Cesare Lodovici direttore di «Alalà!» settimanale del Fascio carrarese di combattimento

La ricorrenza del centenario dei fatti di Sarzana è stata un’occasione importante per rileggere e fare il punto (si veda il convegno di studi Resistenza ante litteram. 1921-2021. A cent’anni dai “Fatti di Sarzana”, Sarzana, 16-17 luglio 2021) su un episodio significativo, quasi una momentanea battuta d’arresto, nell’ascesa e nell’affermazione del fascismo in Italia e in particolare nella zona di confine tra Liguria e Toscana dove – proprio a Sarzana – il movimento tardò a prendere piede. Episodio che gli squadristi si affrettarono a definire “eccidio” ma che fu piuttosto un’opposizione ferma delle forze dell’ordine intervenute in quell’occasione e di resistenza popolare, poi, di fronte all’ennesimo assedio che i fascisti tentarono sulla città, questa volta per liberare dal carcere Renato Ricci arrestato il 17 di quello stesso mese.
Tra le tante testimonianze che i giornali si affrettarono a pubblicare nei giorni successivi agli scontri, restava tuttavia parzialmente inedita una lunga e dettagliata cronaca dello scrittore Cesare Vico Lodovici (Carrara, 18 dicembre 1885 – Roma, 24 marzo 1968) e allo stesso modo restava quasi del tutto sconosciuta la sua partecipazione allo squadrismo apuano e all’azione del 21 luglio di cui è, appunto, testimone oculare.
Quasi del tutto perché già nel 1992 lo storico tedesco Roger Engelmann nel libro, mai tradotto in italiano, Provinzfaschismus in Italien. Politische Gewalt und Herrschaftsbildung in der Marmorregion Carrara 1921-1924 (R. Oldenbourg Verlag, Munchen, 1992) indica Lodovici tra i membri del Fascio di Combattimento di Carrara e caporedattore di «Alalà!», settimanale ad esso collegato, che lo scrittore dirige per poco più di due mesi tra il 30 luglio e l’8 ottobre 1921.
Ed è proprio sul numero di «Alalà!» del 30 luglio 1921 che esce il suo resoconto su Come si svolsero i fatti di Sarzana, (ripreso subito dopo da «L’intrepido: settimanale del Fascio di combattimento lucchese» del 14 agosto 1921) a quasi dieci giorni di distanza dagli scontri, sul numero 2 anno I del periodico dove il suo nome figura nell’ultima pagina in basso a destra, nel ruolo di direttore insieme con quello di Lodovico Canepa che ne è gerente responsabile, mentre sul numero precedente del 16 luglio 1921, che corrisponde dunque alla prima uscita del settimanale, il titolo di direttore era affidato al solo Canepa; ed è forse questo il motivo per cui nel regesto di Massimo Bertozzi, La stampa periodica in provincia di Massa Carrara, nella scheda sintetica su «Alalà!», Lodovici non è menzionato (Pacini, Pisa, 1979, pp. 170-171).
Eppure, come emerge dai suoi interventi, il ruolo dello scrittore all’interno del Fascio di combattimento di Carrara non deve essere stato affatto secondario, pur non avendo ricoperto particolari posizioni di comando; né può dirsi anonima l’impronta che la sua direzione imprime al giornale in questo brevissimo ma cruciale lasso di tempo.

Lodovici_La_donna_di_nessunoAllo stesso modo non è trascurabile il ruolo di Lodovici negli ambienti letterari e culturali di quel primissimo scorcio degli anni ‘20 soprattutto per l’eccezionalità delle relazioni che seppe intrecciare e la singolarità della sua scrittura teatrale grazie alla quale il suo nome è ancora citato nelle storie del teatro del Novecento. Amico di Pirandello, di Montale e di Gobetti (solo per citarne alcuni) seppe promuovere presso l’editore torinese, insieme con Sergio Solmi, la pubblicazione del volume degli Ossi di seppia, libro d’esordio di Montale, uscito nel 1925. Del resto Gobetti fu anche editore de L’idiota (1923), uno dei testi teatrali più conosciuti di Lodovici insieme con La donna di nessuno (1920). Infine, bisogna ricordare che ancora oggi è sua la traduzione più accreditata di tutto il Teatro di Shakespeare pubblicato da Einaudi (1965).
Forse a causa di una certa settorialità degli studi, dunque, o forse perché lo stesso Lodovici fin dal 1935, anno in cui si trasferisce a Roma per lavorare come consulente artistico presso l’Ispettorato del teatro, visse appartato con un’accettazione silente ma sofferta del regime fino a quando, nel secondo Dopoguerra, assunse l’incarico di critico teatrale per il quotidiano «La Giustizia», organo del Partito socialista democratico italiano.

La sua adesione al Fascio di combattimento di Carrara e al Partito fascista è comunque facilmente inquadrabile e presenta caratteristiche per certi versi comuni a quella di molti altri intellettuali dell’epoca: reduce dalla Prima guerra mondiale, nella quale aveva perso il fratello minore Vico e guadagnato due medaglie al valore dopo essere stato vittima dei gas asfissianti, nel 1917 Lodovici aveva scontato un anno di prigionia nel carcere di Theresienstadt, in Boemia; laureato in legge, ma scrittore e autore teatrale per vocazione, alle idee liberali univa un forte spirito antiborghese; a ciò si aggiunga, a chiudere il quadro, l’appartenenza a una famiglia di industriali del marmo che a Carrara, come molte altre e più potenti famiglie del comprensorio apuano, Lodovici_L'Idiotapartecipavano strategicamente alla vita politica cittadina aderendo all’una e all’altra organizzazione per mantenere inalterata la propria influenza intorno al tema cruciale del possesso degli agri marmiferi. Negli anni di cui ci stiamo occupando, la crisi politico-sociale del dopoguerra aveva infatti accentuato le aspirazioni delle masse popolari e dei cavatori verso la riappropriazione delle cave, anche in seguito alla proposta di legge mineraria presentata alla Camera dall’on. Eugenio Chiesa il 22 marzo del 1920.
A Carrara il sindaco Edgardo Lami Starnuti non seguì la politica del Ministro, anch’esso repubblicano, e la lotta politica per il possesso delle cave passò nelle mani della Camera del Lavoro di cui in quegli anni era segretario Alberto Meschi. Quest’ultimo, in una Lettera aperta a Benito Mussolini individuava negli esponenti delle famiglie proprietarie degli agri marmiferi i sostenitori e gli aderenti allo squadrismo: Ghino Faggioni e Gualtiero Betti fra tutti e poi quelli che ruotano intorno a questo sistema socio-politico: i Corsi, i Giorgi, i Lodovici, gli Ascoli, i Salvini, i Gattini, i Dell’amico, tutti nomi di famiglie già presenti e poi elette nel Direttivo del Partito liberale a partire dal maggio del 1921.

Ritratto di Lodovici

Ritratto di Lodovici

A gennaio di questo stesso anno, anche Renato Ricci era rientrato in città da Fiume e, iscritto inizialmente al fascio di Pisa, dopo aver fondato l’Associazione dei Reduci fiumani, esordisce nella politica locale all’interno della già menzionata Associazione Democratica Liberale Carrarese che si stava organizzando, appunto, in vista delle elezioni politiche indette per il 15 maggio, dopo lo scioglimento della Camera voluto da Giolitti a fine febbraio. Oltre a Ricci, il «Giornale di Carrara» del 9 aprile 1921, organo di stampa del partito, indica nel nuovo consiglio direttivo liberale anche Tommaso Lodovici, fratello maggiore dello scrittore, poi eletto nel Consiglio comunale presieduto dal sindaco repubblicano Lami Starnuti.
Le elezioni politiche passeranno però in secondo piano dopo che lo stesso Ricci, il 12 maggio di quell’anno, fonda a Carrara la sezione locale dei Fasci di combattimento in cui confluiscono sia gli ex-legionari fiumani sia alcuni membri dell’appena rinnovato Partito liberale.
Nei mesi successivi i giornali locali iniziano il racconto degli scontri e delle violenze che da quel momento in poi furono all’ordine del giorno, così come gli atti provocatori e le vendette che lo squadrismo locale organizzò nel territorio apuano contro socialisti e anarchici e, all’inizio dell’anno successivo, all’interno dello stesso movimento fascista provocando la fine dell’alleanza tra liberali e repubblicani e la conseguente caduta dell’amministrazione Lami Starnuti a gennaio del 1922: a questo punto la spaccatura tra squadristi intransigenti e normalizzatori fu insanabile.
Lodovici appartiene chiaramente alla seconda delle due, all’ala moderata del partito come si deduce dai suoi interventi sulle colonne di «Alalà!»: favorevole ai Patti di pacificazione, egli conferma più volte la sua posizione statalista e pubblica accorati appelli alla disciplina in cui chiede con forza la fine della violenza.
La sua fiducia nel capo, anche dopo le dimissioni di Mussolini, non verrà mai meno – almeno in questo periodo – ed egli tenta più volte di riportare all’unità le divergenze interne al movimento, per cui fu uno dei sostenitori della necessità di trasformare il movimento dei Fasci di combattimento in un vero partito politico, cosa che accadrà a Roma il successivo 8 novembre.
L’azione politica del nuovo partito dovrà basarsi, secondo Lodovici, su un programma di rinnovamento civile e sociale a partire dalla questione che, più di ogni altra a Carrara, aveva scatenato gli scontri tra fascisti, socialisti e anarchici: il controllo degli agri marmiferi e il commercio del marmo che non potevano essere separati dal controllo della Camera del Lavoro. Ai primi di settembre, infatti, i fascisti annunciano la costituzione della Camera Carrarese dei Sindacati Economici invitando gli operai ad associarsi e a ritirare le tessere.
Lo scontro allora fu inevitabile: alcuni industriali iniziarono ad esigere la tessera fascista e a licenziare chi, invece, continuava ad avere quella della Camera del Lavoro. Nel mese di settembre la violenza, mai veramente cessata, diventò di nuovo lo strumento principale della politica fascista e fu diretta ancora più apertamente contro i rappresentanti del sindacato.

Lodovici in auto [1923]

Lodovici in auto [1923]

Ad ottobre Renato Ricci concedeva ad Alberto Meschi due ore di tempo per lasciare la città e sgomberare l’edificio in cui aveva sede la Camera del Lavoro.
A questo punto Lodovici pubblica su «Alalà!» ancora un paio di articoli: il 20 settembre partecipa alla manifestazione per la Solenne Consegna del Gagliardetto al Fascio Carrarese di Combattimento e prende la parola con Ricci, Faggioni e Dino Perrone Compagni per ricordare i termini della lotta tra il Sindacato e la Camera del lavoro.
Sarà uno dei suoi ultimi contributi perché l’8 ottobre del 1921 pubblica il suo Congedo in una lettera in cui saluta Renato Ricci, defilandosi così dall’esperienza squadrista e dalla direzione del giornale.
Sul numero successivo, del 15 ottobre 1921, Lodovici non è più indicato come direttore del settimanale, la grafica del periodico è completamente cambiata e l’unico gerente responsabile è di nuovo Lodovico Canepa. Anzi il 29 ottobre, quando Lodovici interviene con un ultimo articolo, una nota della direzione precisa che quell’articolo non impegna alcun fascista a dover condividere tutte le idee esposte.
Nel 1923 Lodovici tentò ancora una volta, ma senza successo, di riconciliare le due correnti del fascismo carrarese quando Ricci si scontrò con il nuovo sindaco di Carrara, Bernardo Pocherra, costringendo alle dimissioni lui e l’ala liberal-conservatrice del partito.
Probabilmente, già a questa altezza cronologica, la fiducia che Lodovici poteva ancora riporre in una possibile svolta liberale del fascismo doveva essere minima e ciò spiega in qualche modo sia la solidarietà e l’amicizia dimostrata a Piero Gobetti sia il suo impegno nella direzione del «Quindicinale», rivista da lui fondata a Milano nel 1926 con Enrico Somarè, che non fu certamente su posizioni filo-fasciste.
È significativa, in questo senso, una lettera da Viareggio del 9 giugno 1923 in cui Lodovici esprime a Gobetti la sua solidarietà: «Ho sentito le sue disavventure; in parola d’onore io non capisco più il mondo – come quel legnaiolo di Hebbel nella Maria Maddalena. Ma: passerà. Io sono convinto che il liberalismo illuminato sarà l’erede del fascismo
Il 19 luglio del 1930 è ancora di Lodovici la firma in calce alla Vibrante e commossa rievocazione dei fatti di Sarzana pubblicata su «Il popolo apuano», organo della federazione provinciale fascista, per commemorare i morti del 21 luglio; ma già nell’autunno del ‘21, quando si congedava da Ricci, Lodovici doveva aver compreso che il liberalismo illuminato sarebbe arrivato probabilmente solo dopo la fine del fascismo.

Le foto pubblicate in questo articolo sono del prof. Gualtiero Magnani di Carrara, che ringraziamo per la gentile concessione. Ogni altro uso, condivisione con terzi e riproduzione non sono consentite.




Le donne delle «razze inferiori» secondo «La Difesa della razza».

Il 1938 è un anno di svolta per il fascismo di Mussolini, questa data rimane ancora oggi un simbolo di immodificabile cambiamento che ha dato un identificabile e mostruoso volto legislativo all’antesemitismo fascista, al razzismo rivolto verso i popoli di colore e alla xenofobia subita dalle popolazioni considerate inferiori. Il fascismo italiano con una retorica ambigua e molto spesso contraddittoria dovette fare i conti con la propria intrinseca incapacità di creazione di una forte e chiara ideologia che non riuscì mai ad avere mai nitidi punti fermi e basi teoriche riconosciute e forti o create ad hoc su cui fondare una forte dottrina di regime. Il fascismo appare così un totalitarismo imperfetto, una dittatura in continuo mutamento caratterizzata da un tenace opportunismo che le permetteva di modificarsi e di conseguenza modificare idee e ideali continuamente vivendo e diffondendosi in una realtà di forte contraddizione e ambiguità.

Copertina 20 marzo 1940La Rivista divulgativa «La Difesa della Razza» diretta dal giornalista siciliano Telesio Interlandi e pubblicata per la prima volta nell’agosto 1938 aiutò in questo senso il fascismo di Mussolini, essa accentuò cristallizzandoli gli stereotipi viventi tra la popolazione italiana cercando di creare in questo modo una forte ideologia che non ammettesse sfumature e potesse giustificare così le scelte antisemite e razziste che in quel momento la dittatura aveva il bisogno e l’opportunità, per rafforzarsi, di promulgare[1].
La Rivista pertanto nasce in quel fatidico 1938 diventando il filo rosso che accomuna diverse azioni politiche operate dal regime nel corso degli anni: la dichiarazione della nascita dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana nel ’36, la divulgazione del Manifesto degli scienziati razzisti il 14 luglio 1938 e infine la promulgazione delle Leggi Razziali nell’ottobre del medesimo anno. Il periodico, dal 5 agosto ’38 data di pubblicazione del primo numero al giugno del ’43 quando uscirà l’ultimo numero, sotto gli auspici del Ministero della Cultura Popolare diretto da Dino Alfieri ebbe il preciso scopo di elaborare una dottrina scientifica che trovasse una logica giustificazione alla politica coloniale fascista e all’antisemitismo diventato di Stato e di conseguenza la biologia e le Leggi di Natura diventarono una sorta di lasciapassare per la dimostrazione dell’esistenza di razze inferiori e superiori; logica questa supportata da leggi pseudoscientifiche intrise da secolari pregiudizi razzisti.
La categorizzazione e quindi la discriminazione non si fermarono però al livello della suddivisione biologica delle razze, interesse che aveva caratterizzato “l’antropologia scientifica” in tutta l’Europa settecentesca[2]; questi due elementi riescono ancora a scavare, fino a raggiungere gli strati più deboli che vivono in una determinata società e creare, se è ancora possibile, differenze e alterità. Mi riferisco alla misoginia e al sessismo intrinseci anche nelle pagine della Rivista: il genere femminile viene sempre discriminato e sentito come una minoranza debole da tutelare e da modificare a seconda dell’esigenza. Il disagio provocato dai rapidi cambiamenti che caratterizzarono l’Italia del primo dopoguerra vennero sfogati sulla dimostrazione di come le donne con la “D” maiuscola dovessero essere e dovessero comportarsi; esse divennero l’ago della bilancia su cui misurare la sostanza e l’essere di un determinato paese.

