Primavera/estate 1944: le vallate aretine grondano sangue

Dopo lo sfondamento di Montecassino degli Alleati, la ritirata delle truppe tedesche dalla Linea Gustav alla Linea Gotica si è portata dietro una lunga scia di sangue con una serie raccapricciante di eccidi, molto spesso pianificati da una strategia stragista.

La sensazione, che man mano diventava realtà, di non essere più un esercito invincibile, che il sogno di conquistare il mondo sarebbe rimasto tale, che la guerra si sarebbe persa, rese i nazisti, da Hitler all’ultimo soldato semplice, sempre più violenti e disumani. In più vi era quell’azione di guerriglia portata avanti dalle formazioni partigiane, atte a contrastare la loro ritirata, che logorava fino allo sfinimento il morale tra le file dei militari; militari già esasperati dalle condizioni di una guerra che per molti di loro si stava protraendo da quasi cinque anni, in giro per il mondo, lontano da casa e con la morte sempre ad un passo. E dall’alto del comando giungeva l’ordine di usare la mano pesante per debellare l’attività di coloro che venivano definiti “banditi”, ai quali, non essendo militari, non veniva riconosciuto nessun diritto delle leggi di guerra. Lo stesso Kesserling, comandate delle forze tedesche in Italia, era andato oltre auspicando un contegno durissimo ed intransigente anche verso i civili in quanto fiancheggiatori o possibili partigiani. Per lui il problema consisteva nel fatto che i partigiani non portassero la divisa per cui si poteva supporre che ogni civile fosse pronto a colpire facendo vivere i soldati tedeschi sotto continua minaccia. Il famoso “Befehl” del 17 giugno 1944, a sua ispirazione, redazione e firma che dice: “uccidete, e qualsiasi cosa vi accada vi difenderò, e se non vi scatenerete contro gli italiani vi punirò”, costrinse tutti i militari tedeschi a strafare.

E durante il passaggio del fronte di guerra nella provincia aretina il “Befehl” di Kesserling fu messo in pratica con una ferocia disumana che probabilmente andò anche oltre le intenzioni del comandante tedesco. Nessuna pietà né per donne, anziani e bambini, perfino un neonato di due settimane fu trucidato con una sventagliata di mitra. Nessuna pietà neanche per quella donna incinta che durante il tragitto della “marcia della morte” da Molin dei Falchi a San Polo stanca per il cammino si accasciò a terra e fu uccisa con il suo bimbo in grembo con un colpo alla pancia. Una follia rabbiosa che trovava nell’eccidio di esseri umani inermi la sua massima espressione e che a volte non aveva bisogno neanche di giustificazioni (se possono esistere giustificazioni) di ritorsioni per uccisioni nelle file tedesche. Si uccideva barbaramente per il solo gusto di uccidere, si uccideva solo perché gli italiani venivano considerati traditori: dal nonno al nipotino seppur innocenti ed estranei alla guerra per il solo fatto di essere italiani meritavano la morte…

Nel territorio aretino non avvennero grandi stragi per numero di vittime come a Marzabotto (oltre 800 vittime) o a Sant’Anna di Stazzema (560 vittime), ma si susseguirono una serie di eccidi, 42 per la precisione, sparsi per le colline e le campagne che nella primavera/estate del ‘44, in soli quattro mesi causarono quasi 1500 morti. Quel territorio costituiva l’ultimo baluardo per contrastare l’avanzata degli Alleati e dovevano resistere fintantoché non fosse ultimata la costruzione della Linea Gotica e quando le truppe tedesche lentamente si ritiravano facevano terra bruciata dietro a loro.

 

PERCHE’ LA MEMORIA NON SI CANCELLI

Nell’anno dell’ottantesimo Anniversario della Liberazione della provincia aretina, perché si tenga sempre alta l’attenzione e vivido il ricordo di ciò che è avvenuto, abbiamo individuato una sorta di “Sentiero Resistente” inteso come caduti per la Resistenza, dove narriamo e ripercorriamo alcune stragi meno note compiute nell’aretino. Nel corso di questo percorso andremo a visitare i vari monumenti dedicati alle vittime di quelle violenze compiute dai nazifascisti nell’estate del ‘44.

