Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi

 

Nada da giovane

Nada Giorgi con Renato Ciandri

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1].  Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.

«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».

Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.

Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.

I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html

Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare  svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/

Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.

La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].

I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.

Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].

Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].

Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.

Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.

Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].

Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.

Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.

Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.

Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.

È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.

Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.

In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.

Come lei stessa ha detto:

Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]

Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.

Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.

Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.

Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.

Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere.  Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.

«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»

Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].

Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.

Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].

Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.

Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).

Claudia Cardinale e George Chakiris in una scena del film di Comencini

Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].

Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.

Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].

A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa»,  rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].

Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:

“Bube”

Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)

E voi imparate che occorre

vedere e non guardare in aria

questo mostro stava una volta

per conquistare il mondo

i popoli lo spensero

ma ora non cantiamo

vittoria troppo presto

il grembo da cui nacque

è ancora fecondo

Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/

La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.

Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.

Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

 

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704

Note

1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.

2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].

3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.

4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.

5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.

6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.

7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.

8.  M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85

9. Ivi, p. 93

10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]

11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.

12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.

13. Ivi, pp. 100-103.

14. Ivi, p. 109.

15. Ivi, p. 129.

16. Ivi, pp. 133-137.

17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.

18. Ivi, p. 145.

19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.

20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]

 

Bibliografia

Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006

Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]

Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di novembre 2024.




Le stragi nel Mugello (1944)

Fucilazioni. Massacri. Vittime innocenti. Sono questi gli episodi che caratterizzarono i paesi del Mugello durante l’occupazione nazifascista nel 1944, in attesa della liberazione alleata. Quale fu il significato di quelle stragi? Perché interessò proprio quella zona?  Dobbiamo prima capire cosa rappresentano le montagne circostanti il Mugello nel contesto di guerra. Stiamo parlando di valli strette e ritenute abbandonate, al limite della regione, quindi considerate sicure. Sono al contrario estremamente strategiche perché rappresentano il passaggio tra Toscana e Emilia Romagna. Un passaggio decisivo, soprattutto la parte aretina, nella primavera del 1944, quando i comandi delle brigate Garibaldi decidono di creare una grande armata partigiana che doveva operare sull’Appennino per colpire sul forlivese e sull’aretino. Un progetto poi smantellato in seguito all’operazione di rappresaglia e rastrellamento nazista, deciso subito dopo le Ardeatine, che potremmo definire il punto di svolta sulla concezione da parte di Kesselring e dei comandi nazisti del pericolo partigiano, considerato da lì in avanti potenzialmente pericolosi per le proprie truppe. Fino a quel momento non vi erano state stragi di matrice nazista infatti, era stato lasciato ai fascisti il controllo del territorio. Da quel momento cambia tutto. A quel punto, tutte le brigate partigiane che si stavano portando sull’Appennino per raggrupparsi, ovviamente devono separarsi per non essere catturate. Ed è per questo che quindi si verificò la divisione sui territori. Da quel momento l’Appennino diviene strategico, in quanto zona centrale dei combattimenti, e lo resterà finché la linea non si attesterà a Bologna, nell’autunno del 1944[1].

Dopo le Ardeatine vi è quindi un punto di svolta che portò agli episodi stragisti interessati da questo articolo e che colpirono quasi tutti i paesi del Mugello. Volendo fare una raccolta seguendo un principio temporale, la prima tragedia avvenne a Vaglia, tra il 10 e l’11 aprile 1944, nel cosiddetto «eccidio di Pasqua».

Il 10 aprile, lunedì di Pasqua, iniziò sulle pendici di Monte Morello una grossa operazione antipartigiana ad opera del Reparto esplorante della Divisione Herman Göring, comandato dal colonnello G.H. Von Heydebreck, con lo scopo di stroncare la presenza del movimento partigiano locale[1]. La mattina del 10 aprile, le compagnie del Reparto esplorante giunsero in località Cercina, nel comune di Sesto Fiorentino, razziando le case e rastrellando la popolazione civile. Proseguì poi in direzione di Paterno e Cerreto Maggio, località limitrofe poste nel comune di Vaglia. I paracadutisti fecero irruzione nella casa del guardaboschi Gabriello Mannini, dove trovarono anche la moglie Giulia, la giovane figlia e il suo sposo. Seguì una perquisizione durante la quale venne trovata una pistola, per la quale Gabriello possedeva regolare permesso. L’attestato non fu però sufficiente, dato che i tedeschi, forse già a conoscenza dell’ospitalità che Gabriello diede ad alcuni partigiani, lo condussero fuori dall’abitazione e lo uccisero con un colpo di arma da fuoco alla testa. Poco dopo, i soldati si spostano in direzione di Vaglia, in località Morlione, dove irruppero nelle abitazioni delle famiglie Biancalani e Sarti, note per la loro assistenza data ai partigiani. Furono uccisi i fratelli Giovanni e Sabino Biancalani, il colono Affortunato Sarti e il nipote Aurelio. L’operazione di rastrellamento nell’area riprese il giorno successivo. Una nuova irruzione venne compiuta in località Cerreto entro la casa dei Paoli, allora abitata dalle famiglie dei fratelli Cesare e Giovanni. Dopo la perquisizione dell’abitazione, venne intimato ai fratelli di allontanarsi. Atteso però che il gruppo giungesse alla distanza di alcune centinaia di metri, i militi aprirono il fuoco e uccisero colpendolo alle spalle Cesare Paoli[3]. Questi martiri sono oggi ricordati dal Monumento posto in via Cerretto Maggio, a Vaglia.

Ci spostiamo ora a Marradi, protagonista di due episodi efferati. Ricordiamo che Marradi, per la sua posizione strategica di confine con la Romagna e la sua rilevanza di snodo viario e ferroviario, nell’estate del 1944 costituiva un territorio di estrema importanza ai fini dell’occupazione tedesca e in particolare per l’ultimazione delle fortificazioni sul versante orientale della Linea Gotica. Proprio a protezione dei lavori di completamento della linea difensiva da possibili sabotaggi e attacchi partigiani, con ordine del 18 giugno 1944 vennero dislocate tra il Mugello e la Romagna Toscana alcune compagnie del 3. Polizei Freiwilligen Bataillon Italien, il reparto di polizia italo-tedesco guidato dal capitano Gerhard Krüger allora ancora impegnato col grosso del proprio organico in Maremma (dove si rese responsabile delle stragi di Niccioleta e Castelnuovo Val di Cecina). Il 20 giugno, i soldati tedeschi si imbatterono in un gruppo di sette giovani (tra i quali vi è il trentunenne Carlo Milanesi, di fatto, l’unico identificato del gruppo), che avevano da poco disertato dall’organizzazione Todt, dandosi alla macchia nei dintorni di Marradi. Catturati, i sette furono condotti quindi presso Villa Poggio, sede della compagnia tedesca, dove vennero interrogati e trattenuti sino al 22 giugno, quando infine furono trasportati presso il cimitero comunale di Marradi e qui fucilati[4].

Il mese successivo invece avvenne il dramma le cui ferite ancora non sono state rimarginate dalla comunità. Il 15 e il 17 luglio due tedeschi furono uccisi da dei gruppi di civili – non bande partigiane organizzate – con altri che furono feriti e costretti a scappare dal paese. La rappresaglia che ne seguì fu particolarmente dura.  I tedeschi, arrivati dal comando SS di Ronta, si lasciarono andare a grandi violenze nell’area circostante il luogo dell’attentato per 24 ore. Lo stesso 17 luglio furono fucilate 28 persone che vivevano o erano sfollate nel paese di Crespino, la mattina dopo altre 13 persone furono passate per le armi nelle località di Fantino e Lozzole, altre tre vittime furono fatte lungo le strade che collegavano i piccoli paesi. A Crespino i tedeschi passarono prima dal podere “Il Prato” e poi dal “Pigara”; i contadini che stavano lavorando alla mietitura nella zona furono tutti fermati e passati per le armi vicino al fiume. Il parroco, don Fortunato Trioschi, fu l’ultimo ad essere fucilato. La mattina dopo a Lozzole furono passati per le armi tutti i maschi della famiglia, mentre le donne furono risparmiate[5]. In memoria delle vittime sono presenti vari luoghi della memoria a Marradi: dalla lapide commemorativa posta al cimitero alla Lapide del Capanno dei Partigiani, in località Monte Lavane, ma soprattutto, l’imponente monumento-cripta ossario a Crespino sul luogo della strage.

Una breve menzione la merita anche quello che successe a Palazzuolo su Senio il 17 luglio, dove mentre tedeschi e italiani del 3. Polizei-Freiwillingen-Bataillon erano impegnati nella strage sopra descritta di Marradi, i soldati di tale reparto si scontrarono nuovamente con alcuni partigiani e, pur senza patire alcuna perdita, scelsero ugualmente di punire la comunità locale, uccidendo quattro persone.

Per l’ultimo episodio stragista ci spostiamo a Vicchio, dove il mattino del 10 luglio 1944 si presentò alla fattoria di Padulivo – che ospitava circa centocinquanta sfollati – un reparto di SS composto da una sessantina di uomini. Il proprietario, Aldo Galardi, aiutava saltuariamente le locali formazioni partigiane. Durante la perquisizione i tedeschi si accorsero della mancanza di un cavallo che era stato nei giorni precedenti requisito dai partigiani, i quali furono avvertiti della presenza dei tedeschi e tesero un’imboscata poco lontano da Padulivo mentre le SS si stavano ritirando. Cadde un tedesco e un altro rimase ferito. La rappresaglia nazista fu spietata. I soldiati tornarono indietro e arrestarono tutti coloro che trovarono e incendiarono sia la fattoria sia l’abitato circostante. Incolonnarono i prigionieri in direzione di Vicchio e giunti al ponte dove aveva avuto luogo l’imboscata giustiziarono dieci uomini e una donna. Dopo una notte di prigionia i cento catturati subirono un interrogatorio e furono rilasciati, tranne quattro uomini e tre donne. Gli uomini furono portati di nuovo nel luogo dell’agguato partigiano e uccisi, mentre le donne vennero liberate[6]. Quattordici vittime, oggi ricordate dal comune di Vicchio con una lapide posta in località Padulivo, che recita:

 

«La storia non si ripete,

se non nella mente

di chi non la conosce»

K. Gibran (1883-1931)

 

Note

 

[1] Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, Badiali, Arezzo, 1957, pp. 23-45.

 

[2] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 37-38.

 

[3] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi nazifasciste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma, 2009, pp. 191-192.

 

[4] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 102-103.

 

[5] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=4920

 

[6] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2412

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nel novembre 2024.




Licio Nencetti (1926-1944)

Fra coloro che presero parte alla Resistenza non vi furono solamente individui spinti da autentici e solidi ideali di libertà, ma anche persone motivate da ragioni all’apparenza meno nobili e genuine. Nel corso dell’occupazione vi fu chi aderì alla lotta armata per spirito d’avventura, per poi ritornare rapidamente alla vita di tutti i giorni dopo aver scoperto i disagi della vita del ribelle, oppure chi partecipò per opportunismo, ritenendo la vittoria alleata ormai imminente o chi preferì entrare nelle formazioni partigiane piuttosto che arruolarsi nella Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Certamente il diciassettenne Licio Nencetti, nato a Lucignano in Val di Chiana il 31 marzo del 1926, non rientrava all’interno di queste categorie. A differenza di molti altri il giorno dell’armistizio (8 settembre 1943) non lo colse impreparato e non generò in lui alcun dubbio in merito alla decisione da dover prendere: il ragazzo, nonostante la giovane età, aveva da tempo maturato una scelta ed aveva ben chiaro il mondo che avrebbe voluto che sorgesse dopo la conclusione della guerra.