«La Difesa della Razza» si fa così portatrice e in un certo qual modo protagonista della svolta senza ritorno del regime nella diffusione del razzismo di Stato; diventando la divulgatrice ufficiale della dottrina scientifica della divisione dell’umanità in razze e della stereotipizzazione del ruolo dei diversi universi femminili all’interno della società. Elemento caratterizzante della Rivista è la crudezza, la crudeltà, la ripetitività di alcuni temi sviscerati fino all’esasperazione; essa fu il risultato di un radicale cambiamento nell’Italia del 1938, quando si passò infatti da un razzismo frammentario e disorganico a un razzismo di Stato, diventando così uno degli organi principali di propaganda del regime. Il linguaggio utilizzato ai fini della sensibilizzazione è infatti semplicistico e divulgativo per poter arrivare così a un più ampio e stratificato pubblico, ecco perchè sono soprattutto le immagini scelte ad avere un ruolo fondamentale: una iconografia razzista, violenta, con un intenso impatto emotivo; immagini che parlano da sole senza dover per forza leggere gli articoli fin troppo scontati e grotteschi.

CiprianiIl periodico trae linfa vitale dal Manifesto degli scienziati razzisti pubblicato alcuni mesi prima, il 14 luglio del ‘38, sul «Giornale d’Italia»: il Manifesto è redatto, sotto ordine di Mussolini in persona, dal giovane antropologo romano Guido Landra il quale è influenzato e in linea con le tesi di razzismo biologico di derivazione tedesca[3]. Il Manifesto diventerà così il punto di partenza della Rivista, la base ideologica a cui riferirsi e in cui credere ciecamente. I firmatari del famoso decalogo furono quasi tutte personalità affermate e conosciute nella società italiana degli anni Trenta; questi ricoprivano infatti ruoli fondamentali e prestigiosi nelle varie università e istituti di ricerca, come, ad esempio, l’antropologo fiorentino Lidio Cipriani (1892-1962). Quest’ultimo schierato nelle file dei razzisti biologici entrò fin da subito a far parte del comitato di redazione della rivista pubblicando per sei anni consecutivi articoli e resoconti dei suoi viaggi di studio nel continente africano e riportando così dettagliate descrizioni “antropologiche” razziste e sessiste riguardanti le varie popolazioni da lui studiate e incontrate[4]. Cipriani, infatti, in quanto professore universitario di antropologia e direttore del Museo Nazionale di Antropologia e di Etnologia dell’Università di Firenze[5], già nel 1938 è conosciuto, non solo negli ambienti accademici, ma anche al di fuori di essi per i successi dei testi da lui pubblicati come resoconti dei propri viaggi all’estero e precisamente in Africa[6]. L’antropologo rappresenta un punto di rottura con la precedente tradizione di studi antirazzisti mantegazziana caratterizzante l’essenza dell’Università di Firenze[7]; Cipriani infatti è a tutti gli effetti allineato con la logica razzista di regime e già nei suoi testi e articoli “scientifici” dimostra questa peculiarità; lo studioso fu fortemente convinto che la mescolanza e quindi il meticciato, portassero ad una inevitabile degenerazione razziale e che le popolazioni africane non rappresentassero uno stadio evolutivo primitivo ma che fossero i risultati di processi di regresso fisico e culturale dovuti all’unione di razze civilizzate con quelle inferiori. In realtà la crudezza di questo pensiero si palesa non tanto nella lettura dei testi e degli articoli prodotti dall’antropologo quanto dal corpus di fotografie da lui scattate durante i suoi viaggi, che lo ritraggono accanto a uomini, donne e bambini africani presentati come cavie. Il fondo fotografico è composto da oltre ventottomila negativi[8], tutti organizzati e selezionati dal Cipriani stesso, il quale utilizza con rigorosa precisione, delle didascalie esplicative che inducono ad una lettura sempre razzista della fotografia. I soggetti fotografati hanno infatti pose prestabilite che danno chiaramente indicazioni sul perchè essi debbano essere considerati come appartenenti ad una razza inferiore, ed espressioni costantemente timorose e rassegnate che testimoniano la violazione della loro libertà da parte dell’occhio indiscreto dell’antropologo (Fig. 1).

Donna di colore con bambinoMolte di queste foto che determinano il modus operandi dello studio sul campo di Cipriani sono infatti riprodotte, con nota alla fine di ogni articolo, su tutti gli scritti dell’antropologo pubblicati su «La Difesa della Razza». Le donne in particolar modo, vengono usate per diffondere la tesi di una degenerazione razziale insita nei popoli africani; concetto questo veicolato mettendo in rilievo negativamente la differente concezione della maternità africana rispetto a quella europea, o meglio italiana. Le madri africane, a parte rarissimi casi, sono ad esempio fotografate con i propri figli avvolti da un tessuto legato dietro la schiena, il pagne, e perciò criticate aspramente all’interno degli articoli come madri degeneri. Cipriani sa bene dove battere il colpo e sovverte così i valori tradizionali di maternità e famiglia per ribadire e ripetere ancora una volta l’idea di una troppo netta distanza tra “noi e loro”.

Le fotografie utilizzate dal periodico fanno quindi parte, per lo più, della collezione prodotta dallo stesso Lidio Cipriani che guarda le donne nere con gli occhi dello “studioso” indiscreto e le fotografa di conseguenza come delle povere cavie, nude e irrigidite. L’universo femminile nero, costituisce adesso una diversità, una alterità, rispetto alla popolazione italiana; esso è diverso per razza e per cultura, i loro usi e costumi non hanno  nessun punto di contatto con quelli dei colonizzatori. Le immagini utilizzate sono quindi efficaci e suggestive, vengono riprodotte spesso a tutta pagina e mostrano i volti eretti in posizioni innaturali, che con l’aiuto della luce e di posizioni artefatte riescono a risultare brutti e sgradevoli.

Le donne ricoprono un ruolo fondamentale all’interno delle pagine della Rivista poiché esse, come già accennato, diventano l’ago della bilancia con cui i collaboratori del periodico, legittimati da una cultura secolare di patriarcato e sessismo, possono giudicare attraverso i diversi universi femminili analizzati la moralità e quindi l’essenza, positiva o negativa, delle varie nazioni prese in esame. La maternità delle donne nere, in questo caso descritte dal lavoro del Cipriani, diventa il terreno più fertile su cui poter creare ad hoc il contrasto e l’alterità con l’universo femminile italiano. Un altro chiaro esempio della costruzione di un controtipo negativo di donna rispetto a quella italiana era stato quello di mostrare le indigene, nel rapporto con la propria prole, in azioni lontane, animalesche, rispetto al canone normativo vigente nella cultura europea. I figli vengono trasportati sulla schiena, quasi mai presi in braccio, e allattati allungando, almeno secondo i razzisti biologici, il seno della madre fino al bambino. Questi gesti andavano a creare, come abbiamo già avuto modo di vedere, una cesura netta con quell’universo normativo tradizionale e ormai integrato da secoli nella mentalità e nella storia della nazione italiana.

Anche i riti e le superstizioni propri della cultura indigena, diventano il simbolo di separazione netta tra noi e loro. Nell’articolo Riti eDonna bianca con bambino superstizioni dei popoli africani [9], vengono elencati tutti i casi in cui un bambino appena nato rischia la vita con «un nonnulla per effetto di superstizioni»[10]; ad esempio il neonato, nella cultura del Rhodesia, sarà ucciso, attraverso soffocamento o annegamento, se vagirà prima di essere completamente partorito; tutto questo per il bene della comunità, poiché la malasorte portatrice di malattie e sciagure si è già, in quel modo, manifestata alla nascita del piccolo. Le madri, sempre secondo Cipriani, non sono devastate da questo tipo di approccio, anzi esse «condannano i propri figli senza pensarci»[11] e continuano a perpetuare malsane usanze, sulla loro prole, come quella, vigente tra le tribù del Congo, di deformare «artificialmente la testa ai bambini dei due sessi onde assicurare loro una ricercata bellezza da adulti»[12]. Le immagini utilizzate, sono ancora più eloquenti quando vengono messe a confronto nel numero XI dell’anno 1940[13], due madri di “razza” diversa con dei piccoli in braccio: la donna africana è disturbata dal figlio che piangendo le avvicina la mano alla bocca, creando così in lei una smorfia che la rende poco gradevole alla vista, in più è a seno scoperto e decorata da gioielli tradizionali; al contrario la bella e bionda madre occidentale guarda invece verso il lettore sorridendo, con la testa appoggiata in modo premuroso su quella del figlio che stringe tra le braccia (Fig. 2).

Questa breve analisi chiarisce che anche uno studioso come Cipriani poteva inserirsi a pieno titolo, nonostante le sue smentite e autodifese durante i processi post 1945, nel gruppo degli intransigenti razzisti biologici; l’affermato antropologo infatti negò fin da subito l’accusa di essere, sebbene fosse presente il proprio nome, co-firmatario del decalogo e di conseguenza egli fu colpito solo superficialmente dalle leggi di epurazioni del secondo dopoguerra proseguendo indisturbato la sua carriera scientifica. Cipriani riuscì quindi anche a costruire un controtipo negativo di donna, in questo caso riguardante le donne africane, rispetto al contesto femminile italiano.

Gli esempi riportati nell’articolo cercano di indagare e di conseguenza illustrare al lettore come gli stereotipi sessisti e maschilisti riguardanti l’universo femminile italiano e non solo propagandati dalla rivista «La Difesa della razza» possano essere ancora oggi scovati e identificati nella nostra società di appartenenza, la quale vive nel mantenimento di quelle strutture culturali e normative ereditate e mai realmente modificate o eliminate dalla dittatura fascista e che hanno permesso ad un «fascismo eterno»[14] di influenzare e controllare ancora oggi la nostra società. Tutte le donne analizzate dal quotidiano anche se appartenenti a realtà o culture diverse da quella italiana si trasformano nei diversi numeri dei fascicoli in un universo rigido e monolitico poiché tutte, nessuna esclusa, vengono intese, concepite e qualificate esclusivamente dal loro ruolo/missione primaria che è quella di diventare prima delle buone ed esemplari mogli e poi delle brave madri capaci per natura di mantenere la stabilità familiare con il loro stoicismo e con il loro amore. Il luogo comune riguardante la prova del sacrificio e del dolore, due elementi biologicamente caratterizzanti tutte le donne, ancora oggi vive e prospera nel nostro immaginario collettivo; «La Difesa della razza» marcia su questo stereotipo utilizzandolo come giustificazione, come espediente alla reclusione forzata a cui costringe le proprie donne nella sfera domestica. La casa è l’ambiente naturale dell’universo femminile dove esso si realizza e dove più si sente a suo agio. Tutte quelle donne appartenenti invece a nazioni nemiche o estranee alla cultura della penisola italiana andranno a rispecchiare e diventare un controtipo negativo di femminilità saranno descritte e così concepite da «La Difesa della razza» come delle cattive mogli e delle madri degenerate.

Questo articolo è tratto dalla tesi di laurea magistrale in storia contemporanea intitolata Le donne delle «razze inferiori» secondo «La Difesa della razza»: un’analisi intersezionale di genere, discussa dall’A. nell’a.a. 2020/2021 presso l’Università di Pisa.

Note:
[1] Segretario di redazione della «Difesa della razza» fu Giorgio Almirante, nel secondo dopoguerra leader del MSI.
[2] G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 37.
[3] Cfr. F. Cassata, La Difesa della Razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino, Einaudi, 2008.
[4] G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, p. 178.
[5] P. Chiozzi, Autoritratto del razzismo: le fotografie antropologiche di Lidio Cipriani, in Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Bologna, Grafis, 1994, p. 91.
[6] Aveva pubblicato nel 1936 il libro dal titolo Un assurdo etnico: l’impero Etiopico, Firenze, R. Bemporad & F.o., 1936.
[7] P. Chiozzi, Autoritratto del razzismo: le fotografie antropologiche di Lidio Cipriani, p. 92.
[8] Ivi, p. 93.
[9] L. Cipriani, Riti e superstizioni dei popoli africani, in «La Difesa della razza», 20 marzo 1941, pp. 18-21. Testo nella sezione FONTI.
[10] Ivi, p. 18.
[11] Ivi, p. 20.
[12] Ibid.
[13] «La Difesa della razza», 5 aprile 1940, pp. 24-25.
[14] Cfr. U. Eco, Il fascismo eterno, Milano, La nave di Teseo, 2017.




Il governatore, il prefetto e il delegato.

Il tema delle sanzioni contro il fascismo è stato ampiamente studiato nel corso dei decenni scorsi, mettendo in risalto soprattutto gli elementi di continuità organica e istituzionale dello Stato italiano, oltre al sostanziale fallimento dei vari provvedimenti di legge adottati, privilegiando uno sguardo dall’alto e di ricostruzione politica degli eventi[1]. Nell’arco degli ultimi anni l’attenzione degli storici si è spostata sull’analisi dei soggetti attivi e passivi di questo passaggio fondamentale per la storia italiana, oltre che sul loro bagaglio culturale e sulle modalità performative del fenomeno, con l’obbiettivo di uscire dalle secche storiografiche della cosiddetta “epurazione” quale il vulnus originale del sistema democratico italiano[2]. Se ci accostiamo ad un caso esemplificativo come quello della provincia di Livorno è piuttosto immediato cogliere le ragioni di questo cambio di rotta nei lavori sul tema, a dimostrazione che la transizione non fu affatto solo, e fin da subito, una «burletta»[3]. Alla luce di tutto ciò prenderò in esame le tre figure che gestirono, con tempi e modi diversi, la defascistizzazione livornese: il tenente colonnello statunitense John F. Laboon, governatore alleato della provincia di Livorno tra l’estate del 1944 e la primavera 1945; il prefetto di carriera Francesco Biagio Miraglia, inviato a Livorno direttamente da Roma nell’agosto del 1944; e il delegato provinciale dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, l’avvocato ebreo e comunista Ugo Bassano.

