Mariella Gori (1923-2010)

Mariella Gori balla con Leto Morvidi primo sindaco di Manciano, 1 maggio 1945  (©️Archivio Bellezzi)

Nasce a Manciano il 29 maggio 1923 da Giuseppe Gori, antifascista, e Aminta Balestrelli. Nella casa di suo padre, in via del Ponticino, viene fondata una delle primissime bande della Maremma grossetana. Mariella, appena sedicenne, partecipa alle molte riunioni fatte fra l’8 settembre e l’ottobre 1943 e giura in nome della democrazia e della libertà insieme al futuro comandante della formazione della zona, Sante Arancio, e agli altri partigiani.

Da qualche giorno prima del Natale 1943 a fine marzo 1944 Mariella è alla macchia proprio con la banda guidata da Arancio: la giovane passa tre mesi alla Capriola, sotto Montauto dove è il comando, insieme alla moglie del comandante, Virginia Cerquetti, e poi è a Macchia Sugherona, al Podere Crociani.

Per la banda svolge la funzione di staffetta. Gira armata di una pistola Beretta che porta sempre con sé, anche quando deve rientrare di nascosto in paese per prendere i vestiti per i partigiani che vengono raccolti da Maria Pascucci, per conto della San Vincenzo, un’associazione cattolica. Insieme ai vestiti, Mariella riceve informazioni che riporta all’accampamento. Inoltre, è proprio lei a contattare, per conto del capobanda, i medici di Manciano affinché si rendano disponibili per le esigenze della formazione.

Mariella Gori, 1 maggio 2007 (©️Archivio Bellezzi)

Dopo la guerra è riconosciuta partigiana combattente dalla Commissione regionale Toscana nel Raggruppamento Amiata, VII gruppo bande, settore B per la Banda armata maremmana comandata da Sergio Salvetti. Nella relazione che è invece presentata alla Commissione del Lazio da Sante Arancio per la Banda Arancio Montauto, viene descritta in maniera paternalistica come “fedele ancella della moglie del capobanda”, con cui sa dividere le ansie e i pericoli della lotta, ma anche come “informatrice instancabile, [che] seppe arrischiare più volte la galera perché la sua missione fosse quanto mai più precisa”; e ancora, il comandante Arancio di lei vuole ricordare che “nessun lavoro le è mai sembrato duro quando poteva essere di sollievo a tutti”.

Nel dopoguerra è sempre attiva nella comunità di Manciano da cui è molto apprezzata. In un’intervista, però, dichiarerà che al contrario, durante il periodo della Resistenza, “alla macchia c’era una grandissimo rispetto per noi donne, mentre in paese ci consideravano delle poco di buono”. Muore il 13 maggio del 2010, all’età di 87 anni, dopo aver a lungo testimoniato la sua vita da partigiana.

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🟧Le madri del futuro libero

Episodio della serie podcast dell’Isgrec “Racconti Resistenti: le vite di partigiani e partigiane della Maremma” dedicato a Mariella Gori, nata a Manciano (GR) il 29 maggio 1923. Dopo l’8 settembre 1943, nella casa di suo padre nacque la Banda Armata Maremmana, guidata dal Comandante Sante Arancio. Tra i membri spicca un gruppo di donne coraggiose, tra cui Virginia Cerquetti. Racconto basato su documenti Isgrec, scritto da Silvia Meconcelli, interpretato da Irene Paoletti.



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🟥Intervista realizzata da Franco Dominici il 26 aprile 2005, pubblicata in Giulietto Betti, Franco Dominici, “Banda Armata Maremmana 1943-1944. La Resistenza, la guerra e la persecuzione degli ebrei a sud di Grosseto“, Arcidosso, Effigi 2014, pp. 250-2.