A contribuire a questa rapida presa di coscienza avevano avuto un ruolo di fondamentale importanza i genitori: dalla madre aveva appreso l’importanza dei valori cristiani, come l’amore e l’altruismo nei confronti del prossimo, mentre dal padre aveva imparato a non piegarsi di fronte alle ingiustizie e a mantenere una propria libertà di pensiero. Con l’ascesa del fascismo iniziò per la famiglia Nencetti un periodo di declino: tra gli anni Venti e Trenta vennero ripetutamente colpiti da malattie che talora si rivelarono mortali, mentre il padre venne perseguitato a più riprese dai fascisti locali per le sue idee politiche. Numerosi furono i casi nei quali Silvio Nencetti venne maltrattato e intimorito; in un’occasione lo spavento fu tale che egli da quel giorno vide la propria salute peggiorare gradualmente e “per sette anni non fu più lui, una malattia lenta lo prese[1]. Nella seconda metà degli anni Trenta vi fu l’apice delle disavventure della famiglia con la morte tra il 1935 e il 1937 della sorella minore e del padre. In questo frangente Licio e la madre si trovarono costretti a dover fronteggiare una situazione complicata, cercando di garantire al contempo la sopravvivenza del nucleo e pagare le spese mediche necessarie per curare l’unica sorella rimasta in vita. Licio iniziò ad affiancare allo studio qualche lavoro, ma i soldi che riusciva a guadagnare non erano sufficienti per il loro sostentamento, allora iniziò ad ingegnarsi per avere un guadagno maggiore, inviando i suoi disegni al Comune, che inizialmente li accettava e puntualmente li rigettava quando venivano a conoscenza delle idee politiche del defunto padre[2].

 

Rita e Silvio Nencetti con le figlie Irma e Lilia

 

Questo momento invece che demoralizzarlo e renderlo passivo aumentò in lui l’avversione nei confronti del regime. Negli anni Licio seguì le orme del padre e sviluppò una coscienza antifascista che lo portò a stringere legami con gli oppositori del regime presenti nella provincia. Dopo l’armistizio il giovane fu tra i primi ad aderire alla Resistenza, abbandonando temporaneamente la Val di Chiana e dirigendosi frequentemente nel Casentino dove, nel frattempo, stavano sorgendo i primi gruppi partigiani. Nei primi mesi d’occupazione Licio mantenne una discreta libertà di movimento, facendo la spola tra le terre natale e la zona di Talla, recandosi talvolta a salutare clandestinamente la madre ormai rimasta sola dopo la morte nel 1942 dell’ultima sorella. Rispetto alla Valdichiana, prevalentemente pianeggiante e collinare, l’angusta vallata a nord di Arezzo offriva un terreno ideale per la lotta partigiana fatta di imboscate e di rapide fughe.

In una lettera inviata alla madre il 9 novembre 1943 Licio le chiedeva perdono per le preoccupazioni che le procurava con tale scelta, ma al contempo non rinnegava la propria decisione, descrivendola alla stregua di un evento ineludibile: “Io non potevo più stare quassù in mezzo a una masnada di vigliacchi, lo vado con i ribelli per difendere l’idea di mio padre che è sempre viva in me e per ridare ancora una volta l’onore alla mia bella Patria. Mamma non piangere perché io presto tornerò e poi perché devi piangere se sai che tuo figlio è a combattere per un’idea leale e giusta[3]”. Malgrado la forte emozione Licio in questa prima comunicazione evidenziava una notevole lucidità che sarebbe poi emersa nella lotta dei mesi successivi: “Non dire a nessuno che io sono con i ribelli perché faresti la mia perdita e quella dei miei compagni. Di a chi ti domanda di me che io sono da Tullio[4]”.

 

Licio con la Madre Rita

Due biglietti che Licio e la madre si scambiarono segretamente

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nonostante non avesse ancora raggiunto la maggior età Licio venne nominato dai suoi compagni comandante della formazione attiva nella zona di Talla. Tutte le testimonianze riguardanti la sua figura concordano nell’attribuire al giovane un carisma ed una determinazione inusuali per un ragazzo della sua età. Il partigiano Raffaello Sacconi lo ricorda in questo modo: “Mi fece subito una buona impressione: viso aperto, simpatico, occhi vivacissimi. Mi colpì specialmente la sua insofferenza per l’inazione cui eravamo costretti, in attesa di organizzarci per cominciare la lotta contro i fascisti e i tedeschi[5]. Malgrado la naturale inesperienza Licio emanava una notevole sicurezza, e quando vi fu da scegliere a quale formazione fornire del materiale bellico, di fondamentale importanza, arrivato nel febbraio 1944, Sacconi ricorda che “non ebbi alcuna titubanza ad assegnare al suo gruppo una delle due mitragliatrici di cui disponevamo. Sapevo di affidarla in buone mani[6]. Ad accrescere l’ascendente nei confronti dei compagni contribuiva il coraggio che il giovane metteva in ogni operazione, portandolo ad essere sempre in prima linea.

Il gruppo guidato da Licio si differenziava per alcuni aspetti dalle altre formazioni che operavano nel Casentino. In primo luogo, il comandante della formazione non era stato un militare e non aveva nessun tipo di esperienza bellica, questo determinava all’interno del gruppo l’assenza di una rigida gerarchia e la presenza di un rapporto maggiormente democratico, improntato sul confronto e il dibattito tra i membri. In secondo luogo, la formazione era composta da ragazzi particolarmente giovani, dediti ad azioni fulminee e rischiose. Questa caratteristica portò alcuni a ribattezzare la formazione la “squadra volante”; come ricorda Domenico Peruzzi, uno dei principali componenti del gruppo, erano soliti compiere azioni rapidissime: giungevano nella zona delle operazioni all’imbrunire e alle prime luci del giorno dopo erano già in montagna a diverse decine di chilometri di distanza[7]. Dopo i primi mesi di lotta i componenti del gruppo iniziarono a chiamarsi la “Teppa” come scherno agli appellativi che le autorità fasciste utilizzavano per identificarli.

Nei primi mesi la formazione inquadrata all’interno del “Gruppo Casentino” (diverrà successivamente la XXIIIª Brigata “Pio Borri”) si occupò prevalentemente di questioni organizzative, impossessandosi di armi, materiali e viveri, senza però disdegnare allo stesso tempo la possibilità di compiere azioni di sabotaggio ai danni dei nazisti e dei fascisti che operavano nei loro territori. Ad esempio, il 4 novembre Licio ed altri tre compagni riempirono di sabbia i radiatori di alcune autocisterne che da Foiano erano dirette verso Cassino, rendendole inutilizzabili dopo pochi chilometri[8]. I ragazzi della “Teppa” si impegnarono anche nell’occultamento e nel sostentamento dei prigionieri Alleati fuggiti dai campi di detenzione della provincia di Arezzo e nel reclutamento dei soldati del disciolto Esercito sparsi per il Casentino.

Dal marzo 1944 i diversi gruppi aventi base territoriale si trasformarono in compagnie e gli ultimi partigiani che ancora vivevano con le loro famiglie abbandonarono le loro case e si diedero alla macchia nascondendosi sulle montagne. Il gruppo guidato da Licio divenne formalmente la IV Compagnia[9]. La disparità delle forze in campo obbligò i partigiani a compiere azioni di piccolo calibro: raramente miravano all’uccisione dei fascisti, puntando semmai al loro disarmo e al conseguente aumento dell’arsenale a loro disposizione. Al contempo lo scopo era anche quello di impressionare le popolazioni locali e di disorientare il nemico sulla reale entità del numero dei partigiani. Questo atteggiamento riuscì a fruttare alcuni risultati, obbligando le forze occupanti a dispiegare i soldati nelle zone nevralgiche e ad accompagnare i convogli che si muovevano sul territorio, costituendo in questo modo una continua minaccia per i nazifascisti. Rispetto alle altre unità operanti nella vallata i ragazzi della “Teppa” mantennero sempre una discreta indipendenza nei confronti degli altri gruppi casentinesi.

Dopo esser stato una spina nel fianco dei nazifascisti per tutta la primavera del 1944, il 24 maggio Licio venne catturato in località Bottigliana, sul versante casentinese del Pratomagno. Di ritorno da un incontro con alcuni esponenti della Resistenza, avvenuto sul massiccio, il comandante della “Teppa” venne accerchiato dagli uomini della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Dopo averlo disarmato i fascisti lo obbligarono a condurli nel punto dove era avvenuto l’incontro: facendosi scudo con Licio gli uomini arrivarono all’altezza dell’Uomo di Sasso, dove vennero investiti dal fuoco dei partigiani, che riuscirono successivamente a dileguarsi lungo le pendici del massiccio. La posizione di Licio era fortemente compromessa, venne trovato in possesso di armi e di documenti che riportavano le azioni svolte dalla sua formazione. Il comandante della “Teppa” venne dunque trasportato al Distretto Militare di Poppi, dove venne interrogato e torturato per diverse ore, ma nonostante le percosse e la promessa di avere salva la vita Licio non rivelò nulla ai suoi aguzzini[10].

La mattina del 26 maggio Licio venne trasportato a Talla e fucilato nella piazza principale. Il parroco, presente durante l’esecuzione, sostenne che dopo averlo confessato venne passato per le armi da un gruppo di repubblichini senza che vi fossero difficoltà nello svolgimento delle operazioni[11]. Questa versione differisce invece dall’esposizione contenuta all’interno delle motivazioni per il conferimento della medaglia al valore conferita a Licio nel 1990: il documento sostiene che il plotone di fronte alla solennità e alla fermezza tenute dal comandante durante la fucilazione non eseguì l’ordine e che fu lo stesso tenente Sorrentino ad occuparsi personalmente dell’uccisione sparandogli in bocca[12]. Ancora oggi non sappiamo a quale versione fare riferimento, se credere alla dichiarazione che il parroco rilasciò al Sacconi, oppure attenersi alle motivazioni per il conferimento della medaglia. Certamente durante la fucilazione perse la vita anche il giovane Marcello Baldi, colpito da un proiettile vagante mentre si affacciava dalla chiesa incuriosito dal trambusto.

Anche per quanto riguarda la cattura sono presenti due versioni in netto contrasto tra loro. I compagni di Licio hanno sempre sostenuto che l’arresto del loro comandante fosse dovuto ad una delazione compiuta da parte dei Versari, padre e figlio e del loro compaesano Brucche. Certi della loro colpevolezza i membri della “Teppa” giustiziarono pochi giorni dopo Giuseppe Versari e Brucche, mentre il figlio, Virgilio, riuscì a fuggire[13]. A porre in dubbio la solidità di tale interpretazione hanno contribuito nel corso del dopoguerra le dichiarazioni rilasciate da parte di Salvatore Vecchioni, comandante della 2ª compagnia della Brigata “Pio Borri” operante nel territorio di Partina. Dopo l’arresto di Licio, il Vecchioni fu l’unico che ebbe l’occasione di scambiare qualche parola con il comandante prima che questi venisse fucilato, visto che anch’egli era trattenuto presso il Distretto Militare di Poppi per un’altra vicenda. Alle domande del Vecchioni, in merito alla possibilità che vi fosse stato un tradimento, Licio rispose negativamente, affermando che non aveva avuto nessun tipo di presentimento e che non aveva sospetti. Inoltre è importante ricordare che i Versari militarono all’interno della Resistenza e che questi videro la loro casa bruciare ,con all’interno una delle loro mogli, dopo l’uccisione del repubblichino Mistretta[14]. Alla luce di questi elementi pure Raffaello Sacconi, che nel 1944 aveva sostenuto la colpevolezza dei Versari e di Brucche, ha progressivamente mutato le proprie convinzioni, sostenendo che un individuo lucido e sveglio come Licio si sarebbe certamente accorto che l’incontro sul Pratomagno non era altro che un’imboscata orchestrata ai suoi danni[15].

 

Salvatore Vecchioni, comandante della 2ª compagnia della Brigata “Pio Borri”

 

Ancora oggi, ad oltre ottant’anni di distanza dalla morte il nome di Licio riecheggia tra i monti del Casentino e le colline della Val di Chiana. La scomparsa del giovane partigiano non ha coinciso con la lenta e triste scomparsa della sua figura, ma ha combaciato semmai con la nascita e la diffusione di un mito utilizzato quale esempio di integrità e libertà. Percorrendo la provincia di Arezzo ci si imbatte in svariati luoghi intitolati alla memoria di Licio o che ricordano il suo sacrificio e quello dei suoi compagni attraverso targhe e monumenti: questo accade in prevalenza nelle aree dove i partigiani della “Teppa” operarono maggiormente, come la zona nei dintorni di Lucignano in Val di Chiana e nei pressi di Talla e Castel Focognano nel Casentino meridionale. A Lucignano, paese natale di Licio e di molti suoi compagni, è possibile ancora oggi poter vedere dall’esterno l’abitazione nella quale Licio nacque e dove è apposta una targa[16]. Sempre nello stesso comune è poi presente un monumento collocato nei giardini pubblici “Don Valentino della Mazza”: l’opera, dedicata ai partigiani Nencetti, Toti e Masini, raffigura probabilmente l’uccisione del comandante della “Teppa”, con un uomo con le mani legate dietro alla schiena che grida e un soldato che imbraccia un fucile[17]. Nonostante non fosse originario di Talla il comune ha poi intitola a Licio la piazza dove avvenne la fucilazione ed ha inserito il suo nome sul cippo che ricorda le vittime provenienti dal comune cadute durante il secondo conflitto mondiale[18].

