre ricevettero una richiesta straordinaria: fare una ricognizione dentro la città per verificare se erano vere le informazioni sulla ritirata dei tedeschi. Furono accompagnati alla Saint Gobain, dove alle nove di sera riuscirono ad attraversare il fiume all’altezza del Ponte della ferrovia, a Porta a Mare, mentre le batterie alleate sparavano colpi di copertura. Divisi in due gruppi, gli uomini perlustrarono la Cittadella e i Vecchi Macelli, percorsero i tratti dalla Caserma alle vicinanze dell’Ospedale Santa Chiara e dai Macelli Pubblici fino all’ingresso di Piazza del Duomo, senza incontrare forze nemiche. A mezzanotte tornavano quindi euforici verso Mezzogiorno, «intonando inni patriottici». Il giorno dopo, la stessa squadra rientrò all’alba in città e si incontrò in Piazza del Duomo con un gruppo partigiano della formazione “Nevilio Casarosa”, attiva sui Monti Pisani tra il luglio e l’agosto. Entrambi diffidarono della sincerità reciproca, impossibilitati a capirsi dalla distanza delle esperienze e dalla difficoltà delle comunicazioni. In ogni caso vennero acclamanti dalla popolazione come se fossero i veri liberatori della città, simboli concreti della fine di un incubo.

Dal giorno successivo sarebbe potuta iniziare un’altra storia, in cui la guerra tornava a essere una realtà drammatica, ancora presente, ma svolta lontano da casa. Adesso era il momento di rimettere insieme i frammenti e provare a tracciare una strada di convivenza e ripristino di una quotidianità ordinaria.
Un paio di mesi dopo i sopravvissuti potevano girarsi indietro e iniziare a fare i conti con quanto era successo: «La guerra ha schiantato la nostra città, è vero. Non c’è strada che non mostri le sue ferite, non c’è piazza senza piaga. Non abbiamo più ponti, né luce, né acqua e questo da mesi. Quarantacinque giorni di assedio hanno permesso alle artiglierie di frugare nelle più gelose strade della nostra Pisa. I biondi barbari hanno frantumato con la dinamite le case e le difese sul fiume. L’Arno ci ha inondato e ancor oggi sono visibili le nuove rovine. Tutta la città è un triste scenario di case crollate, di interi quartieri rasi al suolo, di ingabbiature annerite, di pareti smozzicate e rose dagli incendi. Il Mezzogiorno non può più comunicare con Tramontana, una delle ultime nostre torri è crollata in Arno, il Camposanto vecchio è stato incendiato, le antiche mura violate dalle esplosioni. Ma Pisa non è morta. Ha solo chiuso gli stanchi occhi per non vedere tanto scempio, per non contare le troppe ferite» (Monatti intellettuali, in «Corriere dell’Arno. Giornale d’informazione della provincia di Pisa», a. 1, n. 12, 23 novembre 1944).




Tra Resistenza e Liberazione nel Comune di Cortona (Ar)

Cortona oggi

In attesa dell’arrivo da Sud dell’esercito alleato, le forze resistenti cortonesi, aderenti al Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), consistevano in quattro diverse formazioni partigiane [1]:

  • Gruppo Patrioti “Libertà”, guidato da Gabriele Ciabattini e operante nella zona della Fratta;
  • Banda Veltroni, guidata da Spartaco Veltroni e operante a Cortona e in Valdichiana;
  • Banda Poggioni, capeggiata da Bruno Valli e operante tra Poggioni e Teverina [2];
  • Banda “La Teppa”, capeggiata da Cesare Rachini, con base a Cantalena e attiva nella montagna.

Benché tutte dipendessero dalla sezione aretina del CTLN, le difficoltà di comunicazione e l’estensione del territorio controllato resero le bande cortonesi molto più autonome di quanto ci si potrebbe aspettare.

Il cortonese Vannuccio Faralli non fece parte della Resistenza locale, ma fu un membro di grande importanza del CLN, al punto da divenire, dopo la Liberazione, il primo Sindaco di Genova del Dopoguerra.

Importanti fonti di informazione su quello che succedeva attorno a Cortona furono quelle fornite dai parroci, che erano stati incaricati dal vescovo di Cortona, Mons. Giuseppe Franciolini, di tenere un diario sugli eventi.