Il tenente colonnello Laboon era un ingegnere civile militarizzato all’indomani dell’invasione dell’Italia, col preciso compito di doversi occupare della riorganizzazione logistica e amministrativa delle provincie appena liberate. Le sue presunte capacità nel settore derivavano dal fatto che aveva occupato diversi incarichi di responsabilità manageriale sia all’interno del sistema ferroviario della Pennsylvania sia come dirigente regionale della Work project administration, l’agenzia più importante per l’assistenza ai disoccupati e la rimessa in ordine dell’economia americana nell’ambito del New Deal. Prima di giungere a Livorno era stato brevemente governatore della città di Foggia e della provincia di Pescara, ripristinando in breve tempo le funzionalità del porto della città adriatica. Cattolico particolarmente devoto – dei 6 figli ben 4 abbracciarono la vita religiosa[4] – cercò di ostacolare in tutti i modi i partiti di sinistra orbitanti nel Comitato provinciale di Liberazione Nazionale (Cpln) di Livorno, accusandoli di essere la causa di ogni genere di disordine sociale presente sul territorio di sua competenza[5]. Questo dato è fondamentale da tenere in considerazione poiché il suo arrivo a capo del territorio toscano corrispose ad una netta inversione di tendenza da parte della Commissione Alleata di Controllo (Acc) in materia di defascistizzazione. Secondo gli Alleati, visti i pessimi risultati dei loro tentativi di bonifica dell’amministrazione pubblica nell’Italia meridionale, questo tema doveva essere gestito dal governo cobelligerante italiano, quello di Roma per intendersi, con un supporto esterno da parte degli enti di governo degli Alleati[6]. In prima battuta, quindi, la questione relativa all’allontanamento degli ex fascisti dai posti di lavoro doveva passare dalle mani dei prefetti, figure istituzionali gradualmente reinsediate al vertice delle province dal governo italiano nelle settimane successive alla liberazione dei capoluoghi. Inoltre Laboon si trovò a doversi confrontare con la defascistizzazione livornese all’indomani della pubblicazione del Decreto Legislativo Luogotenenziale (Dll) 27 luglio 1944, n. 159, quello che è stato giustamente definito la «Magna Charta delle sanzioni contro il fascismo»[7]. Per cui, rispettando le indicazioni che ricevettero in agosto i governatori militari alleati delle province italiane liberate, egli fece completo affidamento sul prefetto Miraglia, ammonendolo di iniziare con «urgenza»[8] l’epurazione amministrativa, al fine di tenere a bada l’ordine pubblico[9].

Il prefetto Francesco Biagio Miraglia

Il prefetto Francesco Biagio Miraglia

Miraglia giunse a Livorno nemmeno un mese dopo la liberazione della città, il 12 agosto 1944, toccando con mano il profondo stato di distruzione materiale e morale dell’intero territorio labronico. In un appunto per un collega di poche settimane più tardi espresse tutta la sua rassegnazione per la realtà nella quale era stato catapultato, lui che aveva trascorso quasi tutta la carriera tra gli uffici del Ministero dell’Interno. Miraglia era nato nel 1894 a Castrovillari (Cs), aveva partecipato alla Prima guerra mondiale e si era laureato nel 1919 in giurisprudenza. L’anno dopo era risultato vincitore del concorso per vicecommissari di polizia, salvo transitare quasi subito alla carriera prefettizia. Svolse i primi incarichi da consigliere di prefettura nelle sedi di Voghera, Cosenza e Reggio Calabria. Nel 1927 fu chiamato a lavorare presso il Ministero, dove nel 1941 divenne direttore generale del personale e, nel 1943, ispettore generale. Quest’ultima promozione coincise con la sua nomina a prefetto di 2ª classe, senza avere il tempo per poter esercitare l’incarico a causa della fine del regime fascista e dell’armistizio. Dopo la fuga del re e del governo da Roma, fu tra quei funzionari che rimasero in servizio al Viminale fin quando non venne chiesto loro di prestare giuramento alla Repubblica sociale italiana (Rsi) e prepararsi al trasferimento verso nord. Al suo rifiuto di collaborare con le autorità repubblicane corrispose il collocamento a riposo d’ufficio. In contatto con il fronte resistenziale romano durante tutto l’inverno 1944, la mattina del 4 giugno ricevette l’ordine di tornare subito in servizio e occuparsi della riorganizzazione del Ministero dell’Interno per preparare il ritorno in sede del governo italiano, fino ad allora a Salerno[10]. Miraglia si era dimostrato piuttosto freddo verso il regime fascista, nonostante l’adesione formale e il tesseramento al Partito nazionale fascista (Pnf), perciò l’Acc e lo stesso Ivanoe Bonomi, presidente del Consiglio e ministro degli Interni ad interim, lo selezionarono per andare a dirigere la provincia toscana, una delle più importanti per i piani strategici degli Alleati. Va detto che questa “restaurazione” nei ruoli dirigenziali della periferia non escludeva il fatto che il personale prefettizio fosse messo politicamente sotto esame per escludere la presenza di evidenti compromissioni con l’ex regime di governo. Le regole erano le stesse che valevano per l’epurazione delle altre categorie di funzionari statali, per cui era sufficiente che i prefetti non godessero di benemerenze fasciste, come l’essere stati squadristi o aver partecipato alla Marcia su Roma, e non avessero aderito alla Rsi. Non veniva presa in considerazione l’effettiva partecipazione del dirigente alla vita pubblica del fascismo – che era innegabile dato che costoro avevano ricoperto i maggiori ruoli di responsabilità nel meccanismo dello Stato fascista, come esemplificato dalla biografia di Miraglia – per una ragione sia pratica che politica. Per il governo italiano cobelligerante i prefetti rappresentavano l’ossatura dello Stato unitario, perciò, soprattutto nelle condizioni in cui versava l’Italia liberata dell’estate 1944, la loro presenza era considerata come l’unica in grado di garantire la sopravvivenza della nazione[11]. Il 5 settembre, in seguito all’invito del governatore Laboon di occuparsi dell’epurazione, il prefetto firmò una circolare diretta a tutti gli enti locali per informarli sul contenuto del Dll 27 luglio 1944 n. 159, e, in particolare, su che cosa fosse stato previsto per l’allontanamento di alcune categorie di ex fascisti dalle pubbliche amministrazioni, come gli squadristi o i collaborazionisti. Ciò che emerge dai carteggi tra Miraglia e i singoli enti per approvare, o rigettare, le sospensioni – che furono oltre 80 solo nel primo mese di entrata in vigore del Dll, raddoppiando alla fine dell’inverno successivo – risulta che il prefetto considerasse la questione epurativa come estremamente chiara. Secondo lui, ma ritengo che si possa giustamente estendere questa considerazione a molti funzionari pubblici che esercitarono ruoli di responsabilità in quel determinato frangente storico, dal momento che esistevano delle norme nazionali che regolavano un tema così delicato come quello delle sanzioni agli ex possessori di titoli onorifici del regime, l’unica scelta possibile per coloro che erano chiamati a gestire il complesso processo di defascistizzazione era applicare le regole così come erano scritte[12].

Ovviamente, il lavoro di Miraglia era solo preliminare, visto che non si trattava di entrare nel merito dei singoli casi, giudicarli e comminare una pena. Per questo passaggio, sempre sulla scorta del Dll 27 luglio 1944, n. 159 era stato creato l’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo con le sue ramificazioni provinciali, le delegazioni provinciali. A capo di quella livornese venne posto l’avvocato ebreo e comunista Ugo Bassano, già consigliere giuridico del Cpln ed elemento di collegamento con il governo militare alleato (Amg) diretto da Laboon. Il suo profilo biografico è piuttosto illuminante della sua personalità: proveniente da una famiglia dell’antica borghesia ebraica livornese, si era laureato in giurisprudenza nel 1931, iniziando da subito ad a fare l’avvocato. Nel 1938, in seguito all’emanazione delle leggi razziali, fu privato della possibilità di esercitare in proprio, venendo assunto da un altro avvocato ebreo livornese, Giuseppe Lumbroso, che si era convertito al cattolicesimo nel 1936 ed aveva ottenuto la “discriminazione” per poter continuare con la professione. Questo lavoro semiclandestino si adattava male ad una mente brillante come la sua, perciò accettò una borsa di studio per trasferirsi a Washington ed approfondire così gli studi in legge. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale gli precluse la strada dell’espatrio, costringendolo a rimanere a Livorno fino alla primavera del 1943. In questo periodo, grazie ad un incontro casuale con Lanciotto Gherardi – futuro commissario politico livornese –, si avvicinò al Partito comunista italiano (Pci), rimanendo comunque appartato anche dopo l’8 settembre per la sua appartenenza religiosa. Non prese parte attiva alla lotta clandestina e si trovò a vagare senza meta per la Toscana durante i mesi dell’occupazione nazifascista[13]. In base a quello che ho precedentemente detto del rapporto tra Laboon e il Cpln è naturale chiedersi come mai una figura come quella di Bassano venne scelta per gestire fattivamente la defascistizzazione livornese. A mio avviso per due ragione: la prima di ordine politico, e riguarda i mesi della prima crisi del governo Bonomi, con l’uscita dal governo di socialisti e azionisti e la tenuta dei comunisti[14]; l’altra, di tipo pratico, riguarda il fatto che Bassano si dimostrò particolarmente affidabile e degno di fiducia agli occhi di Laboon e Miraglia nei sui compiti precedenti di collegamento tra l’Amg, la prefettura e il Cpln[15]. La nomina ufficiale di Bassano a delegato provinciale dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo avvenne il 19 dicembre, e fu accompagnata da una lettera da parte dell’Alto commissariato aggiunto per l’epurazione, il comunista Mauro Scoccimarro, che gli intimò di «iniziare immediatamente […] un’oculata istruttoria ai fini del giudizio di epurazione»[16] per tutte le pubbliche amministrazioni della provincia. Il suo compito, così come definì lui stesso alcune settimane più tardi in un’intervista per il neonato quotidiano livornese «Il Tirreno», era quello di «un Pubblico Ministero che prende le sue decisioni, ma non fa parte del Tribunale»[17]. I giudizi finali, infatti, sarebbero spettati ad un’apposita commissione presieduta da un magistrato togato, coadiuvato da un membro scelto dalla delegazione e uno di nomina prefettizia. Oltre ad occuparsi delle sole sanzioni amministrative, Bassano, in virtù delle revisioni alla legislazione sulle sanzioni contro il fascismo, seppe gestire anche le sanzioni di tipo fiscale, le cosiddette indagini sugli “illeciti arricchimenti”, e quelle di tipo penale, vale a dire le indagini sui “crimini fascisti”, rendendo la delegazione provinciale la vera e unica macchina della defascistizzazione della periferia livornese[18].

Ugo Bassano

Ugo Bassano

Questa breve analisi su tre delle figure principali della defascistizzazione livornese, vale a dire il primo governatore alleato della provincia, il prefetto e il delegato dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo permette, a mio parere, di cogliere alcuni dati fondamentali. In primo luogo, l’importanza delle biografie di coloro che gestirono fattivamente il passaggio dal fascismo alla democrazia all’indomani della Liberazione in periferia, oltre ai loro legami personali e ai differenti rapporti di forza, e appartenenza, politica. Secondariamente, la complessità di un fenomeno in continuo divenire e che si dovette confrontare con la relativa “fascistizzazione” dei territori, le ferite dello squadrismo (1919-1922) e della guerra civile (1943-1945). Tutto ciò dimostra quanto sia importante non limitarsi a giudicare la transizione solo sulla base degli effetti di precise scelte politiche, come l’amnistia del 22 giugno 1946, bensì cercare di andare oltre alle perplessità verso il «colpo di spugna sui crimini fascisti»[19] e cogliere quelle continue tensioni tra continuità e innovazione, teoria e prassi, centro e periferia, che segnarono l’avvio dell’esperienza repubblicana in Italia[20].

 *Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze. Dottorando del XXXVII⁰ ciclo di studi (2021-2024) in Scienze archeologiche, storico-artistiche e storiche presso l’Universita degli Studi di Verona.

[1] Cfr. C. Pavone, La continuità dello Stato, in Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, pp. 70-159 (ed. or. 1974); M. Flores, L’epurazione, in G. Quazza (a cura di), L’Italia dalla Liberazione alla Repubblica, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 413-467; L. Mercuri, L’epurazione in Italia (1943-1948), L’arciere, Cuneo, 1988; R. P. Domenico, Processo ai fascisti (1943-1948). Storia di un’epurazione che non c’è stata, Rizzoli, Milano, 1996 (ed. or. 1991); H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, il Mulino, Bologna, 1997 (ed. or. 1996); R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Baldini&Castoldi, Milano, 1999.

[2] Cfr. G. Focardi e C. Nubola (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italiana repubblicana, il Mulino, Bologna, 2015; C. Nubola, P. Pezzino, T. Rovatti, Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia. I processi presso le Corti d’assise e nei tribunali militari, il Mulino, Bologna, 2019; A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma, 2019.

[3] A. Galante-Garrone, Il fallimento dell’epurazione: perché?, in R. P. Domenico, Processo ai fascisti, cit., pp. 11-15.

[4] Uno di questi era l’omonimo John F. Laboon, ufficiale sommergibilista durante la Seconda guerra mondiale e cappellano militare nella Guerra del Vietnam. Cfr. R. Gribble, Navy Priest: The Life of Captain Jake Laboon, The Catholic University of America Press, Whashington D.C., 2015.

[5] Sono piuttosto illuminanti in questo senso le relazioni di Laboon presenti in R. Absalom (a cura di), Gli Alleati e la ricostruzione in Toscana (1944-1945), voll. I-II, Olschki, Firenze, 2001, in part. pp. 227-228.

[6] Cfr. N. Gallerano, L’influenza dell’amministrazione militare alleata sulla riorganizzazione dello Stato italiano (1943-1945), in M. Legnani (a cura di), Regioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, il Mulino, Bologna, 1975, pp. 103-104; D. W. Ellwood, L’alleato nemico. La politica di occupazione degli anglo-americani in Italia 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 240-245; H. Woller, I conti con il fascismo, cit., pp. 217-218.

[7] H. Woller, I conti con il fascismo, cit., p. 193.

[8] ASLi, Prefettura, b. 168 «Epurazione Enti locali (1944-1946)», fasc. 1 «Massime», Lettera di Laboon per il prefetto Miraglia (1° settembre 1944).

[9] Nella primavera 1945, terminata l’esperienza di governatore in Italia, Laboon venne rimpatriato negli Usa dopo un breve incarico in Austria. Tornato alla vita civile si dedicò della gestione del sistema idraulico della contea di Allegheny, in Pennsylvania, pur continuando a mantenere un canale di comunicazione con Livorno grazie alle ripetute donazioni in favore degli enti religiosi assistenziali della provincia. Cfr. John Laboon… Honoray Citizen, «The Pittsburgh Press», May 22, 1955; John F. Laboon, «Pittsburgh Post-Gazette», December 10, 1985.

[10] Cfr. G. Tosatti (a cura di), L’ombra del potere. Biografie di capi di gabinetto e degli uffici legislativi, Icar, giugno 2016, pp. 160-161; G. Miraglia, Riorganizzare lo Stato alla liberazione di Roma (4 giugno 1944). Un documento dell’archivio del prefetto Francesco Miraglia, «Sintesi dialettica per l’identità democratica. Rivista online a carattere scientifico», n. 4, 06/2007 http://www.sintesidialettica.it/index.php (consultato il 26 settembre 2021).

