Cordara Machetti “Lucciola” (1922-2002)

Laura Mattei - Istituto storico della Resistenza senese

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Cordara Machetti

Nasce a Pienza il 14 giugno del 1922 in una famiglia composta da padre, madre e una sorella. Il padre fa lo stradino, la madre lavora come donna di servizio presso una famiglia dell’alta borghesia pientina, la sorella Zuara, più grande di pochi anni, è sposata e madre di un bambino piccolo e segue con trepidazione la scelta di Cordara di partecipare alla lotta partigiana. Cordara è una donna vivace, creativa e dai modi un po’ spicci, fa la sarta ed è bravissima a costruire pupazzi di stoffa e lana.

Fin dagli inizi del 1944 è un aiuto fidato per la soluzione di problemi logistici legati all’organizzazione dei gruppi partigiani che si stanno formando nel territorio sotto la guida di Walter Ottaviani “Scipione”, un militare di orientamento monarchico che raduna intorno a sé uomini di varia estrazione politica ma uniti nell’affrontare la lotta senza cedere all’attesismo1 del Raggruppamento Monte Amiata, di cui il gruppo formalmente fa parte.

Cordara, nome di battaglia “Lucciola”, si sposta per reperire cibo, vestiario, medicinali e sovente sceglie di fermarsi a dormire nel podere abitato dai parenti non lontano da Monticchiello, per evitare di tornare a casa troppo tardi e destare sospetti sulla sua attività clandestina.

Il 6 aprile 1944, durante l’importante episodio di Monticchiello, in cui si fronteggiano partigiani e militi fascisti, insieme a Norma Fabbrini e Anelida Chietti riesce ad aggirare le linee nemiche e raggiungere la collina da dove il grosso della formazione sta combattendo. Le tre donne curano i feriti e apprendono che, se i combattimenti dovessero prolungarsi, i partigiani si troverebbero senza munizioni perché il punto più vicino per i rifornimenti è nella direzione del fuoco nemico. Cordara decide allora di andare a prendere le munizioni nel nascondiglio più lontano e, con Norma e Anelida, riesce nell’impresa, anche se la battaglia si conclude di lì a poco con la sconfitta dei repubblichini.

Successivamente viene catturata dai fascisti e trattenuta prigioniera nella sede della Polizia politica, la famigerata Casermetta di Siena, dove viene più volte interrogata, non parla e attende la sua liberazione che avviene dopo oltre venti giorni di prigionia.

Alla fine della guerra si sposa con Walter Ottaviani e vanno a vivere a Roma. Sarà riconosciuta partigiana combattente.

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🟥 Le storie in cinque minuti dell’ISRSEC “V. Meoni”. Podcast su LA BATTAGLIA DI MONTICCHIELLO

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🟪 Testimonianza riportata in Vittorio Meoni, “Ora e sempre Resistenza. Scritti e testimonianze su Montemaggio, Monticchiello e la Resistenza in terra di Siena“, Arcidosso, Effigi, 2014, pp. 74-5.

La sera del 5 sapemmo in paese da uno dei nostri di ritorno da Siena che la mattina seguente sarebbero venuti in rastrellamento alcune centinaia di militi. Furono avvisati i nostri ragazzi che ebbero così il tempo di prepararsi e piazzare le armi. Io trascorsi la notte in bianco. La mattina, verso le sette, mi ero assopita, quando sento alcune raffiche di mitraglia. […] Uscii, ma avevo il cuore straziato ad ogni colpo, e dovevo fare l’indifferente per quei due o tre disgraziati repubblichini del mio paese, già elettrizzati dalla gioia. Andai in fondo al paese, dove ora si vedeva tutto. I fascisti erano molti, li vidi bene con i binocoli. Fin verso le dieci e mezza assistetti, e non posso descrivere quello che soffrii. Poi non ne potei più e decisamente dissi a Norma: “Io vado, non posso più assistere da lontano”. Essa cercò di farmi comprendere i pericoli a cui mi esponevo, passare fra i fascisti per raggiungere gli amici. Ma io non volli nulla sentire. Passai da mia cugina Adelinda a mettermi gli scarponi. Anch’essa non ci lasciò partire sole. Per la strada si può immaginare quello che provammo. Da tutte le parti sparavano, ma riuscimmo a nasconderci ai fascisti, e per i campi arrivammo dopo due ore alla zona che volevamo raggiungere. Giunte abbastanza vicino sapemmo da una sentinella nostra che nessuno era morto né ferito. Io volli andare proprio dove si combatteva e rimasi meravigliata. I ragazzi scherzavano e mi accolsero come sempre, rumorosamente. Walter poi mi disse che immaginava che sarei andata da loro. Tutti i timori svanirono di fronte al buon umore incredibile di quei ragazzi. Intanto i proiettili fischiavano, a volte molto vicini. Fu tenuto consiglio. Poi decisero di mandare squadre più in basso per attaccare i fascisti alle spalle mentre salivano a Monticchiello. Erano già alle scuole, non c’era tempo da perdere. Io mi informai delle munizioni e seppi che c’erano, ma a seconda di quanto fosse durata la sparatoria. Senza dire nulla a Walter, altrimenti non mi avrebbe mandata, partii. Le mie amiche mi seguirono. C’era all’incirca un’ora e più di strada e bisognava correre. Attraverso i campi giunsi io per prima. Non volevano darci le munizioni, perché non ci conoscevano. Capitò per fortuna una contadina che conosceva me. Mentre le dissotterravamo, mi volto e da una stradina alle nostre spalle giungono una decina di armati in borghese. Immaginai che fossero dei nostri ma per prudenza gli andai incontro e dissi alcuni nomi di battaglia. I ragazzi capirono. Mi chiesero notizie ma io, senza perder tempo, li caricai di munizioni e via. Eravamo vicini, quando si sente gridare: “Scappano tutti! Venite! Correte!” Io grido: “Chi?” “I fascisti!” Per poco non caddi dalla gioia. E allora piangendo (non avevo fatto lacrima durante il giorno, piangevo di gioia) corsi con gli altri ancora di più. Trovammo i ragazzi in festa.

 

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