
Messina Batazzi
Nasce a Tocchi, nel Comune di Monticiano, il 17 maggio del 1914 in una famiglia composta da madre casalinga, padre operaio della locale fattoria, una sorella, un fratello e il nonno paterno. Cresce frequentando assiduamente le cugine Griseide e Intima, figlie dello zio materno perseguitato dal regime fascista, in più occasioni picchiato e condotto in carcere, che avrà un ruolo non secondario nella sua formazione.
Ancora ragazza, si oppone alla richiesta del podestà di Monticiano di consegnare beni alimentari sollecitando le altre donne del paese a seguire il suo esempio. Dopo l’8 settembre aiuta i renitenti alla leva a nascondersi nei boschi. Partecipa ai primi incontri degli antifascisti del senese decisi a concertare la lotta armata nascondendosi sul Monte Quoio, nel Comune di Monticiano, dove possono disporre degli essiccatoi per ripararsi e affrontare l’inverno. Da questo primo periodo Messina è la staffetta che prende contatto con le famiglie dei partigiani e incontra elementi del CLN per conoscere le parole d’ordine necessarie per ammettere gli uomini nella nascente Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”. Non si sottrae ai viaggi notturni, percorre a piedi e in bicicletta strade e viottoli, accompagna il dottore a curare i feriti, porta informazioni e ordini dei comandanti per i diversi gruppi partigiani dislocati in un territorio che con il passare dei giorni diviene sempre più ampio.
Il suo impegno si volge al reperimento di indumenti, scarpe e cibo che insieme alle cugine porta ai partigiani. In una occasione alcune vedette tedesche individuano le tre donne e aprono il fuoco, per fortuna senza colpirle; consegnato il cibo decidono di percorrere una strada diversa e di fermarsi da alcune parenti per farsi prestare dei vestiti, sperando di non rendersi riconoscibili qualora incontrino dei nemici lungo la strada del ritorno. Nella primavera del 1944 i partigiani, con l’aiuto della popolazione di Tocchi, ammassano nella scuola le armi ricevute da uno degli aviolanci effettuati dagli alleati, ma la notizia dell’arrivo imminente di una colonna di mezzi tedeschi costringe i combattenti a rifugiarsi nei boschi portando con sé solo una parte della fornitura. Messina, con l’aiuto di alcune donne, carica armi e munizioni su un carro e le nasconde nella cappella del cimitero. I tedeschi arrivano, occupano il paese ma non si accorgono di niente.
Conclusa la guerra si iscrive al PCI, è attiva nell’UDI e nel sindacato. Sarà riconosciuta partigiana combattente.
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Intervista in “Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana“
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🟪Intervista realizzata nel 1992, in Silvia Folchi, Anna Maria Frau, La memoria e l’ascolto. Racconti di donne senesi su fascismo, Resistenza e Liberazione, Siena, Nuova immagine, 1996, pp. 97-9.
In questo periodo io svolgevo il ruolo di staffetta. […] noi si prendeva ordini e si portavano ordini dalla città al raggruppamento fino al bosco. Gli incontri si facevano di nottetempo nei boschi. […] Non c’era da fare tanti discorsi lunghi, bisognava far svelti, ognuno tagliava corto.