– Cosa ricorda delle riunioni tenute a casa di suo padre Giuseppe nel settembre del 1943 da cui nacque la prima formazione partigiana della Maremma?
– In casa di mio padre, in via del Ponticino, sono siate fatte più riunioni, fra settembre e ottobre, dalle quali nacque la banda partigiana. Ricordo che vi parteciparono Arancio, Aldo Ricci, Clito Pratesi, Leo Sbrulli e la sera del giuramento c’erano anche i tenenti Gino e Antonio. Giurammo tutti in nome della democrazia e della libertà.
– Cosa ricorda di Gaspare Arancio?
– Abitava a Manciano e la moglie era romana, conosciuta quando lei era in collegio. Si chiamava Virginia Cerquetti e il figlio di Arancio, Mario, non era suo. Alla macchia, alla fine di febbraio del 1944, nacque la loro figlia Annabella. Arancio era una specie di avventuriero, aveva un bel carisma, un po’ autoritario, ma era una persona molto decisa. Quando partivano per qualche azione io e la moglie pregavamo, avevo imparato a dire i rosari con Virginia Cerquetti, una donna fine, intelligente e molto religiosa. Già da tempo Arancio era un amico di famiglia perché mi aveva guarito le mani. Mi si erano ammalate e lui con sapone fatto con il grasso di maiale, alcune pomate prese in farmacia e della carta con cui mi isolò le dita, riuscì a guarirmi.
– Quanti erano i partigiani e gli stranieri a Montauto?
– All’inizio una cinquantina di partigiani, ricordo poi 2 indiani, un tenente francese e lo spagnolo Juan. Alla macchia c’era un grandissimo rispetto per noi donne, mentre in paese ci consideravano delle poco di buono. […]
– Quanto tempo è stata con i partigiani?
– Più di 3 mesi, da dicembre del 1943, qualche giorno prima di Natale, alla fine di marzo del 1944. Sono stata alla Capriola, sotto Montauto, dove era il comando, a Macchia Sugherona, al podere del Crociani, in prossimità del quale un gruppo di russi aggregati ai partigiani uccise il loro connazionale Ivan, un violento che non obbediva a nessuno. Poi sono stata ai magazzini di Secondo Bianchini, al suo podere, e non seppi altro della banda fino alla Liberazione. Quando tornai a Manciano fui subito chiamata dalla segretaria del fascio femminile […] perché sapeva che ero stata coi partigiani.
– Lei girava armata?
– Sì, il periodo che ero alla macchia avevo una pistola Beretta che portavo sempre con me, anche quando di nascosto mi trovavo a Manciano, per prendere i vestiti raccolti da Maria Pascucci per conto della San Vincenzo, un’associazione cattolica. I vestiti li portavo alla macchia io. A volte andavo a Manciano anche per ricevere qualche informazione. Svolgevo il lavoro di staffetta. […]
– E per le armi e le munizioni come facevate?
– Per le armi e le munizioni venivano assaltate le caserme da carabinieri, anche se spesso ce le davano loro.
– Cosa mangiavate alla macchia?
– Ci aiutavano i contadini che facevano il pane anche per noi. Quando sono arrivata alla Capriola non c’era nemmeno il sale e si mangiava il bollito di pecora. Le amministrazioni, cioè i proprietari terrieri, davano quello che potevano.




Maria Luigia Guaita (1912-2007)

Maria Luigia Guaita

Maria Luigia Guaita nasce a Pisa l’11 agosto 1912. Cresciuta tra Torino e Firenze, nel capoluogo toscano si avvicina agli ambienti liberalsocialisti. Agli inizi degli anni Quaranta, assieme al fratello Giovanni, aderisce al Partito d’Azione (Pd’A) e inizia a operare come staffetta, contribuendo in particolare alla diffusione di stampa antifascista e all’organizzazione delle cellule clandestine legate al partito. Durante l’occupazione tedesca, il Comando militare azionista le affida, inoltre, il mantenimento dei contatti tra il Comitato toscano di liberazione nazionale (CTLN), gli Alleati e le formazioni partigiane presenti nell’area compresa tra Viareggio, Massa Carrara, la Lunigiana e il Pistoiese. Di particolare rilievo risulta anche la sua partecipazione alla “Commissione intendenza” del Pd’A, principalmente con mansioni inerenti alla falsificazione di documenti, permessi e timbri utili per l’assistenza ai partigiani e ai perseguitati politici. È durante questo periodo che la sua abitazione fiorentina, in via Giovanni Caselli 4, nella zona del Campo di Marte, diviene uno dei punti di riferimento dell’organizzazione clandestina azionista. Per il tenace e valoroso impegno profuso nella lotta al nazifascismo, Maria Luigia Guaita sarà riconosciuta partigiano combattente, afferente alla Divisione “Giustizia e Libertà”- Servizio “I” (Informazioni).

Nei primi anni di vita della giovane Repubblica italiana, delusa dal prematuro scioglimento del Pd’A e non riconoscendosi in altri partiti, Maria Luigia Guaita decide di non occuparsi più di politica.

