Walma Montemaggi (1926-2017)

Walma (a sinistra) nel 1946 con le sorelle Clara e Fulvia
Nasce nel 1926 a Pontorme, sobborgo operaio di Empoli, da una famiglia composta dal padre, vetraio soffiatore, dalla madre sarta e da sei figli, di cui Walma è la più piccola. Frequenta le scuole elementari dalle suore, perché la famiglia antifascista non vuole che partecipi ai rituali della scuola di regime. Successivamente inizia a lavorare come operaia in una piccola ditta che produce vestiario militare.
Si avvicina all’attività politica aiutando il fratello Alfiero, comunista, nella distribuzione di volantini e nella raccolta di fondi per il Soccorso rosso. L’arresto di Alfiero nel 1936 segna anche per lei una tappa significativa, dato che a scuola è additata come sovversiva. Nella sua formazione svolgono inoltre un ruolo i legami con la famiglia allargata: è cugina per parte di madre di Giuseppina e Ateo Garemi, entrambi emigrati in Francia; Ateo aderirà ai GAP e sarà ucciso a Torino nel dicembre 1943.[1] Durante la guerra approfondisce i legami con gli ambienti clandestini empolesi e contribuisce già alla preparazione dello sciopero del marzo 1943.
Subito dopo l’8 settembre si impegna col fratello nel soccorso a militari fuggiaschi e renitenti alla leva, che vengono messi in contatto con i gruppi partigiani. Svolge il ruolo di staffetta e partecipa all’organizzazione dello sciopero del 4 marzo 1944; l’agitazione è infatti appoggiata da un corteo di donne verso il centro cittadino, alla quale si uniscono contadini dalle vicine frazioni, artigiani e bottegai e gli operai che escono dalle officine.[2] Per queste attività sarà riconosciuta patriota.
Dopo la Liberazione è assunta in una fabbrica di fiammiferi, diventando un’operaia specializzata. Il PCI le propone di frequentare un corso di formazione rivolto alle donne; Walma accetta e in seguito decide di abbandonare l’impiego per dedicarsi all’attività politica. Svolge prima un ruolo nella Federazione giovanile e poi diventa segretaria provinciale dell’UDI. Nel 1953 partecipa alla vertenza della fabbrica Pignone di Firenze, divenendo la portavoce delle famiglie degli operai presso il sindaco Giorgio La Pira, che riuscirà a evitare la chiusura dello stabilimento.

Walma Montemaggi
Nel 1955 si sposa con Ilio Bastianoni, anche lui aderente al PCI. La coppia successivamente si allontana dalla politica attiva; Walma decide nel 1963 di lasciare il ruolo di funzionaria, nel 1964 ha un figlio. Non abbandona però l’impegno pubblico, in specie nel sindacato e nell’ANPI, e nell’ultima fase della sua vita si dedica alla scrittura di racconti e memorie. Muore ad Empoli nel 2017.
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🟥Stralci dell’intervista a Walma Montemaggi in Laura Antonelli, Voci dalla storia. Le donne della resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione, Prato, Pentalinea, 2006, pp. 155-7 e 168-169
L’anno successivo, il 1944, preparammo lo sciopero del quattro marzo con una riunione preparatoria nel bosco di Corniola, facendola sembrare una scampagnata di ragazze e ragazzi.
Lì ci fu detto il giorno e l’ora (il 4 marzo appunto, ad Empoli in Comune alle ore 10-11). Così iniziammo a formare piccoli gruppi che camminavano per il “giro” di Empoli, poi si fecero dei capannelli iniziando a parlare fra noi donne, in seguito diffondemmo la voce: “Andiamo in Comune dal podestà”. Eravamo un centinaio, tutte affollate al portone del palazzo comunale, entrammo. Fummo ricevute dalle autorità di allora: il podestà appunto, il segretario del Fascio repubblichino, il commissario di polizia, il maresciallo dei carabinieri e alcuni responsabili dei servizi comunali. Noi avanzammo le nostre richieste, erano mesi che con la tessera non ci veniva dato neppure ciò che toccava di diritto. Chiedevamo pane, un po’ di carne, vedevamo i tedeschi che stavano portando via tutto. Facemmo le nostre rimostranze. Le autorità ci calmarono, dicendo che in qualche modo avrebbero provveduto e così andammo via con queste promesse verbali. Appena fuori dal Comune, le donne e gli uomini ormai erano divenuti una folla che andava via via aumentando. La strada era piena di gente che ci domandava come fosse andata, cosa ci avessero risposto.