Tutti questi spostamenti, Siena-Monticiano, si facevano in bicicletta. Poi in casa delle mie cugine ci si fissò, ci stava un dottore di Castelfiorentino e stava sempre lì, e noi la sera nottetempo sempre in bicicletta insieme al dottore per non mandarlo solo per non presta’ dubbi trovando i carabinieri, i fascisti, si viaggiava sempre in coppia: una donna e lui. Quando c’erano i feriti, quando c’erano i malati nei capanni, nei seccatoi dove vivevano i partigiani, s’andava, ci s’accompagnava il dottore e poi si ritornava. Questo dava meno nell’occhio. Una sera trovai il mi’ babbo che tornava dal lavoro, perché tutte le cose al mi’ babbo non gliele dicevo io, mica perché avevo paura. Ma lui aveva paura che io cascassi in qualche tranello, capito? Allora una sera si trovò, noi s’andava a Monticiano, che c’era stato dei partigiani feriti, e lui ritornava dal lavoro e ci trovò in bicicletta col dottore e la mi’ cugina. Mi disse “Dove vai disgraziata?” “O babbo stai tranquillo. Vai a casa, stai tranquillo. Io tomo. Presto torno. Prima che tu vada a letto io so’ già a casa”. E invece non fu cosi: si pernottò a Monticiano perché c’era già un bollore… Il dottore si nascose dietro il cimitero di Monticiano a aspetta’ che venissero quelli a pigliarlo, quelli che ci avevano i feriti, e noi s’andò a bussare a un’altra famiglia che era nelle nostre condizioni e si albergò lì. […]
Anche lui [il padre di Messina] accondiscendeva perché sapeva di avere un figlio in guerra e era tredici mesi che non si sapeva dov’era, sicché sapere che qualcuno faceva, allora anche lui si metteva nell’animo: “Può darsi che qualcuno faccia anche qualcosa per il mi’ figliolo”. Questo spirito a me anche mi ha portato proprio a fare di più, a rischiare di più di quello che dovevo rischia’, a pensare che il mi’ fratello […] aveva trovato persone come me che l’avevano aiutato e gli avevano dato da mangiare e era arrivato a sopravvivere e ritornare dalla Jugoslavia. Lui andò coi partigiani. Era con l’esercito, ma quando si fasciò l’esercito lui s’arruolò coi partigiani e allora non si poteva sape’ più notizie.
Noi s’aveva in casa, ci s’aveva, s’ammazzava tutti gli anni il maiale. S’ammazzò il maiale nelle feste di Natale e a marzo non s’aveva più niente da mangiare: né pane, né maiale. S’era bell’e dato via tutto per sfamare i partigiani. Loro piccinini si lavavano male, ce li portavano dei panni, poi s’erano riempiti d’animali.3 Erano sempre a dormi’ nei pagliericci, sicché si facevano bollì’ i panni poi gli si ridavano. Ma questo non era niente: stavano sempre coi soliti brandelli, le scarpe rotte, camminavano con i calcagni fori dalle scarpe. Un giorno ci si incontrò in un bosco con un gruppo e c’era anche i comandanti. C’era uno che mi fece tanta compassione piccinino: era scalzo e gli sanguinava tutti i piedi: “Se domani ci si ritrova ancora qui te le porto io le scarpe” dissi. “Allora –dissi – dove le trovo le scarpe?” Allora mi venne subito in mente. Dissi si va dal prete. Sicché andai dal prete e dissi: “Senta signor curato – dissi – mi deve dare un paio di scarpe nove”. “Ma per chi le voi ’ste scarpe?” Disse lui. “Non mi faccia domande, lei mi dia le scarpe e basta”. E me le dette, eh.
[…] Gli aiuti c’erano, o glieli davano o andavano anche loro stessi a cercarli, perché andavano alle fattorie e si facevano dare dei vitelli per la carne, si facevano dare del pane. […] Quando noi si incontrava qualche persona, che noi si partiva con questa roba, e ci chiedevano “Dove andate?” Eh, nei paesi sono curiosi! Gli si diceva: “Non ci siamo visti. Mi raccomando – ci si chiamava tutti a nome – fate conto di non averci visti perché altrimenti ci va di mezzo la nostra vita”, gli si diceva. Allora tutti tenevano, quelli più coscienti, tenevano il segreto insomma. Certo che quattro anni di guerra erano stati lunghi e la gente era stufa, e [se] aveva anche il minimo dubbio che qualcuno faceva qualcosa per veder di alleviare, di farla finita, stavano tutti nel cuore suo nel silenzio e tiravano avanti sperando, spendo che poi venisse una fine un po’ migliore. Certo, poi venne la solidarietà. Anche lì, per esempio, il fattore entrò anche lui nel nostro rango:4 ci faceva andare in fattoria ad ascoltare le radio. Perché poi quando noi si entrò in contatto con gli americani e con gli inglesi, francesi, la roba non ci mancò più. Ci portavano tutto loro: mangiare, vestiari, armi, tutto, e questo bisognava mettersi in contatto con chi aveva la radio,5 queste robe qui – allora la televisione non c’era – e noi si stava, le più volte, quando si sapeva che ci facevano i lanci, bisognava stare lì all’orecchio della radio per sapere la parola d’ordine che ci arrivava pe’ il lancio.