L’itinerario è lungo complessivamente 39 km, percorribili in automobile in circa un’ora, in bicicletta in due ore, oppure per i più “coraggiosi” amanti del trekking è possibile effettuarlo a piedi impiegando circa 8 ore di cammino.

 

Mappa del percorso

 

Le Tappe: Monumento ai caduti dell’eccidio di Badicroce – Monumento ai caduti dell’eccidio dell’Intoppo-Palazzo del Pero – Monumento ai caduti di Staggiano – Carcere di Arezzo – Cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio – Monumento ai caduti di San Leo – Monumento in memoria dell’eccidio di San Polo – Murales della Chiassa Superiore.

 

1° tappa: Monumento ai caduti dell’eccidio di Badicroce

Il nostro percorso inizia con la visita al monumento in ricordo delle 17 vittime civili trucidate dai tedeschi nella fattoria di Badicroce e nei suoi dintorni. Il monumento si trova in uno spiazzo al lato della strada provinciale che unisce Gambaronica a Palazzo del Pero.

Dalla metà di giugno questa era un’area di passaggio delle truppe tedesche che facevano la spola tra il fronte e il presidio di Arezzo. Una sera un ufficiale dopo essersi fermato a cenare alla fattoria aveva sparato in aria un colpo di pistola ottenendo come risposta una raffica di mitra in lontananza, segno inequivocabile che nella zona ci fossero uomini armati. Questo fu sufficiente a sospettare che il proprietario della fattoria, il dottor Alberto Lisi, fosse coinvolto con la Resistenza e a considerare la zona un ricettacolo di partigiani protetti dalla popolazione civile, cosicché nei giorni seguenti la morte di un soldato fece scattare subito la rappresaglia in quel luogo. Iniziarono mettendo a fuoco le case di contadini e boscaioli all’interno della tenuta eccetto la colonica detta “Aia vecchia”, che fu occupata dai tedeschi diventando la loro base logistica per i crimini dei giorni a seguire. Le stalle della casa furono adibite a centro di raccolta e detenzione, ma anche luogo di interrogatori e torture (e non mancarono in quelle stanze anche stupri per le malcapitate donne), per tutti gli abitanti e gli sfollati che furono presi in ostaggio durante le azioni di rastrellamento.

Il 3 luglio cominciava l’emorragia di civili: le prime vittime furono tre uomini arrestati a Palazzo del Pero e condotti a Badicroce per essere giustiziati e fino al 10 luglio caddero sotto i colpi nazisti diciassette persone (sei anziani, sette adulti, due donne e due bambini). Una delle donne era Olga Badini, giovane sposa sfollata ad Arezzo, la cui colpa fu solo quella di impedire, opponendosi energicamente, a due soldati tedeschi di usare violenza su alcune ragazze. I due inizialmente desistettero ma dopo alcune ore tornarono nella stalla dove erano reclusi gli sfollati, presero la Badini e la condussero fuori. Il suo cadavere fu trovato insieme ad altre vittime il giorno dopo la liberazione nel bosco con incredibili segni di violenza e con un fazzoletto alla gola, causa probabile di morte per asfissia[1].

L’opera in ricordo dell’eccidio è stata realizzata dagli studenti di terza dell’Istituto d’Arte “Piero della Francesca” di Arezzo, ed è stata inaugurata il 26 marzo 2011. La scultura rappresenta una donna che cerca di rialzare il corpo di un uomo, con accanto anche quello giacente di una ragazza. Sul basamento sono poste due targhe in metallo, una, quella a destra, in cui sono incisi i nomi dei caduti, l’altra, quella a sinistra, ha invece inciso il simbolo della Repubblica italiana, la dedica alle vittime e gli autori dell’opera.

 

Monumento eccidio Badicroce, a Pian di Usciano.

 

2° tappa: Monumento ai caduti dell’eccidio dell’Intoppo-Palazzo del Pero

Badicroce – Palazzo del Pero 3,4 km (4 minuti in auto, 46 minuti a piedi).

Proseguendo in direzione nord si oltrepassa l’abitato di Palazzo del Pero, in direzione Molin Nuovo e si arriva, dopo circa tre chilometri e mezzo, al monumento ai caduti dell’eccidio di Palazzo del Pero, posto in un ampio spazio nella parallela della strada statale 73.