 

L’abitazione dove è cresciuto Licio Nencetti                       

 

Monumento in ricordo dei partigiani Nencetti, Toti e Masini

 

Il cippo in ricordo delle vittime di Talla durante la Seconda guerra mondiale situato in piazza “Licio Nencetti”

 

Nell’area di Castel Focognano sono presenti invece alcune iscrizioni che testimoniano il buon rapporto che vi fu nel corso della guerra di Liberazione fra gli uomini della “Teppa” e le popolazioni della vallata. In una sorta di dialogo che non si è mai interrotto le targhe e i monumenti della zona sono un esplicito ringraziamento ai partigiani e ai civili per il contributo fornito durante il conflitto. Nella frazioni di Calleta e San Martino, appartenenti al comune di Castel Focognano, sono presenti due targhe molto interessanti, la prima certifica l’unione tra le due parti con la seguente frase “Qui a Caletta Licio Nencetti e i suoi ribelli trovarono gente amica che li ospitò, li curò e li sostenne condividendo con loro gli ideali e il rischio della vita[19], mentre la seconda, posta sulla facciata della chiesa di San Martino ricorda che in quel luogo gli uomini di Licio si recarono tra il febbraio e il maggio 1944 ad assistere alla messa domenicale[20]. A pochi chilometri di distanza, nel paese di Carda, troviamo infine un monumento interamente dedicato alle popolazioni della vallata, alle quali giunge il sentito ringraziamento dei ragazzi della “Teppa”[21]. Questi sono solamente alcuni degli indizi che testimoniano l’eccellente rapporto che vi fu tra i componenti della “squadra volante” e i civili durante il periodo dell’occupazione, un legame fondato sul reciproco sostegno.

 

La targa a Calleta

Lapide a Carda

 

Il nome di Licio non è stato solamente scolpito sulla pietra, ma è stato impresso e “inciso” nelle memorie delle persone anche attraverso un notevole numero di canzoni dedicategli. In particolar modo questi canti vennero ideati negli anni della lotta al nazifascismo o nel periodo immediatamente successivo alla liberazione, quando ancora il ricordo e il dolore della morte del giovane partigiano erano vivi tra le popolazioni, come nel caso del testo di Libero Vietti[22] o della canzone “La fucilazione del partigiano Licio Nencetti” attribuita a un poeta di nome Casini[23]. Il repertorio non si limita solamente alla seconda metà del Novecento, ma trova anche una sua realizzazione più contemporanea nella canzone realizzata nel 2005 dai Casa del Vento un gruppo combat folk aretino[24].

Come spesso è avvenuto nel corso della Liberazione la formazione assunse il nome del defunto comandante, l’aspetto però probabilmente più curioso ed affascinante legato alla figura di Licio nasce da una promessa che i ragazzi della “Teppa” fecero dopo la scomparsa del loro leader: provati e traumatizzati i giovani giurarono che avrebbero chiamato almeno uno dei loro figli con il nome di Licia o di Licio.  I componenti della formazione mantennero l’impegno, e ancora oggi, a diversi anni di distanza, sono numerose le persone che in provincia di Arezzo continuano a portare tale nome in ricordo del comandante della “Teppa”.

 

Note:

[1] S. Mugnai (a cura di), Madre di partigiano. Il diario di Rita Nencetti, Comune di Lucignano, Roma 1984, p. 29.

[2] Ivi, pp. 41-42.

[3] Lettera inviata da Licio Nencetti alla madre Rita il 9 novembre 1943, https://memoria.provincia.arezzo.it/biografie/licio_nencetti_corrispondenza1.asp.

[4] Ibid.

[5] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 192.

[6] Ibid.

[7] Intervento di Domenico Peruzzi detto “Mireno” nel filmato Racconti di vita partigiana. La squadra volante de la “Teppa”, realizzato dalla Banca della Memoria del Casentino,  https://www.youtube.com/watch?v=AQMStAhI6jg&t=1066s.

[8] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., p. 28.

[9] Ivi, pp. III-IV.

[10] Memoria scritta di Salvatore Vecchioni citata in ivi, pp. 195-196.

[11] Memoria scritta di don Gino Vignoli citata in ivi, pp. 84-85.

[12] Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, https://www.anpi.it/biografia/licio-nencetti.

[13] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., pp. 194-195. Nonostante siano passati diversi anni dall’accaduto nel filmato registrato dalla Banca della Memoria del Casentino i compagni di Licio continuano a sostenere che si fosse trattata di un’imboscata, https://www.youtube.com/watch?v=AQMStAhI6jg.

[14] Memoria scritta di Salvatore Vecchioni in R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., pp. 195-198.

[15] Ivi, p. 199.

[16] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/lastra-commemorativa-a-licio-nencetti/.

[17] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-giardini-di-lucignano/.

[18] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-dedicato-a-licio-nencetti-a-talla/.

[19] MEMO, il progetto delle memorie, https://memo.anpi.it/monumenti/3794/lapide-a-nencetti/.

[20] MEMO, il progetto delle memorie, https://memo.anpi.it/monumenti/4172/lapide-a-nencetti/.

[21] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/cippo-ai-partigiani-della-teppa-carda-di-castel-focognano/.

[22] https://memoria.provincia.arezzo.it/canti/canzoni/Libero%20Vietti%20-%20Canzone%20per%20Licio%20Nencetti.mp3.

[23] Il Deposito, Canzone su Licio Nencetti partigiano – Testo accordi e musica | ilDeposito.org.

[24] https://www.youtube.com/watch?v=Dzm53rjZa8U.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Questo articolo è stato pubblicato nel novembre 2024




L’ISRPT conclude riordino e digitalizzazione del “fondo manifesti”

Si è concluso il lavoro di riordino, inventariazione e digitalizzazione del fondo manifesti conservato presso l’archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Pistoia. Si tratta di un patrimonio ricco ed eterogeneo, che spazia su un’ampia spanna temporale e si caratterizza per la varietà di enti produttori e temi trattati o rappresentati. Il fondo conta un totale di 826 esemplari unici di vario formato (A0, A1, A2, A3).

Gran parte del materiale è originale; sono per lo più ristampe solo i giornali murali emessi da comuni, prefetture e altri organi pubblici fra gli anni ’10 e gli anni ’50 del ‘900. Fra i nuclei documentari più rilevanti e consistenti si segnala una raccolta proveniente dal fondo archivistico appartenuto all’ex sindaco di Pistoia Francesco Toni, con materiale risalente agli anni ’60, ’70 e ’80 che è riconducibile in parte ai movimenti per i diritti civili, per il disarmo, per la pace, per la cooperazione internazionale e per la solidarietà con i popoli del terzo mondo, in parte si lega a questioni inerenti alla politica locale quali elezioni, partiti e lotte sindacali.

La storia dell’Istituto, di altri istituti della rete Parri, della rete stessa e di molte altre organizzazioni assimilabili o prossime – quali, ad esempio, l’ANPI – è ampiamente documentata, con innumerevoli locandine riferibili a iniziative e attività, così come alle politiche memoriali elaborate dagli enti pubblici comunali, provinciali e regionali nella seconda metà del secolo scorso.

Non mancano infine serie di manifesti inerenti alla storia d’Italia, pubblicati a scopo divulgativo e propagandistico.

Si tratta dunque di un corpus di fonti primarie utili ai fini della ricerca relativamente alla storia del ‘900 e alla storia locale, rilevanti inoltre in un’ottica di conservazione della memoria storica dell’ISRPt.

L’opera di catalogazione e digitalizzazione ha richiesto l’impegno assiduo e prolungato nel tempo di professionisti, tirocinanti e ricercatori. I manifesti sono stati suddivisi per formato e disposti in un’apposita cassettiera metallica all’interno dei locali che ospitano l’archivio dell’ente. L’inventario è consultabile in formato excel sul sito dell’Istituto alla pagina “fondo manifesti” .
La consultazione è liberamente garantita in sede nei giorni di apertura dell’Istituto, segnatamente il lunedì, martedì e giovedì pomeriggio dalle ore 15:00 alle ore 19:00.

 

Emilio Bartolini è dottorando in scienze storiche presso l’Università del Piemonte Orientale. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Pistoia nella gestione della biblioteca dell’ente e in attività e progetti inerenti la didattica e la divulgazione storica. Il suo principale interesse di ricerca è la storia ambientale in età contemporanea.

Luca Cappellini è laureato in Scienze Storiche all’Università di Firenze ed è studioso dell’età contemporanea. È docente presso le scuole superiori Mantellate di Pistoia. Fa parte dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, dove è responsabile della biblioteca e con cui collabora come ricercatore e divulgatore. Ha pubblicato “Genova 2001. Una memoria multimediale” in «Farestoria», III, n.1, 2021; ha pubblicato con Stefano Bartolini e Francesco Cutolo Public History: laboratori partecipativi e memoria pubblica”, in «Clionet», Vol. VII, (2023).




I crimini nazisti effettuati durante la ritirata da Poppi

Nel corso dell’occupazione tedesca in Italia si verificarono numerosi episodi di violenza ai danni dei civili. Malgrado fossero azioni estremamente violente ed indiscriminate queste rispondevano frequentemente a specifiche esigenze dei comandi nazisti, aventi l’obbiettivo di limitare la presenza partigiana nel territorio, di allentare il legame che univa le popolazioni alle bande ribelli e di ribadire attraverso l’esecuzione di azioni efferate la centralità della presenza tedesca nella penisola. Gli interventi potevano essere frutto di ampie azioni ideate e coordinate dagli alti comandi, come nel caso del rastrellamento che investì alcuni centri del Casentino nell’aprile del 1944, oppure rappresentare azioni localizzate in risposta ad attacchi subiti da parte delle truppe che operavano nel territorio.

Nelle fasi finali della guerra a tale impostazione si affiancarono numerosi episodi nei quali i soldati nazisti iniziarono a rendersi protagonisti di azioni che esulavano dagli ordini forniti dai comandi o dalle precipue funzionalità militari. In concomitanza con l’avanzata alleata e il progressivo spostamento del conflitto nelle regioni settentrionali del nostro paese si assistette ad una generale diminuzione del controllo da parte dell’autorità militare, ad un allentamento della disciplina e ad una maggiore libertà dei soldati operanti sul territorio. In una sorta di “rompete le righe” molti militari si lasciarono andare a furti, stupri ed uccisioni nei confronti delle popolazioni inermi, riversando su di loro l’odio e il nervosismo che avevano accumulato nel corso del conflitto, accresciuto in questo caso dall’andamento negativo della guerra. Come se non bastasse l’incombere degli Alleati costringeva le truppe naziste ad agire in maniera risoluta e decisa, senza badare ai danni collaterali che generavano i loro interventi. Talvolta l’incalzare dei nemici determinò l’utilizzo di mezzi energici, altre volte invece si tramutò in veri e proprie ritorsioni ai danni dei civili innocenti.

Una zona che venne particolarmente colpita da questo genere di violenza fu l’area nei dintorni di Poppi, un comune del Casentino settentrionale distante circa trentacinque chilometri da Arezzo. Nelle settimane prossime alla liberazione – il periodo a cavallo tra la fine di agosto e l’inizio di settembre del 1944 – si registrò in questa porzione della vallata un elevato numero di uccisioni di civili. Nei pressi di Poppi le violenze di questo genere non si limitarono all’eliminazione degli abitanti che venivano intercettati mentre attraversano le zone di guerra interdette al passaggio dei civili o alla fucilazione di coloro che non rispettavano l’ordine di sfollamento e cercavano di fuggire, ma vedevano la presenza di azioni più ampie che portarono all’uccisione contemporanea di decine di persone.