Mappa 2 in Janet Kinrade Dethick, Cortona 1944, Fondazione Ranieri di Sorbello, Città di Castello, 2014.

Mappa 4 in Janet Kinrade Dethick, Cortona 1944.

Va precisato che nella provincia di Arezzo ci furono vari luoghi di detenzione, veri e propri campi di prigionia, tra cui:

  • Laterina (attivo dal 1941; dopo la guerra e fino al ’63 divenne centro di accoglienza per i profughi istriano-dalmati);
  • Renicci [fare link interno ad articolo esistente] (Anghiari; attivo dalla fine del 1942, tra i peggiori, dove i prigionieri che vivevano nelle tende, in condizioni igieniche tanto precarie che si contarono 159 morti. Prevalentemente rivolto a prigionieri di guerra sloveni, dopo il 25 luglio 1943, accolse gli ex confinati politici antifascisti, che dopo l’8 settembre riuscirono a scappare;
  • Villa Oliveto (Civitella; ospitò in prevalenza ebrei, che nel febbraio del ’44 furono deportati in direzione del campo di concentramento di Bergen-Belsen).

L’Aretino fu anche duramente bombardato dagli eserciti alleati. Il primo bombardamento della provincia si verificò il 12 novembre 1943, colpendo duramente la zona della stazione di Arezzo.

Le operazioni militari rallentarono con l’inverno, per proseguire con maggior intensità in primavera. Le bande partigiane conducevano le proprie azioni di guerriglia e sabotaggio. Il 25 maggio 1944 era il limite ultimo per la coscrizione obbligatoria: gli uomini che non si arruolavano erano considerati disertori, passibili di fucilazione. I partigiani aretini si fecero beffe di questo ultimatum, organizzando i famosi fuochi sui monti dell’Appennino toscano.

Nella notte tra il 24 e il 25 maggio del 1944 i partigiani, infatti, si ribellarono sulle montagne. In risposta, al bando della Repubblica di Salò, che concedeva salva la vita ai partigiani che si fossero consegnati entro le ore 24 del 25 maggio, sui principali monti dell’Appennino toscano furono accesi grandi falò a indicare la volontà dei partigiani di non consegnarsi, ma di combattere i nazifascisti. Antonio Curina, il capo del CLN di Arezzo, e i suoi compagni marcarono in questo modo l’inizio di una lotta che avrebbe portato, in quell’estate di 80 anni fa, alla liberazione dell’intera provincia.

Sarà l’allora Vescovo cortonese Mons. Giuseppe Franciolini, all’alba del 3 luglio 1944, a dare per primo la notizia ufficiale ai suoi concittadini della Liberazione di Cortona dal nazifascismo e dell’imminente arrivo in città degli eserciti alleati da Sud e dei partigiani che, sin dalla primavera di quell’anno, avevano stretto in una morsa i tedeschi acquartierati nella città, costringendoli alla fuga verso Città di Castello e verso Arezzo.

Fu l’ ufficiale italiano Giorgio Spini, padre di Valdo Spini, storico e politico italiano, l’uomo che, a bordo di una jeep, il 3 luglio 1944, per primo entrò in città insieme ad un graduato inglese della VIII Armata. Armata che, vinte le resistenze del nemico in prossimità del Trasimeno, in quella calda estate stava velocemente liberando la Valdichiana, ponendo fine ad un ventennio di dittatura e ai tanti timori diffusi fra tutti i cittadini, qui come altrove, per il passaggio del “fronte”.

Valdo Spini ha rievocato quegli avvenimenti raccontati da suo padre in alcune pagine del libro La strada della Liberazione. In particolare, si è soffermato sullo sforzo bellico degli Alleati per costringere i tedeschi alla ritirata verso il Nord e sul significato che ha avuto la Resistenza.

Dopo giorni di combattimenti e di rastrellamenti, la notte del due luglio, tutti i tedeschi lasciarono Cortona assieme ai capi politici fascisti. Quella vigilia fu ancora una notte di paura, pur nell’attesa imminente della Liberazione e della fine del dolore, della tragedia della guerra.