In uno scontro a fuoco il 23 giugno, nelle vicinanze della fattoria Bianchini a Palazzo del Pero, fu ucciso un soldato della Wehrmacht. Immediata fu la reazione dei tedeschi che arrestarono il proprietario Domenico Bianchini insieme al figlio ed al nipote. Il mattino seguente furono rilasciati, ma un reparto tedesco, probabilmente appartenente alla polizia militare, tornò alla fattoria, catturò i contadini che stavano tranquillamente mietendo il grano e dettero fuoco ai loro poderi. Dal modo di comportarsi dei soldati si comprese fin da subito la gravità della situazione e che la loro azione di rappresaglia sarebbe stata molto dura e luttuosa. Infatti nove contadini vennero prelevati e portati nei pressi di una chiesa in località il Muraglione per essere giustiziati. A niente valsero le grida disperate dei parenti e le loro invocazioni di pietà per i propri cari cercando soprattutto di mettere in rilievo la loro innocenza. Il comandante del reparto fece rispondere all’interprete: “anch’io sono convinto della loro innocenza, come pure sono convinto che noi abbiamo perduto la guerra, però dobbiamo farli fucilare egualmente[2]. Quegli uomini vennero fatti allineare lungo la strada ed al comando uccisi con scariche di mitra.  La decima vittima, Giulio Bacci, fu sorpresa mentre tentava la fuga sulla via fra Maiano e Le Lastre. Sarà la madre il giorno dopo a ritrovare il corpo straziato del figlio sul ciglio della strada.

Due manufatti sono stati posti in tempi diversi in memoria della fucilazione di 10 uomini, tra civili e partigiani, avvenuta in questo luogo il 24 giugno del ‘44 per mano dei soldati tedeschi. Il primo, collocato a breve distanza dall’accaduto, è un cippo di pietra con incassata una lapide di marmo sulla quale sono riportati i nomi dei dieci caduti. L’altro monumento invece, posto nel cinquantesimo anniversario dall’eccidio, è costituito da un masso di pietra in cui è incastonato un bassorilievo che raffigura una Pietà in bronzo.

 

Monumento ai caduti dell’eccidio dell’Intoppo.

 

3° tappa: Monumento ai caduti di Staggiano

Palazzo del Pero – Staggiano 9,5 km (12 minuti in auto, un’ora e mezzo circa a piedi).

Dal monumento dell’eccidio di Palazzo del Pero torniamo indietro per pochi metri sulla strada provinciale e svoltiamo a destra prendendo la strada statale 73, per poi uscire dalla strada principale all’altezza del bivio con indicazione “Poti”; infine proseguiamo fino a Staggiano, una piccola frazione del comune di Arezzo, vittima di un altro eccidio nazista nel luglio del ’44.

Lungo la strada di fronte alla chiesa delle Sante Flora e Lucilla, in via Santa Fiora, si trova il monumento ai caduti di Staggiano, due lapidi di marmo nelle quali sono incisi i nomi dei caduti della prima e della seconda guerra mondiale.

L’11 luglio una pattuglia di soldati tedeschi giunse alla casa colonica Torri, situata in collina sopra il paese di Staggiano, in cui abitava la famiglia Carboni che aveva ospitato alcuni sfollati. Quel giorno era presente in casa anche un giovane capitato lì per caso che possedeva una pistola. Alla vista dei tedeschi egli si allontanò precipitosamente nascondendo l’arma sotto un covone di grano. Quel gesto non passò inosservato: il giovane fu catturato e la sua arma ritrovata. Ma nelle vicinanze vi era una compagnia della formazione “Pio Borri” guidata da Siro Rossetti, che si era attestata su Poggio Tondo, sopra Staggiano per prepararsi alla calata sulla città di Arezzo. I partigiani intervenuti prontamente per risolvere la questione riuscirono ad avere la meglio respingendo la pattuglia tedesca anche se nello scontro a fuoco persero la vita due suoi uomini. Inevitabilmente la ritorsione non tardò ad arrivare e dopo qualche ora i tedeschi ritornarono incendiando la fattoria, considerata una base dei partigiani, sterminarono il bestiame e fermarono sei uomini: i fratelli Angelo e Ferdinando Carboni, intenti a pascolare il gregge; Manlio, Alfonso e Alberto Mazzi, che si trovavano in casa ed il giovane Piero Poretti, il proprietario della rivoltella. Tutti quanti furono portati a villa Sacchetti, sede del comando tedesco, e qui barbaramente uccisi.  I loro corpi vennero rinvenuti quattro giorni dopo, il 16 luglio, giorno della liberazione di Arezzo, in una buca a Santa Fiora: “I corpi da quanto si poté constatare erano stati calcati a forza nella buca. In tasca a ciascuno era stata messa una quantità di esplosivo e si poté anche constatare che per rendere più tremenda la morte erano state sparate addosso a loro alcune fucilate con cartucce di pallini[3].