[11] Nel caso della provincia di Firenze, ad esempio, il Comitato toscano di Liberazione Nazionale (Ctln) aveva deliberatamente evitato di nominare un proprio prefetto dopo la liberazione. Questo non certo perché si attendesse una designazione da Roma, bensì perché appariva controproducente ripristinare la figura al vertice di quel governo periferico che si pensava sarebbe stato riformato alla fine della guerra. Era evidente infatti che, se fosse stato scelto anche un prefetto di estrazione politica, e avesse svolto tutte le funzioni tipiche del suo ruolo, si sarebbe data l’opportunità al governo di provvedere, anche in un secondo momento, al ripristino del modello tradizionale di controllo centro-periferia. Cfr. A. Cifelli, L’istituto prefettizio dalla caduta del fascismo all’Assemblea costituente. I Prefetti della Liberazione, Ssai, Roma, 2008, pp. 106-111; M. De Nicolò, L’epurazione “interna”: l’istituto prefettizio, in M. De Nicolò e E. Fimiani (a cura di), Dal fascismo alla Repubblica: quanta continuità? Numeri, questioni, biografie, Viella, Roma, 2019, pp. 21-45.

[12] Come ha ampiamente dimostrato Mariuccia Salvati, il caso di Miraglia non era certamente unico, né un gesto di semplice opportunismo, quanto piuttosto l’esempio dell’appartenenza ad una specifica cultura amministrativa fortemente legalitaria e garantista che, solo inizialmente, era stata anche contrastata dalla rivoluzione fascista. Cfr. M. Salvati, Il regime e gli impiegati. La nazionalizzazione piccolo-borghese nel ventennio fascista, Laterza, Bari-Roma, 1992, pp. 10-12. Vedi anche G. Melis, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino, Bologna, 2018.

[13] Cfr,. L. Savelli, Il percorso dei Bassano, in M. Luzzati (a cura di), Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938). Memoria familiare e identità, Belforte, Livorno, 1990, pp. 77-85.

[14] La spaccatura nel primo esecutivo nazionale del Cln si originò attorno al tema dell’epurazione nella pubblica amministrazione. Da un lato c’erano i socialisti e gli azionisti, che spingevano per una manovra radicale che garantisse l’estirpazione di ogni residuo di fascismo dagli uffici pubblici, dall’altra la moderazione dei liberali e democristiani che, invece, ritenevano già fin troppo energica l’azione del governo italiano con la promulgazione del decreto di luglio. Tra i due contendenti stava il Pci con Togliatti che vedeva in questa crisi la prima concreta possibilità del crollo del fronte ciellenistico. La fine del governo Bonomi non avrebbe significato, per i comunisti, solo la perdita di qualche poltrona, ma di quella legittimità per poter rimanere alla guida del paese e non essere più tacciati come dei fuorilegge. Cfr. R. P. Domenico, Processo ai fascisti, cit., p. 147; H. Woller, I conti con il fascismo, cit. pp. 260-282.

[15] Bassano era laureato e parlava piuttosto bene l’inglese e il francese, così come Furio Diaz, il giovane sindaco comunista del capoluogo dal 1944 al1954. Questi aspetti legati alle personalità dei singoli potrebbero apparire come del tutto secondari rispetto agli importanti ruoli che rivestirono, ma sappiamo da testimonianze coeve come furono fondamentali ai fini di scardinare ogni pregiudizio politico su di loro. Cfr. L. Piazzano, Leghorn decimo porto. Cronaca di un dopoguerra 1944-1947, Debatte, Livorno, 1979, p. 22; G. C. Falco, Le giunte Diaz e la ricostruzione a Livorno, in «Nuovi studi livornesi», vol. XX (2013), pp. 67-130, in part. pp. 68-69.

[16] ASLi, Prefettura, b. 168 «Epurazione Enti locali (1944-1946)», fasc. 1 «Massime», sottofasc. 1 «Delegato provinciale», Lettera di nomina di Bassano (19 dicembre 1944).

[17] R. Miglietta, L’epurazione a Livorno (nostra intervista con l’Avvocato Bassano), «Il Tirreno», 27 febbraio 1945.

[18] Per una trattazione puntuale ed approfondita mi permetto di rimandare al mio lavoro Dio non paga il sabato. La defascistizzazione della provincia di Livorno (1943-1947), tesi di laurea magistrale in Storia e Civiltà, Università di Pisa, rel. Prof. Gianluca Fulvetti, aa. 2019-2020.

[19] M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano, 2006.

[20] Sebbene con una chiave interpretativa diversa e rivolta all’analisi dei processi per i crimini di guerra cfr. L. Baldissara, Sulla categoria di “transizione”, «Italia contemporanea», n. 254, 2009, pp. 61-74.




Le miniere della Maremma all’alba del Patto di Londra

Dopo la dichiarazione di neutralità nell’agosto del 1914 rispetto alla guerra da poco scoppiata che vedeva coinvolti gli alleati della Triplice Alleanza, per l’Italia i mesi seguenti furono preludio dell’imminenza di nuovi scenari: mantenersi neutrale davanti all’acuirsi di un conflitto che si svolgeva alle sue porte o schierarsi con uno dei due fronti? Se da una parte una tale dichiarazione aveva permesso all’Italia di attendere e osservare, dall’altra preconizzava il rischio di vedere declassato il rango di potenza per un Paese che fino ad allora era stato riconosciuto al pari di Regno Unito, Francia e Germania. Da un punto di vista economico, infatti, l’Italia poteva definirsi dalla ‘dipendenza multipla’[1]: il settore agricolo aveva delle sue specializzazioni, ma non garantiva l’autosufficienza alimentare rimanendo, pertanto, legato alle importazioni dalla Russia e dalla Romania, soprattutto di grano e altri cereali, la Germania era il principale partner economico per i manufatti industriali mentre il fabbisogno energetico era garantito dalla Gran Bretagna, in primis per il carbone. In tali condizioni, la neutralità dell’Italia non avrebbe potuto durare troppo: il ferreo controllo inglese sul commercio internazionale condannava le economie dei Paesi neutrali, soprattutto di quelle dipendenti dalle esportazioni. La direzione che l’Italia avrebbe dovuto prendere per evitare la stagnazione era chiara[2]. Ed è su questo aspetto che puntò la destra sonniniana-salandriana, con il supporto della monarchia, per entrare in guerra[3].

I mesi che precedettero la stipula segreta del Patto di Londra furono caratterizzati da provvedimenti di difesa e di interlocuzioni diplomatiche che sembravano palesare la direzione che il Governo italiano avrebbe poi preso. Del resto, non sembrava essere il Parlamento «il luogo vero e proprio del processo decisionale, di formazione della scelta di entrare in guerra»[4]: la vera trattativa che portò l’Italia in guerra al fianco della Triplice Intesa si svolse alla corte reale, per mano del Governo, soprattutto la Presidenza del Consiglio e il Ministero degli Esteri, e alle Ambasciate.

Giovanni_Merloni (credits: Archivio Storico Camera dei Deputati)

Giovanni_Merloni (credits: Archivio Storico Camera dei Deputati)

In questo contesto si inserì l’attività politica di Giovanni Merloni finalizzata alla difesa delle miniere della Maremma.

Tra i primi sostenitori del nascente Partito Socialista Italiano nel 1892, Merloni fu fervente esponente dell’ala riformista del partito fondato da Turati. Dopo un’attiva militanza nella sua Cesena, dove era nato nel 1873, alternata all’attività di pubblicista per «Critica Sociale» e «Avanti!», negli anni della polarizzazione tra repubblicani e socialisti, Merloni riuscì ad arrivare a Montecitorio con le elezioni del 1913 candidandosi nel Collegio di Grosseto (dove si era presentato già nel 1909 e dove si trasferì negli anni della Prima guerra mondiale) avendo la meglio contro il repubblicano Pio Viazzi e l’avvocato costituzionale Arturo Pallini. Quelle del 1913 furono le prime elezioni a suffragio universale maschile e le prime in cui il collegio fu strappato ai repubblicani. Merloni trionferà ancora nella Circoscrizione Siena-Arezzo-Grosseto con le elezioni generali del 1919 ottenendo circa 16 mila voti di preferenza, capolista nella graduatoria dei cinque socialisti eletti[5]. Una elezione a grandi voti, che sembrerebbe premiare il suo impegno e attivismo per la Maremma, comprese le sue miniere per le quali si era battuto all’alba dell’entrata in guerra dell’Italia.

L’attenzione di Merloni a difesa delle miniere maremmane viene menzionata ne I minatori della Maremma[6], il libro-inchiesta di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, in riferimento alla decisione del Governo Salandra di vietare l’esportazione delle piriti di ferro, adottata con decreto del 5 gennaio 1915, una decisione che sembrava rispondere più a pressioni inglesi che a reali esigenze economiche. L’atto era il Regio Decreto 27 dicembre 1914, n. 1415, pubblicato il 4 gennaio del 1915, col quale veniva esteso a piriti, ematite ed altri minerali di ferro, ghisa anche in getti il divieto di esportazione già introdotto con i Regi Decreti 1° agosto 1914 n. 758, 6 agosto 1914 n. 790, 28 ottobre  1914 n. 1186 e 22 novembre 1914 n. 1278; all’art. 2 si precisava che il decreto avrebbe avuto effetto dal giorno successivo a quello della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e sarebbe stato presentato al Parlamento per la sua conversione in legge[7].

La stampa locale – soprattutto di matrice socialista – riportò pedissequamente questo attivismo che si inseriva all’interno del dibattito sul futuro dell’Italia rispetto alla guerra in corso: la prima pagina del settimanale socialista «Il Risveglio»[8] del 7 febbraio 1915 anticipava che il rappresentante locale alla Camera, da circa un mese, stesse lavorando alacremente presso le autorità competenti per impedire il divieto delle esportazioni di piriti, alla luce dei danni che un provvedimento di tale natura avrebbe arrecato per l’industria mineraria e per le condizioni lavorative di migliaia di lavoratori del sottosuolo. La trattazione dettagliata fu riportata a partire dal numero successivo[9], precisando che più di un mese prima (appunto, il 5 gennaio) il Governo, senza anticipazioni né discussioni di alcuna sorta, aveva emanato un decreto col quale vietava in modo assoluto l’esportazione di piriti di ferro. Il provvedimento si presentava come una profonda minaccia rispetto alla produzione mineraria della Maremma visto che la produzione normale delle piriti era «superiore notevolmente al fabbisogno nazionale, e trova(va) uno sfogo importante precisamente nell’esportazione.»[10]

Il territorio delle Colline Metallifere rappresentava, infatti, un importantissimo bacino minerario già dai primi decenni del ‘900 come dimostra anche il fatto che a Massa Marittima venne costituita, il 27 aprile 1902, la Federazione nazionale dei minatori, definitivamente strutturatasi poi nell’agosto del 1903. Le miniere già dagli ultimi decenni del XIX secolo erano state oggetto di interesse di finanzieri e uomini d’affari europei mentre lo Stato unitario aveva manifestato difficoltà nell’allestire una propria industria pesante: la conseguenza fu inizialmente lo scarso piazzamento del minerale maremmano nel mercato interno, trovando invece più fiorenti lidi nei mercati inglesi, francesi e anche tedeschi, almeno fino agli anni ’90. Il prodotto maremmano non ricopriva un ruolo privilegiato, ma fungeva solo da “tappabuche” quando non erano sufficienti gli approvvigionamenti nazionali[11]. Erano poche le miniere che potevano vantare una continuità produttiva, le uniche erano le miniere cuprifere di Fenice Capanne Massetana e di Capanne Vecchie e la miniera di lignite di Montemassi-Casteani, conosciuta come la miniera di Ribolla. Il grande salto per l’industria chimica fu compiuto con la scoperta della possibilità di produzione dell’acido solforico dalla pirite[12] di cui il sottosuolo maremmano era particolarmente ricco: alla vigilia dell’entrata in guerra, quando mesi di conflitto europeo avevano portato alle stelle il prezzo dei minerali, erano attive 6 miniere piritifere (tra cui Boccheggiano, Gavorrano e Ravi, nella duplice gestione della Montecatini e della Marchi) con una produzione complessiva annua di circa 270.000 tonnellate[13]. La battaglia politica di Merloni si inserì in questo quadro animato dallo sviluppo della produzione mineraria e dalla nascita del proletariato minerario che iniziava a presentarsi come classe operaia nuova.

Il Risveglio, 14 febbraio 1915

Il Risveglio, 14 febbraio 1915

Nello stesso articolo sopra citato de «Il Risveglio» del 14 febbraio 1915, si precisava che Merloni, venuto a sapere dei gravi danni che un tale decreto avrebbe cagionato alle miniere della Maremma, si era recato al Ministero delle Finanze e al Ministero degli Esteri, accompagnando l’Ing. Donegani, consigliere delegato della società Montecatini, per portare sul tavolo i dati della produzione, a dimostrazione della infondatezza della misura adottata: lo stesso Governo di fronte a tale testimonianza dovette rivedere la sua decisione, ammettendo che «la ragione del divieto era sostanzialmente di carattere internazionale.»[14]

Merloni – continuava l’articolo – si era prodigato quindi presso il Ministero degli Esteri affinché si risolvessero i problemi internazionali e alla fine ebbe successo, ottenendo la revoca del decreto: le piriti non erano esportate in alcun paese belligerante per scopi militari, bensì per attività industriali (Germania e Austria – così si legge – avrebbero potuto andare avanti con la propria produzione anche se la guerra fosse durata venti anni), e pertanto fu garantito alle piriti lo stesso trattamento riconosciuto allo zolfo e altre materie industriali. Merloni tenne le trattative con il Ministro delle Finanze Daneo, con il sottosegretario Baslini, presidente della Commissione per le esportazioni, con Luciolli, direttore generale delle Dogane, e col Conte Manzoni, rappresentante del Ministero degli Esteri: la richiesta fu quella di avviare un confronto con i Governi esteri accordando l’esportazione di circa 100.000 tonnellate nel corso del 1915. La stessa negoziazione delle piriti di ferro interessava, peraltro, anche lo scambio di prodotti e materie necessarie ad alcune industrie italiane.

«Il Risveglio» colse l’occasione per evidenziare come l’opera di Merloni fosse stata, altresì, in grado di evitare sommovimenti da parte del proletariato maremmano che avrebbe potuto far sentire la propria voce alla pari di quanto avevano fatto i siciliani per lo zolfo: lo stesso Merloni, pur disponibile a promuovere un’agitazione da parte dell’intera deputazione toscana, non aveva inizialmente coinvolto gli operai, convinto dell’esito positivo della sua azione politica, limitandosi, in occasione di una visita in Maremma ai primi di gennaio, ad avvertire il prefetto di Grosseto affinché si prodigasse anche lui stesso con il Governo per ottenere la revoca.

L’operato di Merloni a favore dei minatori della Maremma venne riportato anche da un articolo su «Etruria Nuova»[15], conferendovi però una lettura politica di matrice repubblicana, tesa a minimizzare il suo operato. Lo scontro politico prendeva la forma del botta e risposta nella stampa locale.

