Le stragi nel Mugello (1944)

Fucilazioni. Massacri. Vittime innocenti. Sono questi gli episodi che caratterizzarono i paesi del Mugello durante l’occupazione nazifascista nel 1944, in attesa della liberazione alleata. Quale fu il significato di quelle stragi? Perché interessò proprio quella zona?  Dobbiamo prima capire cosa rappresentano le montagne circostanti il Mugello nel contesto di guerra. Stiamo parlando di valli strette e ritenute abbandonate, al limite della regione, quindi considerate sicure. Sono al contrario estremamente strategiche perché rappresentano il passaggio tra Toscana e Emilia Romagna. Un passaggio decisivo, soprattutto la parte aretina, nella primavera del 1944, quando i comandi delle brigate Garibaldi decidono di creare una grande armata partigiana che doveva operare sull’Appennino per colpire sul forlivese e sull’aretino. Un progetto poi smantellato in seguito all’operazione di rappresaglia e rastrellamento nazista, deciso subito dopo le Ardeatine, che potremmo definire il punto di svolta sulla concezione da parte di Kesselring e dei comandi nazisti del pericolo partigiano, considerato da lì in avanti potenzialmente pericolosi per le proprie truppe. Fino a quel momento non vi erano state stragi di matrice nazista infatti, era stato lasciato ai fascisti il controllo del territorio. Da quel momento cambia tutto. A quel punto, tutte le brigate partigiane che si stavano portando sull’Appennino per raggrupparsi, ovviamente devono separarsi per non essere catturate. Ed è per questo che quindi si verificò la divisione sui territori. Da quel momento l’Appennino diviene strategico, in quanto zona centrale dei combattimenti, e lo resterà finché la linea non si attesterà a Bologna, nell’autunno del 1944[1].

Dopo le Ardeatine vi è quindi un punto di svolta che portò agli episodi stragisti interessati da questo articolo e che colpirono quasi tutti i paesi del Mugello. Volendo fare una raccolta seguendo un principio temporale, la prima tragedia avvenne a Vaglia, tra il 10 e l’11 aprile 1944, nel cosiddetto «eccidio di Pasqua».

Il 10 aprile, lunedì di Pasqua, iniziò sulle pendici di Monte Morello una grossa operazione antipartigiana ad opera del Reparto esplorante della Divisione Herman Göring, comandato dal colonnello G.H. Von Heydebreck, con lo scopo di stroncare la presenza del movimento partigiano locale[1]. La mattina del 10 aprile, le compagnie del Reparto esplorante giunsero in località Cercina, nel comune di Sesto Fiorentino, razziando le case e rastrellando la popolazione civile. Proseguì poi in direzione di Paterno e Cerreto Maggio, località limitrofe poste nel comune di Vaglia. I paracadutisti fecero irruzione nella casa del guardaboschi Gabriello Mannini, dove trovarono anche la moglie Giulia, la giovane figlia e il suo sposo. Seguì una perquisizione durante la quale venne trovata una pistola, per la quale Gabriello possedeva regolare permesso. L’attestato non fu però sufficiente, dato che i tedeschi, forse già a conoscenza dell’ospitalità che Gabriello diede ad alcuni partigiani, lo condussero fuori dall’abitazione e lo uccisero con un colpo di arma da fuoco alla testa. Poco dopo, i soldati si spostano in direzione di Vaglia, in località Morlione, dove irruppero nelle abitazioni delle famiglie Biancalani e Sarti, note per la loro assistenza data ai partigiani. Furono uccisi i fratelli Giovanni e Sabino Biancalani, il colono Affortunato Sarti e il nipote Aurelio. L’operazione di rastrellamento nell’area riprese il giorno successivo. Una nuova irruzione venne compiuta in località Cerreto entro la casa dei Paoli, allora abitata dalle famiglie dei fratelli Cesare e Giovanni. Dopo la perquisizione dell’abitazione, venne intimato ai fratelli di allontanarsi. Atteso però che il gruppo giungesse alla distanza di alcune centinaia di metri, i militi aprirono il fuoco e uccisero colpendolo alle spalle Cesare Paoli[3]. Questi martiri sono oggi ricordati dal Monumento posto in via Cerretto Maggio, a Vaglia.

Ci spostiamo ora a Marradi, protagonista di due episodi efferati. Ricordiamo che Marradi, per la sua posizione strategica di confine con la Romagna e la sua rilevanza di snodo viario e ferroviario, nell’estate del 1944 costituiva un territorio di estrema importanza ai fini dell’occupazione tedesca e in particolare per l’ultimazione delle fortificazioni sul versante orientale della Linea Gotica. Proprio a protezione dei lavori di completamento della linea difensiva da possibili sabotaggi e attacchi partigiani, con ordine del 18 giugno 1944 vennero dislocate tra il Mugello e la Romagna Toscana alcune compagnie del 3. Polizei Freiwilligen Bataillon Italien, il reparto di polizia italo-tedesco guidato dal capitano Gerhard Krüger allora ancora impegnato col grosso del proprio organico in Maremma (dove si rese responsabile delle stragi di Niccioleta e Castelnuovo Val di Cecina). Il 20 giugno, i soldati tedeschi si imbatterono in un gruppo di sette giovani (tra i quali vi è il trentunenne Carlo Milanesi, di fatto, l’unico identificato del gruppo), che avevano da poco disertato dall’organizzazione Todt, dandosi alla macchia nei dintorni di Marradi. Catturati, i sette furono condotti quindi presso Villa Poggio, sede della compagnia tedesca, dove vennero interrogati e trattenuti sino al 22 giugno, quando infine furono trasportati presso il cimitero comunale di Marradi e qui fucilati[4].

Il mese successivo invece avvenne il dramma le cui ferite ancora non sono state rimarginate dalla comunità. Il 15 e il 17 luglio due tedeschi furono uccisi da dei gruppi di civili – non bande partigiane organizzate – con altri che furono feriti e costretti a scappare dal paese. La rappresaglia che ne seguì fu particolarmente dura.  I tedeschi, arrivati dal comando SS di Ronta, si lasciarono andare a grandi violenze nell’area circostante il luogo dell’attentato per 24 ore. Lo stesso 17 luglio furono fucilate 28 persone che vivevano o erano sfollate nel paese di Crespino, la mattina dopo altre 13 persone furono passate per le armi nelle località di Fantino e Lozzole, altre tre vittime furono fatte lungo le strade che collegavano i piccoli paesi. A Crespino i tedeschi passarono prima dal podere “Il Prato” e poi dal “Pigara”; i contadini che stavano lavorando alla mietitura nella zona furono tutti fermati e passati per le armi vicino al fiume. Il parroco, don Fortunato Trioschi, fu l’ultimo ad essere fucilato. La mattina dopo a Lozzole furono passati per le armi tutti i maschi della famiglia, mentre le donne furono risparmiate[5]. In memoria delle vittime sono presenti vari luoghi della memoria a Marradi: dalla lapide commemorativa posta al cimitero alla Lapide del Capanno dei Partigiani, in località Monte Lavane, ma soprattutto, l’imponente monumento-cripta ossario a Crespino sul luogo della strage.

Una breve menzione la merita anche quello che successe a Palazzuolo su Senio il 17 luglio, dove mentre tedeschi e italiani del 3. Polizei-Freiwillingen-Bataillon erano impegnati nella strage sopra descritta di Marradi, i soldati di tale reparto si scontrarono nuovamente con alcuni partigiani e, pur senza patire alcuna perdita, scelsero ugualmente di punire la comunità locale, uccidendo quattro persone.

Per l’ultimo episodio stragista ci spostiamo a Vicchio, dove il mattino del 10 luglio 1944 si presentò alla fattoria di Padulivo – che ospitava circa centocinquanta sfollati – un reparto di SS composto da una sessantina di uomini. Il proprietario, Aldo Galardi, aiutava saltuariamente le locali formazioni partigiane. Durante la perquisizione i tedeschi si accorsero della mancanza di un cavallo che era stato nei giorni precedenti requisito dai partigiani, i quali furono avvertiti della presenza dei tedeschi e tesero un’imboscata poco lontano da Padulivo mentre le SS si stavano ritirando. Cadde un tedesco e un altro rimase ferito. La rappresaglia nazista fu spietata. I soldiati tornarono indietro e arrestarono tutti coloro che trovarono e incendiarono sia la fattoria sia l’abitato circostante. Incolonnarono i prigionieri in direzione di Vicchio e giunti al ponte dove aveva avuto luogo l’imboscata giustiziarono dieci uomini e una donna. Dopo una notte di prigionia i cento catturati subirono un interrogatorio e furono rilasciati, tranne quattro uomini e tre donne. Gli uomini furono portati di nuovo nel luogo dell’agguato partigiano e uccisi, mentre le donne vennero liberate[6]. Quattordici vittime, oggi ricordate dal comune di Vicchio con una lapide posta in località Padulivo, che recita:

 

«La storia non si ripete,

se non nella mente

di chi non la conosce»

K. Gibran (1883-1931)

 

Note

 

[1] Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, Badiali, Arezzo, 1957, pp. 23-45.

 

[2] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 37-38.

 

[3] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi nazifasciste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma, 2009, pp. 191-192.

 

[4] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 102-103.

 

[5] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=4920

 

[6] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2412

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nel novembre 2024.




I crimini nazisti effettuati durante la ritirata da Poppi

Nel corso dell’occupazione tedesca in Italia si verificarono numerosi episodi di violenza ai danni dei civili. Malgrado fossero azioni estremamente violente ed indiscriminate queste rispondevano frequentemente a specifiche esigenze dei comandi nazisti, aventi l’obbiettivo di limitare la presenza partigiana nel territorio, di allentare il legame che univa le popolazioni alle bande ribelli e di ribadire attraverso l’esecuzione di azioni efferate la centralità della presenza tedesca nella penisola. Gli interventi potevano essere frutto di ampie azioni ideate e coordinate dagli alti comandi, come nel caso del rastrellamento che investì alcuni centri del Casentino nell’aprile del 1944, oppure rappresentare azioni localizzate in risposta ad attacchi subiti da parte delle truppe che operavano nel territorio.

Nelle fasi finali della guerra a tale impostazione si affiancarono numerosi episodi nei quali i soldati nazisti iniziarono a rendersi protagonisti di azioni che esulavano dagli ordini forniti dai comandi o dalle precipue funzionalità militari. In concomitanza con l’avanzata alleata e il progressivo spostamento del conflitto nelle regioni settentrionali del nostro paese si assistette ad una generale diminuzione del controllo da parte dell’autorità militare, ad un allentamento della disciplina e ad una maggiore libertà dei soldati operanti sul territorio. In una sorta di “rompete le righe” molti militari si lasciarono andare a furti, stupri ed uccisioni nei confronti delle popolazioni inermi, riversando su di loro l’odio e il nervosismo che avevano accumulato nel corso del conflitto, accresciuto in questo caso dall’andamento negativo della guerra. Come se non bastasse l’incombere degli Alleati costringeva le truppe naziste ad agire in maniera risoluta e decisa, senza badare ai danni collaterali che generavano i loro interventi. Talvolta l’incalzare dei nemici determinò l’utilizzo di mezzi energici, altre volte invece si tramutò in veri e proprie ritorsioni ai danni dei civili innocenti.

Una zona che venne particolarmente colpita da questo genere di violenza fu l’area nei dintorni di Poppi, un comune del Casentino settentrionale distante circa trentacinque chilometri da Arezzo. Nelle settimane prossime alla liberazione – il periodo a cavallo tra la fine di agosto e l’inizio di settembre del 1944 – si registrò in questa porzione della vallata un elevato numero di uccisioni di civili. Nei pressi di Poppi le violenze di questo genere non si limitarono all’eliminazione degli abitanti che venivano intercettati mentre attraversano le zone di guerra interdette al passaggio dei civili o alla fucilazione di coloro che non rispettavano l’ordine di sfollamento e cercavano di fuggire, ma vedevano la presenza di azioni più ampie che portarono all’uccisione contemporanea di decine di persone.

Uno degli episodi più eclatanti avvenne il 31 agosto 1944, quando un colpo di cannone proveniente da sopra Moggiona causò la morte di alcuni civili che erano scesi a Poppi per raccogliere l’acqua a una fontanella. Il comune casentinese, ormai prossimo alla liberazione, era stato abbandonato dai soldati tedeschi e i civili nell’euforia dell’imminente liberazione si recarono ad una sorgente in via della Costa per raccogliere l’acqua di cui necessitavano. Don Cristoforo Mattesini, sfollato a Poppi, ricorda in questo modo quell’orribile scena: L’artiglieria tedesca vide tutto questo movimento e scaricò dal Montanino e da Camaldoli un diluvio di cannonate contro il gruppo. La seconda granata prese in pieno quel ciuffo di persone. Si schiantò sul lastricato. Strage! Tutta la Costa da Poppi alla stazione fu coperta da una cortina di fumo. Nel fracasso infernale: pianti, lamenti, urli disperati. Persone che si chiamavano, parenti accorsi al grido dei loro cari, spettacolo straziante! Il fumo non faceva vedere niente, ma la tragedia era terribile!”[1]. In tutto furono quindici le persone che persero la vita a causa delle esplosioni, in maggioranza ragazzi tra i sette e i quindici anni che si erano solamente recati a raccogliere l’acqua ad una sorgente[2].

Nonostante la notevole distanza dall’obbiettivo possiamo affermare con relativa certezza che i colpi di cannone provenienti dalle alture circostanti non furono un errore di valutazione compiuto da parte dei nazisti, ma furono un deliberato attacco ai danni dei civili intenti a recarsi a raccogliere l’acqua in via della Costa. Ad avvalorare questa tesi contribuiscono le informazioni che i comandi tedeschi possedevano in merito agli alleati, attestati in quei giorni ad alcuni chilometri di distanza dal comune casentinese e ritenuti poco interessati alla conquista di quest’ultimo, visto che gli Alleati vi giungeranno solamente il 13 settembre, quasi due settimane dopo[3].

Nel luogo dove un tempo sorgeva la fontanella è stato eretto un monumento in ricordo delle vittime. Situato nella via che un tempo univa Poppi alla frazione di Ponte a Poppi, il monumento è composto da una colonna in pietra alla cui base è stata posta una targa recante i nomi delle vittime, attorniata agli angoli da quattro pietre che richiamano la forma dei proiettili dell’artiglieria. L’epigrafe riporta solamente i nominativi di coloro che persero la vita il giorno stesso dell’episodio, senza includere all’interno del numero complessivo delle vittime Antonio Grazzini e Milena Pietrini, morti nei giorni successivi per le ferite riportate[4].