Maria Luigia Guaita

Tale assenza viene da lei compensata con un intenso impegno nel campo dell’imprenditoria e della cultura: attiva nel settore tessile pratese, a fine anni Cinquanta fonda, a Firenze, la Stamperia d’arte “Il Bisonte”, cui segue l’apertura di una scuola per insegnare ai giovani le tecniche tradizionali dell’incisione. Promotrice e animatrice delle Edizioni “U”, che pubblicano libri sull’arte contemporanea italiana, collaboratrice della rivista “Il Mondo” di Mario Pannunzio, Maria Luigia Guaita è anche autrice di un noto libro di memorie, La guerra finisce, la guerra continua, edito nel 1957 nei “Quaderni de Il Ponte”, diretti da Piero Calamandrei.

Nel 1981 il presidente della Repubblica Sandro Pertini le conferisce il titolo di commendatore. Maria Luigia Guaita muore a Firenze il 26 dicembre 2007. In lei l’azionista Ferruccio Parri, il comandante “Maurizio”, ha riconosciuta “una delle staffette più brave, ardite, estrose e generose” della lotta di Liberazione.

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🟧Intervista a MARIA LUIGIA GUAITA, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, p. 153

Come ha fatto ad entrare nella Resistenza?
Come? Ero un’antifascista eh. La mia famiglia era antifascista, mio fratello… soltanto che io sono sempre molto…voglio sempre fare di più di quello che debbo fare e m’hanno fatto fare la steffetta partigiana. Sono stata io che ho avvertito gli americani, gli inglesi che i tedeschi se ne stavano andando di Firenze. Io andai ad avvertire che suonassero la campana del Bargello, sono stata la prima che ho passato tutto il Palazzo Vecchio.
[…]
È stata un’esperienza bella?
No, l’esperienza della Resistenza è stata un’esperienza piena di paure, ci voleva proprio tutto il mio coraggio, non era molto bello e poi sono morti anche tanti amici.




Gabrielle-Marie de Jacquier de Rosée (1913-1944)

Gabriella de Rosée

Nata il 24 febbraio 1913 a Bruxelles, nel settembre 1936 intraprende con due amiche un viaggio verso Roma, con l’obiettivo di completare la sua tesi di laurea sul Quattrocento italiano. Fermatasi casualmente a Castiglion Fiorentino, conosce l’artista Pericle Brogi, figlio del noto ceramista Antonio.

Si innamorano e nel 1938 Gabrielle dà alla luce una bambina, Lucha; nello stesso anno si sposano al Santuario della Verna, stabilendosi a Castellamonte in provincia di Aosta, dove Pericle insegna disegno alla scuola d’arte “Felice Faccio”. Nel 1941 è richiamato alle armi e inviato in Grecia; dopo l’8 settembre 1943 è catturato dai tedeschi e inviato nel Reich come internato militare.

In seguito allo scoppio del conflitto, Gabrielle si trasferisce con Lucha a Castiglion Fiorentino, presso la famiglia del marito. Nella fase dell’occupazione insieme alla sorella di Pericle, Corallina Brogi, si dedica ad attività di soccorso alla popolazione e svolge un ruolo di supporto per la 23a brigata Garibaldi “Pio Borri”.

Nel giugno 1944 l’area è interessata da ampie operazioni messe in atto dall’esercito germanico nel tentativo di rallentare la ritirata e da intensi scontri con le bande partigiane, a cui si accompagnano numerosi episodi di violenze e rastrellamenti che interessano la popolazione civile.

Il 6 luglio 1944, avendo saputo che una famiglia è stata presa in ostaggio, Gabrielle si offre per svolgere un ruolo di mediazione, data la sua conoscenza del tedesco.

Gabriella de Rosée

All’alba del 7 luglio muore mitragliata da tedeschi al Ponte delle Fontanelle, lungo la strada che da Castiglion Fiorentino sale al Passo della Foce. Il suo corpo è recuperato solo alcuni giorni dopo, probabilmente dopo l’arrivo degli alleati (il centro di Castiglion Fiorentino è stato liberato il 4 luglio).

Le sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente. Corallina sarà invece riconosciuta come patriota al servizio della stessa brigata, mentre le sarà rifiutato il grado di combattente. Nel luogo dell’uccisione sarà eretto un cippo alla memoria, realizzato da Pericle Brogi.