Uno degli episodi più eclatanti avvenne il 31 agosto 1944, quando un colpo di cannone proveniente da sopra Moggiona causò la morte di alcuni civili che erano scesi a Poppi per raccogliere l’acqua a una fontanella. Il comune casentinese, ormai prossimo alla liberazione, era stato abbandonato dai soldati tedeschi e i civili nell’euforia dell’imminente liberazione si recarono ad una sorgente in via della Costa per raccogliere l’acqua di cui necessitavano. Don Cristoforo Mattesini, sfollato a Poppi, ricorda in questo modo quell’orribile scena: L’artiglieria tedesca vide tutto questo movimento e scaricò dal Montanino e da Camaldoli un diluvio di cannonate contro il gruppo. La seconda granata prese in pieno quel ciuffo di persone. Si schiantò sul lastricato. Strage! Tutta la Costa da Poppi alla stazione fu coperta da una cortina di fumo. Nel fracasso infernale: pianti, lamenti, urli disperati. Persone che si chiamavano, parenti accorsi al grido dei loro cari, spettacolo straziante! Il fumo non faceva vedere niente, ma la tragedia era terribile!”[1]. In tutto furono quindici le persone che persero la vita a causa delle esplosioni, in maggioranza ragazzi tra i sette e i quindici anni che si erano solamente recati a raccogliere l’acqua ad una sorgente[2].

Nonostante la notevole distanza dall’obbiettivo possiamo affermare con relativa certezza che i colpi di cannone provenienti dalle alture circostanti non furono un errore di valutazione compiuto da parte dei nazisti, ma furono un deliberato attacco ai danni dei civili intenti a recarsi a raccogliere l’acqua in via della Costa. Ad avvalorare questa tesi contribuiscono le informazioni che i comandi tedeschi possedevano in merito agli alleati, attestati in quei giorni ad alcuni chilometri di distanza dal comune casentinese e ritenuti poco interessati alla conquista di quest’ultimo, visto che gli Alleati vi giungeranno solamente il 13 settembre, quasi due settimane dopo[3].

Nel luogo dove un tempo sorgeva la fontanella è stato eretto un monumento in ricordo delle vittime. Situato nella via che un tempo univa Poppi alla frazione di Ponte a Poppi, il monumento è composto da una colonna in pietra alla cui base è stata posta una targa recante i nomi delle vittime, attorniata agli angoli da quattro pietre che richiamano la forma dei proiettili dell’artiglieria. L’epigrafe riporta solamente i nominativi di coloro che persero la vita il giorno stesso dell’episodio, senza includere all’interno del numero complessivo delle vittime Antonio Grazzini e Milena Pietrini, morti nei giorni successivi per le ferite riportate[4].

 

Monumento in ricordo delle vittime di via della Costa

 

Mentre Poppi veniva liberata dai partigiani il 2 settembre, molti degli abitati posti sulle vicine alture continuavano ad essere ancora in mano dei tedeschi. Questo era il caso di Moggiona, un piccolo paese montano situato ai piedi del monastero di Camaldoli. Rispetto agli altri centri del Casentino Moggiona aveva vissuto in modo più intenso l’arrivo della guerra, a causa della presenza della Linea Gotica in tutto il territorio circostante: dal novembre 1943 l’area era stata interessata dall’arrivo di centinaia di operai che avevano incessantemente lavorato alla costruzione delle fortificazioni, composte da depositi, rifugi antiaerei postazioni per mitragliatrici e artiglieria pesante. A questa cospicua presenza di operai si aggiunse nel corso della guerra la costante presenza dei soldati della Wehrmacht, che all’inizio del 1944 installarono nel paese perfino un comando[5].

 

Il paese di Moggiona

 

Nel periodo che precedette l’avvicinamento del fronte non si registrarono momenti di frizione fra gli abitanti e gli occupanti. Le prime tensioni iniziarono a verificarsi nell’estate del 1944, ad ormai pochi giorni dalla liberazione di Arezzo e dal conseguente arrivo della guerra nel Casentino. Il 13 luglio vennero affissi per le strade di Moggiona e dei paesi limitrofi dei manifesti che ordinavano agli abitanti di abbandonare le loro case e di dirigersi a nord della vallata, poiché a breve quelle zone sarebbero divenute luoghi di combattimento. In realtà furono pochi coloro che rispettarono il comando: molti preferirono nascondersi nei boschi o nella vicina Camaldoli per non allontanarsi eccessivamente dalle loro proprietà. Coloro che rimasero a Moggiona, circa una cinquantina di persone, vennero infine rastrellate e trasferite forzatamente in Romagna il 26 agosto. A due famiglie, i Meciani e gli Innocenti, utili allo svolgimento di alcune attività relative alla cura delle truppe, come cucinare, lavare e cucire, venne invece permesso di poter rimanere in paese[6].

Gli ultimi che lasciarono il paese furono infine i soldati della 5ª Divisione Alpina, stabilitisi a Moggiona verso la metà di agosto. Ormai incalzati dall’avanzata alleata i tedeschi abbandonarono il paese nel tardo pomeriggio del 7 settembre portandosi dietro masserizie, mobilio e cibo depredati dalle case degli abitanti. Mentre la Divisione stava lasciando Moggiona sopraggiunsero in paese tre soldati provenienti da Poppi, ai quali venne consigliato di andare alla casa del Meciani per ricevere un po’ di pane. Dopo essersi rifocillati e probabilmente ubriacati i tre tornarono nella casa e falciarono con la mitragliatrice le cinque persone presenti, dopodiché si recarono in un edificio nel rione Prato, e dopo aver fatto scendere tutti quanti in cantina li uccisero a colpi di mitragliatrice. Undici furono in tutto le vittime. Nei pressi del ponte di Moggiona si verificò infine l’ultimo atto di quest’immane tragedia con l’uccisione di una madre e della figlia di dieci anni.

Fino all’undici settembre i corpi delle diciotto vittime rimasero sotto le macerie degli edifici dove erano avvenuti gli eccidi. Le truppe tedesche che giunsero successivamente minarono volontariamente i luoghi dei delitti per mascherare l’accaduto e far ricadere la responsabilità della morte dei civili sui bombardamenti Alleati. I primi soccorsi giunsero solamente grazie all’intervento di Aurelio Cecchini, un bambino di dodici anni sopravvissuto all’accaduto, che dopo aver accudito la madre ed aver visto morire due fratelli riuscirà a raggiungere il monastero di Camaldoli ed allertare il Padre Superiore dell’accaduto: “Giunge da Moggiona un bambino sui nove anni, che ha attraversato la linea del fuoco e a stento, tra singhiozzi e lacrime, riesce a chiedere aiuto per la sua povera mamma, essa pure gravemente ferita al seno e ad una coscia, che tuttora giace in una stanza”[7].

Le testimonianze raccolta dall’Intelligence britannico nei mesi successivi confermarono che l’azione non aveva nessuna correlazione con la presenza partigiana in paese e non aveva nessun tipo di spiegazione logica. Lo stesso Giuseppe Salvi, allora ragazzo, ribadisce che a Moggiona non vi furono mai partigiani e che questi transitavano raramente nelle vicinanze del paese solo per recarsi in Romagna o sulla costa adriatica[8]. Questa affermazione è estremamente probabile visto che nel paese dal novembre 1943 fino alla liberazione era presente un gran numero di soldati tedeschi che avrebbe reso estremamente difficoltosa la presenza di ribelli.

Sebbene la vicenda di Moggiona rientri nella tragica realtà di routine di un esercito in ritirata, quanto accade la sera del 7 settembre ha dell’eccezionale: la violenza che si scagliò contro diciotto civili inermi, oltretutto autorizzati dai comandi tedeschi a rimanere presso le proprie abitazioni, non nacque da un ordine superiore e non trova nessun tipo di spiegazione logica, se non quella di voler di coprire con l’omicidio una serie di crimini commessi in sodalizio con la truppa. Non è dunque un caso che la decisione di voler eliminare i testimoni dei propri misfatti si materializzi proprio in concomitanza con le operazioni di ritirata verso nord della Divisione. Le nuove truppe che giunsero a Moggiona sin dall’8 settembre si ritrovarono pertanto a gestire, nel proprio settore ormai incalzato a pochi chilometri dal nemico, gli esiti visibili e infamanti della violenza del reparto precedente: questo determinò la decisione di evitare, nella prospettiva di imminenti rese, un comportamento punitivo da parte degli inglesi reso più duro dalla conoscenza dei misfatti. Risultato di questa strategia fu dunque il minamento dei luoghi del delitto con l’intento di simulare un bombardamento che giustificasse le vittime di Moggiona, appositamente lasciate all’interno delle abitazioni per rendere ancora più reale lo scenario impancato.

 

Abitazione di Moggiona distrutta dai nazisti

 

Una situazione analoga si verificò pochi giorni dopo a Lonnano, un piccolo paese distante una quindicina di chilometri da Moggiona. Il 10 settembre un gruppo di tedeschi irruppe nella casa colonica della “Chiesa Vecchia” ed uccise quattro ultrasettantenni che si erano nascosti all’interno di essa, dopodiché diedero alle fiamme l’edificio con l’intento di nascondere le prove del crimine[9].

Rispetto ad altre stragi avvenute in Casentino (Vallucciole, Partina e Moscaio) l’episodio di Moggiona è rimasto a lungo avvolto nell’oscurità, forse volontariamente dimenticato dalle comunità locali intente a rimuovere certe vicende piuttosto che ricordarle. A determinare questa sorta di damnatio memoriae hanno probabilmente contribuito i numerosi abusi che le truppe di stanza a Moggiona commisero ai danni delle donne del paese e la volontà della popolazione di voler proteggerle da quella che un tempo era ritenuta un’infamia[10].

Le pubblicazioni del secondo dopoguerra come quelle del Sacconi[11] e del Curina[12] hanno poi accresciuto la confusione in merito a questo episodio, con ricostruzioni vaghe e spesso imprecise. Solamente dagli anni Novanta si è assistito ad un rinnovato interesse nei confronti di questa storia, grazie in particolar modo all’apertura dell’armadio della vergogna che nel 1994 ha stimolato il riesame di alcune stragi nazifasciste. Contemporaneamente all’arrivo di nuove informazioni provenienti da Roma la Biblioteca Comunale di Poppi decise di acquistare una serie di documenti dall’ Archivio di Guerra inglese, mentre la Pro Loco di Moggiona si impegnò nella raccolta delle testimonianze dei sopravvissuti dell’accaduto. Lo sforzo culminerà infine nel 2014 con la pubblicazione del saggio 7 settembre 1944. La strage di Moggiona[13].

In linea con il crescente interesse per la vicenda il 25 aprile 1997 l’Amministrazione Comunale di Poppi ha collocato una targa in ricordo delle vittime della strage sull’edificio della Pro Loco situato in via Camaldoli; sulla stessa parete è poi presente un’epigrafe posta l’anno precedente in memoria delle vittime militari e civili del paese[14]. Addentrandoci maggiormente dentro Moggiona troviamo poi in piazza 7 settembre 1944 la “Mostra permanente della guerra e della Resistenza nel Casentino”, appartenente al progetto della rete ecomuseale del Casentino: i visitatori potranno ammirare alcuni manifesti o ritagli di giornale dell’epoca e degli oggetti militari come elmetti o materiali bellici rinvenuti nell’area dove un tempo era presente la Linea Gotica. Su un lato dell’edificio che ospita l’esibizione è stata ricavata una nicchia all’interno della quale è stato posto un monumento in terracotta che ricorda le vittime della strage nazista: l’opera riproduce una scena dell’eccidio all’interno di una abitazione, mentre quattro colombe simbolo di pace spiccano il volo. Sempre in piazza 7 settembre 1994 è stato collocato nel 2014 un pannello che informa i visitatori sull’accaduto[15]. In conclusione ricordiamo che negli ultimi anni è stato promosso da parte della Pro Loco e dalla rete ecomuseale del Casentino un sentiero ad anello della lunghezza di 4,5 chilometri che ripercorre i luoghi che un tempo erano attraversati dalla Linea Gotica.

 

L’edificio della Pro Loco che contiene due lapidi in onore dei caduti durante la seconda guerra mondiale

 

Alcuni esemplari presenti all’interno della Mostra

 

Monumento in ricordo delle vittime della strage del 7 settembre 1944 situato nell’omonima piazza

 

Note:

[1] C. Mattesini, Guerra e pace, Fruska, Stia 2003, pp. 112-116.

[2] A. Brezzi (a cura di), Poppi 1944. Storia e storie di un paese nella Linea Gotica, Regione Toscana, Firenze 2018, pp. 97-98.

[3] Ibid.

[4] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-alle-vittime-civili-delleccidio-della-costa-poppi/.

[5] A. Brezzi (a cura di), Poppi 1944, cit., pp. 98-100.