 

Monumento in ricordo delle vittime di via della Costa

 

Mentre Poppi veniva liberata dai partigiani il 2 settembre, molti degli abitati posti sulle vicine alture continuavano ad essere ancora in mano dei tedeschi. Questo era il caso di Moggiona, un piccolo paese montano situato ai piedi del monastero di Camaldoli. Rispetto agli altri centri del Casentino Moggiona aveva vissuto in modo più intenso l’arrivo della guerra, a causa della presenza della Linea Gotica in tutto il territorio circostante: dal novembre 1943 l’area era stata interessata dall’arrivo di centinaia di operai che avevano incessantemente lavorato alla costruzione delle fortificazioni, composte da depositi, rifugi antiaerei postazioni per mitragliatrici e artiglieria pesante. A questa cospicua presenza di operai si aggiunse nel corso della guerra la costante presenza dei soldati della Wehrmacht, che all’inizio del 1944 installarono nel paese perfino un comando[5].

 

Il paese di Moggiona

 

Nel periodo che precedette l’avvicinamento del fronte non si registrarono momenti di frizione fra gli abitanti e gli occupanti. Le prime tensioni iniziarono a verificarsi nell’estate del 1944, ad ormai pochi giorni dalla liberazione di Arezzo e dal conseguente arrivo della guerra nel Casentino. Il 13 luglio vennero affissi per le strade di Moggiona e dei paesi limitrofi dei manifesti che ordinavano agli abitanti di abbandonare le loro case e di dirigersi a nord della vallata, poiché a breve quelle zone sarebbero divenute luoghi di combattimento. In realtà furono pochi coloro che rispettarono il comando: molti preferirono nascondersi nei boschi o nella vicina Camaldoli per non allontanarsi eccessivamente dalle loro proprietà. Coloro che rimasero a Moggiona, circa una cinquantina di persone, vennero infine rastrellate e trasferite forzatamente in Romagna il 26 agosto. A due famiglie, i Meciani e gli Innocenti, utili allo svolgimento di alcune attività relative alla cura delle truppe, come cucinare, lavare e cucire, venne invece permesso di poter rimanere in paese[6].

Gli ultimi che lasciarono il paese furono infine i soldati della 5ª Divisione Alpina, stabilitisi a Moggiona verso la metà di agosto. Ormai incalzati dall’avanzata alleata i tedeschi abbandonarono il paese nel tardo pomeriggio del 7 settembre portandosi dietro masserizie, mobilio e cibo depredati dalle case degli abitanti. Mentre la Divisione stava lasciando Moggiona sopraggiunsero in paese tre soldati provenienti da Poppi, ai quali venne consigliato di andare alla casa del Meciani per ricevere un po’ di pane. Dopo essersi rifocillati e probabilmente ubriacati i tre tornarono nella casa e falciarono con la mitragliatrice le cinque persone presenti, dopodiché si recarono in un edificio nel rione Prato, e dopo aver fatto scendere tutti quanti in cantina li uccisero a colpi di mitragliatrice. Undici furono in tutto le vittime. Nei pressi del ponte di Moggiona si verificò infine l’ultimo atto di quest’immane tragedia con l’uccisione di una madre e della figlia di dieci anni.

Fino all’undici settembre i corpi delle diciotto vittime rimasero sotto le macerie degli edifici dove erano avvenuti gli eccidi. Le truppe tedesche che giunsero successivamente minarono volontariamente i luoghi dei delitti per mascherare l’accaduto e far ricadere la responsabilità della morte dei civili sui bombardamenti Alleati. I primi soccorsi giunsero solamente grazie all’intervento di Aurelio Cecchini, un bambino di dodici anni sopravvissuto all’accaduto, che dopo aver accudito la madre ed aver visto morire due fratelli riuscirà a raggiungere il monastero di Camaldoli ed allertare il Padre Superiore dell’accaduto: “Giunge da Moggiona un bambino sui nove anni, che ha attraversato la linea del fuoco e a stento, tra singhiozzi e lacrime, riesce a chiedere aiuto per la sua povera mamma, essa pure gravemente ferita al seno e ad una coscia, che tuttora giace in una stanza”[7].

Le testimonianze raccolta dall’Intelligence britannico nei mesi successivi confermarono che l’azione non aveva nessuna correlazione con la presenza partigiana in paese e non aveva nessun tipo di spiegazione logica. Lo stesso Giuseppe Salvi, allora ragazzo, ribadisce che a Moggiona non vi furono mai partigiani e che questi transitavano raramente nelle vicinanze del paese solo per recarsi in Romagna o sulla costa adriatica[8]. Questa affermazione è estremamente probabile visto che nel paese dal novembre 1943 fino alla liberazione era presente un gran numero di soldati tedeschi che avrebbe reso estremamente difficoltosa la presenza di ribelli.

Sebbene la vicenda di Moggiona rientri nella tragica realtà di routine di un esercito in ritirata, quanto accade la sera del 7 settembre ha dell’eccezionale: la violenza che si scagliò contro diciotto civili inermi, oltretutto autorizzati dai comandi tedeschi a rimanere presso le proprie abitazioni, non nacque da un ordine superiore e non trova nessun tipo di spiegazione logica, se non quella di voler di coprire con l’omicidio una serie di crimini commessi in sodalizio con la truppa. Non è dunque un caso che la decisione di voler eliminare i testimoni dei propri misfatti si materializzi proprio in concomitanza con le operazioni di ritirata verso nord della Divisione. Le nuove truppe che giunsero a Moggiona sin dall’8 settembre si ritrovarono pertanto a gestire, nel proprio settore ormai incalzato a pochi chilometri dal nemico, gli esiti visibili e infamanti della violenza del reparto precedente: questo determinò la decisione di evitare, nella prospettiva di imminenti rese, un comportamento punitivo da parte degli inglesi reso più duro dalla conoscenza dei misfatti. Risultato di questa strategia fu dunque il minamento dei luoghi del delitto con l’intento di simulare un bombardamento che giustificasse le vittime di Moggiona, appositamente lasciate all’interno delle abitazioni per rendere ancora più reale lo scenario impancato.

 

Abitazione di Moggiona distrutta dai nazisti

 

Una situazione analoga si verificò pochi giorni dopo a Lonnano, un piccolo paese distante una quindicina di chilometri da Moggiona. Il 10 settembre un gruppo di tedeschi irruppe nella casa colonica della “Chiesa Vecchia” ed uccise quattro ultrasettantenni che si erano nascosti all’interno di essa, dopodiché diedero alle fiamme l’edificio con l’intento di nascondere le prove del crimine[9].

Rispetto ad altre stragi avvenute in Casentino (Vallucciole, Partina e Moscaio) l’episodio di Moggiona è rimasto a lungo avvolto nell’oscurità, forse volontariamente dimenticato dalle comunità locali intente a rimuovere certe vicende piuttosto che ricordarle. A determinare questa sorta di damnatio memoriae hanno probabilmente contribuito i numerosi abusi che le truppe di stanza a Moggiona commisero ai danni delle donne del paese e la volontà della popolazione di voler proteggerle da quella che un tempo era ritenuta un’infamia[10].

Le pubblicazioni del secondo dopoguerra come quelle del Sacconi[11] e del Curina[12] hanno poi accresciuto la confusione in merito a questo episodio, con ricostruzioni vaghe e spesso imprecise. Solamente dagli anni Novanta si è assistito ad un rinnovato interesse nei confronti di questa storia, grazie in particolar modo all’apertura dell’armadio della vergogna che nel 1994 ha stimolato il riesame di alcune stragi nazifasciste. Contemporaneamente all’arrivo di nuove informazioni provenienti da Roma la Biblioteca Comunale di Poppi decise di acquistare una serie di documenti dall’ Archivio di Guerra inglese, mentre la Pro Loco di Moggiona si impegnò nella raccolta delle testimonianze dei sopravvissuti dell’accaduto. Lo sforzo culminerà infine nel 2014 con la pubblicazione del saggio 7 settembre 1944. La strage di Moggiona[13].

In linea con il crescente interesse per la vicenda il 25 aprile 1997 l’Amministrazione Comunale di Poppi ha collocato una targa in ricordo delle vittime della strage sull’edificio della Pro Loco situato in via Camaldoli; sulla stessa parete è poi presente un’epigrafe posta l’anno precedente in memoria delle vittime militari e civili del paese[14]. Addentrandoci maggiormente dentro Moggiona troviamo poi in piazza 7 settembre 1944 la “Mostra permanente della guerra e della Resistenza nel Casentino”, appartenente al progetto della rete ecomuseale del Casentino: i visitatori potranno ammirare alcuni manifesti o ritagli di giornale dell’epoca e degli oggetti militari come elmetti o materiali bellici rinvenuti nell’area dove un tempo era presente la Linea Gotica. Su un lato dell’edificio che ospita l’esibizione è stata ricavata una nicchia all’interno della quale è stato posto un monumento in terracotta che ricorda le vittime della strage nazista: l’opera riproduce una scena dell’eccidio all’interno di una abitazione, mentre quattro colombe simbolo di pace spiccano il volo. Sempre in piazza 7 settembre 1994 è stato collocato nel 2014 un pannello che informa i visitatori sull’accaduto[15]. In conclusione ricordiamo che negli ultimi anni è stato promosso da parte della Pro Loco e dalla rete ecomuseale del Casentino un sentiero ad anello della lunghezza di 4,5 chilometri che ripercorre i luoghi che un tempo erano attraversati dalla Linea Gotica.

 

L’edificio della Pro Loco che contiene due lapidi in onore dei caduti durante la seconda guerra mondiale

 

Alcuni esemplari presenti all’interno della Mostra

 

Monumento in ricordo delle vittime della strage del 7 settembre 1944 situato nell’omonima piazza

 

Note:

[1] C. Mattesini, Guerra e pace, Fruska, Stia 2003, pp. 112-116.

[2] A. Brezzi (a cura di), Poppi 1944. Storia e storie di un paese nella Linea Gotica, Regione Toscana, Firenze 2018, pp. 97-98.

[3] Ibid.

[4] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-alle-vittime-civili-delleccidio-della-costa-poppi/.

[5] A. Brezzi (a cura di), Poppi 1944, cit., pp. 98-100.

[6] Ivi, p. 100.

[7] A. Buffadini, Camaldoli nel Casentino in fiamme, Barbera, Firenze 1946, pp. 75-76.

[8] Testimonianza di Giuseppe Salvi, https://perlamemoria.it/i-luoghi/poppi/moggiona/.

[9] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 240.

[10] A. Brezzi (a cura di), Poppi 1944, cit., p. 99.

[11] Cfr. R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 152-153.

[12] Cfr. A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Badiali, Arezzo 1957, pp. 510-511.

[13] Cfr. Centro di Documentazione sulla Guerra e la Resistenza in Casentino (a cura di), 7 settembre 1944. La strage di Moggiona, Pro Loco di Moggiona 2014.

[14] Resistenza Toscana, https://resistenzatoscana.org/monumenti/poppi/lapidi_dei_caduti_di_moggiona/.

[15] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-alle-vittime-della-strage-del-7-9-44-moggiona-di-poppi/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel novembre 2024.

 




Le stragi di Partina e Moscaio

Il 13 aprile 1944 viene generalmente ricordato in Casentino per la strage di Vallucciole, che portò all’uccisione di oltre cento civili, in prevalenza donne, anziani e bambini. La scomparsa della quasi totalità della popolazione del piccolo borgo e degli abitati limitrofi non rappresentò però l’unico eccidio verificatosi quel giorno nella vallata, visto che tra il 12 e il 13 aprile la violenza dei nazisti si scagliò anche sugli abitanti di due paesi nei pressi di Bibbiena, Partina e Moscaio, portando alla morte di trenta innocenti (22 a Partina e 8 a Moscaio). Non è un caso che le stragi in questione siano avvenute il medesimo giorno, come non è altrettanto accidentale che queste azioni abbiano numerose analogie tra di loro. I rastrellamenti di Vallucciole, Partina e Moscaio, ma anche quelli avvenuti negli stessi giorni a Badia Prataglia e San Godenzo rientrano all’interno di un’ampia azione organizzata dai comandi nazisti all’inizio di aprile, volta a debellare la presenza partigiana nelle zone del Casentino e nei pressi del monte Falterona[1].

In questa fase dell’occupazione si assiste ad una progressiva radicalizzazione della presenza nazista in Italia e al crescente utilizzo della violenza ai danni dei civili. Quest’impostazione non era un’anomalia all’interno della strategia militare tedesca, ma rappresentava un tratto tipico della loro conduzione bellica, utilizzato sul fronte orientale fin dal 1941. La strategia stragistica aveva l’intento di allontanare le popolazioni dai ribelli attraverso la conduzione di efferate e indiscriminate azioni ai danni dei civili. In Italia questo genere di atteggiamento venne adottato dalla fine del marzo 1944, quando l’attentato di via Rasella (23 marzo), lo sciopero di inizio mese e le notizie riguardanti il rafforzamento delle formazioni partigiane portarono i comandi nazisti a mutare giudizio e considerare il contesto italiano un problema di difficile soluzione. I principali tratti del nuovo approccio emergono in modo chiaro ed evidente nelle misure antipartigiane che il feldmaresciallo Kesselring diffuse ai suoi subordinati il 7 aprile: all’interno del documento il responsabile del fronte italiano invitava i soldati ad operare in modo deciso e risoluto, garantendo l’impunità a coloro che avrebbero agito in tale modo; Kesselring concludeva infine la comunicazione precisando che le problematiche sarebbero sorte qualora qualcuno non fosse stato sufficientemente determinato e spietato[2].

Con queste premesse all’inizio di aprile venne organizzato un grande rastrellamento che avrebbe dovuto ripulire la dorsale appenninica dalla Liguria alle Marche. In Toscana le operazioni iniziarono il 10 aprile: colpirono inizialmente alcuni borghi del Mugello, per poi spostarsi successivamente nel Casentino, dove veniva segnalata una forte presenza di ribelli. Nel Casentino e sul versante orientale del Falterona l’azione ebbe inizio la notte tra il 12 e il 13 aprile ed investì paesi dall’importanza secondaria come San Godenzo, Castagno d’Andrea, Badia Prataglia, Vallucciole, Partina e Moscaio.