La rimostranza de «Il Risveglio» non tardò a farsi sentire, attribuendo alla stampa repubblicana una lettura frettolosa e foriera di errori[16]. Si riportava letteralmente: «Essa dice: l’on. Merloni interessandosi e riuscendo ad ottenere il nulla osta per l’esportazione delle piriti all’estero prolunga – nientemeno! – il macello della guerra, vien meno ai neutralissimi ordini del P.S.I. e favorisce il lupo famelico Guglielmone, il solo soddisfatto dell’opera di Merloni». Il giornale socialista puntualizzava che la pirite non veniva impiegata per usi militari, così chiosando: «Tenuto poi conto che la pirite verrebbe poi data in cambio di taluni prodotti e materie necessari all’industria italiana, il tutto si riduce ad una utilità per noi e per gli altri, senza pregiudizio dei risultati della guerra. Utilità soprattutto per i poveri minatori della nostra provincia, i quali si sarebbero trovati sul lastrico senza pane se invece dell’on. Merloni, un deputato repubblicano avesse sostenuto le intervenzionistiche idee dell’Etruria. Ma per fortuna ci pensarono a tempo opportuno!»

CREDITS: https://www.museidimaremma.it/

CREDITS: https://www.museidimaremma.it/

Iniziava così una serie di provocazioni tra le due riviste: la settimana successiva[17] «Il Risveglio» attaccò la voce di un minatore uscito su «Etruria Nuova» il quale aveva negato che l’operato di Merloni avesse sortito effetti positivi per le miniere maremmane, sostenendo che non fossero mai state fatte esportazioni verso l’estero. La rivista socialista della provincia di Grosseto lo tacciò di interventismo a favore della Triplice Intesa, in linea con l’orientamento repubblicano-irredentista. A rispondere punto per punto all’intervento del minatore sul giornale repubblicano fu “E. Z.” – firma che farebbe pensare a Egisto o Emilio Zannerini, entrambi socialisti – citando i “vapori col ventre ricolmo dei nostri prodotti minerari” che partivano da Follonica per poter smaltire la sovrapproduzione nazionale. Si respingeva ancora una volta l’accusa che la pirite fosse utilizzata dalla Germania per scopi bellici sostenendo che l’utilizzo che ne veniva fatto era per la produzione di concimi chimici utili per la fertilizzazione dei terreni, aggiungendo che sarebbe stato paradossale che una potenza militare come la Germania attendesse di fatto la pirite italiana per produrre esplosivi. La posizione dell’autore era chiara: l’opera di Merloni era stata mossa dalla volontà di tutelare gli operai delle miniere grossetane, i quali avrebbero risentito delle conseguenze del decreto in termini occupazionali e quindi sociali, ma, allo stesso tempo, si riconosceva che di tale azione ne beneficiarono anche i capitalisti che potevano andare avanti con il loro profitto, ricavato dalla produzione.

La battaglia condotta da Merloni per le miniere maremmane dalla stampa locale passò poi all’Aula parlamentare, in occasione della discussione sulla proposta di legge avanzata dal Presidente Salandra “Provvedimenti per la difesa economica e militare dello Stato” (poi legge n. 273, del 21 marzo 1915).

La seduta era quella del 14 marzo 1915[18] e il disegno di legge – come già anticipato – risultava preceduto da una serie di decreti emanati in merito a divieti di esportazione, al commercio di transito e relative norme. L’intervento di Merloni prese le mosse da quello precedentemente proferito dal collega deputato Eugenio Chiesa, repubblicano eletto nella circoscrizione di Massa e Carrara, che nell’accusare il Governo di aver favorito, con i provvedimenti di difesa economica adottati negli ultimi mesi, il traffico dei permessi di esportazione – definito “esportazione dolosa” dal disegno di legge in esame e da Chiesa “grande contrabbando” –, da una parte paventava rischi per l’approvvigionamento del Paese e dall’altra un rialzo generale dei prezzi di consumo e un esodo ingente di tali merci verso l’estero[19]. Dopo le critiche rivolte al Governo, Chiesa procedette con il riferirsi ad un caso specifico che annoverava tra gli episodi deprecabili in cui – si legge nel resoconto – «un deputato può operare più a servizio di un industriale che a tutela del proprio popolo». Chiesa non citò esplicitamente il nome del deputato ma precisò che egli si era prodigato per impedire il divieto di esportazione delle piriti di ferro. Così viene riportato nel resoconto stenografico della seduta:

 «Ora le piriti di ferro hanno un solo concessionario tedesco, per acquirente, un tale Lippmann Bloch di Breslavia; e sono destinate alle diverse fabbriche di prodotti chimici. È una innocente dizione che nasconde le fabbriche d’esplosivi. Ma guardate: queste piriti si pagano 60 centesimi per unità di zolfo e cioè circa 30 lire per tonnellata; 25 lire ci vogliono per farle arrivare al confine; altrettanto dal confine alle fabbriche, e troverete che queste piriti verranno a costare in fabbrica circa 85 lire a tonnellata. Un prezzo enorme, e da ciò si deduce che l’uso di dette piriti in Germania deve essere di primissima necessità per il momento attuale. E 70 mila tonnellate di piriti sono partite negli ultimi mesi. Ora, e questo sia detto per il Governo, soltanto il 5 gennaio fu emanato il divieto di esportazione e sta bene. Ma, onorevole Baslini, perché dopo l’avete tolto?»

CREDITS: https://www.museidimaremma.it/

CREDITS: https://www.museidimaremma.it/

Chiesa accusava il Governo di aver tolto tale divieto il 13 febbraio: la ragione addotta dal Governo era la remunerazione derivante dall’esportazione a favore delle industrie nazionali, mentre il deputato repubblicano sosteneva che il consumo interno avrebbe potuto essere tale da coprire facilmente la produzione; nel sostenere ciò, Chiesa faceva cadere il sospetto anche su uno scambio di carbone e piombo tra Italia e Germania, sottolineando che il carbone tedesco non avrebbe potuto competere con quello inglese, dichiarazione che manifestava una palese attenzione rivolta all’Inghilterra anche sotto l’aspetto economico.

Rispetto alla caustica citazione chiese di intervenire proprio Merloni, che sull’argomento non era mai uscito pubblicamente, dichiarando subito di aver agito nell’interesse di migliaia di operai della Maremma. Così si legge nel resoconto della seduta:

«La Germania è poi produttrice di pirite di ferro in misura tale, dato che queste piriti di ferro, con l’estrazione dello zolfo e la produzione dell’acido solforico, potessero servire anche per usi militari, da essere largamente provveduta a tale scopo, niente meno che per moltissimi anni. Ed è quindi provato che tanto lo zolfo (ed io assumo volentieri anche la difesa della libera esportazione dello zolfo, per i colleghi siciliani e per i minatori della Sicilia) quanto l’esportazione delle piriti di ferro, non servono ora ad altro che ad uso industriale. Se si volesse chiudere la porta di uscita alle merci che servono alla Germania per uso industriale, non ci si dovrebbe limitare arbitrariamente a questo o a quel prodotto, ma occorrerebbe logicamente ed equitativamente estendere il divieto a tutti quanti gli altri prodotti che servono all’industria tedesca come alle industrie di altri Paesi. (…) Se dunque, come vi dicevo, la Germania è provveduta per i suoi usi militari per molti anni, data la sua cospicua produzione di piriti di ferro, data la libera esportazione dello zolfo dall’Italia, con quale fondamento si dovrebbe ritenere che l’esportazione di una certa quantità di piriti di ferro, necessaria per mantenere nel suo equilibrio attuale una importante industria italiana, la più importante industria della Maremma, che dà lavoro ad alcune migliaia di operai, sia proprio quella che giova agli usi militari della Germania, già esaurientemente assicurati?»

 Le cifre della produzione mineraria della Maremma sembrerebbero dare ragione alla battaglia di Merloni: la produzione di piriti di ferro ammontava a 245.200 tonnellate nel 1914 aumentate a 270.845 nel 1915; gli operai impiegati nelle miniere erano 1.485 nel 1914 e 1.418 nel 1915[20]. Se andiamo a confrontare i dati della produzione a livello nazionale – rispettivamente 335.531 e 327.707 tonnellate – si comprende come le miniere di pirite di ferro della Maremma fossero fondamentali per l’economia del Paese.

Il deputato socialista passò poi ad una sorta di excursus rispetto alla misura che il Governo aveva adottato, sollecitando quest’ultimo anche a concludere le trattative commerciali:

 «C’è stato un tempo (ed è questa, onorevole Chiesa, l’origine prima del divieto della esportazione delle piriti), nel quale uno Stato – non occorre scendere a particolari – aveva creduto che questa esportazione potesse realmente servire a un paese belligerante per usi militari, e se n’era allarmato. Orbene, onorevole Chiesa, quello stesso Governo estero, dopo venti giorni, si ricredette e lasciò chiaramente intendere che non 100 mila, ma 200 mila tonnellate di piriti di ferro avrebbe lasciato che si fossero esportate liberamente in Germania od in qualunque altro paese. E se il nostro Governo credette ciò non di meno, dopo avere tolto il divieto, di mantenerlo ancora temporaneamente, si fu soltanto per fare delle piriti di ferro un oggetto di contrattazione di scambi con altri Stati, così come per altre numerose merci. E così è dimostrato anche che è inesatto parlare di divieto dell’esportazione delle piriti di ferro, perché il Comitato delle esportazioni deliberò alla unanimità di ammettere le piriti di ferro all’esportazione, condizionatamente a detti cambi. Ora, pertanto i lavoratori di Maremma attendono fiduciosi che si giunga presto ad una soluzione favorevole di codeste negoziazioni, per evitare ad essi un sacrificio grave, che non gioverebbe ad alcuno, che non sarebbe in nessuna guisa giustificato, come non sarebbe giustificato un provvedimento somigliante, supponiamo, contro l’industria zolfifera siciliana. Ma la prova irrefutabile decisiva è quella data da quel Governo estero, che ora ho ricordato. Ora è strano che l’onorevole Chiesa, ardente repubblicano, sia ancora più realista del re, intendo dire del Re … d’Inghilterra».

Prima pagina del resoconto parlamentare

Prima pagina del resoconto parlamentare

La discussione svoltasi in Aula diventò oggetto di resoconto sulla stampa socialista: si veda, ad esempio, «Avanti!» che nelle Note alla seduta[21], dopo aver sottolineato l’approvazione ottenuta dal deputato grossetano da parte dei colleghi in Aula, ipotizzava che Chiesa avesse trasposto alla Camera una polemica elettorale dei repubblicani in Maremma, «i quali pure di combattere l’opera dell’onorevole Merloni che si svolge sempre più importante ed efficace a vantaggio del proletariato maremmano e dell’intero partito non si sono avveduti che ferivano – sconsigliatamente sprovvisti di ogni ragione che ha dimostrato luminosamente oggi alla Camera il valoroso deputato di Grosseto – tanto l’interesse della Maremma quanto quelli dei minatori»[22].

Tale clima emergeva in modo ancora più evidente nelle pagine de «Il Risveglio» e «Etruria Nuova».

Così il settimanale locale socialista il 21 marzo[23], inserendo in prima pagina un articolo sull’intervento dell’on. Chiesa, scriveva:

«Nessun altro, all’infuori dell’on. Eugenio Chiesa, poteva aderire all’invito dei repubblicani maremmani, di portare cioè alla Camera – sotto lo specioso pretesto del contrabbando – la revoca al divieto delle piriti ottenuta con tanto successo dall’on. Merloni. Solo questo burattinaio della sconquassata repubblica italiana, questo novello Pirocorvo della Camera (…); questo istrione soltanto, diciamo, poteva prestarsi al giuoco dei suoi degni amici maremmani, per tentare con un mezzo vile un intento più vile ancora». E ancora: «Ma il generale applauso con cui fu salutata l’energica e fiera riposta dell’onorevole Merloni, deve avere annichilito l’onorevole Chiesa, il quale, sotto le invettive di tutti i deputati socialisti non trovò più la forza di replicare una parola. Dal resoconto stesso della Tribuna, giornale non sospetto, si può rilevare con quanta competenza l’on. Chiesa trattasse la questione delle piriti, che egli ignorava perfino a quale uso servissero!»[24]

In un articolo successivo della stessa edizione[25] si riprendeva la discussione portandola sul piano dello scontro politico, puntando a sottolineare come le forze repubblicane si stessero affievolendo in provincia, finendo così col cercare ogni espediente per attaccare l’avversario. «Etruria Nuova» aveva risposto prima con la lettera del minatore, poi con quella dello spettatore e con una nota della redazione, in cui si definiva Merloni “l’on. procaccione”. Nel rispondere alla nota redazionale repubblicana, la rivista socialista precisava che era vero che le miniere di Ravi, Boccheggiano, Gavorrano e Montieri non potevano produrre più di 20.000 tonnellate al mese, ma ribadiva anche che il fabbisogno nazionale ammontava a solo 10.000 tonnellate; inoltre, la Germania richiedeva una certa qualità della pirite proprio per destinarla ai concimi, come più volte evidenziato.

CREDITS: https://www.museidimaremma.it/

CREDITS: https://www.museidimaremma.it/

La settimana successiva «Il Risveglio», dopo aver riportato il resoconto stenografico dell’intervento di Merloni[26], inserì come chiosa[27] la riposta che Merloni aveva inviato al «Popolo d’Italia» in data 25 marzo 1915 rispetto a una lettera firmata “Un Ingegnere di turno”. Gli argomenti riportati erano precisazioni rispetto all’intervento fatto in Aula, in risposta alle supposizioni poste dall’anonimo: Merloni ribadiva che il principale uso che veniva fatto dell’acido solforico era per scopi industriali e che la produzione delle piriti di ferro in Germania, che nel 1912 fu di 262.000 tonnellate, avrebbe potuto bastare per anni a coprire il fabbisogno tedesco per usi militari. Anche nella lettera Merloni ripercorse la storia dei provvedimenti e delle loro ragioni, di natura internazionale:

 «Se un divieto ci fu, questo avvenne, come feci intendere alla Camera, in seguito…all’opinione manifestata da una potenza belligerante che l’esportazione delle piriti e dello zolfo in Germania potesse abbisognare colà per usi militari; ma ciò fu contraddetto coi dati alla mano dal nostro Governo, il quale tuttavia se lasciò in pace lo zolfo trattenne le piriti; (…) Quella potenza si persuase però sollecitamente del suo errore; e allora il Comitato delle Esportazioni presso il Ministero delle Finanze, che io, edotto dei dati e delle ragioni dell’Amministrazione dello Stato, avevo più volte premurato a che fosse evitata la disoccupazione delle miniere della Maremma, diede unanime approvazione alla esportazione delle piriti secondo i quantitativi richiesti»

 Nello stesso numero[28] si riportò altresì una critica verso le esternazioni che i repubblicani avevano fatto nelle pagine di «Etruria Nuova», tanto da arrivare a sostenere che il divieto di esportazione non vi fosse mai stato e che quello di Merloni fosse un vero e proprio bluff. Il tono de «Il Risveglio» fu granitico e sagace, criticando proprio il metodo e la strategia utilizzati dai repubblicani che prima avevano accusato a lungo Merloni di aver fatto revocare il decreto per poi appellarsi alla inesistenza stessa del provvedimento.

La produzione mineraria, in ogni modo, era salva. Dopo circa un mese l’Italia avrebbe firmato il Patto di Londra, dichiarando di fatto guerra all’Austria e dopo un anno anche alla Germania.

NOTE

[1] Cfr. Labanca, N. (sotto la direzione di), Dizionario storico della Prima guerra mondiale, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 54.