[6] Ivi, p. 100.

[7] A. Buffadini, Camaldoli nel Casentino in fiamme, Barbera, Firenze 1946, pp. 75-76.

[8] Testimonianza di Giuseppe Salvi, https://perlamemoria.it/i-luoghi/poppi/moggiona/.

[9] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 240.

[10] A. Brezzi (a cura di), Poppi 1944, cit., p. 99.

[11] Cfr. R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 152-153.

[12] Cfr. A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Badiali, Arezzo 1957, pp. 510-511.

[13] Cfr. Centro di Documentazione sulla Guerra e la Resistenza in Casentino (a cura di), 7 settembre 1944. La strage di Moggiona, Pro Loco di Moggiona 2014.

[14] Resistenza Toscana, https://resistenzatoscana.org/monumenti/poppi/lapidi_dei_caduti_di_moggiona/.

[15] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-alle-vittime-della-strage-del-7-9-44-moggiona-di-poppi/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel novembre 2024.

 




Sui sentieri della Linea Gotica a Badia Tedalda

Badia Tedalda è un comune della Valtiberina in provincia di Arezzo situato nella zona appenninica al confine con le Marche e l’Emilia-Romagna. Con i suoi 1.463 abitanti Badia Tedalda è il principale centro dell’Alpe della Luna, un gruppo montuoso dell’Appennino settentrionale. Dalla fine del 1943 al settembre del 1944 il paese e le zone circostanti furono attraversati dalla Linea Gotica, l’approntamento difensivo costruito dai tedeschi lungo tutta la dorsale appenninica per bloccare le truppe alleate che risalivano la penisola.

Le montagne che circondano Badia Tedalda offrono un’eccezionale visuale sugli accessi di tre vallate, l’alta Valtiberina, l’alta Valmarecchia e l’alta Valle del Foglia. Questo segmento della difesa era dunque di importanza cruciale per i tedeschi poiché offriva la possibilità di poter bloccare l’avanzata alleata su Forlì, Rimini e Pesaro e danneggiare l’aviazione diretta sui principali centri del Mar Adriatico.

Seguendo un modus operandi ormai collaudato i nazisti in queste zone procedevano al reclutamento forzato degli uomini atti al lavoro per la costruzione delle opere difensive e mettevano in atto soprusi di qualsiasi genere come violenze, stupri e razzie. Questa impostazione veniva arricchita da quella politica della “terra bruciata” volta ad isolare i partigiani attraverso l’esecuzione di azioni efferate ai danni delle popolazioni locali[1].

A Badia Tedalda l’esercito tedesco arrivato nei primi mesi del ’44 vi stazionò per quasi un anno fissandovi la sede di comando di una delle sue divisioni, la 114ª Jäger-Division, deputata – insieme agli artiglieri della contraerea – alla difesa di quella zona. La 114 ª era una divisione nata nell’Europa orientale per combattere i partigiani ed era stata spostata proprio nella Valtiberina con il compito di difendere la Linea Gotica in quel tratto dal Passo dei Mandrioli (valico di crinale dell’Appennino tosco-romagnolo) fino a Sestino (il comune più orientale della Valtiberina).

Questi reparti una volta sistematisi lungo le fortificazioni della Linea si occuparono inizialmente del completamento dei lavori di fortificazione per controllare gli Alleati che stavano avanzando lungo la Valtiberina.  Ma tra il 20 e il 25 settembre con lo sfondamento della Linea Gotica sull’Adriatico e al Passo del Giogo di Scarperia il comandante delle forze tedesche in Italia, Kesserling, fece immediatamente retrocedere i reparti qui dislocati che abbandonarono le postazioni senza subire un vero e proprio attacco. Però al momento della ritirata i tedeschi, oltre ad interrompere tutte le vie di comunicazione, rasero al suolo diversi edifici, tra cui il palazzo comunale, l’attiguo mattatoio e le case circostanti[2].

Oggi la scoperta di una cospicua serie di resti di fortificazioni sui crinali di queste montagne, insieme alla raccolta delle memorie dei testimoni, ha portato alla nascita del Parco storico della Linea Gotica. È una realtà ancora in costruzione che rende fruibile ai visitatori questo luogo di storia e di memoria, con i percorsi guidati per gli escursionisti, con le proposte didattiche per le scuole e con la realizzazione di spettacoli e manifestazioni.

Il Parco storico della Linea Gotica, nato nel 2011 dalla collaborazione tra la Pro Loco di Badia Tedalda e la cooperativa sociale Costess – con il patrocinio della Provincia di Arezzo e della Regione Toscana -, è un museo open air delle fortificazioni belliche che valorizza un patrimonio storico conservatosi in un ambiente naturale intatto e suggestivo[3].

 

L’area del Parco Storico della Linea Gotica

 

Parallelamente alla valorizzazione delle postazioni difensive sparse per il territorio è stata allestita anche una “Sala della Memoria”, uno spazio culturale con installazioni multimediali, ricavata all’interno del Centro-Visite della Riserva Alpe della Luna (nei pressi della piazza del paese). La sala raccoglie reperti storici locali di varie epoche, ma soprattutto pannelli ed installazioni video relativi alla Linea Gotica e alla storia del periodo[4].

 

La Sala della Memoria

 

Per consentire ai visitatori di muoversi nel Parco sono stati creati una serie di itinerari a piedi e in bicicletta, grazie ai quali è possibile raggiungere pressoché tutti i principali siti in cui sono ancora presenti i resti delle fortificazioni (trincee, fortini in pietra in pieno bosco, casematte, postazioni antiaeree, postazioni radio, rifugi e ricoveri). Tali itinerari – le cui descrizioni sono in parte consultabili sul sito web della Pro Loco – possono essere percorsi con facilità grazie alle segnalazioni e alle tabelle informative sparse per il Parco[5].

Nel Parco sono stati individuati più di 250 siti con resti di fortificazioni e alcuni di questi, quelli più significativi, sono stati completamente restaurati.

Ed è proprio per recuperare la memoria della Linea Gotica nel territorio di Badia Tedalda che vogliamo dare questo contributo invitando ad andare a visitare quei luoghi per scoprire i segni di una storia recente, come quelle opere militari, ormai inserite nella natura e nel paese, che hanno reso possibile la formazione del Parco Storico.

Riportiamo qui di seguito alcuni dei sentieri presenti all’interno del Parco storico ripresi dagli itinerari della Pro Loco di Badia Tedalda: alcuni sono percorribili a piedi ed altri in bicicletta.

È consigliabile prima di iniziare un’escursione prendere informazioni aggiornate presso il Centro Visite sullo stato della rete sentieristica e sull’accessibilità dei luoghi.

 

Sentiero di Hinton Brown

 

  • Lunghezza percorso: 10.4 km
  • Dislivello: ± 840 m
  • Difficoltà: EE
  • Punto di partenza: Valico di Montelabreve
  • Ritorno: per lo stesso percorso

 

Pilota Hinton-Brown

 

Hinton Brown era un pilota sudafricano facente parte di una squadriglia dell’esercito britannico[6]. Durante la seconda guerra mondiale l’aviatore venne colpito dalla contraerea tedesca attestatasi sulle montagne dell’Appenino tosco-romagnolo e non ebbe altra scelta se non quella di lanciarsi con il paracadute atterrando nelle campagne attorno a Sant’Agata Feltria, in una zona presidiata dai tedeschi. Vedendolo scendere i contadini ed i partigiani del posto lo soccorsero e lo portarono al sicuro nella frazione di Monteriolo; da qui Hinton iniziò un lungo cammino che lo portò a ricongiungersi con i suoi compagni giunti dalle parti di Anghiari in Valtiberina. Grazie all’aiuto dei partigiani e dei contadini il pilota riuscì ad attraversare le montagne evitando i nazisti ed i repubblichini, trovando ospitalità in case coloniche e chiese. Il suo itinerario toccò molte località: Donicilio, Tavolicci, Pereto, Castelpriore, Fragheto, Casteldelci, l’Alpe della Luna, Val di Canali, il Condotto, Montagna, fino al Tevere. Grazie al ritrovamento del suo diario oggi possiamo ripercorrere i sentieri che Hinton Brown attraversò per ricongiungersi ai suoi commilitoni. Lungo il sentiero sarà possibile poter individuare diverse postazioni che i tedeschi costruirono nelle zone attraversate dalla Linea Gotica.

Questo sentiero percorre in parte una delle più antiche vie dell’Alpe della Luna percorsa fin dal Medio Evo dai pellegrini e dai pastori e utilizzata fino ai primi anni Cinquanta del secolo scorso dai contrabbandieri che trasportavano clandestinamente il sale della Romagna e il tabacco della Valtiberina per evitare i dazi: con pesanti sacchi sulle spalle risalivano fino allo sbocco del Bucine, percorrevano un pezzo di crinale e poi scendevano giù per altri sentieri segreti fino a Sansepolcro dove scaricavano il sale, caricavano il tabacco e nuovamente salivano su per lo stesso percorso a ritroso fino in Romagna.  Per questa ragione gli abitanti del posto lo chiamano ancora il “sentiero dei contrabbandieri”.

 

Pannello descrittivo del Parco Storico sul sentiero di Hinton Brown

 

ITINERARIO

(È possibile effettuarlo sia a piedi che in mountain bike)

Il sentiero ha inizio al Valico di Montelabreve (Badia Tedalda) in corrispondenza con il sentiero CAI n. 5 in direzione di Monte Maggiore. Dopo pochi metri seguendo le indicazioni si svolta a sinistra scendendo nella valle e toccando le località di Montelabreve e Gorgoscura fino al guado sul torrente Auro (circa 3 chilometri dalla partenza). Superato il guado il sentiero sale a destra sovrapponendosi al sentiero BT6 (che corrisponde alla “via dei contrabbandieri”) e risale la valle dell’Auro fino al crinale (1.002 m).  Da qui i due sentieri si dividono: il “sentiero dei contrabbandieri” scende verso il colle delle Quarantelle, mentre il sentiero di Hinton Brown percorre il crinale del Poggio dell’Oppione fino allo sbocco del Bucine (circa otto chilometri dalla partenza, 1.232 m). Dal crinale si attraversa il sentiero 00/E1 e si scende fino alla località Val di Canale nei pressi di un rudere (10 chilometri dalla partenza, 898 m). In questa zona durante la seconda guerra mondiale vi erano molti casolari e poderi che davano ospitalità agli sfollati e a tutti coloro che cercavano sicurezza e libertà oltre il fronte della Linea Gotica. In uno di questi, il Podere il Condotto, alloggiò il pilota Hinton Brown prima di passare il Tevere per ricongiungersi ai suoi compagni. Da qui volendo si intraprende a ritroso lo stesso sentiero per ritornare al punto di partenza.

 

Il sasso di Cocchiola

 

  • Lunghezza percorso: 3 km
  • Dislivello: ± 231 MT
  • Difficoltà: E
  • Punto di partenza: Parco della Memoria – Badia Tedalda
  • Ritorno: per lo stesso percorso

 

Il Sasso di Cocchiola

 

Il percorso comincia dal “Parco della Memoria” situato alle porte di Badia Tedalda. Inaugurato nel novembre del 2011 grazie al contributo della Pro Loco e del comune il parco è stato creato per ricordare i caduti civili e militari delle due guerre mondiali, a ciascuno dei quali è stato dedicato un albero della pineta all’ingresso sud del paese.

Dal Parco storico della Linea Gotica seguiamo la segnaletica giallo-blu e saliamo fino alla sommità del primo rilievo sovrastante Badia e la strada provinciale, dove è possibile rintracciare, anche se poco riconoscibili, i resti di una postazione di avvistamento. Da qui procediamo sempre seguendo i segnavia colorati del Parco fino a raggiungere una strada sterrata che originariamente collegava Badia a Pratieghi (località al confine con l’Emilia-Romagna). Seguendo il tracciato di questa strada in circa 45 minuti giungiamo al rilievo montuoso del Sasso di Cocchiola (929 m), un sito con rilevanti resti della Linea Gotica che sono stati ripuliti e restaurati. Il nucleo di fortificazioni ancora presenti è interessante perché possiamo trovarvi diverse tipologie di costruzione e la tabella esplicativa aiuta il visitatore a prenderne conoscenza. Questo luogo era di fondamentale importanza per la sua posizione panoramica che garantiva alla contraerea tedesca una visibilità ideale per intercettare l’aviazione alleata e al tempo stesso, essendo vicino al quartier generale della Divisione, fungeva anche da presidio difensivo per un eventuale attacco terrestre. Sul Sasso di Cocchiola sono ancora visibili e riconoscibili i resti di due casematte: adibite principalmente per il deposito di munizioni, ma che fungevano al contempo da riparo per i soldati tedeschi in occasione degli attacchi alleati. Oltre alle casematte sono inoltre visibili i resti delle postazioni da tiro della contraerea tedesca che completavano il sistema difensivo della zona e servivano a contrastare i bombardamenti angloamericani[7].