Protagonisti di quest’operazione furono gli uomini del Reparto esplorante della Divisione Hermann Gӧring, comandati dal colonnello von Heydebreck e guidati sul campo dal capitano von Loeben. Si trattava di un contingente composto da oltre mille soldati, suddivisi in cinque compagnie tutte motorizzate; non era un corpo noto per le sue qualità militari, ma celebre piuttosto per essere una delle formazioni più politicizzate dell’esercito, composta in prevalenza da volontari e nazisti della prima ora. Nella seconda metà di marzo la Divisione aveva inoltre messo in evidenza le sue capacità nel rastrellamento con le stragi emiliane di Cervarolo e Civago[3].

Il primo paese ad essere colpito nel Casentino fu Moscaio, un piccolo gruppo di case situato su una collina distante pochi chilometri da Bibbiena. I tedeschi giunsero nella frazione nella notte tra il 12 e il 13 aprile ed irruppero nelle case degli abitanti trascinando gli uomini fuori dalle loro abitazioni: cinque furono fucilati sul retro delle loro case, altri due vennero abbattuti mentre cercavano di fuggire al rastrellamento e uno venne ucciso con un colpo di pistola da un soldato irritato dalle sue grida[4]. Secondo la ricostruzione compiuta da Raffaello Sacconi i soldati della Gӧring penetrarono nel paese grazie alle indicazioni fornite da un ragazzo che avevano incontrato lungo il percorso di avvicinamento all’abitato[5]. Rispetto alla strage di Partina, che coinvolse un maggior numero di vittime, non vi è certezza riguardo l’esatto numero dei morti (una cifra compresa tra sette e nove) e sono pressoché assenti le testimonianze dei superstiti dell’eccidio.  Le poche dichiarazioni a nostra disposizione presentano però numerose analogie con gli eventi che di lì a poco si sarebbero verificati nel vicino paese di Partina: i figli delle vittime affermano che nessuno dei morti aveva preso attivamente parte alla Resistenza, ma aveva al massimo fornito rifugio a qualche partigiano transitato per l’abitato, aggiungendo inoltre che molto probabilmente furono presenti durante l’operazione anche alcuni fascisti della zona[6].

 

Lapide in ricordo dei civili di Moscaio caduti durante la strage

 

Qualche ora dopo gli uomini della Gӧring piombarono su Partina, un piccolo paese vicino Soci. Verso le quattro del mattino un gruppo di fascisti e nazisti camuffati da partigiani entrò nel paese e si diresse all’abitazione di Angiolo Cerini, la guardia comunale del paese, chiedendogli se conoscesse qualcuno che li avrebbe potuti aiutare a trasportare del materiale bellico in montagna. Il Cerini non sospettò nulla ed accompagnò i presunti partigiani da coloro che riteneva li avrebbero potuti aiutare: il primo che venne interpellato era il Giovannini, ma questi si rifiutò di aiutarli perché i suoi buoi erano troppo stanchi, aggiungendo che aveva fornito il suo supporto in altre occasioni, ma che questa volta proprio non poteva aiutarli. Al rifiuto del Giovannini i repubblichini non rivelarono la loro identità e continuarono la loro ricerca facendosi accompagnare alla casa del Lorenzoni: una volta chiamato questi chiese di potersi  vestire prima di uscire di casa a parlare, ma gli risposero che non ce ne sarebbe stato bisogno, visto che quel giorno sarebbe stato ucciso. Accortosi dell’inganno il Cerini cercò di ritrattare quanto aveva detto, ma venne immediatamente colpito alla testa da due colpi di pistola. Con la morte della guardia comunale i criminali svelarono la loro identità, dando inizio alla strage[7].

 

Partina

 

Accompagnato da elementi locali, il gruppo si recò nelle abitazioni ritenute maggiormente sospette, come quelle dei partigiani Vecchioni e Paperini, dando alle fiamme le case ed uccidendo coloro che erano stati inseriti all’interno di una lista precedentemente stilata. Gli individui vennero uccisi nei più disparati modi, chi veniva ucciso sulla porta di casa, chi veniva gettato nelle abitazioni in fiamme dopo che era stato utilizzato per trasportare le fascine con le quali arderle e chi veniva ucciso alle spalle dopo che gli era stata promessa la salvezza. Complessivamente nel corso della mattinata vennero uccisi 14 abitanti di Partina, tutti uomini con più di diciotto anni.

Il resto della popolazione venne rinchiuso all’interno della chiesa, mentre all’esterno i tedeschi continuarono a seminare il panico per il paese. Giovanni Cherubini, che all’epoca aveva poco più di cinque anni, ricorda nitidamente il trasferimento della popolazione nella parrocchia: il volto grigio del parroco, la calca e i pianti di disperazione dei presenti. Ancora oggi non è chiaro se i tedeschi volessero uccidere i civili radunati all’interno dell’edificio o se volessero imprigionarli temporaneamente per avere più libertà di movimento nel paese; tuttavia, tra i presenti si diffuse la notizia che l’edificio sarebbe stato fatto saltare in aria. Ormai certo del tragico epilogo don Ezio Turinesi decise di tenere messa e di assolvere tutti i presenti dai loro peccati[8].

Fortunatamente questo rischio venne scongiurato grazie alla mediazione di un’ufficiale tedesco di stanza a Soci, il capitano Tambosi, e del responsabile locale della Todt, il maggiore Kirchberg, che riuscirono a convincere gli uomini della Gӧring ad interrompere la carneficina, testimoniando l’innocenza della popolazione e l’insussistenza delle voci che etichettavano erroneamente Partina quale “covo partigiano”. Grazie a questo intervento la strage non raggiunse dunque le dimensioni dell’eccidio di Vallucciole, ma si limitò all’uccisione di alcuni uomini di età adulta, senza che venissero eliminati gli anziani, i bambini e le donne. La mediazione di Tambosi e Kirchberg evidenzia la presenza di un buon rapporto tra gli abitanti nei dintorni di Soci e i tedeschi della Wehrmacht di stanza nella zona, testimoniata anche dal partigiano Dante Roselli nel corso di un’intervista[9].

La strage non limitò la sua estensione agli abitanti di Partina, ma coinvolse anche otto operai della Todt che nel corso della mattinata transitarono dal paese per dirigersi a lavorare verso Serravalle. Malgrado fossero muniti di regolare lasciapassare e lavorassero alla costruzione delle fortificazioni tedesche, questi vennero etichettati come partigiani ed uccisi lungo l’argine del torrente Archiano.

 

Cippo per gli operai della Todt

 

Nel corso degli anni la strage ha sollevato numerosi interrogativi, portando taluni a sostenere che l’azione fosse dovuta alla presenza in paese dei partigiani, infatti la mattina del 13 aprile tre componenti del Gruppo Casentino – il Vecchioni, il Paperini e il Ciabatti – si recarono in paese per raccogliere viveri e materiali prima di incamminarsi verso il Pratomagno, dove nel frattempo li stavano aspettando altri compagni del raggruppamento. Per quanto sia innegabile che l’eccidio sia avvenuto in concomitanza della presenza a Partina dei ribelli e dei tedeschi, è altrettanto indiscutibile che la presenza in paese dei soldati della Hermann Gӧring fosse precedente quella del Vecchioni, del Paperini e del Ciabatti. Inoltre è estremamente improbabile che i tedeschi o i fascisti locali fossero a conoscenza dell’imminente arrivo dei tre uomini, visto che la presenza partigiana in paese si trattava di un ripiegamento che non era stato preventivato, dovuto all’occupazione tedesca di San Paolo in Alpe.

Se poi si analizza l’evento da una prospettiva più ampia ci si accorge che la strage non era un’azione isolata, ma era parte di un’ampia operazione che si svolse in tutto il Casentino. I luoghi vittime delle incursioni nazifasciste furono scelti in base alle delazioni che elementi locali fornirono ai comandi tedeschi. Malgrado le denunce non fossero corroborate da prove che convalidassero la presenza di azioni svolte ai danni dei nazisti o testimoniassero l’esistenza di gruppi partigiani che operassero nella zona, le formazioni protagoniste della strage non si preoccuparono di verificare la veridicità delle delazioni e non contattarono neppure i connazionali che nel frattempo operavano nella zona da diverso tempo per avere informazioni in merito. La denuncia non veniva dunque vagliata, ma diveniva per i comandi tedeschi pretesto per poter attuare azioni indiscriminate che allontanassero le popolazioni dai partigiani ed eliminassero potenziali sostenitori della Resistenza. Nel caso di Partina è doveroso ricordare che i partigiani in questione operavano in luoghi lontani dal loro paese natale; dei tre solamente il Paperini perse la vita nel corso della giornata, sacrificandosi per salvare la vita del compagno Vecchioni.

Nonostante nel corso degli anni si sia raggiunta un’intesa riguardo l’origine e la natura della strage, permangono ancora dei dubbi in merito ad alcuni aspetti dell’eccidio, che né gli storici né le testimonianze dei sopravvissuti sono riusciti a chiarire. In particolare sono due le zone d’ombra che sollevano alcuni interrogativi sull’evento, in primo luogo ci si domanda come mai i partigiani si fossero recati in paese nonostante un gruppo di nazisti e di fascisti fosse già presente a Partina dalle prime ore del mattino. Sappiamo che questi erano camuffati da partigiani, ma è altrettanto veritiero che la presenza di un gruppo, pur con le sembianze di un potenziale alleato, sarebbe difficilmente passato inosservato all’interno di un paese dalle piccole dimensioni ed avrebbe dovuto allertare i tre partigiani che avevano ricevuto oltretutto la notizia di un probabile rastrellamento nel Casentino. L’unica spiegazione plausibile presuppone che il gruppo di repubblichini e nazisti abbia agito nel più assoluto silenzio e sia riuscito contemporaneamente a non farsi udire ed individuare dai partigiani di ritorno nel paese.

Un altro aspetto che solleva alcuni interrogativi riguarda il mancato intervento di Sacconi in soccorso dei civili. In questo caso sappiamo che Sacconi si era appostato con i membri del gruppo Casentino nel vicino podere “Prati”, distante solamente pochi chilometri da Partina, e che avesse udito la mattina del 13 aprile gli spari provenire dal paese. In questo caso è probabile che il trasferimento sul Pratomagno avesse precedenza rispetto a qualsiasi altra operazione e che dunque il gruppo si fosse diretto verso il massiccio nonostante avesse sentito le grida provenire da Partina. In merito a questo aspetto non abbiamo però testimonianze o informazioni che ci permettano di chiarire la questione, e possiamo solamente ipotizzare una presunta precedenza dello spostamento sul Pratomagno rispetto ad un intervento in soccorso degli abitanti del paese.

Le stragi del 12 e 13 aprile ‘44 hanno segnato in modo profondo la memoria di questi paesi, che hanno deciso di ricordare le vittime attraverso una serie di opere monumentalistiche. A Partina le vittime della strage vengono commemorate all’interno di un’area verde situata in via San Francesco dove è presente un memoriale dedicato ai caduti del comune durante la seconda guerra mondiale: all’interno dello spazio sono presenti una serie di targhe in bronzo, ognuna delle quali è dedicata ad una specifica categoria di caduti. Per quanto riguarda la strage di Partina sono presenti tre steli destinate agli eventi del 13 aprile, una per i civili vittime dell’eccidio, una per gli otto operai della Todt e una in onore di Santi Paperini, sacrificatosi per salvare la vita del compagno Salvatore Vecchioni[10]. Sempre in via di San Francesco è poi presente una lapide situata sull’argine del torrente Archiano, in ricordo degli otto operai della Todt fucilati dagli uomini della Gӧring[11]. Per quanto riguarda invece le vittime di Moscaio queste vengono commemorate attraverso due lapidi, una posta nella strada che attraversa l’abitato dove avvenne la strage[12] e una posta nel cimitero di Bibbiena[13].

 

Area verde di Partina adibita al ricordo delle vittime della seconda guerra mondiale

 

Note:

[1] È interessante notare come Partina e Vallucciole siano state entrambe designate quale luoghi adibiti all’occultamento delle armi che il nascente gruppo di Vallucciole insieme a quello di Bibbiena derubarono il 13 settembre 1943 a Stia. Per approfondire l’episodio cfr. L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944. Storia, ricordo e memoria pubblica di una strage nazifascista, Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2017, pp. 71-72.

[2] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, pp. 71-72.

[3] Ivi, pp. 72-73.

[4] Ivi, p. 78.

[5] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, Quaderni dell’Istituto Storico della Resistenza Toscana, ed. Nuova Italia, Firenze 1975, p. 70.

[6] Testimonianza di Giancarlo Giannini, https://perlamemoria.it/i-luoghi/bibbiena/moscaio/.

[7] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., pp. 66-67.

[8] Testimonianza di Giovanni Cherubini, https://perlamemoria.it/i-luoghi/bibbiena/partina/.

[9] Testimonianza di Dante Roselli, https://perlamemoria.it/i-luoghi/bibbiena/partina/.

[10] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/memoriale-ai-caduti-di-partina-di-bibbiena-guerra-1940-45/.

[11] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/cippo-agli-operai-della-organizzazione-todt-fucilati-il-13-4-1944-partina-di-bibbiena/.

[12] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/lapide-ai-caduti-delleccidio-del-13-4-1944-moscaio-di-bibbiena/.

[13] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-ai-caduti-del-moscaio/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel novembre 2024.




La marcia della morte: da Molin dei Falchi a San Polo

Il valore della testimonianza e del ricordo sono fondamentali perché certi episodi non si verifichino più”. Così esordiva Laura Ewert il 14 luglio alla commemorazione della strage di San Polo, venuta appositamente dalla Germania in Italia per chiedere perdono. Suo nonno, il colonnello Wolf Ewert, è stato colui che ha ordinato quell’orribile eccidio, e dopo averlo recentemente scoperto per caso, sua nipote Laura non ha esitato a partecipare, per manifestare la propria “tristezza, dolore e vergogna”, all’ottantesimo anniversario di quella che è stata definita una delle più orrende e barbariche stragi protratte dai nazisti sul suolo italiano.

Il dottor Carlo Silli, che aveva assistito al disseppellimento delle salme, nella sua relazione scriveva: “Mai ho visto e mai ho potuto concepire la scena da incubo che si parava davanti ai miei occhi in quel boschetto di lecci dietro Villa Gigliosi… Tre fosse colme di cadaveri ammucchiati gli uni sopra gli altri, parte dilaniati da esplosivi, tutti con i visi tumefatti e con un aspetto trasfigurato da essere irriconoscibili…Ancora vivi, ma probabilmente tramortiti (non trovammo segni di arma da fuoco nella maggior parte) furono ammucchiati e ricoperti dalla terra nella quale morirono soffocati e poi furono fatti esplodere. Alcune delle salme erano atrocemente mutilate e frammenti di tessuti umani e di vestiti furono trovati sulle piante circostanti fino ad un’altezza notevole”[1].