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Memoria della figlia, Lucha Brogi, Tratta da Ivo Bigianti (a cura di), “Dal fascismo alla democrazia. Castiglion Fiorentino negli anni della seconda guerra mondiale”, Montepulciano, Le Balze, 2006, p. 364

Nel gennaio del 1941 mio padre fu richiamato alle armi, destinazione Grecia, e mia madre per non rimanere sola con me, che ero nata nel settembre 1938, si trasferì a Castiglion Fiorentino.
La zona dell’aretino era diventata bersaglio di bombardamenti aerei. Dopo quello del 19 dicembre ‘43 su Castiglioni [Castiglion Fiorentino], tutta la famiglia Brogi si trasferì a Muriello. Da qui mia madre, mia zia Corallina (sorella di mio padre), Lorenzo Bernardi ed altri scendevano in Paese per dare il loro aiuto a quanti ne avevano bisogno.
Intanto sulle alture di Muriello, i tedeschi avevano stabilito la loro linea di resistenza, sottoposta a continui bombardamenti da parte degli inglesi. La famiglia decise allora di tornare a Castiglioni.
Il 6 luglio 1944 mia mamma e la zia incontrarono la signora Gaci dalla quale appresero che la famiglia Pagnan era stata presa in ostaggio dai tedeschi. Mia madre conosceva bene il tedesco ed era convinta di poter parlare con il comandante tedesco per perorare la causa degli ostaggi. Fu così che il 7 luglio all’alba, con lo zaino pieno di alimenti vari, si avviò verso Muriello con lo scopo anche di riconoscere e segnalare le postazioni del dispositivo bellico nazista, ma al Ponte delle Fontanelle fu raggiunta da una raffica di mitraglia: il suo corpo rimase sulla strada per alcuni giorni. Fu recuperato dall’agente Arsage Mordenti (cugino di mio padre) e da alcuni volontari. È sepolta nel cimitero di Castiglion Fiorentino.




Maria Moriconi (1922-2010)

Maria Moriconi

Figlia di anarchici, nasce a Massa nel 1922. Racconterà che durante il fascismo il padre, mutilato della prima guerra mondiale, quando ha bevuto troppo va in Piazza Aranci inneggiando all’anarchia. Maria dunque respira fin da piccola in famiglia lo spirito della libertà come un valore da conquistare.

Dopo l’8 settembre, poco più che ventenne, sale ai monti con il fratello che è ufficiale di Marina ed a Trieste ha disertato ritornando a casa; essendo ricercato dai fascisti si dà alla macchia. Da qui la decisione di Maria alla quale il padre prova ad opporsi. Affermerà di aver fatto questa scelta con convinzione anche pensando a quanto avevano sofferto i loro genitori a causa della dittatura.

Con il nome di battaglia “Maura” inizia la sua vita di partigiana. Mentre il fratello deve stare nascosto, lei scende in campagna con ceste capienti; insieme ad un’amica, Ernestina, si recano dai contadini e talvolta, facendo finta di passare al mulino a Poggioletto a prendere qualche chilo di farina per preparare il pane, nascondono nelle ceste le munizioni. Non di rado, al ritorno, incontrano i tedeschi; quando hanno risalito la strada, superando i controlli, i compagni scendono a liberarle del pesante fardello. A volte è incaricata di andare a controllare dove siano le postazioni nemiche: quando li incontra si ferma a scherzare con i soldati tedeschi, affermando di essere una ragazza che va a scuola a Romagnano e cercando di carpire loro delle informazioni. Vive insieme ai partigiani, fra i quali altre tre donne, in una grotta a Brugiana, che ricorderà come un luogo sereno; al mattino scende per eseguire i compiti che le sono affidati o si muove con loro per delle azioni, anche lei armata.

Nel paese di Bergiola vive la mamma col suo ultimo figlio Giovannino (1940) e i due bambini del fratello, che cucina per la formazione. Durante l’eccidio di Bergiola (16 settembre 1944) la donna è colpita da una mitragliatrice a una gamba: portata a Carrara, muore senza che i figli possano accompagnarla all’ospedale perché ricercati.

Come ricorderà, dopo la Liberazione deve affrontare i pregiudizi di chi la giudica per essere stata, da giovane donna, in montagna con i partigiani. Anche il marito le è ostile, influenzato dalla famiglia, ma poi si riconciliano. È riconosciuta partigiana combattente della 3a compagnia del Gruppo “Minuto”, facente parte del Gruppo patrioti apuani.