 

Monumento ai caduti di Staggiano

Nomi dei sei uomini caduti a Staggiano durante la Resistenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

4° tappa: Carcere di Arezzo

Staggiano- Arezzo carcere 5,5 km (10 minuti in auto, un’ora circa a piedi).

Da Staggiano proseguiamo in direzione nord-ovest verso Arezzo, prendendo via Anconetana fino a giungere nella zona del centro storico della città.

In via Garibaldi, distante dieci minuti dalla cattedrale dei Santi Pietro e Donato, troviamo la casa circondariale di Arezzo, dove il 15 giugno del ’44 vennero barbaramente trucidati, da componenti della Guardia Nazionale della Repubblica di Salò, Santino Tani (anima della Resistenza aretina), suo fratello don Giuseppe Tani e Aroldo Rossi, catturati il precedente 30 maggio nei pressi di Montauto (Anghiari)[4].

La cella dove i tre partigiani vennero sottoposti ad inaudite violenze e poi massacrati con decine di proiettili è oggi monumento nazionale. Nella lapide posta accanto alla cella sono raffigurati i loro volti, ritratti nei tre ovali apposti sulla sommità della lapide, che recita: “In odio alla libertà, qui furono imprigionati, straziati, uccisi Santino Tani, don Giuseppe Tani, Aroldo Rossi. La libertà risorta ne addita la fede e il sacrificio agli italiani”.

 

Targa posta accanto alla cella nel carcere di Arezzo dove vennero trucidati i tre partigiani.

 

5° tappa: Cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio

Arezzo carcere – Mulinaccio 2,3 km (6 minuti in auto, mezz’ora a piedi).

Si continua percorrendo via Giuseppe Garibaldi in direzione sud, per poi svoltare a destra all’altezza dell’incrocio con via San Lorentino e continuare per più di un chilometro fino ad arrivare al bivio con via Antonio Stoppani, svoltiamo a destra e proseguiamo fino a via Camillo Golgi, dove è visibile, prendendo una rampa pedonale, segnalata da un apposito cartello, che scende verso il torrente Castro, il cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio.

Il monumento inaugurato nel dopoguerra è stato restaurato, grazie ai parenti delle vittime, nel 2008.

La strage del Mulinaccio venne compiuta il 6 luglio del 1944, a dieci giorni dalla liberazione di Arezzo. Quindici uomini che stavano lavorando nei campi, residenti presso il podere il Mulinaccio, vennero presi dai tedeschi. Nonostante i giorni precedenti avessero intrapreso rapporti amichevoli con loro, i soldati quel 6 luglio li divisero dalle loro mogli e madri e li fecero camminare lungo il sentiero che porta verso il torrente Castro. Qui, poco oltre il guado, vennero uccisi a colpi di mitraglia e gettati in una fossa. Il giorno successivo gli stessi soldati ritornarono al podere intimando alle donne la partenza dalle case coloniche e comunicando loro la morte dei familiari, dicendo ripetutamente “Partisanen kaputt!”.  Le donne, non conoscendo la lingua, non capirono, e soltanto una settimana dopo si resero conto del crimine che era stato consumato scoprendo la fossa dei cadaveri.