Ed è per l’atrocità di questo eccidio con quell’orribile modo con cui si è consumato che la signora Laura Ewert si è abbandonata ad un pianto a dirotto, si è inginocchiata ed ha deposto fiori sulla lapide di Villa Gigliosi. Qui ha incontrato ed ha abbracciato la nipote di una sopravvissuta all’eccidio, qui ha cercato di capire, senza trovare alcuna spiegazione, il perché suo nonno dette quell’infausto ordine ai soldati della Wehrmacht, qui ha dichiarato che per lei “… è l’ora dell’ascolto, dalle testimonianze e dagli incontri… voglio tentare di capire perché tutto ciò successe. Viviamo tempi difficili, con guerre in corso e questo dimostra che non siamo del tutto fuori dal pericolo che certi momenti possano essere vissuti nuovamente”. E qui va considerato il valore del gesto di Laura perché è una delle rare volte in cui un discendente di un nazista chiede scusa per i misfatti combinati durante la seconda guerra mondiale.

Di tutte le grandi stragi del ’44 quella di San Polo oltre ad essere una delle più orribili e disumane per come è stata eseguita possiamo considerarla una delle più beffarde se pensiamo che fu messa in atto proprio quando gli Alleati erano ormai alle porte di Arezzo e si preparavano a lanciare l’offensiva per la liberazione della città. La dinamica di quel massacro fu frammentaria e complessa, fatta almeno di tre momenti distinti: i rastrellamenti nella notte fra il 13 e il 14 luglio con le fucilazioni nella zona di Pietramala e Molin dei Falchi, l’uccisione di 48 “rastrellati” a Villa Gigliosi e le fucilazioni di San Severo [2].

I fatti di San Polo furono l’epilogo di un’azione stragista, in parte pianificata, che in quattro mesi nella sola provincia aretina portò al compimento di 42 eccidi, raggiungendo il loro culmine per numero e per ferocia nel mese di luglio, quando le truppe naziste si trovarono ad affrontare l’aumento della combattività e la consistenza delle brigate partigiane da un lato e l’avanzata irrefrenabile degli alleati dall’altro. Quel “filo di sangue” ebbe inizio alla fine di giugno quando a Palazzo del Pero, in località l’Intoppo, vennero uccise 10 persone e proseguì a Badicroce, dove ne morirono nella notte tra il 3 e il 4 luglio altre 17. Seguirono successivamente le stragi dell’11 luglio compiute a Staggiano, Quota di Poppi, Matole di Cavriglia, Pogi e Castiglion Fibocchi, per poi giungere alla scena finale – per quanto riguarda il territorio aretino – dell’azione stragista del 14 luglio a Molin dei Falchi, Pietramala, San Polo e San Severo, eventi distinti ma che fecero parte di un’unica azione repressiva.

Nei primi giorni di luglio il Comando della Divisione Arezzo aveva cercato di realizzare un collegamento tra le varie formazioni partigiane operanti nella zona, in particolare tra il primo Battaglione Sante Tani della Brigata Pio Borri, dislocato nella zona di Poti – Molin dei Falchi, e gli alleati fermi lungo la Valdichiana, per mettere a punto una strategia per liberare la città di Arezzo [3]. La loro intenzione era quella di attaccare alle spalle quelle truppe tedesche che da alcuni giorni erano assestate sulle alture della Valdichiana per permettere la ritirata sulla Linea Gotica ostacolando l’avanzata degli Alleati.

Ma l’indisponibilità degli Alleati per questo progetto, non avendo al momento le truppe adatte alle operazioni di montagna, portò a concordare un piano che prevedeva l’invio in segreto di un gruppo di partigiani dentro la città di Arezzo il giorno 14 luglio, al fine di agevolare la discesa delle altre brigate che stazionavano nella zona di Poti. L’operazione effettuata contemporaneamente all’attacco delle truppe alleate alla Sella dell’Olmo avrebbe dovuto indebolire le difese tedesche agevolando così l’ingresso degli Alleati in città [4].

All’alba di quel 14 luglio i partigiani del primo Battaglione si affacciavano sulla displuviale di Poti pronti a marciare sulla pianura di Arezzo. Analogo movimento venne effettuato dai reparti del secondo Battaglione che non avevano ancora oltrepassato le linee di Palazzo del Pero. Compito di questi reparti era quello di conquistare la foce dello Scopetone, svolgendo un’azione di sostegno a quella contemporanea del primo Battaglione al quale avrebbero coperto il fianco [5].

Ma l’azione Alleata concordata per il 14 luglio non ebbe luogo e ciò dette la possibilità ai tedeschi di attaccare il mattino stesso le posizioni di San Severo e Molin dei Falchi. L’attacco fu preceduto da azioni di artiglieria e trovò le formazioni partigiane ancora in fase di schieramento offensivo, per cui queste non poterono reggere all’urto del fuoco nemico. Il ripiegamento dei partigiani avvenuto nella zona di San Severo provocò la reazione dei tedeschi che si accanirono sulla popolazione di quella località compiendo il primo eccidio di quella nefasta giornata [6].

Così scrive nel suo diario Almo Fanciullini, allora un ragazzo di quindici anni, il quale registrò con straordinaria lucidità tutto ciò che stava avvenendo intorno a lui in quei terribili mesi:

“Mercoledì notte arrivarono i tedeschi a San Severo (…) i partigiani scappando lasciarono sul luogo le loro armi ritrovate poi dai tedeschi (…) La popolazione visto che i tedeschi non molestarono nessuno non temeva grandi sorprese (…) ma stamani una decina di nazisti armati di mitra e di bombe a mano irrompevano in San Severo e catturavano 17 uomini, la maggior parte capi famiglia (come mio zio) e tra il pianto di bambini e di donne li portarono per un viottolo in direzione del Pineto. Pochi minuti dopo una volta scomparsi dietro una piccola vallatina a 500 metri dal caseggiato, si udirono raffiche di mitra. (…) tutti furono sfracellati da molti proiettili (…)” [7].

A San Polo già il 12 luglio era giunto il 274° reggimento tedesco, un reparto dipendente dalla 94° Divisione di fanteria [8], aggregato in quel momento alla 305° Divisione di Fanteria, agli ordini del colonnello Wolf Ewert, che requisì la villa dei fratelli Mancini e vi stabilì il comando.

I bombardamenti degli Alleati in quel periodo sempre più intensi si spinsero verso San Polo e molti degli sfollati, che avevano lasciato Arezzo per rifugiarsi nel paese, decisero di spostarsi nelle frazioni e nelle fattorie di montagna, come Pietramala e Molin dei Falchi, dove erano nascosti anche alcuni partigiani. Avevano lasciato San Polo nella speranza di salvarsi ed evitare di trovarsi in mezzo agli scontri che potevano verificarsi con l’arrivo degli Alleati che ormai erano alle porte di Arezzo. E di sicuro non immaginavano che quello sarebbe stato il loro ultimo viaggio…

I nazisti vennero a conoscenza di un concentramento di partigiani alle estreme pendici dell’Alpe di Poti, nei pressi di Pietramala, in seguito alla cattura di un giovane disertore tedesco, tale Heinrich Kruger, legato alla “Pio Borri”, che sotto tortura rivelò dove erano nascosti i prigionieri nelle mani dei partigiani. Erano gli uomini del comandante Siro Rossetti, che si preparavano a scendere su Arezzo per liberarla insieme agli Alleati in arrivo dalla Valdichiana. Secondo le testimonianze dello stesso Rossetti, rilasciate in più occasioni, la brigata aveva fatto prigionieri 19 tedeschi che il giorno 13 luglio erano tenuti a Molin dei Falchi e poi portati a Pietramala e rinchiusi in una grande autorimessa nei pressi di alcune case del paese [9].

Nella zona di Molin dei Falchi si trovava anche il comando di brigata, che si era spostato quella notte perché qui erano giunti, provenienti da Cortona, i partigiani Eugenio Calò, Angelo Ricapito e Villa, portatori di un messaggio del comando alleato.

I nazisti organizzarono un’azione che mirava alla liberazione dei propri commilitoni e non si limitarono solo a questo…

L’azione tedesca venne compiuta di sorpresa all’alba del 14 luglio quasi contemporaneamente all’eccidio che si consumava a San Severo: i tedeschi riuscirono a liberare i prigionieri, che fino ad allora erano stati sicuro pegno di garanzia per azioni di rappresaglia, ma che adesso non più vincolati dalla preoccupazione di ritorsioni, si sfogarono sulla popolazione, rastrellando decine di persone e dando alle fiamme le loro abitazioni [10].

Una quindicina di civili furono uccisi in questa prima fase del rastrellamento a Molin dei Falchi e Pietramala: almeno sette donne, due bambini e alcuni anziani.

Da qui inizia “la marcia della morte”: una lunga fila di prigionieri civili e partigiani tenuti legati col fil di ferro si trascinava verso San Polo, e man mano che si andava avanti le abitazioni venivano incendiate e aumentava il numero degli ostaggi, più il cammino proseguiva più la coda si allungava, con altri catturati nei pressi di Vezzano e Castellaccio, e coloro che non riuscivano a tenere il passo (una donna incinta, suo marito, alcuni bambini e anziani) venivano eliminati lungo il tragitto.

L’ordine di esecuzione fu emanato dal comandante del reparto Wolf Ewert ma avvallato da Klaus Konrad ufficiale del Reggimento, dal sottotenente Schmidt e dall’ufficiale austriaco Herbert Hantschk, sul quale è stata pronunciata la sentenza di primo grado nel febbraio 2007 dal Tribunale Militare di La Spezia. Dai vari interrogatori effettuati si può escludere la presenza a San Polo di reparti o unità SS, i soldati presenti appartenevano alla Wermacht, nonostante alcuni testimoni li abbiano scambiati per SS a causa del berretto tipo bustina con il bottone rosso e bianco [11].

La “lugubre processione” che si lasciava dietro una lunga scia di sangue arrivò a destinazione a Villa Gigliosi, a San Polo, posta a pochi metri da quella Villa Mancini sede del comando tedesco.

I soldati scesero in cantina con i loro ufficiali e si ubriacarono. Con le canne di gomma poi, che servivano per travasare il vino, presero a fustigare i prigionieri. Caddero svenuti sotto i colpi. I tedeschi costrinsero quelli rimasti in piedi a scavare tre fosse nel giardino e vi gettarono dentro tutti i prigionieri alcuni finiti a colpi di pistola altri tramortiti, iniziando a ricoprirli di terra, seppellendoli vivi e poi fatti esplodere” [12].

Alla fine del massacro le vittime furono 63, 48 delle quali civili, 8 furono le donne [13]. I tedeschi lasciarono Villa Mancini lo stesso pomeriggio del 14 luglio.

Una costante di tutte le testimonianze raccolte nelle varie epoche è quella di aver visto rastrellare ed uccidere senza pietà dai tedeschi indistintamente sia uomini, anziani, giovani, invalidi, donne, sfollati e partigiani di qualsiasi età o condizione. E questa stessa condanna totale e senza appello che i nazisti infliggevano alle popolazioni, agli inermi, agli innocenti, confermava un dato di fatto: “la convinzione che partigiani e civili fossero la stessa cosa, uniti nella lotta contro il nemico invasore, protagonisti tutti, in forme e modi diversi, di una guerra patriottica per la liberazione del suolo nazionale e per il rovesciamento di quei valori liberticidi, razzisti, reazionari che erano rappresentati dal nazifascismo”[14].

La vittima più giovane e più inerme fu un bambino di tre settimane, Dante Buzzini battezzato appena due giorni prima.

Ultimo ad essere ucciso fu lo studente di medicina Mario Sbrilli che prestava servizio in qualità di medico nella formazione partigiana: inizialmente risparmiato perché medico, poi freddato da un colpo di mitra per avere tirato uno schiaffo al generale nazista che stava torturando i suoi compagni.

La ferocia con cui si accanirono contro le vittime fu accentuata anche dalla partecipazione alla strage degli ex prigionieri tedeschi liberati poco prima, che scatenarono tutta la loro rabbia, la loro sete di vendetta in modo bestiale. Alla brutalità dell’operazione contribuì anche l’opera di Hans Plumer, medico tedesco pure lui ex prigioniero, che continuamente incitava i soldati ad eliminare tutte le persone incontrate, donne e bambini inclusi, urlando più volte che nella zona vi erano solo partigiani che dovevano essere giustiziati [15].

 

Luglio 1944 – Popolane aretine a San Polo in attesa di identificare le vittime.

 

L’immagine di queste donne ritratte immobili, quasi pietrificate, nell’atteggiamento di attesa e di atavica rassegnazione, che sono lì ad aspettare di poter riconoscere i propri cari tra quei corpi mutilati e sfigurati delle vittime di San Polo, è forse la spiegazione più esauriente dell’assurdità delle guerre, di qualunque guerra, di quelle di ieri e soprattutto di quelle di oggi che seminano tra i civili le vittime più numerose.

Luglio 1944 – San Polo: disseppellimento e identificazione delle vittime.

 

Luglio 1944 – San Polo: un carro agricolo per il trasferimento al cimitero.

 

Nei giorni successivi alla liberazione di Arezzo gli inglesi aprirono un’inchiesta sui fatti di San Polo, che non ebbe seguito. Nel 1972 il caso fu riaperto in Germania ma archiviato l’anno seguente. In Italia nel 1960 fu avviato un procedimento di provvisoria archiviazione e tutta la documentazione venne chiusa nel tristemente noto “Armadio della Vergona” custodito a Roma a Palazzo Cesi. Un intero archivio fu occultato con documenti che riguardavano stragi come quella di Marzabotto, delle fosse Ardeatine e tra gli eccidi toscani anche quello di San Polo. Solo nel 1994 “l’Armadio” venne riaperto e una commissione di indagine visionò tutto il materiale inviandolo poi alle procure militari. Nel 1995 il Tribunale Militare di La Spezia riaprì la pratica, finché nel 2007 arrivò la sentenza che assolse, per insufficienza di prove, Herbert Hantschk, l’unico soldato tedesco imputato sopravvissuto, che ormai ultraottantenne aveva atteso la sentenza nella sua casa a Vienna.

I sessant’anni della giustizia negata sono finiti per Civitella e Marzabotto, ma non per San Polo, che resta quindi impunita. Non per la storia che ha già indicato i responsabili nei soldati della 274° reggimento della Wehrmacht, ma per la legge.

 

Note:

[1] La testimonianza è riportata da Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’appennino toscano, Tipografia D. Badiali, Arezzo 1957, pp. 508-9.