La Chiesa cortonese si impegnò direttamente per alleviare le sofferenze della popolazione, in certi casi scontrandosi con i tedeschi (solo in provincia di Arezzo furono 34 i religiosi uccisi durante il conflitto). In questa sede, possiamo ricordare Mons. Franciolini (salvò numerose opere dall’essere depredate – alcune furono inviate a Firenze, ma quando era troppo tardi altre furono nascoste dietro intercapedini – e nominò ben 40 falsi docenti al Seminario vescovile, così da evitarne l’arruolamento); don Giovanni Salvi (evitò una strage a Tornia [3], come racconta ne Le giornate di Tornia, dove narra gli eventi di tale località e descrive le bande partigiane sul territorio, criticandone la composizione e il modus operandi e le discordie, che portarono ad uccisioni tra membri delle stesse. È don Salvi a raccontare anche i fatti del 29 giugno, per la festa dei Santi Pietro e Paolo, quando a Tornia i tedeschi, durante le attività di rastrellamento antipartigiano, irruppero nella piccola borgata, radunando le persone in un’aia. Vennero incendiate le case e gli abitanti vennero accusati di collaborazione con i partigiani. Non trovarono però quel che cercavano e nessun uomo nascosto. Il tenente invitò, stando alle parole del parroco, i presenti a recitare le preghiere, prima di essere uccisi. Colpito da tanta fede, però, mosso da empatia cattolica (da quanto emerse nel racconto) il tenente avrebbe risparmiato le loro vite, a patto non avessero aiutato nessuno e solo dopo aver ricordato loro il tradimento italiano alle truppe tedesche). Don Vincenzo Ginocchietti riuscì, invece, a evitare che la Chiesa dei SS. Biagio e Cristoforo dell’Ossaia fosse fatta saltare in aria, mentre don Antonio Briganti, parroco di Fasciano, arrivò a sparare contro le SS per proteggere i propri parrocchiani [4]. Il libro di Pancrazi, nato su richiesta di Franciolini, racconta in prima persona le loro storie. Rimando al libro per le altre narrazioni su Sant’Egidio, di Cantalena e le località vicine [5].

Tra il 4 e il 5 giugno fu liberata Roma, mentre il giorno successivo le forze alleate sbarcavano sulle spiagge della Normandia (D-Day). Le truppe alleate raggiunsero il Trasimeno il 21 giugno 1944. Se pensiamo che Carrara sarà liberata solo l’11 aprile 1945, possiamo capire quanto lunga e impegnativa sia stata la campagna di liberazione della Toscana.

Il “War Diary” compilato dal tenente colonnello Kendal Chavasse, comandante del 56° Reggimento da ricognizione (Recce corp) dell’esercito britannico. La liberazione di Cortona inizia alle 5 del mattino con il controllo dell’area dell’Ossaia.

Il giugno 1944 fu per Cortona molto duro: gli Alleati si stavano avvicinando alla Toscana, i tedeschi in ritirata non erano certo disposti a cedere il passo. Esplosioni e bombardamenti si fecero via via più intensi. I tedeschi ripiegarono verso le arterie meno importanti: non a caso le stragi sono in zone spesso remote e piccole, sparse su tutto il territorio.

La Liberazione avvenne lunedì 3 luglio, ma le foto che tutti i cortonesi conoscono, scattate da Luigi Lamentini, risalgono a martedì 4. In effetti, il 3 c’era ancora poca tranquillità nella popolazione, se non incredulità. Va detto che al momento di fuggire, l’esercito tedesco aveva progettato l’esplosione dell’Ufficio Postale, all’epoca situato all’ingresso di Palazzo Casali. La bomba però non esplose. Di quelle giornate ci sono anche alcune testimonianze video, grazie ai Combat films girati dagli Alleati (oggi nell’Archivio Luce). Si riconoscono Camucia e i festeggiamenti in Piazza della Repubblica.

Il giugno 1944 e l’inizio di luglio furono un periodo drammatico per la popolazione della provincia di Arezzo. Negli eccidi causati dall’esercito tedesco, in particolare dalla Fallschirm-Panzer-Division 1 Hermann Göring, furono coinvolti circa 1.500 civili inermi.