Ancora oggi non si riesce a capire le motivazioni dietro a quella strage: la memoria locale suggerisce la motivazione della rappresaglia, ma per il partigiano e scrittore Enzo Droandi si tratta invece di “violenza ingiustificata” e non si esclude la possibilità che si possa parlare di “terra bruciata”: “i tedeschi erano esasperati e catturavano chiunque, vedendo partigiani un po’ ovunque e nelle donne vedevano delle informatrici ribelli[5].

 

Cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio.

 

6° tappa: Monumento ai caduti di San Leo

Mulinaccio- San Leo 2 km (cinque minuti in auto, venti minuti a piedi).

Procediamo in direzione est percorrendo via Fiorentina poi via San Leo e giunti all’angolo con via Gaetano Donizzetti scorgiamo in un’area verde al lato della strada il monumento ai caduti di San Leo.

Il 6 giugno 1944 in località San Leo la gendarmeria tedesca catturò tre giovani che riteneva partigiani e li passò immediatamente per le armi. Questi ragazzi, secondo il racconto del parroco di San Leo, don Guido Terziani, che li conosceva di persona, erano stati mobilitati contro la loro volontà dai repubblichini ed aggregati – come tanti altri giovani – all’esercito tedesco[6]. Successivamente decisero di disertare e andare in montagna con i partigiani, ma vennero catturati dai fascisti e consegnati ai tedeschi. Condannati alla fucilazione per diserzione furono condotti lungo il canale della Chiana (nei pressi della Chiusa dei Monaci), in una piccola valle: uno alla volta furono legati ad un palo, bendati e fucilati al petto.

Le vittime: Aldo Esalti di Rovigo, Bruno Greggio di Villadosa, Luigi Guerra di Bosco di Rubano, tutti ventenni, furono sepolti nel cimitero di San Leo. Sopra la tomba vennero poste tre croci di legno con i loro nomi incisi.

Nella lapide commemorativa figurano i nomi di altri tre giovani anche loro disertori che furono fucilati presso il ponte della Chiassa.

Il monumento ai caduti è composto da tre grandi stele rettangolari di pietra che poggiano su un comune basamento in muratura. Nella prima stele, dedicata ai sei disertori italiani fucilati dai tedeschi il 6 giugno ’44, vi è raffigurato un angelo che depone dei fiori in un prato costeggiato da dei cipressi e un’epigrafe che riporta i nomi dei fucilati. Le altre due stele invece sono dedicate, quella centrale, ai caduti della Grande guerra e, la terza, ai caduti della seconda guerra mondiale.

 

Monumento ai caduti di San Leo.

Stele in memoria dei sei disertori italiani fucilati dai tedeschi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7° tappa: Monumento in memoria dell’eccidio di San Polo

San Leo – San Polo 8 km e mezzo (12 minuti in auto, un’ora e cinquanta circa a piedi).

Dal monumento a San Leo prendiamo a ritroso via Fiorentina fino ad arrivare all’incrocio con viale Giovanni Amendola, dove svoltiamo a sinistra e proseguiamo in direzione nord-est percorrendo viale Filippo Turati. Giunti all’incrocio con via Buonconte da Montefeltro proseguiamo fino al bivio con via Fontebranda che percorriamo fino ad arrivare a San Polo.

La strage di San Polo  avvenne il 14 luglio del  ’44, due giorni prima della liberazione di Arezzo, e conta complessivamente 63 vittime. Fu un eccidio che si consumò a più riprese in diversi luoghi della stessa zona ed ebbe l’epilogo finale a San Polo presso villa Gigliosi. Rimane impressa nella Storia la terribile, raccapricciante violenza con cui si perpetrò questa strage ad opera dei nazisti che non risparmiarono neanche un neonato di due settimane.

 

Monumento in memoria della strage di San Polo.

 

8° tappa: Murales della Chiassa Superiore

San Polo – Chiassa Superiore 7,3 km (9 minuti in auto, un’ora e quaranta a piedi).

Da San Polo ci rechiamo ad Antria e intraprendiamo lo Stradone di Ca’ de Cio per svoltare successivamente all’altezza dell’incrocio della strada della Catona, che percorriamo fino ad arrivare al Murales della Chiassa, posto nel parco vicino al campo sportivo in ricordo dei due partigiani Giovan Battista Mineo e Giuseppe Rosadi, eroi della Chiassa che riuscirono ad evitare l’ennesima strage perpetrata dai tedeschi[7].