[2] Salvatore Mannino, La giustizia divisa: Civitella e San Polo, cronaca e storia di due stragi, Protagon, Arezzo 2008, p. 152.

[3] Luciano Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, La nuova Europa, Carrara 1972, p. 232.

[4] A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, cit., p. 226.

[5] L. Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, cit. p. 233.

[6] Un dramma indimenticato che i nipoti di una delle vittime, Silvestro Lanzi, componenti della band “Casa del Vento” hanno reso immortale nella canzone “Notte di San Severo”, https://www.youtube.com/.

[7] Almo Fanciullini, Diario di un ragazzo aretino 1943-1944, Polistampa, Firenze 1996, p. 158.

[8] La 94 Divisione Tedesca traeva origine dalla analoga formazione perduta dai tedeschi a Stalingrado. Ricostruita in Francia, la divisione fu nuovamente distrutta a Cassino. I suoi resti operarono contro i partigiani in Val Tiberina e, poi a San Polo. Subito dopo San Polo risulta trasferita a Ferrara e poi Udine per la ricostruzione, in Enzo Droandi, La Battaglia per Arezzo 4-20 luglio 1944, Luciano Landi Editore, Arezzo 1984, p. 16.

[9] Memoria di un eccidio: San Polo1944, Le Balze, Montepulciano 2003, p. 41.

[10] A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, cit., p. 242.

[11] Memoria di un eccidio, cit. p. 44.

[12] L. Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, cit. p. 235. Nella testimonianza rilasciata di fronte alla Court of Inquiry alleata, nel dicembre 1944, il proprietario della villa, Alfredo Mancini, racconta le terribili torture subite dagli ostaggi e in particolare dai partigiani che, secondo l’inchiesta britannica, sarebbero stati soltanto sei, una stima probabilmente difettosa, in Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili: le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2008, p. 147.

[13] Questa stima appare secondo lo storico G. Fulvetti la più realistica, in Ivi, p. 135.

[14] Ivan Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana: la storia, la memoria, Pagnini, Firenze 1994, p. 14.

[15] G. Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 135.

 

Bibliografia sull’argomento:

Chianini Vincenzo, Gli Unni in Toscana, Valecchi, Firenze 1946.

Curina Antonio, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Tip. Badiali, Arezzo 1957.

Droandi Enzo, Arezzo distrutta 1943-44. Calosci, Cortona 1995.

Droandi Enzo, La battaglia per Arezzo 4-20 luglio 1944, Luciano Landi Editore, Arezzo 1984.

Fanciullini Almo, Diario di un ragazzo aretino 1943-1944, Regione Toscana- Consiglio regionale, Firenze 1996.

Foghini Curzio, San Polo: ricordi di famiglia e di guerra, Letizia Editore, Arezzo 2018.

Fulvetti Gianluca, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009.

Mannino Salvatore, La Giustizia divisa. Civitella e San Polo: cronaca e storia di due stragi, Protagon, Arezzo 2008.

Memoria di un eccidio: San Polo 1944, Le Balze, Montepulciano 2003.

Tognarini Ivan (a cura di), Guerra di sterminio e resistenza, ESI, Napoli 1990.

Tognarini Ivan (a cura di), La guerra di liberazione in provincia di Arezzo, 1943/1944. Immagini e documenti, Amministrazione provinciale, Arezzo 1988.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di ottobre 2024.

 

 




L’occupazione tedesca di Prato

Mesi infernali tra rastrellamenti e bombardamenti alleati. È questa la tragica situazione a cui dovettero sopravvivere i cittadini pratesi durante l’occupazione nazifascista. L’attenzione che fu data a questa città merita però una premessa obbligatoria, per spiegare perché ricevette un trattamento simile. Prato è una città industriale, definita proprio “di industria”, dove le imprese risiedono direttamente all’interno della città e non in zone periferiche esterne al perimetro abitativo, come nel caso di Firenze. Qui sono collocate proprio nel centro cittadino, creando un rapporto strettissimo tra realtà industriale e città. Ecco perché i bombardamenti avranno conseguenze ancor più devastanti, perché colpirono il centro abitativo e l’industria simultaneamente, mettendo in alcuni momenti in ginocchio la popolazione.

Dopo i fatti del 25 luglio 1943, anche Prato fu fra le città che videro una forte mobilitazione della cittadinanza che pretendeva il ritorno alla libertà e alla pace. Una sommossa popolare e antifascista che si interruppe il 10 settembre, con l’irruzione dell’esercito tedesco che occupò la città e restaurò il potere fascista, rendendo la vita impossibile per tutti quegli antifascisti che si erano maggiormente esposti tra il 25 luglio e l’8 settembre, e che furono arrestati o costretti a scappare dalla città. Per fronteggiare questa nuova situazione iniziò l’organizzazione delle formazioni partigiane. Di fatto il primo vero scontro con le forze fasciste arriverà soltanto nei primi giorni dell’anno seguente: la battaglia di Valibona. Si svolse la mattina del 3 gennaio del 1944 in località Valibona, sulla Calvana, al confine fra i comuni di Calenzano e Prato. Fra i casolari di Valibona si era, infatti, fermata un gruppo partigiano guidato da Lanciotto Ballerini nel corso di una marcia verso il pistoiese per raggiungere la formazione guidata da Manrico Ducceschi. I rastrellamenti sempre più frequenti resero pericolosa la permanenza sul Monte Morello, in prossimità di Firenze, dove Ballerini si trasferì dopo l’8 settembre del ’43, dando vita ad una formazione armata, e lo spinsero al trasferimento. Mentre molti partigiani comunisti si erano diretti dai propri compagni sul Monte Giovi, con Ballerini ne rimasero diciassette, prevalentemente sestesi e campigiani, fra cui anche due prigionieri russi, due slavi e un prigioniero inglese. Giunti a Valibona, il gruppo decise di sostare per riposarsi. Ma nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 1944 furono circondati da elementi del 1° Battaglione volontari Bersaglieri “Muti”, una formazione della guardia repubblichina guidata da Duilio Sanesi, comandante del presidio di Prato, Carabinieri e fascisti dei Comuni limitrofi, reparti agguerriti, ben armati e equipaggiati, giunti sia da Vaiano che da Calenzano, che li avevano individuati grazie alla delazione di una spia. Il soldato sovietico Mirko, svegliatosi per un bisogno, accortosi del nemico, avvisò Ballerini. Rifiutata la resa combatterono intensamente. La battaglia divampò per circa tre ore e mezzo. Considerata la situazione Ballerini comprese che l’unica via d’uscita era tentare una sortita per spezzare l’accerchiamento. E lanciò il contrattacco. L’iniziativa riuscì e, nonostante la disparità di numero e di mezzi, nove componenti del gruppo sfuggirono all’assedio. Lo scontro si concluse con cinque perdite fasciste e tre partigiane, dimostrando l’organizzazione e la tenacia della resistenza toscana. Fu questo scontro a dare vigore e consapevolezza sul territorio dell’esistenza di forze che si opponevano all’occupazione nazifascista, dando più forza alla Resistenza. Un processo rafforzato ancor più dallo sciopero dei primi di marzo[1].

Fu promosso dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia) a partire dal 1° marzo del 1944 in tutti i territori ancora occupati dall’esercito tedesco. Furono principalmente i comunisti ad insistere per lo sciopero, per consolidare i successi ottenuti dai primi episodi della Resistenza, per migliorare le condizioni materiali dei lavoratori, per chiedere la fine della guerra e per dare un ulteriore segnale di lotta. Ebbe ovunque un successo inaudito. Dagli oltre sessantamila operai di Torino a Milano, dove fu bloccata la circolazione dei mezzi pubblici, l’Italia occupata si ribellava platealmente al comando tedesco. A Prato i giorni che lo precedettero furono di alta tensione, proprio a causa del modello produttivo della città, dell’inattività totale o parziale di alcune aziende e del timore di una ritorsione da parte di fascisti e nazisti. Per questo lo sciopero ebbe inizio solo il 4 marzo, ma la mobilitazione fu totale. Nonostante le iniziali preoccupazioni sopra descritte, la partecipazione riguardò non soltanto i lavoratori comunisti o vicini al partito, ma persino molti che erano stati fascisti convinti. L’entità dell’adesione sorprese non soltanto le autorità fasciste ma anche gli stessi organizzatori. Prato era presente. Lo scioperò proseguì anche lunedì 6 e martedì 7 marzo, in un clima di mobilitazione totale, tanto è che il CLN perse il controllo dello sciopero stesso, a causa della mancanza di collegamenti e referenti nelle molte aziende del territorio pratese. La situazione si stabilizzò solo a partire dall’8 marzo, dove la quasi totalità dei lavoratori tornò al lavoro. Ma subito iniziò la dura risposta da parte dei nazifascisti[2].

Ma proprio in quelle ore Prato visse un altro terribile dramma: i bombardamenti degli alleati. La città nei mesi precedenti ne aveva subiti una decina, arrivando a contare più di cinquanta morti. E quello della mattina del 7 marzo non fu da meno. L’incursione alleata devastò vaste aree del centro storico e della periferia a nord, come via Strozzi, Montalese, Bologna, Filicaia, Santa Margherita e San Fabiano, oltre alle piazze Mercatale, del Duomo, Sant’Agostino e Ciardi. Furono colpite fabbriche e abitazioni, con un bilancio di sedici morti, diciotto feriti, centouno aziende danneggiate, cinquantaquattro case distrutte e quasi trecento danneggiate[3]. Il dolore dei familiari dei morti, lo sgomento di chi non aveva più una casa, la paura di un nuovo bombardamento, furono queste le sensazioni che in quel 7 marzo inondarono le strade di Prato e che presero velocemente il posto dell’orgoglio portato dallo sciopero. Eppure, quell’azione che, nell’idea degli alleati, tanto doveva destabilizzare i tedeschi, finì per farlo alla popolazione, talmente straziata e stanca che non capì subito quello che stava per accadere.

Contemporaneamente scattò la repressione nazista. Arrivò da Hitler in persona l’ordine di deportare il venti per cento della manodopera in seguito agli scioperi di marzo. Un ordine che dimostra tanto la collera dell’azione punitiva quanto la sorpresa che ebbero i tedeschi davanti alla capacità di mobilitazione dei lavoratori italiani. In base agli ordini arrivati da Berlino, i fascisti locali avrebbero dovuto consegnare millenovecento scioperanti: una cifra al limite dell’irraggiungibile se si considera che la popolazione di Prato al tempo non arrivava alle quarantamila unità. Ma questo, ad una Germania arrivata al culmine dello sforzo bellico e bisognosa di manodopera, non interessava affatto. Fu così che allora i fascisti pratesi, aiutati dalle forze della RSI fiorentina e lucchese, bloccarono gli incroci principali della città e catturarono tutti gli uomini che ebbero la sfortuna di passarci davanti. Oltre che per le strade, i lavoratori furono prelevati direttamente anche in tre aziende: alla Guido Lucchesi, alla Campolmi e alla Sbraci Vasco. Questo rastrellamento indiscriminato fece sì che non tutti gli arrestati fossero degli antifascisti o lavoratori aderenti allo sciopero: la situazione si era talmente confusa che furono deportati anche dei fascisti convinti. Per tutto il giorno del 7 marzo, e fino a quando lo si ritenne redditizio continuò il rastrellamento indiscriminato di persone. Alla fine, i circa centotrentasette arrestati furono trasferiti con dei pullman a Firenze, precisamente alla Scuole Leopoldine, in piazza Santa Maria Novella. Qui, dopo esser stati registrati, ed in alcuni casi interrogati, furono scortati dalle forze tedesche presso la Stazione Centrale. Lì si trovarono di fronte alcuni carri ferroviari, quelli usati per il trasporto del bestiame, dove furono costretti a salire. Dopo tre giorni interminabili di viaggio arrivarono a Ebensee, uno degli oltre quarantanove campi che dipendevano da Mauthausen. Ne torneranno solo ventuno[4].

Eppure, anche con questa prova di forza perpetuata dai tedeschi, il lavoro nelle aziende non riprese regolarmente, sia perché una parte delle maestranze era stata deportata, sia perché la situazione era radicalmente cambiata proprio in virtù di quella reazione, che aveva profondamente inciso sulla mentalità degli operai. Essi, infatti, una volta tornati al lavoro, sperando in una rapida avanzata alleata, iniziarono a boicottare la produzione come mai avevano fatto. La stessa struttura produttiva della città era stata notevolmente ridimensionata dai bombardamenti alleati e molti industriali preferirono allora aspettare il risarcimento dei danni di guerra anziché cercare di rimettere in funzione gli impianti per i tedeschi. A causa di tutto ciò, la produzione di guerra a Prato subì un vero tracollo[5].

Questo resta il culmine di un’occupazione che vedrà la città nei mesi seguenti ancora vittima dei bombardamenti alleati e delle ritorsioni nazifasciste. Bisognerà aspettare il 6 settembre per assistere alla liberazione di Prato, un giorno di isperata felicità ma che coincide con l’ennesimo eccidio di matrice nazista nel pratese: ventinove giovani partigiani vengono catturati alla fine di uno scontro a fuoco avvenuto nella notte precedente e vengono impiccati nel paese di Figline.

 

 

 

Note

 

[1] M. Di Sabato e G. Gregori, Fatti e personaggi della Resistenza di Prato e dintorni: dalla caduta del fascismo alla Liberazione (luglio 1943-settembre 1944), Pentalinea, Prato, 2014, pp. 19-46.

 

[2] M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Bologna, 1987, pp. 79-97.

 

[3] M. Di Sabato, La guerra nel pratese 1943-1944, Pentalinea, Prato, 1993, pp. 54-66.

 

[4] M. Di Sabato e G. Gregori, Fatti e personaggi della Resistenza di Prato e dintorni: dalla caduta del fascismo alla Liberazione (luglio 1943-settembre 1944), Pentalinea, Prato, 2014, pp. 52-55.

 

[5] M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Bologna, 1987, p. 104.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nell’ottobre 2024.