I soldati alleati morti nella Campagna d’Italia furono approssimativamente 330.000, un numero di poco superiore a quello dei caduti italiani nell’intero conflitto. 256 di loro sono sepolti al Cimitero di Guerra di Foiano, gestito dal Commonwealth War Grave Commission.

I soldati cortonesi caduti nella Seconda Guerra Mondiale furono in totale 244. 41 di loro ottennero delle onorificenze: 2 medaglie d’oro, 8 d’argento, 6 di bronzo e 25 croci di guerra.

Nella foto Camucia liberata. Alessandro Ferri, Settantacinque anni dopo, Cortona celebra l’anniversario della sua Liberazione, Cortona, ValdichianaOggi, 12 luglio 2019, https://www.valdichianaoggi.it/blogs/scartare-di-lato-e-cadere/settantacinque-anni-dopo-cortona-celebra-lanniversario-della-sua-liberazione/

Era giunto il momento della ricostruzione, ma anche della pacificazione. Cortona aveva dalla sua una figura di straordinario prestigio, che poté proporsi come paciere tra le fazioni in campo: Giorgio Spini, che era a Cortona quel giorno in qualità di interprete per l’esercito inglese. A cinquant’anni di distanza, così raccontò quelle giornate:

Di eroico, non ho fatto proprio nulla. Anzi, alla Liberazione di Cortona sono presente quasi per caso. Nel nostro servizio c’era un ufficiale inglese che doveva salire quassù con la Jeep, mentre si combatteva ancora nella pianura sotto Cortona, ma non sapeva una parola di italiano. Allora il nostro comandante mi ordinò di accompagnarlo, forse perché non bisticciasse troppo col soldato che guidava la jeep. […]Finalmente, tra i cortonesi che si stavano affollando attorno a noi, salì una voce «arriva il sor Pietro!», e con mio sollievo, in mezzo riconobbi nel sor Pietro lo scrittore Pietro Pancrazi, il quale, con molta calma e con molta fermezza, fece fare silenzio a questi e a quelli, tranquillizzò i tedeschi e ci mise al corrente di come era la situazione in città a nome del CNL. Non sapeva molto bene nemmeno lui se nel CNL rappresentasse il Partito Liberale oppure il Partito d’Azione, ma il sor Pietro era evidentemente un’autorità riconosciuta da tutti, e a me parve proprio un’ancora di salvezza in mezzo a quella tempesta.

Pancrazi ebbe un ruolo di primo piano nel CLN cortonese, di cui faceva parte assieme a Carlo Nibbi (più tardi nominato Sindaco e appartenente al movimento “Democrazia del Lavoro” di Ivanoe Bonomi), Ricciotti Valdarnini (PCI, primo Sindaco di Cortona eletto del Dopoguerra), Rinaldo Bertini (PSI), Remo Ricci (Partito d’Azione) e Bruno Valli (DC); in rappresentanza della Diocesi c’era don Giovanni Materazzi. Se leggiamo il manifesto che il Comitato fece appendere sulle strade di Cortona quella mattina, si riconosce facilmente la mano del grande critico e scrittore:

Cortonesi! Salutiamo con gioia riconoscente i valorosi eserciti alleati che hanno fatto finalmente libera la nostra città e la nostra terra dalla feroce oppressione del tedesco che, gettata la maschera, per giorni e giorni saccheggiando le nostre case e le nostre campagne, infierendo sul nostro popolo, ha rivelato anche agli illusi e agli ignari la sua vera faccia di eterno barbaro. Alle vittime di queste barbarie, ai fucilati, ai feriti, ai derubati, ai vilipesi, a tutti coloro che più hanno sofferto, va il nostro memore saluto.

Invitiamo il popolo cortonese a riprendere il lavoro e a rientrare nella più assoluta legalità. Domani tutti i diritti della libertà anche tra noi verranno ristabiliti, tutti i partiti potranno e dovranno liberamente concorrere alla vita cittadina. Oggi, rimandando ogni competizione, domandiamo a tutti i cittadini di unirsi nella concordia e nel lavoro, perché almeno i danni più gravi possano essere presto riparati. Chiediamo perciò la collaborazione di tutti i concittadini onesti: di tutti coloro cui non si può attribuire la ventennale tirannia dell’esecrato regime che ha condotto la patria a questa rovina. Come il governo ha promesso, tutti i violenti, i profittatori, i responsabili alti e bassi del fascismo saranno puniti. Ma nessuna ritorsione, repressione o vendetta privata può essere consentita. Ricordiamoci che l’infrazione della legge, la violenza, l’arbitrio – anche se commessi da antifascisti – sarebbero fascismo.