[2] Si veda anche Bruccoleri G., Il commercio dell’Italia coll’estero nel periodo della sua neutralità, «Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica», Serie terza, vol. 51 (Anno 26), n. 6 (dicembre 1915), pp. 443-462.

[3] Cfr. Labanca, p. XIV.

[4] Isnenghi, M., Rochat, G., La grande guerra. 1914-1918, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 100.

[5] Cfr.  Quaglino A.A., Chi sono i deputati socialisti della XXV legislatura (156 biografie), Torino 1919, ad nomen, p. 82.

[6] Bianciardi L., Cassola C., I minatori della Maremma, Minimum fax, Roma, 2019, p. 106.

[7] Cfr. Gazzetta Ufficiale, n. 2 del 4 gennaio 1915.

[8] L’interessamento dell’on. Merloni per i minatori, «Il Risveglio», n. 6, 7 febbraio 1915.

[9] L’on. Merloni per i minatori della Maremma. L’opera efficace del nostro deputato contro il divieto della esportazione delle piriti, «Il Risveglio», n. 7, 14 febbraio 1915. Nello stesso numero si riportava un breve editoriale firmato da Merloni con il quale si evidenziavano i problemi derivati dalle esportazioni e dal rialzo dei prezzi dei beni alimentari, in primis grano e altri alimenti. Si precisava, tuttavia, che l’editoriale era stato scritto molto tempo prima che il Governo decretasse il divieto assoluto dell’esportazione dei generi di consumo di prima necessità.

[10] Ibidem.

[11] Cfr. Tognarini, I. (a cura di), Siderurgia e miniere in Maremma tra ‘500 e ‘900. Archeologia industriale e storia del movimento operaio, All’insegna del Giglio, Firenze, 1984, p. 166. Si veda anche Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie contadine nel Grossetano, Ediesse, Roma, 1988.

[12] Cfr. Rapporti annuali sulle lavorazioni minerarie di Gavorrano e zone limitrofe tratti dalle relazioni sul servizio minerario, Corpo delle miniere, Distretto di Grosseto, anno 1903.

[13] Cfr. Tognarini I., p. 168. Nella relazione del servizio minerario del 1914 si indicano 5 miniere produttive e 1 miniera non produttiva, cfr. Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Ispettorato delle miniere, Rivista del servizio minerario nel 1914, Istituto Italiano d’arti grafiche, Bergamo, 1915, pp. XXX-XXXI.

[14] Cfr. L’on. Merloni per i minatori della Maremma

[15] Non è stato possibile consultare i numeri del 1915 a causa di indisponibilità tecnica.

[16] Già: per la storia!, «Il Risveglio», n. 8, 21 febbraio 1915.

[17] A quel tal «minatore…», «Il Risveglio», n. 9, 28 febbraio 1915.

[18] Resoconto stenografico seduta del 14 marzo 1915 della Camera dei deputati.

[19] Dall’intervento dell’on. Chiesa riportato nel resoconto stenografico della seduta: «Nei corridoi si era diffusa per gli ingenui la leggenda che ora si sarebbe discusso e votato questo progetto per ‘la difesa dello Stato, e che poi il Governo avrebbe annunziato le supreme decisioni sulla politica internazionale’ del nostro paese, e, chiusa la Camera, si sarebbe avuta la mobilitazione e la guerra. Ma forse il momento non è ancora venuto per questo».

[20] Cfr. Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Ispettorato delle miniere, Rivista del servizio minerario nel 1914, Istituto Italiano d’arti grafiche, Bergamo, 1915, pp. XXX-XXXI e Ministero dell’Agricoltura, Rivista del servizio minerario nel 1915, Tipografia Nazionale Bertero, Roma 1917, pp. XXVI-XXVII.

[21] Note alla seduta, «Avanti!», n. 74 del 15 marzo 1915.

[22] Ibidem.

[23] Il burattinaio, «Il Risveglio», n. 12, 21 marzo 1915.

[24] Ibidem.

[25] La pirite, i repubblicani e il resto, «Il Risveglio», n. 12, 21 marzo 1915.

[26] L’on. Merloni per i minatori e gli interessi della Maremma. La risposta del nostro Deputato all’on. Chiesa, «Il Risveglio», n. 13, 28 marzo 1915.

[27] Una lettera dell’on. Merloni al «Popolo d’Italia», «Il Risveglio», n. 13, 28 marzo 1915.

[28] A proposito della pirite, dei repubblicani, dell’on. Chiesa ed il resto, «Il Risveglio», n. 13, 28 marzo 1915.




L’eccidio del Padule di Fucecchio

Il 23 agosto 1944 alcuni reparti dell’esercito nazista massacrarono indiscriminatamente, con metodi da guerra e di artiglieria pesante, 174 civili, fra cui neonati e anziani, all’interno del Padule di Fucecchio, fra le province di Pistoia e di Firenze, colpendo nei comuni di Monsummano Terme (frazione di Cintolese, la più colpita con 84 residenti uccisi), Larciano (frazione di Castelmartini), Ponte Buggianese (zona di Capannone e Pratogrande), Cerreto Guidi (frazione di Stabbia) e Fucecchio (frazioni di Querce e di Masserella).

Iniziamo con alcune premesse. Durante quella terribile estate l’estremità meridionale del Padule distava appena cinque chilometri dalla linea del fronte sull’Arno, stabilitosi là dal 18 luglio e conservatosi fino alla fine di agosto; a sud del fiume si trovavano gli alleati, a nord i nazifascisti.

Casotto dei Criachi - LarcianoIn quel periodo all’interno del Padule si erano stabiliti numerosi gruppi di sfollati e contadini che tentavano di sfuggire ai quotidiani rastrellamenti tedeschi e alle cannonate alleate, sparate per colpire obiettivi militari ma che finirono per uccidere diversi civili. La fitta vegetazione, non tagliata quell’estate, offriva riparo a uomini e donne; inoltre per la sua posizione, lontano dalle vie principali e dai centri abitati, era esente da possibili bombardamenti e combattimenti.

In Padule era stimata da parte nazista una presenza di partigiani nell’ordine delle 200-300 unità – almeno così hanno testimoniato gli ufficiali nei successivi processi -, ma in realtà l’unica formazione partigiana nelle vicinanze era la “Silvano Fedi” di Ponte Buggianese, comandata da Aristide Benedetti, che poteva contare su circa 30 elementi, attiva in zone limitrofe al Padule. Importanti squadre resistenti si trovavano principalmente sul Montalbano, nelle zone collinari e sull’appennino pistoiese. Alcuni attacchi c’erano stati fra i partigiani di Benedetti e i nazisti, tuttavia senza causare uccisioni di soldati nazisti nella settimana precedente. I tedeschi cercavano di proteggere le vie di fuga, sopravvalutarono la presenza partigiana ed emanarono un comando preciso di far terra bruciata e di liberare tutta la zona, massacrando ogni presenza umana per favorire la ritirata a nord delle truppe che si sarebbero stabilite sulla Linea Gotica.

L’operazione iniziò all’alba e si attenuò prima dell’ora di pranzo; l’area fu delimitata a est dalla strada statale 436 che portava a Monsummano, a sud dalla confluenza fra il canale del Capannone e il canale del Terzo, a ovest dalle Cerbaie e a nord dalla linea che andava dall’Anchione alla capanna Borghese.

Monumento Giardino della Meditazione Stabbia - Cerreto GuidiL’ordine impartito dal colonnello Crasemann fu chiaro: “Vernichten”, ovvero annientare. Fu poi il capitano Joseph Strauch a condurre l’azione sul campo e a istruire i tenenti delle varie unità operative. L’eccidio si consumò “in gronda”, cioè ai bordi del Padule dove era sfollata la maggior parte della popolazione, poiché i reparti nazisti non giunsero mai nel centro di esso, temendo eventuali ma inesistenti attacchi partigiani. Non furono risparmiati bambini, vecchi, donne ma, nonostante le atrocità commesse, furono numerose le persone che riuscirono a salvarsi. Ci fu chi si nascose al centro del Padule, soprattutto gli uomini adulti che avevano paura di un rastrellamento, chi non fu colpito dai proiettili, chi non fu visto in mezzo ai campi, chi fu ferito e curato dai medici o dall’ospedale, chi fu scelto per portare le munizioni e poi lasciato libero.

Fra gli episodi più drammatici e tristi ricordiamo quello di Maria Faustina Arinci, detta Carmela, di 92 anni sorda e cieca, fatta esplodere con una bomba a mano infilata in una tasca del grembiule e quello di Maria Malucchi, la più piccola, trucidata all’età di 4 mesi.

Un aspetto non secondario fu rilevante in quelle ore, ovvero l’aiuto di collaborazionisti italiani: fascisti locali e toscani furono riconosciuti nelle varie località dagli inermi superstiti.

Le vittime vennero trasportate con ogni mezzo, fra cui barroccini e carretti, sepolti in maniera inadeguata in casse costruite in fretta con semplici assi di legno, oppure seppelliti avvolti nelle coperte. In alcuni casi furono gli stessi tedeschi a portare via i caduti con dei camion, scaricandoli e ammassandoli in fosse comuni.

Monumento in ricordo delle vittime a LarcianoLa sera del 23, mentre le famiglie piangevano i propri defunti, i nazisti festeggiavano sia a Ponte Buggianese sia a Larciano e, fra canti e risate, gridavano: “Vittoria, partigiani tutti kaput”, nonostante avessero ucciso quasi esclusivamente civili.

L’eccidio del Padule di Fucecchio fu uno dei casi a livello nazionale in cui si cercò di rendere giustizia ai caduti, attraverso processi che coinvolsero i presunti colpevoli. A Venezia Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia, fu inizialmente condannato alla pena di morte, poi all’ergastolo e infine graziato; Crasemann a Padova prese 12 anni di reclusione mentre Strauch a Firenze 6 anni di carcere: tutti i condannati furono liberati dopo pochi anni e nessuno scontò pienamente la propria pena. Durante il recente processo di Roma sono stati condannati all’ergastolo il capitano Ernst Arthur Pistor, il maresciallo Fritz Jauss e il sergente Johann Robert Riss, mentre il tenente Gherard Deissmann, anch’esso imputato, è morto a cent’anni nel corso del processo.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. Collabora sia con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), gestendone il sito web e facendo parte del consiglio direttivo, sia con l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. Attualmente svolge un tirocinio per la valorizzazione storico-artistica di una villa medicea a Firenze.




Arduino Lazzaretti e Aurelio Regini

Seconda parte di questa breve rassegna di profili di esponenti del Partito comunista d’Italia dell’area fiorentino-pratese.

LAZZERETTI Arduino

(Lastra a Signa, 17 aprile 1893 – lager di Severo-Vostočnyj, baia di Nagaev 15 gennaio 1938)

 Figlio di Santi e di Maria Guarnieri, di famiglia contadina, bracciante e macellaio, impegnato alla Camera del Lavoro, pur senza cariche e iscritto al PCd’I fin dalla fondazione, dopo una militanza nel partito socialista. Domiciliato a Porto di Mezzo, frazione del Comune di Lastra a Signa, è  considerato comunista pericoloso. Per sottrarsi alle rappresaglie degli squadristi fiorentini e all’arresto con l’accusa di complicità corrispettiva di omicidio e mancato omicidio commessi contro i fascisti il 30 ottobre 1921, emigra clandestinamente prima in Francia e nel 1923 in Unione Sovietica: è perciò iscritto nella Rubrica dei sovversivi pericolosi e attentatori residenti all’estero, al n°2552 e nel Bollettino delle ricerche: il 22 febbraio 1925 infatti la Corte d’Assise di Firenze lo aveva condannato in contumacia a 30 anni di reclusione e a 9 di vigilanza speciale. Il cenno biografico stilato il 13 maggio dello stesso anno lo presenta di carattere «impulsivo, di mediocre intelligenza … assiduo al lavoro … verso la famiglia si comporta bene … spavaldo e prepotente verso le Autorità». In merito alla sua attività di oppositore del regime fascista «Non è capace di tenere conferenze; però ha preso parte a tutte le riunioni e manifestazioni sovversive in qualsiasi circostanza, dimostrandosi sempre violento e pericoloso per commettere reati politici». Il 20 maggio 1925 la Prefettura di Firenze comunica al Ministero dell’Interno che egli risiede a Parigi, in rue S. Martin Notre Dame de Nazareth, secondo un’informazione estorta ad un suo compaesano: la conseguente domanda di estradizione a suo carico è però respinta dalle autorità francesi. La ricerca ossessiva del «pericoloso comunista» giunge allo stretto controllo della corrispondenza dei suoi familiari: in una lettera della madre una postilla della sorella Vittoria raccomanda ad Arduino di indirizzare la sua posta alla famiglia di Giuseppe Montani, alle cui dipendenze lavora il padre Santi, perché la loro casa è sottoposta a frequenti perquisizioni da parte dei carabinieri. Sappiamo che nel corso del 1931 emigra nell’Unione Sovietica, dove il suo recapito a Mosca e l’attività lavorativa rimangono a lungo sconosciuti alle autorità fasciste, mentre una prefettizia risalente al 6 ottobre 1933 ci fa sapere che Arduino «è stato inserito nell’elenco dei sovversivi classificati attentatori o comunque capaci di atti terroristici, residenti all’estero», finché in data 1° luglio 1937 un telespresso  dell’ambasciata italiana riferisce che la sua residenza a Mosca è in via Bolsaia Grusinskaia, n° 19, app. II, ma che da diversi mesi  si trova in carcere sotto l’accusa di trockismo. L’arresto è sicuramente avvenuto dopo il 30 settembre dell’anno precedente, quando una lettera di Arduino al padre lo informa di stare bene, così come la moglie e i figli, Lisa e Alfredo e di essere stato nominato Tenente anziano della guardia rossa; inoltre ancora in una nota della Prefettura di Firenze del 30 gennaio 1937 egli è segnalato come impegnato a svolgere propaganda comunista in Russia unitamente ad altri comunisti italiani ivi immigrati: ancora a quell’epoca dunque egli risulta libero cittadino sovietico. L’ultima prefettizia che lo riguarda risale all’8 luglio 1942, quando ormai le relazioni diplomatiche fra l’Italia fascista e l’URSS sono interrotte dallo stato di guerra, per registrare che da tempo di lui non si hanno più notizie. Eppure la sua situazione già dall’estate del 1936 si stava deteriorando, in quanto risulta che fin dal 9 agosto 1936 era stato espulso dal PCU(b) per finire arrestato dall’NKVD il 29 aprile 1937 con l’accusa di «aver partecipato, nel 1927, a una riunione illegale alla quale era intervenuto Trockij». E’ interrogato e detenuto nel carcere di Butyrki insieme al compagno Giuseppe Sensi. L’8 agosto 1937 è condannato a cinque anni di lager da scontarsi a Severo-Vostočnyj (baia di Nagaev), dove muore il 15 gennaio 1938. Il percorso politico e professionale di Arduino in Unione Sovietica è costituito dall’iniziale approdo alla casa dell’immigrato politico di Mosca fino a prendere la cittadinanza sovietica nel 1932 e alla successiva militanza nel partito comunista bolscevico e dal successivo impiego come direttore di mensa in un salumificio per poi divenire ispettore della milizia. Caduto in disgrazia, perde il lavoro ed è costretto ad impiegarsi provvisoriamente come operaio al cantiere della metropolitana di Mosca. Tra il 1936 e il 1937 i dirigenti del PCd’I che lavorano alla Sezione quadri del Comintern prendono più volte in esame il suo caso e nel ricostruire la sua biografia e le sue posizioni politiche lo segnalano come bordighista. Il 4 luglio 1956 le autorità sovietiche lo riabilitano. Nel 50° anniversario della Liberazione di Lastra a Signa viene eretto un monumento a ricordo di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà: Arduino è fra costoro.

 FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Direzione affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Memorial, Archivio di Stato della Federazione Russa, Fondo degli atti istruttori 10035, op.1, P. 26343, cc. 27, 1937-1957; E. Dundovich, F. Gori, E. Guercetti, Reflections on the gulag: with a documentary index on the italians victims of repression in USSR, Milano Fndazione G. Feltrinelli, 2003; G. Lehner con F. Bigazzi, La tragedia dei comunisti italiani, Milano Mondadori, 2001; www. gulag-italia.com, scheda personale di Arduino Lazzeretti.

Regini006REGINI Aurelio (Domenico Carpi)

(Empoli, Firenze 24.12.1903 – U.R.S.S., ?)

Figlio di Serafino e Meucci Maria Assunta, cenciaiolo, comunista. Quando la Prefettura di Firenze stila il cenno biografico che lo riguarda, il 30 novembre 1937, la sua parabola di vita e il suo impegno politico nelle file del partito comunista volgono alla fine. E’ considerato di carattere taciturno ma abbastanza intelligente oltre che discreto lavoratore. Sebbene in famiglia si comporti bene, è giudicato pericoloso per le sue frequentazioni di elementi sovversivi ed il suo contegno sovente sprezzante verso le autorità. Nel 1922 emigra in Francia con regolare passaporto e dopo cinque anni si trasferisce in Belgio. In Francia, fino al 1925 risiede a Longwy (Meurthe et Moselle), dove svolge attività politica come persona di fiducia del Pci in qualità di responsabile dei collegamenti con i comunisti residenti in Lussemburgo. Dopo un breve rientro in Italia per visitare la famiglia che risiede a S. Martino a Pontorme, nell’immediata periferia di Empoli, il 13 settembre 1926 gli viene rilasciato un nuovo passaporto per trasferirsi ancora in Francia. A partire dal 1927 abita e lavora in Belgio, a Ougrée, Liegi, rue Ferdinand Nicolary, n°117, dove svolge la funzione di segretario della sezione cittadina del Soccorso rosso internazionale. Il 24 gennaio 1930 è’ imputato dell’omicidio del fascista Fernando Poloni, sulla base dell’unica testimonianza del fratello della vittima, avvenuto il 25 dicembre dell’anno precedente, proprio nel quartiere dove abita. Nonostante l’immediato arresto di Giovanni Cantini, gerente di un piccolo caffè, anch’egli originario di Empoli, di Salvatore Budroni, minatore di Oschiri (Sassari), anch’egli collettore del Soccorso rosso e di Egidio Rampioni, muratore comunista di Fano (Pesaro), sospettati di complicità, Aurelio riesce a sfuggire alla cattura dirigendosi verso Arlon, con l’intento di varcare la frontiera del Lussemburgo. L’accusa di omicidio contrasta con le notizie del Consolato d’Italia a Liegi, secondo le quali Aurelio «aveva assunto un atteggiamento riservato e tranquillo». La perquisizione effettuata a carico del fratello Emilio su iniziativa della Prefettura di Firenze conduce la polizia a individuare la sua residenza in Belgio, ma una lettera del fratello Luigi, anch’egli emigrato, del 21 marzo 1930, indirizzata proprio ad Emilio, riferisce che Aurelio è riparato in Russia in seguito ai fatti di Liegi, con l’aiuto di un compagno, Fantin Flora, che gli consegna denaro e vestiti. Ma intanto le autorità belghe avevano provveduto ad espellerlo il 24 febbraio e la Corte d’Assise di Liegi a condannarlo in contumacia alla pena capitale nel gennaio del 1931: da quel momento la polizia fascista si sforza di seguire la vita e gli spostamenti di Aurelio in territorio sovietico. Nell’aprile 1932 egli comunica alla sorella Maria di essersi sposato con una ragazza di padre russo e di madre italiana, Tamara, dalla quale ha avuto un figlio, Romolo. In Urss Regini, oltre a lavorare come tornitore presso un’industria moscovita, continua a svolgere attività antifascista organizzando spedizioni in Italia di diversi pacchi di manifestini di ispirazione comunista destinati all’opposizione clandestina, mentre nella dimensione privata continua a intrattenere rapporti epistolari con i fratelli e la sorella Maria, alla quale chiede di informare la famiglia del compagno Cafiero Lucchesi di Prato che il loro congiunto sta bene. La Regia Ambasciata d’Italia a Mosca alla fine del 1936, nel confermare che da almeno un anno Regini lavora a Sebastopoli e in vari porti del mar Nero, avanza l’ipotesi che la sua attività politica sia costituita da propaganda sovversiva rivolta ai marittimi italiani che frequentano quei porti, senza tuttavia escludere che una possibile ragione del trasferimento in questa località sia dovuta alla sua tubercolosi e alla necessità di un clima più mite rispetto a quello moscovita. In occasione dell’inizio della guerra civile spagnola e del successivo intervento di un corpo di spedizione fascista in Spagna, in una lettera alla sorella Regini mostra di essere informato sulle operazioni militari italiane e sulla sconfitta subita dai fascisti ad opera delle forze repubblicane e dei volontari della Brigata “Garibaldi” a Guadalajara, esprimendo compassione per i militari italiani inviati in Spagna per volontà del duce: «Poveri soldati ingannati!». Il 17 giugno 1938il Consolato italiano di Nancy, che sorveglia la vita del fratello Luigi, dà la notizia che Aurelio forse è deceduto: l’informazione contrasta con l’invio della posta di Aurelio alla sorella ancora in date successive alla sua presunta morte, quando, in particolare il 25 ottobre successivo, egli fa riferimento ai preparativi per l’imminente festa per l’anniversario della Rivoluzione, mentre in Italia c’è stato l’anniversario «della miseria e fame mortale e basta». Ma la situazione cambia rapidamente in modo drammatico: un telespresso della R. Ambasciata di Mosca del 10 gennaio 1939 dà notizia che Regini «sarebbe da alcun tempo caduto in disgrazia di fronte al partito per le sue relazioni con dei fuorusciti italiani … attualmente arrestati perché ostili o poco ortodossi nei riguardi del regime staliniano». In data imprecisata Aurelio seguirà la sorte di molti comunisti che saranno incarcerati ed eliminati dal regime di Stalin, fra i quali il suo amico pratese.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale, busta 4269; http://www.memorialitalia.it/archivio/mem/gulagframeset_ita.html.




Cafiero Lucchesi e Dino Amilcare Alajeff Meoni

Sono presentati in due articoli 4 profili biografici di altrettanti comunisti dell’area di Firenze e Prato che subirono le persecuzioni del fascismo; tre di loro furono anche vittima dello stalinismo mentre Meoni che viene qui ricordato avrà comunque un percorso di distacco critico dal PCI nel dopoguerra.

LUCCHESI Cafiero

(Prato 7.1.1897 – Butovo, Mosca (Russia) 4.6.1938)

 Nato a Prato nel 1897 da Al(a)dino e da Laudomia Lumini, famiglia imbevuta di ideali anarchici e socialisti. Frequentati i primi anni delle elementari, lavora come operaio nell’industria pratese degli stracci. Membro della gioventù socialista nel 1912, nel 1916 è denunziato, insieme ad altri, per propaganda contro la guerra in occasione della chiamata alle armi della classe 1897; soldato durante la guerra mondiale, diserta e nel 1918 è arrestato e condannato. Tornato in libertà riprende il suo lavoro. Ardito del popolo e iscritto al PCd’I dal 1921, nel novembre dello stesso anno è coinvolto in scontri con i fascisti, che hanno un seguito nel gennaio successivo, in data 11, quando, in risposta all’ennesima provocazione da parte del comandante delle squadre d’azione pratesi, tenente Federico Guglielmo Florio, spara alcuni colpi di rivoltella, ferendo a morte il suo persecutore, che muore 6 giorni dopo, ed altre persone per coprirsi la fuga. Un telegramma del 12 gennaio inviato dalla Prefettura di Firenze al Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, così descrive l’accaduto: «pomeriggio oggi, mentre ex Tenente Florio dirigente quel Fascio (di Prato, n.d.r.) accompagnato alcuni fascisti, sostava Porta Serraglio, imbattevasi nel comunista Lucchesi Cafiero, già condannato grave pena per diserzione, che lo fermava per parlargli. Tenente Florio allontanavasi da compagni, ma mentre sembrava che egli parlasse tranquillamente col Lucchesi, questi estratta rivoltella che teneva abusivamente, sparò tre colpi contro il Florio che riportava ferita all’addome per la quale versa in gravissime condizioni …». La Prefettura omette di riferire come, già in precedenza più volte, l’incontro con Florio era costato a Cafiero Lucchesi bastonate, frustate, calci, sputi e umiliazioni soprattutto quando era colto in compagnia della fidanzata Giulia Giacomelli. Leonetto Tintori, famoso pittore pratese, all’epoca dei fatti non ancora quattordicenne, è testimone oculare della sparatoria e in una sua memoria narra come anche in quella circostanza il giovane comunista sia stato provocato per l’ennesima volta dal capo squadrista. La posizione di Cafiero è aggravata dal contenuto della scheda personale del 5 dicembre precedente redatta per il Casellario Politico Centrale: in essa è descritto con «espressione fisionomica truce», gode di «pessima fama» ed è «acerrimo nemico del fascismo». Dopo lo scontro con Florio, colpito da mandato di cattura il 22 gennaio, egli si rende introvabile, nonostante che le ricerche della polizia si svolgano anche all’estero. Questa vicenda fa precipitare la situazione in città, dando luogo ad una settimana di terrore e alle dimissioni della giunta comunale socialista. Infatti la reazione fascista alla morte dello squadrista in ospedale provoca la devastazione e l’incendio della Camera del Lavoro e della sede della Lega Laniera, il danneggiamento della tipografia dove si stampa il settimanale socialista “Il Lavoro”, il tentativo di incendio della casa di Cafiero e la distruzione di sedi di cooperative ed associazioni operaie. Inoltre, al di là di ogni evidenza sull’identità dello sparatore, le autorità di polizia, in sintonia con la propaganda fascista, riescono a costruire un castello di false testimonianze per avallare la tesi di un complotto comunista sulla base del quale sono processati e condannati a pene pesantissime molti oppositori locali. Intanto Cafiero, rifugiatosi in un  primo tempo a Trieste, secondo la testimonianza di Egidio Bellandi, raggiunge poi l’URSS come emigrato politico.  Trova lavoro in una fabbrica tessile di Mosca, sposa poco dopo un’operaia russa, che gli dà presto un figlio. Nel 1924, con sentenza del 3 febbraio, è condannato in contumacia all’ergastolo e successivamente, il 26 gennaio 1933, inserito nella rubrica di frontiera e nel Bollettino delle ricerche. La caccia scatenata a suo carico dalla polizia infatti si è estesa anche all’estero, finché il 29 agosto 1932, da un’informazione di un fuoruscito pratese, Mario Imprudenti, rifugiatosi a Mosca, risulta che «Cafiero Lucchesi […] originario di Prato, dove avrebbe abitato in via Giudea, alto, magro, dai capelli bianchi, di circa 32-33 anni, risiede a Mosca da circa 5 anni. Dirige attualmente un reparto in una fabbrica di stoffe …». Il 21 novembre 1935 l’Ambasciata italiana a Mosca comunica che in Russia egli svolge attività politica e probabilmente aderisce alla sezione italiana del soccorso rosso, aiutando alcuni comunisti detenuti nelle carceri fasciste. Intanto la corrispondenza del fratello Primomaggio e del padre Aladino è strettamente controllata, ma non emerge niente di utile per le ricerche. Il 14 febbraio 1938 l’Ambasciata riferisce che è possibile che Cafiero Lucchesi sia stato accusato di trotzkismo ed arrestato: l’accusa che gli viene rivolta è di avere legami con circoli di emigranti sospettati di spionaggio. Al club internazionale degli emigrati, sia pure in posizione defilata, è membro della minoranza di sinistra che, composta da una mezza dozzina di elementi, fa capo a Virgilio Verdaro. Nel 1929 tutta l’opposizione all’interno della dirigenza del club degli emigrati italiani viene epurata e, 6 anni più tardi, viene chiuso lo stesso club, giudicato covo di spie dalla polizia politica. Secondo gli informatori della polizia italiana nel 1936 è inviato in Spagna: infatti la polizia avanza l’ipotesi che «il pericolosissimo comunista Lucchesi Cafiero, assassino del Martire Fascista Florio» si trovi a Madrid, da dove fa pervenire «ai compagni di Prato ingenti somme di denaro» e nel 1938 è segnalato a Barcellona come «il maggiore Lucchesi»; ma del fatto non ci sono conferme.  Già segnalato come bordighista dai dirigenti del PCd’I della sezione quadri del Komintern, è arrestato nel marzo del 1938 a Mosca con l’accusa di attività spionistica a favore dell’Italia, condannato alla pena di morte e fucilato nel poligono di Butovo, nei pressi di Mosca, nel giugno successivo. Riabilitato il 31.12.1959.

 FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Archivio generale del Comune di Prato, carte Egidio Bellandi; Corneli Dante, Lo stalinismo in Italia e nell’emigrazione antifascista, Elenco delle vittime italiane dello stalinismo (A-L), quinto libro, Tivoli, Edito in proprio, 1981; R. Daghini, Da Prato a Mosca solo andata. La sorte di cafiero Lucchesi dopo l’omicidio di Federico Guglielmo Florio, in “Microstoria”, IX (2007); M. Di Sabato, Storia del fascismo e dell’antifascismo nel Pratese, Roma, Ediesse, 2013; Dundovich Elena, Gori Francesca, Guercetti Emanuela (acd), Reflections on the Gulag. With a Documentary Appendix on the Italian Victims of Repression in the USSR, Milano, Feltrinelli, Annali, XXXVII, 2001; M. Palla (a cura di), Storia dell’antifascismo pratese, Pisa, Pacini Editore, 2012; D. Saccenti, Memorie, Firenze, Istituto Gramsci, sezione toscana – CLUSF, 1981; F. Venuti, Ricordo di un combattente. Dino Alajeff Meoni, Prato, Pentalinea, 2017; www.fondazionebordiga.org; www.memorialitalia.it; www.pratoreporter.it; httpp://archive.is.

Meoni001MEONI Dino Amilcare Alajeff

(Prato, 03.05.06 – Prato, 21 marzo 1979)

 Figlio dell’anarchico Leonello, nasce a Prato il 3 maggio del 1906. Dopo la sua nascita la famiglia emigra in Francia per evitare persecuzioni politiche e già all’età di otto anni partecipa col padre a manifestazioni sindacali e pacifiste. Nel 1921 ritorna a Prato ed entra immediatamente in conflitto con i fascisti locali quando definisce il capo degli squadristi pratesi, Federico Guglielmo Florio, “un pagliaccio”; sebbene un appunto del Commissariato di PS lo presenti come dedito alla vita randagia, ma senza precedenti né pendenze penali, egli tuttavia ben presto aderisce al movimento giovanile comunista impegnandosi a diffondere materiale di propaganda del partito. Il 29 gennaio del 1929 la Pretura di Prato lo condanna a sei mesi di reclusione, alle spese di giudizio e a cinque anni di condizionale per oltraggio a un brigadiere dei RR CC e a un milite della MVSN per avere detto: “Fate pure, per ora avete ragione, ma anche per voialtri finirà, ed allora faremo i conti“.