“Passi di Storia”

«Passi di Storia. Luoghi di memorie del ‘900» è un progetto dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia finanziato dalla Regione Toscana nel 2023 e, nel 2024, dal Consiglio Regionale nell’ambito del bando “per la celebrazione dell’80° anniversario della Liberazione e per la commemorazione delle vittime delle stragi nazifasciste”.
“Passi di Storia” comprende un portale digitale (Passi di storia) su cui sono censiti specifici luoghi della memoria: luoghi della memoria – ad esempio monumenti, parchi, musei, cippi, targhe, lapidi – rintracciabili sul territorio e su cui è stato apposto un pannello con QR Code collegato al sito. Ad ogni pannello corrisponde una pagina web comprensiva di descrizione del luogo della memoria, di coordinate GPS, fotografie e, potenzialmente, di altri materiali multimediali. Lo scopo principale del progetto è quello di creare una mappa dei luoghi legati alla storia della Liberazione e della Resistenza per evitare che rimangano inosservati e ignoti, così da conferire loro un valore comunicativo. Il progetto è quindi pensato anche come uno strumento divulgativo ed educativo, capace di valorizzare il luogo e la storia ad esso legato, continuamente disponibile e fruibile dalla cittadinanza. Il portale è implementabile e può ospitare ulteriori itinerari.
Attualmente il portale comprende tre percorsi: uno sul partigiano pistoiese Silvano Fedi, uno sull’eccidio del Padule di Fucecchio e uno su Piazza della Resistenza a Pistoia. I tre percorsi inaugurati nel 2024 e finanziati dalla Regione Toscana sono stati scelti perché rappresentativi della storia della Resistenza e della Seconda guerra mondiale nella provincia di Pistoia. Una descrizione dettagliata dei primi due percorsi è disponibile su Toscana Novecento (“Passi di Storia”: itinerari di guerra e Resistenza pistoiese). Il percorso su Piazza della Resistenza è stato realizzato su richiesta del Comune di Pistoia: l’omonima piazza, nominata così nel 1955, accoglie numerose installazioni memoriali legate agli eventi della Seconda guerra mondiale. Partendo dal Monumento ai Caduti della Resistenza e passeggiando attraverso la piazza, che funge da “Teatro della Memoria” si possono incontrare varie tappe: la prima è la targa dedicata a Renato Moscato, vittima della Shoah; in seguito troviamo quella ai bambini uccisi e vittime di esperimenti medici nei lager nazisti; infine quella ai Rom e Sinti vittime del nazifascismo. Successivamente si incontra la stele in memoria delle infermiere della Força Expedicionária Brasileira che in piazza della Resistenza avevano l’ospedale da campo. Uscendo dal parco ed entrando nell’adiacente Fortezza Santa Barbara si trova l’ultima tappa del percorso dedicata ai quattro ragazzi che lì, il 31 marzo 1944, furono fucilati dai fascisti.
Grazie ad un finanziamento del Consiglio Regionale, ottenuto attraverso il bando per la celebrazione dell’80° anniversario della Liberazione e per la commemorazione delle vittime delle stragi nazifasciste, l’ISRPT ha progettato e sta lavorando alla realizzazione di tre nuovi percorsi che, a partire dal 2025, saranno disponibili nel portale web e nei luoghi fisici, dove verranno installati vari pannelli.
I primi due percorsi, uno sui partigiani e le partigiane del pistoiese e l’altro sulle stragi naziste e fasciste della provincia, sono legati alla celebrazione dell’80° della Liberazione e all’80° anniversario delle stragi. Il terzo percorso vuole legare la memoria e la storia del lavoro all’Articolo 1 della Costituzione della Repubblica italiana, nata dalla lotta di Liberazione e dalla Resistenza.
Il primo itinerario si snoderà lungo i luoghi della memoria dei partigiani e delle partigiane pistoiesi cercando di studiare e valorizzare alcune figure di grande rilievo protagoniste della lotta armata nella provincia. Le tappe saranno dedicate, ad esempio, a Natale Tamburini, Lina e Liliana Cecchi, Gino Bozzi, Manrico Ducceschi, Magnino Magni. Inoltre, una tappa sarà riservata ai partigiani pistoiesi combattenti in Jugoslavia – a Pistoia è presente uno dei pochi monumenti esistenti in Italia ad essi dedicati – e un’altra alla famosa foto scattata da un soldato alleato all’angolo tra Via Curtatone e Montanara e Via Abbi Pazienza nei giorni successivi alla Liberazione di Pistoia e raffigurante un gruppo di partigiani e partigiane (in foto).
Il percorso sulle stragi naziste e fasciste vede invece la mappatura di dieci luoghi simbolo di stragi di civili uccisi dai nazifascisti nell’estate del 1944. Il territorio pistoiese non fu risparmiato dalla ritirata aggressiva delle truppe tedesche e in quasi tutta la provincia si verificarono episodi di stragi, come ad esempio quello di Calamecca (14 vittime), Valdibure (5 vittime), Piteccio (4 vittime), Montale (5 vittime) e di Piazza San Lorenzo (6 vittime) che, diversamente dalle altre, è avvenuta il 12 settembre 1943 rappresentando l’unico luogo in Toscana ad essere teatro di una strage di civili nel periodo immediatamente successivo all’Armistizio e all’occupazione tedesca.
Il terzo percorso si incardina sull’Articolo 1 della Costituzione e collega i luoghi dedicati alla memoria del lavoro e del movimento democratico dei lavoratori e delle lavoratrici passando per targhe, monumenti e opere architettoniche. Ad esempio, nel centro storico di Pistoia, si trovano la targa a Ugo Schiano, quella a Dante De’Petri e la statua Scioperanti di Andrea Lippi. Nella vecchia area industriale della città la targa alle vittime dell’amianto presso l’attuale biblioteca San Giorgio, un tempo sede delle Officine San Giorgio.
Il portale verrà aggiornato nei prossimi mesi con i nuovi percorsi in fase di sviluppo. Auspichiamo che questo possa contribuire ad accrescere l’interesse e la conoscenza di episodi legati alla storia locale altrimenti facilmente dimenticabili, soprattutto ora che sta finendo l’era del testimone, un tempo in cui le memorie dirette sono in esaurimento, favorendo nel contempo iniziative didattiche e turistiche in linea con l’intento di far dialogare ricerca storica, divulgazione e partecipazione diretta del pubblico.

 

Giulia Bruni è laureata in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Firenze. I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente la storia del Novecento e la Public History. È membro del Consiglio direttivo dell’ISRPT e collabora con lo stesso Istituto a progetti di didattica, ricerca e divulgazione storica.

Emanuele Vannucci è laureando in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Firenze. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età Contemporanea in provincia di Pistoia, di cui è membro del Consiglio direttivo, in progetti inerenti la didattica, la ricerca e la divulgazione storica e l’archivio audiovisivo. I suoi interessi di studio sono legati alla Resistenza, all’Antifascismo, alla Seconda Guerra Mondiale e alla Public History.




Tra Resistenza e Liberazione nel Comune di Cortona (Ar)

Cortona oggi

In attesa dell’arrivo da Sud dell’esercito alleato, le forze resistenti cortonesi, aderenti al Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), consistevano in quattro diverse formazioni partigiane [1]:

  • Gruppo Patrioti “Libertà”, guidato da Gabriele Ciabattini e operante nella zona della Fratta;
  • Banda Veltroni, guidata da Spartaco Veltroni e operante a Cortona e in Valdichiana;
  • Banda Poggioni, capeggiata da Bruno Valli e operante tra Poggioni e Teverina [2];
  • Banda “La Teppa”, capeggiata da Cesare Rachini, con base a Cantalena e attiva nella montagna.

Benché tutte dipendessero dalla sezione aretina del CTLN, le difficoltà di comunicazione e l’estensione del territorio controllato resero le bande cortonesi molto più autonome di quanto ci si potrebbe aspettare.

Il cortonese Vannuccio Faralli non fece parte della Resistenza locale, ma fu un membro di grande importanza del CLN, al punto da divenire, dopo la Liberazione, il primo Sindaco di Genova del Dopoguerra.

Importanti fonti di informazione su quello che succedeva attorno a Cortona furono quelle fornite dai parroci, che erano stati incaricati dal vescovo di Cortona, Mons. Giuseppe Franciolini, di tenere un diario sugli eventi.

Mappa 2 in Janet Kinrade Dethick, Cortona 1944, Fondazione Ranieri di Sorbello, Città di Castello, 2014.

Mappa 4 in Janet Kinrade Dethick, Cortona 1944.

Va precisato che nella provincia di Arezzo ci furono vari luoghi di detenzione, veri e propri campi di prigionia, tra cui:

  • Laterina (attivo dal 1941; dopo la guerra e fino al ’63 divenne centro di accoglienza per i profughi istriano-dalmati);
  • Renicci [fare link interno ad articolo esistente] (Anghiari; attivo dalla fine del 1942, tra i peggiori, dove i prigionieri che vivevano nelle tende, in condizioni igieniche tanto precarie che si contarono 159 morti. Prevalentemente rivolto a prigionieri di guerra sloveni, dopo il 25 luglio 1943, accolse gli ex confinati politici antifascisti, che dopo l’8 settembre riuscirono a scappare;
  • Villa Oliveto (Civitella; ospitò in prevalenza ebrei, che nel febbraio del ’44 furono deportati in direzione del campo di concentramento di Bergen-Belsen).

L’Aretino fu anche duramente bombardato dagli eserciti alleati. Il primo bombardamento della provincia si verificò il 12 novembre 1943, colpendo duramente la zona della stazione di Arezzo.

Le operazioni militari rallentarono con l’inverno, per proseguire con maggior intensità in primavera. Le bande partigiane conducevano le proprie azioni di guerriglia e sabotaggio. Il 25 maggio 1944 era il limite ultimo per la coscrizione obbligatoria: gli uomini che non si arruolavano erano considerati disertori, passibili di fucilazione. I partigiani aretini si fecero beffe di questo ultimatum, organizzando i famosi fuochi sui monti dell’Appennino toscano.

Nella notte tra il 24 e il 25 maggio del 1944 i partigiani, infatti, si ribellarono sulle montagne. In risposta, al bando della Repubblica di Salò, che concedeva salva la vita ai partigiani che si fossero consegnati entro le ore 24 del 25 maggio, sui principali monti dell’Appennino toscano furono accesi grandi falò a indicare la volontà dei partigiani di non consegnarsi, ma di combattere i nazifascisti. Antonio Curina, il capo del CLN di Arezzo, e i suoi compagni marcarono in questo modo l’inizio di una lotta che avrebbe portato, in quell’estate di 80 anni fa, alla liberazione dell’intera provincia.

Sarà l’allora Vescovo cortonese Mons. Giuseppe Franciolini, all’alba del 3 luglio 1944, a dare per primo la notizia ufficiale ai suoi concittadini della Liberazione di Cortona dal nazifascismo e dell’imminente arrivo in città degli eserciti alleati da Sud e dei partigiani che, sin dalla primavera di quell’anno, avevano stretto in una morsa i tedeschi acquartierati nella città, costringendoli alla fuga verso Città di Castello e verso Arezzo.

Fu l’ ufficiale italiano Giorgio Spini, padre di Valdo Spini, storico e politico italiano, l’uomo che, a bordo di una jeep, il 3 luglio 1944, per primo entrò in città insieme ad un graduato inglese della VIII Armata. Armata che, vinte le resistenze del nemico in prossimità del Trasimeno, in quella calda estate stava velocemente liberando la Valdichiana, ponendo fine ad un ventennio di dittatura e ai tanti timori diffusi fra tutti i cittadini, qui come altrove, per il passaggio del “fronte”.

Valdo Spini ha rievocato quegli avvenimenti raccontati da suo padre in alcune pagine del libro La strada della Liberazione. In particolare, si è soffermato sullo sforzo bellico degli Alleati per costringere i tedeschi alla ritirata verso il Nord e sul significato che ha avuto la Resistenza.

Dopo giorni di combattimenti e di rastrellamenti, la notte del due luglio, tutti i tedeschi lasciarono Cortona assieme ai capi politici fascisti. Quella vigilia fu ancora una notte di paura, pur nell’attesa imminente della Liberazione e della fine del dolore, della tragedia della guerra.

La Chiesa cortonese si impegnò direttamente per alleviare le sofferenze della popolazione, in certi casi scontrandosi con i tedeschi (solo in provincia di Arezzo furono 34 i religiosi uccisi durante il conflitto). In questa sede, possiamo ricordare Mons. Franciolini (salvò numerose opere dall’essere depredate – alcune furono inviate a Firenze, ma quando era troppo tardi altre furono nascoste dietro intercapedini – e nominò ben 40 falsi docenti al Seminario vescovile, così da evitarne l’arruolamento); don Giovanni Salvi (evitò una strage a Tornia [3], come racconta ne Le giornate di Tornia, dove narra gli eventi di tale località e descrive le bande partigiane sul territorio, criticandone la composizione e il modus operandi e le discordie, che portarono ad uccisioni tra membri delle stesse. È don Salvi a raccontare anche i fatti del 29 giugno, per la festa dei Santi Pietro e Paolo, quando a Tornia i tedeschi, durante le attività di rastrellamento antipartigiano, irruppero nella piccola borgata, radunando le persone in un’aia. Vennero incendiate le case e gli abitanti vennero accusati di collaborazione con i partigiani. Non trovarono però quel che cercavano e nessun uomo nascosto. Il tenente invitò, stando alle parole del parroco, i presenti a recitare le preghiere, prima di essere uccisi. Colpito da tanta fede, però, mosso da empatia cattolica (da quanto emerse nel racconto) il tenente avrebbe risparmiato le loro vite, a patto non avessero aiutato nessuno e solo dopo aver ricordato loro il tradimento italiano alle truppe tedesche). Don Vincenzo Ginocchietti riuscì, invece, a evitare che la Chiesa dei SS. Biagio e Cristoforo dell’Ossaia fosse fatta saltare in aria, mentre don Antonio Briganti, parroco di Fasciano, arrivò a sparare contro le SS per proteggere i propri parrocchiani [4]. Il libro di Pancrazi, nato su richiesta di Franciolini, racconta in prima persona le loro storie. Rimando al libro per le altre narrazioni su Sant’Egidio, di Cantalena e le località vicine [5].

Tra il 4 e il 5 giugno fu liberata Roma, mentre il giorno successivo le forze alleate sbarcavano sulle spiagge della Normandia (D-Day). Le truppe alleate raggiunsero il Trasimeno il 21 giugno 1944. Se pensiamo che Carrara sarà liberata solo l’11 aprile 1945, possiamo capire quanto lunga e impegnativa sia stata la campagna di liberazione della Toscana.

Il “War Diary” compilato dal tenente colonnello Kendal Chavasse, comandante del 56° Reggimento da ricognizione (Recce corp) dell’esercito britannico. La liberazione di Cortona inizia alle 5 del mattino con il controllo dell’area dell’Ossaia.

Il giugno 1944 fu per Cortona molto duro: gli Alleati si stavano avvicinando alla Toscana, i tedeschi in ritirata non erano certo disposti a cedere il passo. Esplosioni e bombardamenti si fecero via via più intensi. I tedeschi ripiegarono verso le arterie meno importanti: non a caso le stragi sono in zone spesso remote e piccole, sparse su tutto il territorio.