Forze di polizia già si stanno ricostituendo con l’aiuto degli Alleati liberatore, dei Patriotti e di volenterosi concittadini: ma è soprattutto nel senso civico del popolo che noi confidiamo. Mentre con augurio ai fratelli oppressi, che ancora soffrono e soffriranno quello che noi soffrimmo: venga presto anche per loro l’ora del riscatto.

Cortonesi! Con questi sentimenti salutiamo gli eserciti liberatori e le bandiere del mondo libero. Dopo venti anni di obbrobriosa tirannia riuniamo in un solo grido due idee fatidiche che già furono dei nostri padri: Italia e libertà! [6].

A pochi giorni da stragi indicibili, mentre tutto intorno infuriavano gli scontri e vent’anni di tirannia facevano sentire il loro peso, si chiedeva la concordia.

 

Note:

1. Sulle devastazioni di Cortona, si veda R. M., In città, in Pietro Pancrazi (a cura di) La piccola patria: cronache della guerra in un comune toscano: Giugno-Luglio 1944, Monnier, Firenze, 1946, pp. 42-52.

2.  Bruno Valli, Azioni del gruppo di “Poggioni”, Brigata Garibaldi, in Pietro Pancrazi (a cura di) La piccola patria, pp. 35-40.

3.  Giovanni Salvi, Le giornate di Tornia, in Pietro Pancrazi (a cura di) La piccola patria, pp. 3-11.

4. Cortona, in I massacri di Arezzo 1944https://arezzomassacri.weebly.com/cortona.html

5. Pietro Pancrazi (a cura di), La piccola patria : cronache della guerra in un comune toscano: Giugno- Luglio 1944,  Monnier, Firenze 1946; Cfr. Janet Kinrade Dethick, Cortona 1944.

6. Alessandro Ferri, Settantacinque anni dopo, Cortona celebra l’anniversario della sua Liberazione, Cortona, ValdichianaOggi, 12 luglio 2019, https://www.valdichianaoggi.it/blogs/scartare-di-lato-e-cadere/settantacinque-anni-dopo-cortona-celebra-lanniversario-della-sua-liberazione/

 

Bibliografia:

Agostino Coradeschi e Mario Parigi (a cura di), Arezzo dalla dichiarazione di guerra al referendum istituzionale. 1940-1946, Carocci, Roma 2008.

Janet Kinrade Dethick, The Trasimene line: june-july 1944, Uguccione Ranieri di Sorbello Foundation, Perugia 2002

Janet Kinrade Dethick, Cortona 1944, Fondazione Ranieri di Sorbello, 2014

Alessandro Eugeni, Il falegname di Ottobrunn: processo a un criminale di guerra, Pacini, Pisa 2011

Renata Orengo, Diario del Cegliolo: cronaca della guerra in comune toscano, giugno-luglio 1944, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1965

Pietro Pancrazi ( a cura di), La piccola patria: cronache della guerra in un comune toscano: Giugno-Luglio 1944, Monnier, Firenze 1946

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di settembre 2024.




La battaglia della Torricella

La Val di Bisenzio durante la seconda guerra mondiale rappresenta la sofferenza e l’abnegazione di una popolazione chiamata a resistere al fuoco incrociato di una guerra infinta. Dalla paura dei bombardamenti al dramma della perdita delle proprie abitazioni. Una situazione tragica, che non trovò pace nemmeno dopo la liberazione di Prato del 6 settembre, ma che, anzi, vide intensificare la guerriglia a ridosso delle proprie zone fino a trovarsi nel ben mezzo della contesta fra gli alleati e le forze di occupazione.