Una strage mancata:

Il 26 giugno del ’44 un colonnello tedesco, Maximilian Von Gablenz insieme al suo aiutante, vennero rapiti per la strada della Libbia da una banda partigiana autonoma capitanata da “il Russo” (erano partigiani slavi scappati dal campo di Renicci). Come rappresaglia il comando tedesco organizzò un rastrellamento di 500 civili (scesi poi a 209) che vennero rinchiusi nella chiesa della Chiassa, dando un ultimatum di 48 ore affinché fosse liberato l’ufficiale tedesco pena la fucilazione dei cittadini.

Il comando partigiano guidato da Siro Rossetti incaricò il partigiano siciliano Giovan Battista Mineo di farsi concedere una proroga di 24 ore e di riuscire a scoprire dove la banda partigiana teneva nascosto il colonello. Ottenuta la proroga, Mineo partì immediatamente alla ricerca dei partigiani che tenevano in ostaggio l’ufficiale tedesco riuscendo a trovarli nei pressi di Montercole, ad Anghiari, e dopo una lunga trattativa convinse “il Russo” a liberare il colonnello. Mineo con Giuseppe Rosadi e Bruno Zanghi, appartenenti alla banda del Russo, si misero in marcia verso la Chiassa portandosi appresso i due tedeschi. Dopo molte peripezie, quando ormai sembrava impossibile arrivare in tempo, i partigiani si fecero scrivere una lettera dal colonnello dove dichiarava che era stato liberato e presto sarebbe giunto presso il reparto tedesco. Mineo si mise subito in viaggio correndo verso la Chiassa e arrivò proprio mentre i primi ostaggi venivano portati fuori per la fucilazione. La lettera di Von Gablenz fermò così la strage e poco dopo arrivarono i partigiani con i due tedeschi.

 

Murales dedicato a Gianni Mineo e Giuseppe Rosadi.

 

Pieve di Santa Maria alla Chiassa. Qui possiamo trovare sulla sinistra della chiesa un’abitazione (si vede nella foto) con un’iscrizione che ricorda l’eroico gesto.

 

Ma in questo luogo, pochi giorni prima dalla strage mancata della Chiassa, il 23 giugno, i tedeschi avevano già giustiziato sei persone in segno di rappresaglia per l’uccisione di tre soldati tedeschi.

 

Lapide ai caduti dell’eccidio de “La Casina”, si trova affissa sulla parete esterna della villetta “La Casina”, un’abitazione privata ubicata sulle colline sovrastanti la Chiassa Superiore, dove si consumò la strage.

 

 

Questo fu il pegno da pagare per la popolazione della provincia aretina durante la ritirata delle truppe tedesche. Un sacrificio di vite umane per la Resistenza che sembrava interminabile: vittime di una violenza inaudita che non risparmiava niente e nessuno. Su su, paese per paese, borgo per borgo, porta per porta la furia barbarica nazista passava e livellava come una falce. In ogni luogo come belve feroci e affamate i tedeschi arrivavano balzando con i loro lanciafiamme, con i loro capestri, con i loro strumenti di sterminio, pronti ad impiccare, a fucilare, a torturare, ad incendiare, a massacrare, lasciando dietro di loro una lunga scia di sangue, di cenere e macerie.

 

NOTE:

[1] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 134.

[2]Citato in Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Tip. Badiali, Arezzo 1957. p. 486.

[3]Ivi, p. 505.

[4]La vicenda dell’uccisione dei fratelli Tani e Aroldo Rossi è stata ricostruita nelle pagine di “Una lira per tre vite” il libro scritto da Enzo Gradassi e Santino Gallorini.

[5]G. Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 133.

[6]A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, cit., pp. 482-483.

[7]Sull’eroica vicenda della Chiassa Superiore cfr. il libro di Martinelli Renzo, I giorni della Chiassa, Arti grafiche Cianferoni, Firenze 1946 ed il libro di Santino Gallorini, Vite in cambio: Gianni Mineo, il partigiano infiltrato, che salvò dalla strage la popolazione della Chiassa, Effigi, Arcidosso 2014.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di ottobre 2024.