La Liberazione avvenne lunedì 3 luglio, ma le foto che tutti i cortonesi conoscono, scattate da Luigi Lamentini, risalgono a martedì 4. In effetti, il 3 c’era ancora poca tranquillità nella popolazione, se non incredulità. Va detto che al momento di fuggire, l’esercito tedesco aveva progettato l’esplosione dell’Ufficio Postale, all’epoca situato all’ingresso di Palazzo Casali. La bomba però non esplose. Di quelle giornate ci sono anche alcune testimonianze video, grazie ai Combat films girati dagli Alleati (oggi nell’Archivio Luce). Si riconoscono Camucia e i festeggiamenti in Piazza della Repubblica.

Il giugno 1944 e l’inizio di luglio furono un periodo drammatico per la popolazione della provincia di Arezzo. Negli eccidi causati dall’esercito tedesco, in particolare dalla Fallschirm-Panzer-Division 1 Hermann Göring, furono coinvolti circa 1.500 civili inermi.

I soldati alleati morti nella Campagna d’Italia furono approssimativamente 330.000, un numero di poco superiore a quello dei caduti italiani nell’intero conflitto. 256 di loro sono sepolti al Cimitero di Guerra di Foiano, gestito dal Commonwealth War Grave Commission.

I soldati cortonesi caduti nella Seconda Guerra Mondiale furono in totale 244. 41 di loro ottennero delle onorificenze: 2 medaglie d’oro, 8 d’argento, 6 di bronzo e 25 croci di guerra.

Nella foto Camucia liberata. Alessandro Ferri, Settantacinque anni dopo, Cortona celebra l’anniversario della sua Liberazione, Cortona, ValdichianaOggi, 12 luglio 2019, https://www.valdichianaoggi.it/blogs/scartare-di-lato-e-cadere/settantacinque-anni-dopo-cortona-celebra-lanniversario-della-sua-liberazione/

Era giunto il momento della ricostruzione, ma anche della pacificazione. Cortona aveva dalla sua una figura di straordinario prestigio, che poté proporsi come paciere tra le fazioni in campo: Giorgio Spini, che era a Cortona quel giorno in qualità di interprete per l’esercito inglese. A cinquant’anni di distanza, così raccontò quelle giornate:

Di eroico, non ho fatto proprio nulla. Anzi, alla Liberazione di Cortona sono presente quasi per caso. Nel nostro servizio c’era un ufficiale inglese che doveva salire quassù con la Jeep, mentre si combatteva ancora nella pianura sotto Cortona, ma non sapeva una parola di italiano. Allora il nostro comandante mi ordinò di accompagnarlo, forse perché non bisticciasse troppo col soldato che guidava la jeep. […]Finalmente, tra i cortonesi che si stavano affollando attorno a noi, salì una voce «arriva il sor Pietro!», e con mio sollievo, in mezzo riconobbi nel sor Pietro lo scrittore Pietro Pancrazi, il quale, con molta calma e con molta fermezza, fece fare silenzio a questi e a quelli, tranquillizzò i tedeschi e ci mise al corrente di come era la situazione in città a nome del CNL. Non sapeva molto bene nemmeno lui se nel CNL rappresentasse il Partito Liberale oppure il Partito d’Azione, ma il sor Pietro era evidentemente un’autorità riconosciuta da tutti, e a me parve proprio un’ancora di salvezza in mezzo a quella tempesta.

Pancrazi ebbe un ruolo di primo piano nel CLN cortonese, di cui faceva parte assieme a Carlo Nibbi (più tardi nominato Sindaco e appartenente al movimento “Democrazia del Lavoro” di Ivanoe Bonomi), Ricciotti Valdarnini (PCI, primo Sindaco di Cortona eletto del Dopoguerra), Rinaldo Bertini (PSI), Remo Ricci (Partito d’Azione) e Bruno Valli (DC); in rappresentanza della Diocesi c’era don Giovanni Materazzi. Se leggiamo il manifesto che il Comitato fece appendere sulle strade di Cortona quella mattina, si riconosce facilmente la mano del grande critico e scrittore:

Cortonesi! Salutiamo con gioia riconoscente i valorosi eserciti alleati che hanno fatto finalmente libera la nostra città e la nostra terra dalla feroce oppressione del tedesco che, gettata la maschera, per giorni e giorni saccheggiando le nostre case e le nostre campagne, infierendo sul nostro popolo, ha rivelato anche agli illusi e agli ignari la sua vera faccia di eterno barbaro. Alle vittime di queste barbarie, ai fucilati, ai feriti, ai derubati, ai vilipesi, a tutti coloro che più hanno sofferto, va il nostro memore saluto.

Invitiamo il popolo cortonese a riprendere il lavoro e a rientrare nella più assoluta legalità. Domani tutti i diritti della libertà anche tra noi verranno ristabiliti, tutti i partiti potranno e dovranno liberamente concorrere alla vita cittadina. Oggi, rimandando ogni competizione, domandiamo a tutti i cittadini di unirsi nella concordia e nel lavoro, perché almeno i danni più gravi possano essere presto riparati. Chiediamo perciò la collaborazione di tutti i concittadini onesti: di tutti coloro cui non si può attribuire la ventennale tirannia dell’esecrato regime che ha condotto la patria a questa rovina. Come il governo ha promesso, tutti i violenti, i profittatori, i responsabili alti e bassi del fascismo saranno puniti. Ma nessuna ritorsione, repressione o vendetta privata può essere consentita. Ricordiamoci che l’infrazione della legge, la violenza, l’arbitrio – anche se commessi da antifascisti – sarebbero fascismo.

Forze di polizia già si stanno ricostituendo con l’aiuto degli Alleati liberatore, dei Patriotti e di volenterosi concittadini: ma è soprattutto nel senso civico del popolo che noi confidiamo. Mentre con augurio ai fratelli oppressi, che ancora soffrono e soffriranno quello che noi soffrimmo: venga presto anche per loro l’ora del riscatto.

Cortonesi! Con questi sentimenti salutiamo gli eserciti liberatori e le bandiere del mondo libero. Dopo venti anni di obbrobriosa tirannia riuniamo in un solo grido due idee fatidiche che già furono dei nostri padri: Italia e libertà! [6].

A pochi giorni da stragi indicibili, mentre tutto intorno infuriavano gli scontri e vent’anni di tirannia facevano sentire il loro peso, si chiedeva la concordia.

 

Note:

1. Sulle devastazioni di Cortona, si veda R. M., In città, in Pietro Pancrazi (a cura di) La piccola patria: cronache della guerra in un comune toscano: Giugno-Luglio 1944, Monnier, Firenze, 1946, pp. 42-52.

2.  Bruno Valli, Azioni del gruppo di “Poggioni”, Brigata Garibaldi, in Pietro Pancrazi (a cura di) La piccola patria, pp. 35-40.

3.  Giovanni Salvi, Le giornate di Tornia, in Pietro Pancrazi (a cura di) La piccola patria, pp. 3-11.

4. Cortona, in I massacri di Arezzo 1944https://arezzomassacri.weebly.com/cortona.html

5. Pietro Pancrazi (a cura di), La piccola patria : cronache della guerra in un comune toscano: Giugno- Luglio 1944,  Monnier, Firenze 1946; Cfr. Janet Kinrade Dethick, Cortona 1944.

6. Alessandro Ferri, Settantacinque anni dopo, Cortona celebra l’anniversario della sua Liberazione, Cortona, ValdichianaOggi, 12 luglio 2019, https://www.valdichianaoggi.it/blogs/scartare-di-lato-e-cadere/settantacinque-anni-dopo-cortona-celebra-lanniversario-della-sua-liberazione/

 

Bibliografia:

Agostino Coradeschi e Mario Parigi (a cura di), Arezzo dalla dichiarazione di guerra al referendum istituzionale. 1940-1946, Carocci, Roma 2008.

Janet Kinrade Dethick, The Trasimene line: june-july 1944, Uguccione Ranieri di Sorbello Foundation, Perugia 2002

Janet Kinrade Dethick, Cortona 1944, Fondazione Ranieri di Sorbello, 2014

Alessandro Eugeni, Il falegname di Ottobrunn: processo a un criminale di guerra, Pacini, Pisa 2011

Renata Orengo, Diario del Cegliolo: cronaca della guerra in comune toscano, giugno-luglio 1944, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1965

Pietro Pancrazi ( a cura di), La piccola patria: cronache della guerra in un comune toscano: Giugno-Luglio 1944, Monnier, Firenze 1946

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di settembre 2024.




Scolpiti nella memoria

 Dietro ogni cippo, una storia.

Dietro ogni pietra, una vita.

 

Oggi più che mai di fronte ad un certo revisionismo storico spalleggiato da una parte della classe politica che mal sopporta il dichiararsi antifascista si ha la necessità di continuare a parlare di quei valori della Resistenza da cui ha tratto origine la nostra costituzione e di raccontare le storie di coloro che hanno combattuto per liberare l’Italia dal nazifascismo e soprattutto di coloro che hanno dato la propria vita per sconfiggere la dittatura e farci riassaporare la democrazia. Ed è proprio per mantenere viva la memora che è stato utile negli anni, per circoscrivere come in un fermo-immagine il ricordo di chi è caduto per il nobile ideale di libertà, erigere monumenti o affiggere targhe commemorative. Scomparsa quasi del tutto la generazione protagonista di quella stagione storica, in un tempo in cui si sta perdendo o si tenta di offuscare la memoria di quegli avvenimenti che hanno dato vita alla Resistenza, i monumenti rimangono lì “immobili” a testimoniare il sacrificio ed il martirio di coloro che hanno combattuto per la liberazione del nostro paese. Monumenti e lapidi hanno il compito di tenere desta la memoria di quei fatti che hanno segnato il drammatico passaggio dalla caduta del fascismo all’Italia repubblicana, attraverso la conquista della libertà democratiche. Ed oggi assumono forse una nuova valenza ed una rinnovata importanza nella loro funzione di tramandare alle giovani generazioni il ricordo della Resistenza e dei suoi caduti. Ma spesso durante il passaggio per le vie e le piazze, distratti dal via vai della città, immersi nello stress della vita quotidiana o nei propri pensieri, questi monumenti rimangono quasi invisibili, se non addirittura per alcuni incomprensibili perché ne ignorano il significato. Purtroppo, sono targhe, lapidi e monumenti che spesso solo nel giorno dell’anniversario riprendono vita con fiori, corone, commemorazioni, bandiere, stendardi e bande musicali… ma il resto dell’anno sembrano perdere il loro valore simbolico rientrando in una sorta di anonimato e di indifferenza. Ed è per questo che abbiamo pensato, prendendo l’occasione dall’ottantesimo Anniversario della Liberazione di Arezzo, di creare un itinerario attraverso i monumenti dedicati alla Resistenza sparsi per la città, in modo tale da far conoscere a chi ne ignora la storia o a rammentarla agli altri l’esistenza ed il loro valore simbolico e di memoria.

 

Monumenti, lapidi e cippi che raccontano le tracce della guerra, della Resistenza e della Liberazione della città

 

“La storia si fa arredo urbano

e l’arredo urbano muta

con il variare delle fasi storiche…”

Mario Isnenghi

 

Mappa dell’itinerario.

 

  • Percorso: Piazza Poggio del Sole (Monumento ai caduti della Resistenza) – via Cavour (Liceo classico-musicale Francesco Petrarca) – Piazza della Libertà (Palazzo del Municipio) – Cimitero Urbano (Monumento ai caduti nella guerra di Liberazione) – via Francesco Severi (Lapide del Fiume) – via Anconetana (Cippo ad Eliseo Brocherel) – viale Giotto (Monumento ai caduti dell’artiglieria) – largo Inigo Campioni (Monumento ai caduti del mare) – piazzetta San Niccolò (Cippo a Isolina Boldi e Anna Lisa Innocenti).
  • Tempo di percorrenza: 1 ora e 45 minuti circa
  • Distanza: 7,3 km
  • Dislivello: + 91 m – 64 m

 

Iniziamo il nostro percorso da Piazza Poggio del Sole, dove troviamo il Monumento ai caduti della Resistenza, testimonianza significativa del sacrificio e del coraggio dimostrato dai partigiani e dai cittadini durante la lotta contro l’occupazione nazifascista. Arezzo e la sua provincia furono particolarmente colpiti dalla strategia stragista degli occupanti subendo l’impressionante cifra di 3110 caduti fra combattenti e popolazione civile. La provincia è stata insignita della medaglia d’oro per “l’irriducibile opposizione al nemico da parte di agguerrite formazioni armate e delle patriottiche popolazioni di città e campagna, sui monti e le valli…”[1]. I partigiani aretini, un esercito di poco più di 3500 uomini e donne, riuscirono ad impegnare, sottraendoli dal fronte alleato, ingenti forze nazifasciste infliggendo loro pesanti perdite.

Il Monumento ai caduti della Resistenza è posto all’interno dei giardini antistanti la Prefettura, una collocazione strategica, facilmente accessibile, situata in prossimità della stazione e del centro storico.

 

“Il Popolo delle vallate aretine ai caduti per la Resistenza”.

 

L’opera fu commissionata dal Comune di Arezzo e realizzata dallo scultore brasiliano di origini italiane Bruno Giorgi intorno al 1975. Il monumento è dominato da una figura centrale di bronzo che si protende nell’aria con le braccia alzate appoggiata a due “X” bronzee. Colpiscono nel monumento questi arti alzati al cielo, che troveremo successivamente anche nel monumento ai caduti nella guerra di liberazione all’interno del Cimitero Urbano, che simboleggiano un atto di estrema violenza “per uscire dall’età e dal periodo che ha visto troppe persone divenire corpi senz’anima e troppi corpi divenire caduti”[2].

 

Uscendo da piazza Poggio del Sole ci dirigiamo verso piazza Guido Monaco e procediamo in direzione nord-est percorrendo l’omonima via fino all’incrocio con via Cavour. Giunti al bivio svoltiamo a sinistra e dopo pochi metri ci troviamo di fronte al liceo Classico-Musicale Francesco Petrarca. All’interno vi sono una lastra e un monumento che commemorano studenti e professori caduti durante la prima e la seconda guerra mondiale e la guerra civile spagnola.

 

Monumento agli studenti del liceo ginnasio Francesco Petrarca di Arezzo.