Dal 9 al 24 settembre del 1944 il fronte tra Vernio e Barberino di Mugello fu teatro di durissimi scontri fra i granatieri tedeschi del 754° reggimento della 334a divisione di fanteria “Phalange Aphricaine” e gli americani del 133° della 34a divisione “Red Bull”, per la conquista del Poggio della Torricella, la cosiddetta “Quota 810”, caposaldo della prima Linea Gotica. La conquista di queste postazioni era per gli alleati tatticamente fondamentale, in quanto permettevano di controllare il passo di Montepiano, dal quale avrebbero potuto facilmente aggirare i difensori tedeschi attestati sullo strategico passo della Futa, nonché permettere una veloce avanzata verso Bologna distante poche decine di chilometri. Occorre ora ripercorre brevemente l’importanza di questa fortificazione realizzata dalle forze tedesche.

Siamo nella metà dell’agosto del 1944. Il 6 giugno gli alleati sono sbarcati in Normandia e il 15 agosto in Provenza. Dopo l’ingresso alleato a Roma del 4 giugno, le truppe tedesche della 14° Armata e parte di quelle della 10° entrano in un terreno difficile, la cui difesa comporta una serie di difficoltà. Alle spalle dell’esercito tedesco si aprono le valli del Tevere e dell’Arno, con strade di facile percorrimento non solo per le proprie truppe, ma anche per l’avversario. Scorrendo da nord verso sud, il Tevere non offre più nessuna protezione, ma rende anzi ancora più difficili le comunicazioni. Solo il corso dell’Arno, dopo Firenze, costituisce un ultimo ostacolo naturale di rilievo. È per questo che si decide di assestasti materialmente su un fronte unitario e fortificato che avrebbe “spaccato” l’Italia e reso maggiormente agevole la difesa tedesca [1].

Si tratta di un temibile fronte di oltre 300 chilometri, che taglia in due l’Italia dal Tirreno all’Adriatico e che bloccherà per otto mesi l’avanzata delle truppe alleate. I tedeschi l’hanno battezzata inizialmente “Götenstellung” e poi successivamente “Grüne Linie” (Linea Verde), anche se passerà definitivamente alla storia con il nome di “Linea Gotica”. La fascia di sbarramento va dalle difese costiere tra Massa e La Spezia, si spinge verso le Alpi Apuane, la Garfagnana, l’Appennino modenese, l’Appennino bolognese, l’alta valle dell’Arno, l’alta valle del Tevere sino agli sbocchi sulla Via Emilia, per chiudere sul versante adriatico con gli approntamenti tra Pesaro e Rimini. Poderose sono le difese a protezione del valico appenninico della Futa, dove transita la statale 65 che collega Firenze a Bologna. Per la sua costruzione i tedeschi mobilitano più di 50.000 operai italiani che, insieme ad una brigata slovacca di 2.000 uomini e sotto il coordinamento di 18.000 genieri tedeschi, provvedono alla fortificazione nei punti chiave. L’organizzazione difensiva della Linea Gotica è basata su un sistema di fasce fortificate successive, profonde qualche chilometro a seconda della conformazione morfologica del terreno: una “difesa in profondità” che si rivelerà molto utile ed efficace a contenere per mesi la spinta degli attacchi alleati. Non a caso si parla sempre di Linea Gotica I e II, proprio per distinguere la prima linea difensiva tedesca dalla seconda, posta mediamente ad una ventina di chilometri a nord della prima [2].

Tornando alla battaglia della Torricella, la prima vera offensiva viene realizzata il 10 settembre dai reggimenti di fanteria U.S.A da Legri, nel comune di Calenzano, verso la zona di Montepiano. Il giorno successivo arrivano a Sofignano e Montecuccoli, superando e annientando le varie postazioni nemiche. Il 12 settembre raggiungono Figliule, Doganaccia e Rimaggiori. Il 13 settembre, la resistenza tedesca si fa molto pressante e accanita, tanto che il 14, il fronte si ferma in queste posizioni, soprattutto a causa di un forte contrattacco composto da circa 200 fanti, che urlando e sparando si lanciano ad ondate contro gli americani, riuscendo momentaneamente a fermarli. Le forze tedesche si barricano in ben tre punti strategici: Poggio Montetiglioli, Poggio Torricella e Poggio Stancalasino. L’organizzazione delle barricate è talmente efficiente (aiutate anche dall’utilizzo di alcuni carri armati) che, per almeno una settimana, riescono a contrastare l’avanzata degli americani verso Montepiano. La svolta arriva il 22 settembre, con lo sfondamento del 133° Reggimento, che avanza verso la Crocetta e Montepiano annientando le residue forze di resistenza tedesche e riuscendo il giorno seguente a raggiungere e conquistare quota 810 della Torricella.