Nel 1931, prima della scadenza della condizionale, è nuovamente arrestato come aderente all’organizzazione comunista e il 18 febbraio dell’anno successivo, dopo l’arresto del 31 gennaio, è denunciato al TS dalla Questura di Firenze. Dalla sentenza istruttoria n°65 del 29 aprile 1932 si apprende che, nonostante la sua dichiarazione di non avere mai svolto attività politica, da tempo era frequentatore della bottega del sarto Zola Settesoldi, insieme a molti giovani comunisti della città. Alla presenza dello stesso Giudice Istruttore, Meoni dà prova dei suoi sentimenti sovversivi dichiarando che non teme l’autorità di PS e tanto meno il TS e che non gli importa di riportare una condanna.

L’11 novembre del 1932 è scarcerato in occasione del decennale fascista e da quel momento riprende la sua attività politica clandestina per finire di nuovo arrestato il 27 febbraio 1934 con l’accusa di aver costituito, organizzato e diretto il partito comunista, facendo di esso parte e svolgendo propaganda a favore del medesimo: nel corso del 1933 infatti aveva intrapreso l’opera di ricostruzione dei quadri del partito dopo le retate del 1930 e del 1932, raccogliendo intorno a sé militanti come Armando Bardazzi, Egidio Tommaso Bellandi, Valentino Bianchi, Assuero Martino Vanni, che costituiranno il nucleo più resistente all’attività repressiva delle autorità di polizia. Egli stabilisce contatti col gruppo comunista di Sesto Fiorentino e di Firenze e organizza il Soccorso rosso, almeno finché non viene sospeso dal comitato per contrasti con Egidio Bellandi e Fernando Pacetti. Con sentenza n°1 del 28 gennaio 1935 il TS lo condanna a dieci anni di reclusione, al pagamento delle spese processuali,a quelle della propria custodia preventiva e alla libertà vigilata con due anni di condono condizionale.

Trasferito dal penitenziario di Regina Coeli, arriva il 5 marzo a quello di Civitavecchia (RM) per essere recluso nelle celle “separate”, dove conosce fra gli altri Mauro Scoccimarro, Giancarlo Pajetta e Umberto Terracini. Il Regio Decreto del 15 febbraio 1937 n°77, emanato per la nascita del principe di Napoli Vittorio Emanuele di Savoia, che prevedeva un’amnistia piena per le pene non superiori a tre anni e una riduzione di alcuni anni per le altre, permette la sua scarcerazione nel 1938: da quel momento è sottoposto ad una asfissiante sorveglianza. Ritornato a Prato, viene a sapere che anche il padre Leonello e il fratello Paleario sono stati arrestati: per aiutare la madre, si impiega presso il lanificio Campolmi, dove riprende a creare, con pazienza e determinazione, un embrione di organizzazione comunista, contribuendo a mantenere i collegamenti col direttivo del partito e riuscendo a sfuggire alla vasta retata dell’OVRA attuata nel Pratese nel mese di giugno del 1941.

Pochi giorni dopo la caduta di Mussolini è arrestato insieme al fratello e a numerosi comunisti per istigazione all’astensione dal lavoro, secondo quanto riferisce una prefettizia del 5 agosto, ma subito dopo il rilascio, si attiva per ricostruire il gruppo dirigente comunista pratese e un embrione di sindacato: il 24 agosto, insieme ad Assuero Vanni e ad Alberto Torricini, come rappresentante dei tessili pratesi, sigla a Firenze un accordo con la parte padronale che concede a tutti i dipendenti delle aziende tessili pratesi la somma di £ 500 a titolo di conguaglio salariale. Nel mese di settembre entra a far parte del CLN pratese e alla fine di febbraio del 1944 collabora con Bogardo Buricchi per l’organizzazione dello sciopero generale del marzo successivo nelle fabbriche cittadine. Quando i carabinieri si presentano nel lanificio dove lavora per arrestare i dipendenti che avevano scioperato e consegnarli ai nazisti per la deportazione, riesce a sfuggire alla cattura e da quel momento entra nella Resistenza armata.

Dal 1° marzo al 25 ottobre del 1944 milita nella brigata garibaldina “Gino Bozzi”, che opera sull’Appennino pistoiese-emiliano ed in Garfagnana. A lui è affidato il compito di stabilire i collegamenti della brigata con l’organizzazione comunista di Pistoia e il comando militare del CLN provinciale ed è anche il responsabile dell’approvvigionamento di generi alimentari a favore delle popolazioni delle zone liberate dai garibaldini. Infine la sua attività si estende alla ricerca di contatti con altre formazioni operanti sull’Appennino.

Nel dopoguerra è rappresentante delle maestranze tessili pratesi nella nuova Camera del Lavoro, è redattore del periodico del PCI “Il Proletario”, fa parte per un certo periodo della Commissione annonaria del Comune e sul piano politico caldeggia il patto di unità d’azione tra i partiti antifascisti, nonostante la deriva premonitrice del clima della guerra fredda della situazione politica nazionale, allo scopo di dare, come egli stesso scrisse, “un fattivo contributo all’opera grandiosa che dovrà essere compiuta per la resurrezione e il benessere della nostra città. Successivamente si allontana dal Pci imputando alla direzione del partito una serie di errori compiuti nel quadro del clima della guerra fredda e dell’offensiva padronale succeduta alla rottura dell’unità antifascista, collocandosi in un’area della sinistra critica.

 FONTI: Testimonianza raccolta da Giovanni Verni (archivio privato); Archivio di Stato di Prato, Commissariato di PS, 1923, busta 24; Archivio Istituto Storico della Resistenza in Toscana, CLN di Prato, Relazione sulla Resistenza pratese; Archivio Istituto Storico della Resistenza in Toscana, fondo Boniforti; Istituto Culturale e di Documentazione “Alessandro Lazzerini”, Prato, “Il Proletario”, LA 29 Palch. 1.01., Misc. Pratese 25; AA.VV., Aula IV. Tutti i processi del Tribunale Speciale fascista, Roma, ANPPIA, 1961; R. Daghini, Il cammino per la libertà. Podestà, Commissari, Resistenza. Liberazione e CLN nei comuni della provincia di Pistoia (1926-1946), Pistoia, Tipografia GF Press, 2013; M. Di Sabato, Dalla diffida alla pena di morte, Prato, Pentalinea, 2003; M. Di Sabato, Prato dalla guerra alla ricostruzione, Prato, Pentalinea, 2006; C. Ferri, La Valle rossa, Prato, Viridiana, 1975; A. Menicacci, Pagine della Resistenza nel Pratese, Prato, Viridiana, 1970; G. Tagliaferri, Comunista non professionale, Milano, La Pietra, 1977; F. Venuti, Ricordo di un combattente: Dino Alajeff Meoni, Prato, Pentalinea, 2017; G. Verni, La Brigata Bozzi, Milano, La Pietra, 1975; G. Verni, Pericolosi all’ordine nazionale dello Stato, Milano, La Pietra, 1980.




Guerra totale in Vadinievole

«C’era poco da festeggiare nella nostra famiglia»: con queste parole il monsummanese Angiolo Fidi, superstite dell’eccidio del Padule di Fucecchio, ricordava la liberazione dal nazifascismo dopo un anno denso di episodi, iniziato nel settembre 1943 quando le truppe motorizzate tedesche fecero la loro comparsa a Monsummano Terme e conclusosi il 4 settembre 1944.

L’impatto che la guerra totale generò sulla società locale fu devastante sotto gli aspetti militari, politici, culturali, economici, e raggiunse dimensioni che coinvolsero l’intera popolazione civile e l’insieme delle risorse di ogni territorio. Piccoli paesi che conobbero l’esperienza dei bombardamenti alleati, dello sfollamento, dell’arresto degli ebrei, della Resistenza, delle stragi di civili.

La riorganizzazione, dopo l’Armistizio, del potere fascista sotto la neonata Repubblica Sociale Italiana portò a una forma di collaborazione stretta con gli occupanti nazisti. A Monsummano furono riorganizzati i quadri dell’amministrazione e il Commissario Prefettizio Gildo Rubino mantenne il proprio ruolo fino al 21 ottobre quando fu sostituito dal professore Italo Giampieri che rimase in carica fino a inizio luglio 1944.

Numerosi bandi e ordinanze interessarono tutta la provincia, emanati inizialmente dalla Prefettura di Pistoia su ordine del comando germanico e diffusi poi in ogni comune. Tali decreti compromisero la vita della popolazione locale: il coprifuoco dalle 22 alle 5; l’oscuramento notturno delle case; la presentazione obbligatoria per i militari rientrati dopo l’8 settembre; il divieto di aiutare i soldati angloamericani; la consegna forzata di tutte le armi; la proibizione di ascoltare canali radio ostili; la lotta al mercato nero; l’obbligo di eliminare ogni riferimento alla passata monarchia dalle intitolazioni.

Particolarmente drammatica fu la situazione degli sfollati, ammassati in strutture disabitate o ricavate da edifici dismessi, in condizioni sanitarie precarie e spesso privi dei basilari mezzi di sostentamento e di vestiario.

Quotidianamente risuonavano le sirene degli allarmi aerei e gli abitanti solevano proteggersi nella campagna e nei rifugi; la città, non avendo importanti obiettivi industriali o vie di comunicazione, non subì mai un completo bombardamento aereo, fu però cannoneggiata e mitragliata dagli alleati soprattutto nella stagione estiva.

Uno dei capitoli più significativi fu quello dell’arresto e della deportazione degli ebrei, con retate organizzate dai repubblichini in collaborazione con i tedeschi. Gli arresti avvenuti sul suolo italiano fra il 1943 e il 1945 non possono essere considerati delle semplici parentesi all’interno della dimensione occupazionale nazista. Il collaborazionismo fascista giocò un ruolo fondamentale, non ausiliario, dimostrato dalla storiografia nazionale e confermato da numerosi studi locali. Senza l’aiuto di chi conosceva il territorio, mai si sarebbe potuto realizzare il bilancio di arrestati che colpì la penisola italiana. Il caso di Monsummano conferma tali ricostruzioni storiografiche: il 5 novembre 1943 una perlustrazione organizzata da agenti del commissariato di pubblica sicurezza di Montecatini e da carabinieri della stazione di Monsummano, in collaborazione con militari tedeschi e repubblichini locali, condusse al fermo di sei «appartenenti a razza ebraica»: Giulio Melli (74 anni) e sua moglie Giuseppina Coen (74); Elio Melli (39) e sua moglie Vilma Finzi (33); Sergio (10) e Giuliana Melli (3).

Lo stesso giorno furono arrestate altre tre donne ebree: Marianna Calò Guarducci (74), rilasciata il 6 novembre; Evelina Nella Pitigliani (60) e sua sorella Albertina Pitigliani nei Bonaventura (66). Nei giorni seguenti fu catturata Elena Ida Toscano (88), madre delle sorelle Pitigliani, mentre a febbraio fu arrestato Carlo Levi (72), subito deportato. Il carcere di Monsummano svolse un ruolo fondamentale nella detenzione dei nove ebrei arrestati che furono rinchiusi fino al marzo 1944 quando la procura di Pistoia ordinò lo sgombero. Vennero trasferiti nel carcere di Firenze, poi nel campo di smistamento per ebrei di Fossoli, in Emilia-Romagna. Partirono il 5 aprile 1944 con i treni in direzione Auschwitz.

La presenza tedesca in paese fu avvertita anche con la presenza attiva dell’organizzazione Todt, una grande impresa di edificazioni che operò in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht, con sede nello stabilimento termale della Grotta Giusti; reclutavano personale civile in parte aderente e in parte obbligato per edificare baracche, fortini in cemento e gallerie. Proprio qui, da inizio giugno fino al 14 luglio 1944, fu situato il quartier generale di Albert Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia.

Nel corso dell’estate 1944, l’amministrazione italiana perse progressivamente il suo ruolo e le forze tedesche operavano come se la Repubblica Sociale Italiana non esistesse, al punto da interrompere lo scambio di informazioni e la collaborazione. Le stesse autorità italiane agirono in completo sfaldamento, scandito dalla fuga dei dirigenti locali, dei militi repubblichini e dei carabinieri. In quei mesi, con l’avvicinamento del fronte e la fuga nazista verso la Linea Gotica, furono operate le principali stragi di civili compreso l’eccidio del Padule di Fucecchio (174 morti, di cui 84 residenti a Monsummano, il 23 agosto 1944). Furono catturati a Monsummano e uccisi qui o nei comuni limitrofi: Sereno Romani (45 anni), colpevole di aver difeso alcune parenti da un tentativo di stupro; Bruno Baronti (20) e Foscarino Spinelli (20, di Lamporecchio); Brunero Giovannelli (22), colpito durante un rastrellamento mentre tentava di fuggire; Marino Agostini (34), Italo Laserdi (29), Fausto Franceschi (66), Antonio Boninsegni (18), accusati di aver effettuato segnalazioni luminosi.

A Monsummano furono costituite tre formazioni partigiane (Stella Rossa, comunista; Corallo, azionista; Faliero, comunista) che si distinsero principalmente per attività di sabotaggio, di raccolta armi e informazioni. Il 4 settembre 1944 un’azione congiunta delle varie squadre portò all’occupazione della città già abbandonata dai tedeschi, in un’operazione che ricalcava quella dei territori limitrofi: fuga nazista, contatti fra i partigiani e gli alleati, controllo del territorio da parte dei partigiani, arrivo definitivo delle truppe alleate. I rapporti fra la popolazione e le nuove truppe angloamericane di occupazione non furono sempre buoni, anzi ci furono incomprensioni, soprusi e atti intimidatori; persino il comunista Fulvio Zamponi, nominato all’unanimità il 9 settembre primo Sindaco di Monsummano dopo la Liberazione, fu arrestato con l’accusa di essersi rifiutato di dare informazioni «in zona di operazioni militari» dopo l’affissione da parte dei giovani comunisti di un manifesto giudicato come sovversivo che «chiedeva alle donne di non comportarsi con gli alleati come si comportavano con i tedeschi».

Matteo Grasso (Pescia, 1990). Storico, dal 2016 è direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia. È il responsabile dell’attività scientifica dell’Istituto; ha curato e coordinato mostre e progetti, fra cui “Cupe vampe, la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti” e “On the run. Helpers and Allied servicemen in the Pistoia area” svolto in collaborazione con University of Lincoln (United Kingdom). Le sue ricerche, orientate nello studio della Seconda Guerra Mondiale, si sono concretizzate in cinque monografie, fra cui: Dispersi sì, dimenticati mai: il naufragio del Piroscafo Oria. Il caso dei soldati valdinievolini e pistoiesi, Firenze, Edizioni dell’Assemblea, 2019; Tesori in guerra. L’arte di Pistoia tra salvezza e distruzione, Pisa, Pacini editore, 2017.