Il monumento è costituito da una struttura a nicchia in travertino al cui interno è collocata la scultura in bronzo di un eroe accompagnato in cielo da un angelo, sopra un’altra figura alata che porta, correndo, una fiaccola e in basso un soldato nudo morente giace al suolo con la spada rivolta all’indietro. Ai lati della nicchia vi sono due lastre rettangolari che riportano i nomi dei caduti nella Grande Guerra e successivamente è stata aggiunta una lastra con i nomi dei caduti del secondo conflitto mondiale. Tra gli allievi del liceo rimasti vittime durante la guerra del 1940-45 si annoverano Sante Tani, animatore e martire della Resistenza aretina (a cui è dedicato anche un bassorilievo che visiteremo successivamente), e Pio Borri, primo caduto della Resistenza ad Arezzo.

 

Lastra in ricordo degli alunni del liceo Francesco Petrarca caduti nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza.

 

A Pio Borri è stata dedicata anche l’aula magna del liceo in cui sono presenti in una parete dei cimeli che ricordano lo studente, compresa la motivazione della medaglia d’argento.

 

Cimeli in onore di Pio Borri.

 

Pio Borri fu il comandante della prima brigata partigiana formatasi spontaneamente, la “Vallucciole”, che nel corso di uno dei primi rastrellamenti in grande stile dei nazifascisti in Casentino, proprio in località Vallucciole l’11 novembre del 1943 fu arrestato, torturato, giustiziato e gettato in un fosso in mezzo alla neve. Successivamente in onore del proprio comandante la formazione partigiana prese il nome di XXIII Brigata garibaldina “Pio Borri”.

 

Continuando il nostro percorso in direzione nord-ovest prendiamo via Andrea Cesalpino e dopo cinque minuti si arriva al Palazzo del Municipio in Piazza della Libertà. Qui all’interno si trova una Lastra in ricordo delle forze Alleate entrate in città il 16 luglio 1944 e un bassorilievo in pietra dedicato a Sante Tani.

 

Lastra in ricordo delle forze Alleate.

Questa lastra posta in una parete interna del Municipio è un importante simbolo della liberazione della città dall’occupazione nazifascista. La mattina del 16 luglio 1944 alle ore sette l’antico campanone posto sulla torre del comune cominciò a suonare a distesa, seguito dopo poco dalle altre campane cittadine e della campagna circostante, valido segnale per gli Sherman, i carri armati alleati, che nella tarda mattinata entrarono nella città ormai libera. Sulla targa è riportato un messaggio, scritto sia in italiano che in inglese, di gratitudine verso le forze Alleate per il loro fondamentale contributo.

 

Nel cortile del Municipio troviamo il bassorilievo dedicato a Sante Tani, primo fondatore e capo indiscusso dell’antifascismo aretino. Nato a Rigutino in provincia di Arezzo il 3 aprile 1904 e barbaramente trucidato sempre ad Arezzo il 15 giugno 1944, insignito della medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

 

Cortile del Municipio.

Bassorilievo dedicato a Sante Tani: “A Sante Tanti, animatore e martire della Resistenza, la Democrazia Cristiana al comitato antifascista nel trentesimo della liberazione”, 1974, Palazzo comunale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figlio di Angiolo Tani ed Elisa Meacci, Sante Tani fin da giovane fu aperto oppositore del fascismo. Si laureò in giurisprudenza a Roma e una volta rientrato ad Arezzo operò come agitatore e cospiratore in contatto con esponenti di tutti i partiti politici clandestini. Il 25 aprile del 1942 venne processato per le sue idee politiche e assegnato per quattro anni al confino in provincia di Benevento. Il fascismo cadde prima della conclusione della sua condanna ed egli, tornato ad Arezzo, dopo l’8 settembre del 1943 fu nominato presidente del Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista (CPCA). Prese anche parte direttamente alla lotta armata dirigendo alcune formazioni partigiane. Caduto in mano ai tedeschi, il 30 maggio 1944 a Casenovole insieme al fratello don Giuseppe e all’amico Aroldo Rossi – ventinovenne, commerciante aretino -, riuscì a resistere per diciassette giorni alle torture, alternate alle offerte di libertà in cambio di informazioni. Il Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale (CPLN) organizzò la loro evasione dal carcere per il successivo 15 giugno, ma l’operazione fallì e lo stesso giorno Sante insieme al fratello e al giovane Rossi furono barbaramente trucidati nella cella dove erano rinchiusi. Morirono anche due partigiani, il tenente belga Jean Mauritz Justin Meuret (al quale è stato eretto un cippo commemorativo ad Arezzo nella strada che porta verso San Domenico) e Giuseppe Oddone, che insieme ad altri avevano tentato inutilmente di attuare il piano di evasione.

 

Usciti dal Municipio costeggiamo il Prato della Fortezza Medicea percorrendo viale Bruno Buozzi per circa un chilometro fino ad arrivare al Cimitero Urbano dove è presente all’ingresso il Monumento ai caduti nella guerra di Liberazione.

 

Monumento ossario dei caduti per la libertà, “Arezzo ai 792 caduti durante la guerra di liberazione, partigiani, vittime per rappresaglia nazifascista, caduti per fatti di guerra settembre 1943 luglio 1944”.

Il monumento è un’opera commemorativa dedicata a tutti i combattenti che persero la vita durante la seconda guerra mondiale. Esso è composto da un muro nel quale da una parte vi è un bassorilievo che raffigura i caduti in guerra e per rappresaglia nazifascista con una lastra dedicatoria, dall’altra vi sono grosse lastre con i nomi dei caduti, oltre 700 nomi.

Nel 1973 si formarono due comitati per l’erezione dei più conosciuti monumenti ai caduti di Arezzo, l’Ossario ai caduti per la libertà, opera dello scultore Firenze Poggi ed il Monumento alla Resistenza dello scultore Bruno Giorgi (primo monumento incontrato durante il nostro itinerario). Entrambi i monumenti furono inaugurati in occasione delle celebrazioni del trentennale della Liberazione di Arezzo.

La scelta di collocare il monumento all’interno del cimitero urbano aggiunge un ulteriore livello di solennità e rispetto: questo luogo, già dedicato alla memoria dei defunti, diventa anche un santuario per ricordare i caduti della Resistenza. Colpisce in questa scultura la rappresentazione di questi corpi senza volto che sembrano voler lottare per liberarsi dall’agonia che li costringe[3]. Sono corpi addossati l’uno all’altro, chi in movimento, chi accasciato, chi con le braccia protese in alto “come a voler rompere il momento di disperazione”, le stesse braccia che si allungano, come abbiamo visto, nel monumento alla Resistenza in Piazza Poggio del Sole.

 

Dal Cimitero Urbano procediamo in direzione sud-est e percorriamo via Francesco Redi per circa 20 minuti, svoltando a sinistra in via Francesco Severi possiamo scorgere in un edificio all’altezza del primo piano, posta sul muro esterno, la Lapide del Fiume, una lapide marmorea con elementi di rilievo collocata a perenne ricordo dei partigiani Giuseppe Mugnani, Corrado Luttini e Quinto Genalti. I primi due furono partigiani di Sansepolcro della formazione “Eduino Francini” fucilati a Villa Santinelli di San Pietro (Città di Castello), il 27 marzo 1944 (ad entrambi è stata conferita la medaglia di bronzo al valor militare alla memoria)[4];  mentre il terzo Quinto Genalti, perse la vita nella strage di San Polo, l’eccidio commesso dalle truppe naziste in ritirata dall’aretino il 14 luglio 1944, due giorni prima della liberazione della città.

Dopo la guerra, nel 1961, la comunità di Arezzo decise di onorare la memoria di questi partigiani non ancora ventenni, nati ad Arezzo, con una lapide per mantenere vivo il ricordo di questi eroi locali che combatterono contro l’oppressione nazifascista, spesso a costo della propria vita.

(Alzando lo sguardo quando siamo lì dedichiamoli un pensiero).

 

Lapide del Fiume, “Il fiume ai partigiani, Giuseppe Magnani, Corrado Luttini, Quinto Genalti, caduti eroicamente per la libertà nel 17° del proprio sacrificio”.

 

Tornando indietro per via Francesco Severi, all’incrocio con Viale Redi svoltiamo a sinistra in via Eugenio Calò fino ad arrivare all’incrocio con via Anconetana, giunti al bivio svoltiamo a destra e percorriamo poche centinaia di metri fino a quando sulla sinistra troviamo il cippo commemorativo ad Eliseo Brocherel.

 

Cippo ad Eliseo Brocherel.

 

Giovane partigiano di appena 23 anni ucciso da un fascista repubblichino, Domenico Pancacci, per essersi rifiutato di fornire informazioni sui partigiani e sugli esponenti della Resistenza. Era il 6 giugno 1944 quando Eliseo Brocherel fu ammazzato con due colpi alla schiena. In sua memoria nel luglio 1964 in via Anconetana – luogo in cui avvennero i fatti – venne eretto un cippo. La stele che non versava in un buono stato di conservazione, come possiamo vedere dalla foto, è stata restaurata nel giugno del 2023.

 

Anche se non riguardano propriamente la Resistenza, ma sempre commemorativi ai caduti della seconda guerra mondiale, abbiamo inserito nel tour altre due tappe per rendere più uniforme il nostro percorso: il Monumento ai caduti dell’artiglieria e il Monumento ai caduti del mare.

Lasciato alle spalle il cippo di Brocherel proseguiamo in direzione nord-ovest, svoltiamo a sinistra e dopo pochi passi in via del Pantano ci immettiamo in via Raffaele Sanzio che percorriamo in direzione sud-ovest fino ad arrivare ad una rotonda dove svolteremo a destra su Viale Giotto. Dopo aver percorso pochi metri troviamo sulla sinistra una piccola area verde al cui interno è collocato il Monumento ai caduti dell’Artiglieria. Si tratta di un cannone in bronzo e ferro di colore verde militare che poggia su una piattaforma di cemento. Il monumento vuole rendere omaggio a tutti coloro che hanno dato la vita per difendere il paese combattendo contro mezzi terrestri e aerei per proteggere i confini.

 

Monumento ai caduti dell’artiglieria.

 

Poi percorriamo viale Giotto fino ad arrivare all’incrocio con viale Luca Signorelli, dove giriamo a destra fino a giungere largo Inigo Campioni, qui vi è un piccolo parco all’interno del quale è posto il Monumento ai caduti del mare. Il monumento è costituito da una base di pietra triangolare, su cui è posta un’altra pietra di forma piramidale simile ad uno scoglio, che sostiene una grande ancora di ferro, con la sua catena. Su una lastra di pietra posta davanti vi è la scritta “Arezzo ai caduti del mare”.

 

Monumento ai caduti del mare.

 

 

 

 

 

 

L’itinerario prosegue in direzione nord prendendo il viale Andrea Sansovino e svoltando poi a sinistra giungiamo in piazzetta San Niccolò dove si trova il Cippo in memoria di Isolina Boldi e Anna Lisa Innocenti, due donne, madre e figlia, vittime della ferocia della guerra. Un monumento inaugurato nel settantesimo anniversario dall’eccidio, che ricorda una vicenda terribile, legata ad uno dei tanti crimini compiuti dai nazisti nel territorio aretino.

 

 

Il Cippo di San Niccolò: “Isolina Boldi e Anna Lisa Innocenti, madre e figlia, il 3 luglio 1944 nel difendersi con coraggio caddero vittime della ferocia nazista nell’eccidio di Toppo Fighine di Policiano, per non dimenticare la figlia Vanda Innocenti dona al comune di Arezzo, 3 luglio 2024”.

 

Le truppe tedesche, sospinte dall’avanzata degli alleati, si ritiravano verso nord attestandosi su linee difensive sempre più arretrate con l’unico scopo di ritardare quanto più possibile la linea del fronte, così da ultimare la costruzione della Linea Gotica, ultima risorsa tedesca per bloccare l’avanzata degli angloamericani. Durante la ritirata i tedeschi, come lupi affamati, razziavano portandosi via generi alimentari, animali, e qualsiasi bene materiale che trovavano nelle case coloniche sparse per la campagna. In una di queste case dove si era rifugiata, scappando dai bombardamenti nella città di Arezzo, la famiglia Innocenti, il 3 luglio del ’44 fecero irruzione due soldati tedeschi. In quel momento in casa c’erano le figlie Adriana e Anna Lisa e la madre Isolina. Quest’ultima intuendo le intenzioni dei due uomini, che avevano invitato le ragazze a seguirli in camera da letto, tentò di opporsi ma una mitragliata la colpì insieme alla figlia Anna Lisa che rimasero inermi sul pavimento. Anche Adriana rimase ferita alle gambe ed uno dei due tedeschi volendole dare il colpo di grazia le sparò con la pistola all’addome. I due militari credendole tutte e tre morte se ne andarono via. Ma Adriana rimase solo ferita in quanto la pallottola perforandole il rene uscì dalla schiena. Solo nella tarda mattinata del giorno successivo fu trovata dagli abitanti della zona e fu portata all’ospedale di Cortona. La ragazza si salvò e raccontò questa sua terribile storia in un manoscritto inedito da cui Enzo Gradassi ha riportato l’avvenimento nel testo “Innocenti. Un eccidio aretino nel 1944”, edito da “Le Balze”[5].

 

Lasciando l’ultimo monumento alle spalle delle due donne barbaramente uccise, nella via di ritorno molto probabilmente le tristi e sofferenti storie dei caduti della Resistenza rimbalzeranno nella mente rendendoci consapevoli che la memoria è necessaria: dobbiamo ricordare perché le cose che si dimenticano potrebbero ritornare (Mario Rigoni Stern).

 

Questo “percorso-resistente” si effettua in circa due ore di cammino che può variare in conseguenza al tempo che ognuno di noi decide di soffermarsi davanti ai vari luoghi della memoria.

 

NOTE:

[1] Motivazione di concessione della Medaglia d’oro per attività partigiana.

[2] Massimo Baioni e Camillo Brezzi (a cura di), Memorie scolpite. Itinerari tra i monumenti alla Resistenza nella provincia di Arezzo, Maschietto e Musolino, Arezzo 2000, p. 30.

[3] Ibidem.

[4] Nella notte dal 24 al 25 marzo un gruppo di partigiani toscani della formazione di Eduino Francini, che agiva sui monti di Sansepolcro e che era di passaggio per la zona, occuparono per qualche giorno Villa Santinelli. Scoperta la loro presenza, furono assediati e costretti alla resa da ingenti truppe fasciste e da un reparto corazzato tedesco. Dei 18 componenti della banda, 9 furono fucilati, 4 incarcerati, gli altri riuscirono a sfuggire alla cattura.

[5] Enzo Gradassi, Innocenti. Un eccidio aretino nel 1944, Le Balze, Montepulciano 2006.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel settembre 2024.