 

La “casamatta”, Sasso di Cocchiola

 

Postazione antiaerea, Sasso di Cocchiola

 

Pannello descrittivo del Parco Storico sul Sasso di Cocchiola

 

Il Monte dei Frati

 

  • Lunghezza percorso: 5 km
  • Dislivello: ± 631 M
  • Difficoltà: E
  • Punto di partenza: Poggio La Piazzuola
  • Ritorno: per lo stesso percorso

 

 

Il Monte dei Frati

 

Queste zone dell’Alpe della Luna prima dell’arrivo dei tedeschi videro la presenza di diversi raggruppamenti partigiani, più precisamente quelli della V Brigata Garibaldi “Pesaro[8] e quelli della XXIII Brigata Garibaldi “P. Borri”, e furono teatro di azioni partigiane, rastrellamenti nazifascisti, scontri a fuoco e fucilazioni.

Il percorso qui di seguito proposto ha inizio da Poggio la Piazzuola che è possibile raggiungere in auto da Badia Tedalda in dieci minuti seguendo le indicazioni per Monteviale. Una volta lasciata l’auto si intraprende il sentiero CAI n. 19 che sale dolcemente alla sommità boscosa del Monte dei Frati (1.453 m), la massima elevazione dell’Alpe della Luna. La cima, segnalata da una piramide di pietre e da un cartello, è completamente coperta da una faggeta fiabesca; poco sotto si trova il piccolo Bivacco Paolo Massi, una piccola costruzione in legno sempre aperta, e a poca distanza dalla vetta il fianco orientale del Monte dei Frati è squarciato dalla Ripa della luna, un salto impressionante di roccia chiara e verticale che precipita per circa 300 metri di dislivello, la cui vista ci lascia affascinati dalla bellezza della natura.

 

Cima del Monte dei Frati

 

Nella prima parte del percorso si possono notare diversi punti panoramici sulla Val di Bruci, che fu la “base logistica” per gli uomini impegnati nella costruzione delle fortificazioni della Linea Gotica sul Monte dei Frati: fino a questo punto i tedeschi riuscivano ad arrivare con i mezzi a motore, dopodiché procedevano fino a dove era possibile con i muli e successivamente a piedi.

Proseguendo lungo il percorso si può notare come i principali punti di fortificazione fossero, oltre che strategici, anche in “contatto visivo” tra loro.

Una volta giunti al Monte dei Frati, dopo circa due ore di cammino dal punto di partenza, i cartelli del Parco consentono di raggiungere un ampio sito storico, dove possiamo ammirare una sorta di “cittadella” fortificata destinata ad ospitare la contraerea tedesca.

Se proseguiamo invece verso il Monte Maggiore giungiamo nel luogo dove era posizionato uno dei principali osservatori di tutta l’area, di cui ad oggi non vi è praticamente più traccia se non alcuni resti delle postazioni di servizio, alcune “buche” e “piazzole”.

 

Monte Verde

 

  • Lunghezza percorso: 5.5. km
  • Dislivello: ± 472 M
  • Difficoltà: E
  • Punto di partenza: Passo di Viamaggio
  • Ritorno: per lo stesso percorso

 

L’itinerario ha inizio dal Passo di Viamaggio, dove sono ancora visibili alcune batterie della contraerea tedesca e pezzi di artiglieria. Lasciata l’auto nei pressi del Bar L’Alpe seguendo i segnali giallo-blu si intraprende il sentiero CAI n.00 che arriva dopo circa un’ora a Monte Verde. Lungo il cammino è possibile incontrare resti di postazioni di fucilieri e mitraglieri che erano destinate a difendere i tedeschi dagli attacchi terrestri. L’individuazione di queste fortificazioni non è sempre facile, talvolta si possono nascondere sotto il fogliame o nella folta vegetazione che contraddistingue queste montagne.

Giunti in cima al Monte Verde si può avvistare sia una postazione di tiro che il punto terminale di una trincea, seguendo il quale si arriva a tre grandi postazioni per il ricovero delle truppe.

Per chi volesse approfondire la conoscenza della Linea Gotica consigliamo di proseguire verso Monte Macchione, un promontorio di crinale a quota più bassa del Monte Verde, dove sono presenti numerosi resti delle fortificazioni tedesche. Sebbene non siano stati ancora recuperati sono visibili i resti di dodici postazioni di tiro in prevalenza utilizzate per fucilieri e mitraglieri e nella parte posteriore della cima del Monte i resti di un ricovero per la truppa e di una casamatta sotterranea.

Per gli amanti della bicicletta si consiglia La staffetta della memoria, un’iniziativa molto seguita e partecipata, che si snoda in una lunga pedalata appenninica nei giorni del 25 aprile e del 1° maggio, per mantenere sempre vivi nella memoria gli avvenimenti che hanno portato alla nascita della Repubblica Italiana e alla Costituzione. L’itinerario che ripercorre il tracciato storico della Linea Gotica attraversa anche il tratto della Linea che collega il Parco storico di Badia Tedalda al Parco nazionale delle Foreste Casentinesi[9].

 

La staffetta della memoria

 

Un altro percorso in bicicletta che riguarda invece solo il territorio di Badia Tedalda e ci consente di visitare i resti della Linea Gotica e di immergersi nell’area dell’Alpe della Luna è “il sentiero della Battaglia”.

 

Il Sentiero della Battaglia

  • Lunghezza percorso: 23. km
  • Dislivello: ± 625 M
  • Punto di partenza: Badia Tedalda
  • Ritorno: Badia Tedalda

 

Pannello descrittivo del Parco Storico sul Sentiero della Battaglia

 

Il sentiero parte da Badia Tedalda e segue una delle vie che nel giugno del 1944 i nazisti percorsero per compiere un accerchiamento ai danni della V Brigata Garibaldi “Pesaro”. La zona in questione fu teatro di uno scontro che contrappose i tedeschi provenienti da Sestino e Badia Tedalda e alcuni raggruppamenti partigiani appostati sui crinali di quelle montagne. I componenti della “Pesaro” riuscirono a resistere per tutta la giornata agli attacchi nemici senza subire gravi perdite e a respingere il nemico[10].

 

Il gruppo di comando della Brigata Garibaldi “Pesaro”

 

L’itinerario di questo percorso è circolare e si snoda per 23 km senza presentare particolari dislivelli proibitivi[11]. Da Badia Tedalda seguiamo le indicazioni per Moteviale e una volta giunti al bivio svoltiamo per Stiavola. Superata la cascata del Presale che troviamo alla nostra sinistra proseguiamo fino all’incrocio successivo seguendo le indicazioni per Montelabreve. Da qui si intraprende una strada in ascesa fino al Passo di Montelaberve (circa 9 km), poi si vira a destra e si prende il sentiero CAI n. 5 e lo si segue integralmente fino a superare il Poggio di Monterano. La strada risulta quasi interamente pedalabile ma vi sono alcuni punti in cui sono presenti delle ripide rampe che costringono a portare la bicicletta a mano. Lungo il cammino è poi possibile poter individuare alcune postazioni tedesche grazie alla segnaletica del Parco Storico; in questo caso sarà necessario compiere delle brevi deviazioni al percorso tradizionale ed addentrarsi per pochi metri nella boscaglia, dove potremo osservare le fortificazioni utilizzate dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Le trincee, i camminamenti e i luoghi adibiti all’artiglieria e all’osservazione sono in prevalenza situati lungo il crinale, ossia il punto che offre la miglior visibilità.
Giunti al bivio di Monterano il percorso scende a destra sul sentiero segnalato; chi invece volesse individuare altre fortificazioni tedesche dovrà procedere verso Monte Maggiore e poco dopo troverà alla sinistra del sentiero alcune postazioni  che erano state costruite per controllare gli eventuali movimenti nemici nella vallata. Al bivio di Monterano il percorso prosegue dunque verso destra: si abbandona il crinale e si scende sulla strada forestale che ci porterà in poco tempo alla Casa di Monterano, unico casolare sopravvissuto di una piccola frazione che all’epoca fu sede di un comando tedesco.
La strada forestale, ora ampia e senza deviazioni significative, attraversa la Val di Petra e con alcuni saliscendi giunge a Poggio la Piazzuola; qui, superata la sbarra, si prosegue verso destra su una strada sterrata. La discesa – inizialmente dolce ma successivamente più ripida – ci conduce prima a Monteviale e poi, tornati sull’asfalto, all’incrocio presso il ponte di Val di Brucia. Ora, svoltando a sinistra, risaliamo l’ultimo chilometro in salita e giungiamo al punto di partenza nella piazza di Badia Tedalda.

 

 

Un viaggio lungo i sentieri del Parco Storico di Badia Tedalda che ognuno può condurre in modo personale, con ritmi e scelte che ciascuno può fare tra le tante possibilità di visita che vengono proposte. Ognuno segue il proprio passo, più lento o più veloce a seconda delle passioni e dei giorni e ognuno… trova il suo senso.

 

NOTE:

[1] Ivan Tognarini, La Linea Gotica in provincia di Arezzo, in Paesaggi della memoria. Itinerari della Linea Gotica in Toscana, Touring Club Italiano, Milano 2005, pp. 34-37.

[2] Ivan Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana: la storia, la memoria, Pagnini, Firenze 1994, p. 22.

[3] Consulta il sito web della Pro Loco di Badia Tedalda https://www.prolocobadiatedalda.it/ e il periodico trimestrale online “Luna Nuova” di informazione e promozione dell’Alta Valmarecchia e Alpe della Luna in https://lunanuovaweb.home.blog/2019/10/16/il-parco-storico-della-linea-gotica-di-badia-tedalda-un-cantiere-aperto/

[4] Cfr.  Linea Gotica. Il Parco Storico di Badia Tedalda in https://blogcamminarenellastoria.wordpress.com/2022/05/10/linea-gotica-il-parco-storico-di-badia-tedalda/

[5] Cfr. Itinerari della Linea Gotica a Badia Tedalda in https://visitbadiatedalda.it/itinerari-e-escursioni/parco-storico-linea-gotica/

[6] I Sentieri della Memoria in https://lunanuovaweb.home.blog/2020/02/04/i-sentieri-della-memoria/

[7] Cfr.  Andrea Meschini e Doriano Pela, Il cammino della Linea Gotica. Un cammino civile sui luoghi dove è nata la Costituzione, Associazione Fuori dalle Vie Maestre.

[8] Alvaro Tacchini, La 5° Brigata Garibaldi “Pesaro”, in https://www.storiatifernate.it/id/la-5a-brigata-garibaldi-pesaro/

[9] Cfr. Il sito web Il cammino della Linea Gotica in https://www.camminolineagotica.it/staffetta-della-memoria/

[10] Alvaro Tacchini, Il rastrellamento del 3-6 giugno 1944 sull’Alpe della Luna, in https://www.storiatifernate.it/id/il-rastrellamento-del-3-6-giugno-1944-sullalpe-della-luna

[11] Cfr. il sentiero su https://www.prolocobadiatedalda.it/itinerari-ed-escursioni/

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di novembre 2024.




Le stragi di Partina e Moscaio

Il 13 aprile 1944 viene generalmente ricordato in Casentino per la strage di Vallucciole, che portò all’uccisione di oltre cento civili, in prevalenza donne, anziani e bambini. La scomparsa della quasi totalità della popolazione del piccolo borgo e degli abitati limitrofi non rappresentò però l’unico eccidio verificatosi quel giorno nella vallata, visto che tra il 12 e il 13 aprile la violenza dei nazisti si scagliò anche sugli abitanti di due paesi nei pressi di Bibbiena, Partina e Moscaio, portando alla morte di trenta innocenti (22 a Partina e 8 a Moscaio). Non è un caso che le stragi in questione siano avvenute il medesimo giorno, come non è altrettanto accidentale che queste azioni abbiano numerose analogie tra di loro. I rastrellamenti di Vallucciole, Partina e Moscaio, ma anche quelli avvenuti negli stessi giorni a Badia Prataglia e San Godenzo rientrano all’interno di un’ampia azione organizzata dai comandi nazisti all’inizio di aprile, volta a debellare la presenza partigiana nelle zone del Casentino e nei pressi del monte Falterona[1].