Nel 2003, con il contributo del Comune di Vernio, della Provincia di Prato, dell’Unione dei Comuni della Val di Bisenzio e dell’UNUCI è stato inaugurato il Parco Memoriale della Torricella. Un museo aperto dove è possibile ripercorrere e visitare i luoghi della battaglia attraverso specifici itinerari.

 

 

Note

 

[1] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, p. 90.

 

[2] Associazione Linea Gotica-Officina della Memoria

https://www.lineagotica.eu/News.aspx?id=137

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nel settembre 2024.




Siena Libera 80

La mostra Siena libera 80 si presenta come un percorso in 15 tappe, segnate da altrettanti pannelli esplicativi, dedicato alle vicende che tra il settembre 1943 e il luglio 1944 interessarono la città e la provincia. Accompagnata da un ricco corredo di immagini, documenti e dati numerici, l’esposizione non si limita a raccontare la Resistenza e la Liberazione, ma ripercorre anche alcuni dei passaggi più importanti della travagliata storia di quei mesi.

Lo spettatore viene calato direttamente nella quotidianità dei senesi nelle fasi finali del conflitto mondiale, partendo dalla tragedia nazionale dell’8 settembre 1943 e dall’occupazione della provincia da parte delle truppe naziste, cui sarebbe seguito il ritorno dei fascisti con la nascita della Repubblica sociale italiana. Da lì, le prime azioni repressive contro gli oppositori, la cattura e la deportazione degli ebrei senesi nella notte tra il 5 e il 6 novembre 1944, tragico epilogo di una persecuzione avviatasi anni prima, con le leggi razziali del 1938.

Le sofferenze dell’inverno 1943 sono ricostruite partendo dalle condizioni di prigionia estrema degli Internati militari senesi, detenuti nei campi nazisti dopo essersi rifiutati di combattere per lo Stato fascista di Salò. Mentre le forze alleate combattevano incessantemente all’altezza di Cassino, la provincia era battuta da formazioni di bombardieri: obiettivi degli attacchi divenivano le linee e le stazioni ferroviarie, i ponti, le strade e ogni altra infrastruttura utilizzata dalla Wehrmacht per portare uomini e armi verso Sud. Anche Siena, in un primo momento risparmiata, fu più volte bombardata tra il gennaio e l’aprile 1944, mentre la propaganda fascista sempre più a stento riusciva a mascherare la realtà di un paese in ginocchio, di una popolazione affamata e stanca della guerra.

Mentre il malcontento montava nelle città, nella provincia prendevano corpo le formazioni partigiane che, a partire dal gennaio 1944, si sarebbero rese protagoniste di oltre 250 azioni di guerriglia e sabotaggio contro le forze occupanti: appoggiate da larghi strati della popolazione civile, dalle donne ai giovanissimi, fino al clero e ai più anziani, le bande operarono sotto la direzione di Comitati di Liberazione composti dai rappresentanti di tutte le forze politiche antifasciste.

Uno sforzo costato talvolta caro ai combattenti – tanti quelli caduti e i prigionieri torturati nei locali del comando fascista, la cosiddetta Casermetta, e sommariamente giustiziati – e anche ai civili, sui quali le forze nazifasciste sfogarono a più riprese la propria frustrazione nelle settimane precedenti l’arrivo delle truppe alleate nel luglio 1944. Anche di quel sacrificio, tuttavia, furono figlie la Liberazione e la nascita della Repubblica.

La mostra, esposta a Siena in piazza Matteotti e nel quartiere di San Miniato nell’aprile e nel giugno 2024, è adesso consultabile online sulla pagina web dell’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea. Il progetto è stato realizzato con la collaborazione di Anpi provinciale di Siena, Arci Siena, Cgil Siena, Comitato Siena 2, Ecpad Images Defense, con il sostegno tecnico di Betti Editrice, il patrocinio del Comune di Siena e il contributo del Consiglio Regionale della Toscana.

Articolo pubblicato nel settembre del 2024.