In quel momento fummo affiancate dalla polizia dell’OVRA[3] che ci provocò, dicendo: “Penerone![4] Andate a casa”. A queste parole venne fuori da parte di tutte le donne un abbaione di risposta: “Andate voi a casa!” e li rincorremmo. Uno si dileguò andando verso la stazione, un altro si diresse in piazza della Vittoria presso un albergo, quando fu arrivato ci mostrò la pistola e una bomba a mano. Allora presero in mano la situazione i compagni partigiani che erano scesi dalla montagna per scortarci ed il poliziotto fascista, vista la malaparata, si rifugiò nell’albergo. Di lì a pochi minuti arrivò un camion tedesco con una mitragliatrice innestata con due soldati che ci intimarono di sciogliere il raduno non autorizzato altrimenti avrebbero fatto fuoco. Noi non ci lasciammo intimorire, tenemmo ancora per un po’ la piazza, alcuni proposero di andare ad assaltare il silos del grano, ma ci fu detto di non andare che il grano se l’erano già preso i tedeschi. In quegli istanti di paura ma anche di coraggio ricordo che accanto a me avevo mamma “Palmira”, un’anziana compagna madre di un giovane che era stato condannato a tanti anni di carcere dal Tribunale Speciale perché comunista. Questa donna mi diceva: “Abbracciami Walma, stringiti a me e non aver paura, tanto non sparano. Lo fanno per impaurirci” […].
– Aveva paura?
– Sarei stata un’incosciente a non averne. Anzi ne ho avuta tanta. Quando andavo a prendere la stampa clandestina ad Avane, e la sistemavo nella borsa a doppiofondo fatta da mia madre, ti dirò che facevo in un lampo a distribuirla a tutti, così quando c’erano i libri, li diffondevo il pomeriggio nascondendo il fatto con la giratina in bicicletta oppure che andavo a Empoli a comprare i bottoni per i vestiti delle clienti di mamma. Poi c’erano i giorni nei quali venivano ammazzate le bestie comprate dai contadini, per mandare un po’ di carne ai ragazzi che erano in montagna e per noi. Vendevamo le frattaglie e le parti meno nobili da fare il lesso e lo spezzatino; a volte compravo anche per casa, ma la carne anche la meno nobile, costava molto e non sempre potevamo permettercela. Poi passare un posto di blocco dove c’erano i tedeschi, quelli della Wehrmacht, quando dovevo portare qualcuno in formazione: giovani renitenti alla leva militare che non volevano andare al fronte a morire o disertori dell’esercito che non volevano più combattere. Questi erano i pericoli che si correvano ogni giorno. Le prime volte, tremavo ma poi riuscivo sempre a cavarmela; non ti ho detto che ero piuttosto bellina e allora a volte tiravo un po’ più su del dovere la gonna andando in bicicletta e così passavo. Però passavo più volentieri dai posti di blocco tenuti dai tedeschi che da quelli dei repubblichini: avevo paura di incontrarci qualcuno che mi conosceva.[…]
Nel 1943 iniziò la nostra Resistenza in Toscana. Con mio fratello Alfiero portammo tanti ragazzi sia in montagna, specialmente i renitenti alla leva, ma anche ufficiali badogliani che andarono nelle formazioni partigiane che come sai, si aggregarono agli alleati per compiere azioni di disturbo ai tedeschi allora invasori ed ai repubblichini fascisti visto che Mussolini aveva formato la Repubblica di Salò. Io feci scappare in montana un maresciallo della finanza che doveva andare sul fronte russo ed anche un ufficiale dell’esercito che era ricercato come disertore: episodi che ho descritto nei miei racconti. È proprio vero che più difficile diventa la vita, più si lotta. Il coraggio a me veniva dalla consapevolezza del rischio che era anche paura. Ma nei momenti più acuti io mi vedevo la fine di tutto questo patimento e la morte mi sembrava liberazione e rinascita ad una vita più giusta, migliore e degna di essere vissuta.