In questa fase dell’occupazione si assiste ad una progressiva radicalizzazione della presenza nazista in Italia e al crescente utilizzo della violenza ai danni dei civili. Quest’impostazione non era un’anomalia all’interno della strategia militare tedesca, ma rappresentava un tratto tipico della loro conduzione bellica, utilizzato sul fronte orientale fin dal 1941. La strategia stragistica aveva l’intento di allontanare le popolazioni dai ribelli attraverso la conduzione di efferate e indiscriminate azioni ai danni dei civili. In Italia questo genere di atteggiamento venne adottato dalla fine del marzo 1944, quando l’attentato di via Rasella (23 marzo), lo sciopero di inizio mese e le notizie riguardanti il rafforzamento delle formazioni partigiane portarono i comandi nazisti a mutare giudizio e considerare il contesto italiano un problema di difficile soluzione. I principali tratti del nuovo approccio emergono in modo chiaro ed evidente nelle misure antipartigiane che il feldmaresciallo Kesselring diffuse ai suoi subordinati il 7 aprile: all’interno del documento il responsabile del fronte italiano invitava i soldati ad operare in modo deciso e risoluto, garantendo l’impunità a coloro che avrebbero agito in tale modo; Kesselring concludeva infine la comunicazione precisando che le problematiche sarebbero sorte qualora qualcuno non fosse stato sufficientemente determinato e spietato[2].

Con queste premesse all’inizio di aprile venne organizzato un grande rastrellamento che avrebbe dovuto ripulire la dorsale appenninica dalla Liguria alle Marche. In Toscana le operazioni iniziarono il 10 aprile: colpirono inizialmente alcuni borghi del Mugello, per poi spostarsi successivamente nel Casentino, dove veniva segnalata una forte presenza di ribelli. Nel Casentino e sul versante orientale del Falterona l’azione ebbe inizio la notte tra il 12 e il 13 aprile ed investì paesi dall’importanza secondaria come San Godenzo, Castagno d’Andrea, Badia Prataglia, Vallucciole, Partina e Moscaio.

Protagonisti di quest’operazione furono gli uomini del Reparto esplorante della Divisione Hermann Gӧring, comandati dal colonnello von Heydebreck e guidati sul campo dal capitano von Loeben. Si trattava di un contingente composto da oltre mille soldati, suddivisi in cinque compagnie tutte motorizzate; non era un corpo noto per le sue qualità militari, ma celebre piuttosto per essere una delle formazioni più politicizzate dell’esercito, composta in prevalenza da volontari e nazisti della prima ora. Nella seconda metà di marzo la Divisione aveva inoltre messo in evidenza le sue capacità nel rastrellamento con le stragi emiliane di Cervarolo e Civago[3].

Il primo paese ad essere colpito nel Casentino fu Moscaio, un piccolo gruppo di case situato su una collina distante pochi chilometri da Bibbiena. I tedeschi giunsero nella frazione nella notte tra il 12 e il 13 aprile ed irruppero nelle case degli abitanti trascinando gli uomini fuori dalle loro abitazioni: cinque furono fucilati sul retro delle loro case, altri due vennero abbattuti mentre cercavano di fuggire al rastrellamento e uno venne ucciso con un colpo di pistola da un soldato irritato dalle sue grida[4]. Secondo la ricostruzione compiuta da Raffaello Sacconi i soldati della Gӧring penetrarono nel paese grazie alle indicazioni fornite da un ragazzo che avevano incontrato lungo il percorso di avvicinamento all’abitato[5]. Rispetto alla strage di Partina, che coinvolse un maggior numero di vittime, non vi è certezza riguardo l’esatto numero dei morti (una cifra compresa tra sette e nove) e sono pressoché assenti le testimonianze dei superstiti dell’eccidio.  Le poche dichiarazioni a nostra disposizione presentano però numerose analogie con gli eventi che di lì a poco si sarebbero verificati nel vicino paese di Partina: i figli delle vittime affermano che nessuno dei morti aveva preso attivamente parte alla Resistenza, ma aveva al massimo fornito rifugio a qualche partigiano transitato per l’abitato, aggiungendo inoltre che molto probabilmente furono presenti durante l’operazione anche alcuni fascisti della zona[6].

 

Lapide in ricordo dei civili di Moscaio caduti durante la strage

 

Qualche ora dopo gli uomini della Gӧring piombarono su Partina, un piccolo paese vicino Soci. Verso le quattro del mattino un gruppo di fascisti e nazisti camuffati da partigiani entrò nel paese e si diresse all’abitazione di Angiolo Cerini, la guardia comunale del paese, chiedendogli se conoscesse qualcuno che li avrebbe potuti aiutare a trasportare del materiale bellico in montagna. Il Cerini non sospettò nulla ed accompagnò i presunti partigiani da coloro che riteneva li avrebbero potuti aiutare: il primo che venne interpellato era il Giovannini, ma questi si rifiutò di aiutarli perché i suoi buoi erano troppo stanchi, aggiungendo che aveva fornito il suo supporto in altre occasioni, ma che questa volta proprio non poteva aiutarli. Al rifiuto del Giovannini i repubblichini non rivelarono la loro identità e continuarono la loro ricerca facendosi accompagnare alla casa del Lorenzoni: una volta chiamato questi chiese di potersi  vestire prima di uscire di casa a parlare, ma gli risposero che non ce ne sarebbe stato bisogno, visto che quel giorno sarebbe stato ucciso. Accortosi dell’inganno il Cerini cercò di ritrattare quanto aveva detto, ma venne immediatamente colpito alla testa da due colpi di pistola. Con la morte della guardia comunale i criminali svelarono la loro identità, dando inizio alla strage[7].

 

Partina

 

Accompagnato da elementi locali, il gruppo si recò nelle abitazioni ritenute maggiormente sospette, come quelle dei partigiani Vecchioni e Paperini, dando alle fiamme le case ed uccidendo coloro che erano stati inseriti all’interno di una lista precedentemente stilata. Gli individui vennero uccisi nei più disparati modi, chi veniva ucciso sulla porta di casa, chi veniva gettato nelle abitazioni in fiamme dopo che era stato utilizzato per trasportare le fascine con le quali arderle e chi veniva ucciso alle spalle dopo che gli era stata promessa la salvezza. Complessivamente nel corso della mattinata vennero uccisi 14 abitanti di Partina, tutti uomini con più di diciotto anni.

Il resto della popolazione venne rinchiuso all’interno della chiesa, mentre all’esterno i tedeschi continuarono a seminare il panico per il paese. Giovanni Cherubini, che all’epoca aveva poco più di cinque anni, ricorda nitidamente il trasferimento della popolazione nella parrocchia: il volto grigio del parroco, la calca e i pianti di disperazione dei presenti. Ancora oggi non è chiaro se i tedeschi volessero uccidere i civili radunati all’interno dell’edificio o se volessero imprigionarli temporaneamente per avere più libertà di movimento nel paese; tuttavia, tra i presenti si diffuse la notizia che l’edificio sarebbe stato fatto saltare in aria. Ormai certo del tragico epilogo don Ezio Turinesi decise di tenere messa e di assolvere tutti i presenti dai loro peccati[8].

Fortunatamente questo rischio venne scongiurato grazie alla mediazione di un’ufficiale tedesco di stanza a Soci, il capitano Tambosi, e del responsabile locale della Todt, il maggiore Kirchberg, che riuscirono a convincere gli uomini della Gӧring ad interrompere la carneficina, testimoniando l’innocenza della popolazione e l’insussistenza delle voci che etichettavano erroneamente Partina quale “covo partigiano”. Grazie a questo intervento la strage non raggiunse dunque le dimensioni dell’eccidio di Vallucciole, ma si limitò all’uccisione di alcuni uomini di età adulta, senza che venissero eliminati gli anziani, i bambini e le donne. La mediazione di Tambosi e Kirchberg evidenzia la presenza di un buon rapporto tra gli abitanti nei dintorni di Soci e i tedeschi della Wehrmacht di stanza nella zona, testimoniata anche dal partigiano Dante Roselli nel corso di un’intervista[9].

La strage non limitò la sua estensione agli abitanti di Partina, ma coinvolse anche otto operai della Todt che nel corso della mattinata transitarono dal paese per dirigersi a lavorare verso Serravalle. Malgrado fossero muniti di regolare lasciapassare e lavorassero alla costruzione delle fortificazioni tedesche, questi vennero etichettati come partigiani ed uccisi lungo l’argine del torrente Archiano.

 

Cippo per gli operai della Todt

 

Nel corso degli anni la strage ha sollevato numerosi interrogativi, portando taluni a sostenere che l’azione fosse dovuta alla presenza in paese dei partigiani, infatti la mattina del 13 aprile tre componenti del Gruppo Casentino – il Vecchioni, il Paperini e il Ciabatti – si recarono in paese per raccogliere viveri e materiali prima di incamminarsi verso il Pratomagno, dove nel frattempo li stavano aspettando altri compagni del raggruppamento. Per quanto sia innegabile che l’eccidio sia avvenuto in concomitanza della presenza a Partina dei ribelli e dei tedeschi, è altrettanto indiscutibile che la presenza in paese dei soldati della Hermann Gӧring fosse precedente quella del Vecchioni, del Paperini e del Ciabatti. Inoltre è estremamente improbabile che i tedeschi o i fascisti locali fossero a conoscenza dell’imminente arrivo dei tre uomini, visto che la presenza partigiana in paese si trattava di un ripiegamento che non era stato preventivato, dovuto all’occupazione tedesca di San Paolo in Alpe.

Se poi si analizza l’evento da una prospettiva più ampia ci si accorge che la strage non era un’azione isolata, ma era parte di un’ampia operazione che si svolse in tutto il Casentino. I luoghi vittime delle incursioni nazifasciste furono scelti in base alle delazioni che elementi locali fornirono ai comandi tedeschi. Malgrado le denunce non fossero corroborate da prove che convalidassero la presenza di azioni svolte ai danni dei nazisti o testimoniassero l’esistenza di gruppi partigiani che operassero nella zona, le formazioni protagoniste della strage non si preoccuparono di verificare la veridicità delle delazioni e non contattarono neppure i connazionali che nel frattempo operavano nella zona da diverso tempo per avere informazioni in merito. La denuncia non veniva dunque vagliata, ma diveniva per i comandi tedeschi pretesto per poter attuare azioni indiscriminate che allontanassero le popolazioni dai partigiani ed eliminassero potenziali sostenitori della Resistenza. Nel caso di Partina è doveroso ricordare che i partigiani in questione operavano in luoghi lontani dal loro paese natale; dei tre solamente il Paperini perse la vita nel corso della giornata, sacrificandosi per salvare la vita del compagno Vecchioni.

Nonostante nel corso degli anni si sia raggiunta un’intesa riguardo l’origine e la natura della strage, permangono ancora dei dubbi in merito ad alcuni aspetti dell’eccidio, che né gli storici né le testimonianze dei sopravvissuti sono riusciti a chiarire. In particolare sono due le zone d’ombra che sollevano alcuni interrogativi sull’evento, in primo luogo ci si domanda come mai i partigiani si fossero recati in paese nonostante un gruppo di nazisti e di fascisti fosse già presente a Partina dalle prime ore del mattino. Sappiamo che questi erano camuffati da partigiani, ma è altrettanto veritiero che la presenza di un gruppo, pur con le sembianze di un potenziale alleato, sarebbe difficilmente passato inosservato all’interno di un paese dalle piccole dimensioni ed avrebbe dovuto allertare i tre partigiani che avevano ricevuto oltretutto la notizia di un probabile rastrellamento nel Casentino. L’unica spiegazione plausibile presuppone che il gruppo di repubblichini e nazisti abbia agito nel più assoluto silenzio e sia riuscito contemporaneamente a non farsi udire ed individuare dai partigiani di ritorno nel paese.

Un altro aspetto che solleva alcuni interrogativi riguarda il mancato intervento di Sacconi in soccorso dei civili. In questo caso sappiamo che Sacconi si era appostato con i membri del gruppo Casentino nel vicino podere “Prati”, distante solamente pochi chilometri da Partina, e che avesse udito la mattina del 13 aprile gli spari provenire dal paese. In questo caso è probabile che il trasferimento sul Pratomagno avesse precedenza rispetto a qualsiasi altra operazione e che dunque il gruppo si fosse diretto verso il massiccio nonostante avesse sentito le grida provenire da Partina. In merito a questo aspetto non abbiamo però testimonianze o informazioni che ci permettano di chiarire la questione, e possiamo solamente ipotizzare una presunta precedenza dello spostamento sul Pratomagno rispetto ad un intervento in soccorso degli abitanti del paese.

Le stragi del 12 e 13 aprile ‘44 hanno segnato in modo profondo la memoria di questi paesi, che hanno deciso di ricordare le vittime attraverso una serie di opere monumentalistiche. A Partina le vittime della strage vengono commemorate all’interno di un’area verde situata in via San Francesco dove è presente un memoriale dedicato ai caduti del comune durante la seconda guerra mondiale: all’interno dello spazio sono presenti una serie di targhe in bronzo, ognuna delle quali è dedicata ad una specifica categoria di caduti. Per quanto riguarda la strage di Partina sono presenti tre steli destinate agli eventi del 13 aprile, una per i civili vittime dell’eccidio, una per gli otto operai della Todt e una in onore di Santi Paperini, sacrificatosi per salvare la vita del compagno Salvatore Vecchioni[10]. Sempre in via di San Francesco è poi presente una lapide situata sull’argine del torrente Archiano, in ricordo degli otto operai della Todt fucilati dagli uomini della Gӧring[11]. Per quanto riguarda invece le vittime di Moscaio queste vengono commemorate attraverso due lapidi, una posta nella strada che attraversa l’abitato dove avvenne la strage[12] e una posta nel cimitero di Bibbiena[13].

 

Area verde di Partina adibita al ricordo delle vittime della seconda guerra mondiale

 

Note:

[1] È interessante notare come Partina e Vallucciole siano state entrambe designate quale luoghi adibiti all’occultamento delle armi che il nascente gruppo di Vallucciole insieme a quello di Bibbiena derubarono il 13 settembre 1943 a Stia. Per approfondire l’episodio cfr. L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944. Storia, ricordo e memoria pubblica di una strage nazifascista, Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2017, pp. 71-72.

[2] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, pp. 71-72.

[3] Ivi, pp. 72-73.

[4] Ivi, p. 78.

[5] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, Quaderni dell’Istituto Storico della Resistenza Toscana, ed. Nuova Italia, Firenze 1975, p. 70.

[6] Testimonianza di Giancarlo Giannini, https://perlamemoria.it/i-luoghi/bibbiena/moscaio/.

[7] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., pp. 66-67.

[8] Testimonianza di Giovanni Cherubini, https://perlamemoria.it/i-luoghi/bibbiena/partina/.

[9] Testimonianza di Dante Roselli, https://perlamemoria.it/i-luoghi/bibbiena/partina/.

[10] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/memoriale-ai-caduti-di-partina-di-bibbiena-guerra-1940-45/.

[11] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/cippo-agli-operai-della-organizzazione-todt-fucilati-il-13-4-1944-partina-di-bibbiena/.

[12] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/lapide-ai-caduti-delleccidio-del-13-4-1944-moscaio-di-bibbiena/.

[13] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-ai-caduti-del-moscaio/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel novembre 2024.




I bombardamenti sulla Val di Bisenzio (1943-1944)

Dal 22 giugno del 1940 i cittadini di Prato iniziarono a sentire le prime sirene che avvertivano dei possibili bombardamenti alleati. Quella che provocò un’iniziale paura si tramutò presto in un semplice suono di ricorrenza, che accompagnò i pomeriggi dei pratesi per più di tre anni senza conseguenza alcuna. È questo il sentimento che li caratterizzerà anche la mattina del 2 settembre 1943. Nonostante l’allarme, molti di loro rimasero in strada, ormai abituati a quel segnale a cui ormai non davano più molta importanza. All’improvviso però, una flotta di circa sessanta areoplani transitò sulla città, colpendo ferocemente con le bombe la stazione, il Palco e Santa Cristina, facendo capire a tutti che una nuova fase si stava aprendo, quella della paura[1]. Perché proprio Prato si chiederà il lettore? Perché colpire il centro cittadino? La risposta ricade tutta nella disposizione industriale della città, essendo Prato città “di industria”, dove le imprese risiedono direttamente all’interno della città e non in zone periferiche esterne al perimetro abitativo, come nel caso di Firenze. Ecco perché qui i bombardamenti colpirono maggiormente le abitazioni rispetto ad altre zone, per via della stretta vicinanza con gli obiettivi militari. Inoltre un’altra zona di interesse alleata era la stazione, per via della presenza della Direttissima, ovvero la linea ferroviaria che collega Bologna a Firenze, valicando l’Appennino tosco-emiliano. Ecco perché Prato e la Val di Bisenzio rappresentano una zona strategica di primaria importanza in Toscana per gli alleati.

Dal 2 settembre del 1943 cambia la percezione della cittadinanza,      quel pericolo tanto paventato da anni ora è reale, è sarà solo l’inizio. L’11 novembre un bombardamento di un’ora e mezzo seminò il panico in città, concentrando le proprie forze sulla stazione. Ci furono due morti e più di venti feriti, varie aziende danneggiate e più di trenta case furono distrutte o gravemente danneggiate. Pure l’acquedotto fu colpito, portando gravi disagi in varie zone della città. Il terzo bombardamento arrivò il 26 dicembre. Fu danneggiato l’Istituto San Giuseppe e presa di mira ancora la stazione ferroviaria, provocando vari danni, come la distruzione del capannone merci, l’incendio di alcuni carri e il danneggiamento dei binari. Furono una ventina le case distrutte e ventiquattro le persone ferite, oltre ad altri gravi danni all’acquedotto. Il 1943 si chiude quindi con la paura imminente di nuovi attacchi, che con l’anno seguente vedranno coinvolte anche le altre zone della Val di Bisenzio.

Il 15 gennaio però i bombardamenti riguarderanno ancora Prato. Tre ore di assedio alleato dove furono sganciate più di trecento bombe, una trentina delle quali rimarranno inesplose, colpendo via Ferrucci, Ponzano, Mezzana, San Giorgio a Colonica, Pizzidimonte, Grignano, Gonfienti e via Gobetti. Vengono distrutte una ventina di case e altrettante vengono danneggiate gravemente. Chi risentì maggiormente del bombardamento furono le imprese, con molte fabbriche – come la SALIT – quasi rase al suolo. I morti accertati furono trentuno, i feriti settantadue. La tragedia avvenne a Mezzana, dove una bomba, caduta all’ingresso di uno dei rifugi scavati nei campi del Buci, determinò una vera e propria strage, strappando persino col solo spostamento d’aria un bambino di soli diciotto mesi dal braccio della madre, scaraventandolo tra i detriti, dove sarà ritrovato cadavere il giorno seguente dopo faticose ricerche. Passarono solo due giorni, e il 17 gennaio i cittadini di Prato dovettero vivere l’ennesima giornata infernale. Centinaia di bombe caddero in rapida successione sulla stazione ferroviaria, colpendo anche La Pietà, Santa Cristina, La Castellina, Canneto, Paperino, Viale Vittorio Veneto, via Santa Chiara, via Ferrucci e la sottostazione di via Martini della Selt Valdarno, la cosiddetta Mineraria. Danni pesanti ai telefoni e al telegrafo, più di cento stabili furono quasi distrutti e oltre centocinquanta danneggiati. Fu colpito gravemente lo stabilimento di Orlando Franchi in viale Vittorio Veneto e quasi distrutto il mulino Borgioli in vale Montegrappa. Rasa al suolo la Chiesa di San Giuseppe e pesantemente danneggiato l’oratorio di San Rocco, in via Santa Chiara. I morti furono due e quasi cinquanta i feriti. A rendere ulteriormente sconcertante e drammatica la situazione, la popolazione venne avvertita che da allora in poi – a causa dei danni alla corrente elettrica che non ne garantivano più la regolarità per azionare le sirene – gli allarmi sarebbe stati comunicati col suono a martello in sei riprese e di quindici secondi delle campane cittadine, mentre il cessato pericolo sarebbe stato dato col suono continuo a discesa di due minuti[2].

Il 21 gennaio 1944 i bombardamenti alleati colpirono Schignano uccidendo 6 ragazzi – che, spinti dalla curiosità, erano rimasti in zona scoperta per vedere il terrificante spettacolo delle bombe che cadono – e superati i Faggi di Javello, colpirono anche Tignamica e l’Isola, nei pressi della filatura Forti. L’8 febbraio 1944 venne bombardato il villaggio-fabbrica de La Briglia: al mattino la stessa formazione di aerei che distrusse l’antica pieve di Filettole a Prato – le cosiddette “fortezze volanti” – sganciarono grappoli di bombe sulla Briglia, probabilmente con l’intento di colpire il lanificio e bloccare così la produzione. La fabbrica venne colpita solo in alcuni reparti, mentre il paese venne devastato: abitazioni operaie e negozi intorno alla piazza centrale vennero pesantemente danneggiati, lasciando la popolazione nella miseria. Molti furono i feriti e quattro le vittime.

Il 7 marzo altro pesante bombardamento a Prato. L’incursione alleata devastò vaste aree del centro storico e della periferia a nord, come via Strozzi, Montalese, Bologna, Filicaia, Santa Margherita e San Fabiano, oltre alle piazze Mercatale, del Duomo, Sant’Agostino e Ciardi. Vennero colpite fabbriche e abitazioni, con un bilancio di sedici morti, diciotto feriti, centouno aziende danneggiate, cinquantaquattro case distrutte e quasi trecento danneggiate[3]. Il 18 maggio invece un bombardamento previsto a Vernio, destinato alla Grande Galleria dell’Appennino, colpì invece Poggiole, Ceraio, il viadotto ferroviario di Terrigoli e la fabbrica Peyron.

Il 7 giugno la contraerea tedesca abbatté l’aereo americano B-25J Mitchell difronte a S. Quirico, in località Carbonale, presso Poggiole. Visto l’intensificarsi dei bombardamenti, tra la primavera e l’estate dello stesso anno, l’esercito tedesco installò numerose postazioni difensive, minando edifici e obbligando la popolazione ad abbandonare le proprie case. All’inizio di giugno le forze nazifasciste iniziarono infatti a dislocare alcune batterie antiaeree presso S. Ippolito. Il 7 giugno una formazione di diciotto B25 (12ª Air Force americana), accompagnati da otto Spitfire inglesi, sorvolò Vernio verso le 17: appena arrivati in Val di Bisenzio la contraerea tedesca, posizionata al Pianatino e a Spazzavento nei pressi di S. Ippolito, colpì la coda di uno degli aerei, che si spezzò in volo. L’aereo (matricola 43-4059) cadde nei pressi della località Carbonale, nei boschi di Poggiole: nello schianto morì tutto l’equipaggio del velivolo tranne un componente, che riuscì a paracadutarsi fuori prima dell’impatto. I resti del bombardiere sono ad oggi custoditi e visitabili presso la Mostra permanente della Linea Gotica, organizzata dall’associazione Linea Gotica Alta Val Bisenzio A P S., a San Quirico di Vernio.

Il 30 giugno ci furono invece varie incursioni aeree su Vaiano, dove venne mitragliata la stazione. Il 24 agosto venne bombardata Montepiano. La chiesa diventò prima rifugio di sfollati di Vernio e Cantagallo, poi centro di smistamento di forza lavoro per le necessità belliche dei tedeschi.

La serie dei bombardamenti continuò fino al 30 agosto, il giorno prima che i tedeschi abbandonassero la città, dopo aver fatto saltare i ponti della Vittoria, del Mercatale e altri sull’autostrada. Solo da quel giorno si sarebbe conclusa la paura giornaliera delle sirene e la costante preoccupazione di vedersi distrutta la propria abitazione in un attimo. Dopo quasi un anno, la Val di Bisenzio tornava a guardare il cielo senza paura.

 

 

Note

 

[1] M. Di Sabato, La guerra nel pratese 1943-1944, Pentalinea, Prato, 1993, pp. 10-11.

 

[2] Ivi, pp. 20-26.

 

[3] Ivi, pp. 54-66.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nel novembre 2024.