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🟪Intervista realizzata da Pina Menconi e Isa Zanzanaini il 13 maggio 1994, in Comitato provinciale per le celebrazioni del cinquantenario della Resistenza – Commissione provinciale pari opportunità, A Piazza delle Erbe! L’amore, la forza, il coraggio delle donne di Massa-Carrara, Massa-Carrara, Amministrazione provinciale di Massa Carrara, 1996, pp. 144-7.

In Brugiana la vita per me era bella, io dico la verità, che sono mai stata bene come lassù, perché ero libera, facevo tutto quello… andavo dove mi mandavano, la mattina, ritornavo il dopo pranzo, sempre così. C’era da stare attenti. Si stava… come dire? C’era da lottare, però lassù, e a Bergiola Foscalina, era una vera meraviglia. Noi abitavamo proprio in Brugiana; si veniva lì a Bergiola perché c’erano i negozi, le famiglie, ci stava mia mamma, mia cognata con dei bambini: cosi, perché mio fratello aveva due figlioli; mia mamma faceva da mangiare e poi eravamo dentro una grotta, e ce ne portava da mangiare ai miei due nipotini, a mia cognata; nella grotta ci stavano i bimbi, era bella, e loro stavano lì. C’erano anche i bimbi del Corsaro, che ce n’aveva due; poi c’era una signora che stava qui, li ce n’aveva tre; li avevamo messi tutti lì. Li curava mia cognata, e poi c’era una signora anziana: funzionava da asilo. Io stavo proprio coi partigiani, perché dovevo portare le munizioni, se c’era un attacco, da una parte all’altra… s’andava su al forno, attraverso le montagne… A stare a pensare… Insomma, lo dico sempre, mi sono divertita, perché sparavo, andavo in cerca del mangiare, andavo da tutte le parti. […] Quando è stato l’attacco, quando hanno tutto bruciato quella gente a Bergiola Foscalina, al posto di mio fratello è toccato a mia mamma, poverina; perché lei andava a fare da mangiare e poi ce ne portava: eravamo a Bergiola. Lei era lì, e l’hanno mitragliata a una gamba, e dopo è morta. È morta a Carrara: la sera a mezzanotte io e un’altra signora siamo andate a prenderla, a mezzanotte perché loro erano su a Bergiola Foscalina, i tedeschi e i fascisti, e mitragliavano. Dopo l’abbiam portata a Carrara, e a Carrara è morta. Loro la curavano perché volevano mio fratello. La sera che hanno [colpito] la mia mamma, era andata a fare i castagnacci. Quando siamo scese a mezzanotte, venivamo giù da Bergiola Foscalina e mentre siamo lì, m’ha chiamato, dice: “Maura!”. Dico: “Cosa c’ è?”. Dice: “I castagnacci sono qui, però la gamba ce l’ho in mano”. E allora, piano piano, abbiamo dovuto riportare tutti via i bimbi, li abbiamo portati a Bergiola; poi abbiamo preso una porta, e ci abbiamo messo su mia mamma, e poi siamo venuti, piano piano siamo venuti in giù.




Cordara Machetti “Lucciola” (1922-2002)

Cordara Machetti

Nasce a Pienza il 14 giugno del 1922 in una famiglia composta da padre, madre e una sorella. Il padre fa lo stradino, la madre lavora come donna di servizio presso una famiglia dell’alta borghesia pientina, la sorella Zuara, più grande di pochi anni, è sposata e madre di un bambino piccolo e segue con trepidazione la scelta di Cordara di partecipare alla lotta partigiana. Cordara è una donna vivace, creativa e dai modi un po’ spicci, fa la sarta ed è bravissima a costruire pupazzi di stoffa e lana.

Fin dagli inizi del 1944 è un aiuto fidato per la soluzione di problemi logistici legati all’organizzazione dei gruppi partigiani che si stanno formando nel territorio sotto la guida di Walter Ottaviani “Scipione”, un militare di orientamento monarchico che raduna intorno a sé uomini di varia estrazione politica ma uniti nell’affrontare la lotta senza cedere all’attesismo1 del Raggruppamento Monte Amiata, di cui il gruppo formalmente fa parte.

Cordara, nome di battaglia “Lucciola”, si sposta per reperire cibo, vestiario, medicinali e sovente sceglie di fermarsi a dormire nel podere abitato dai parenti non lontano da Monticchiello, per evitare di tornare a casa troppo tardi e destare sospetti sulla sua attività clandestina.

Il 6 aprile 1944, durante l’importante episodio di Monticchiello, in cui si fronteggiano partigiani e militi fascisti, insieme a Norma Fabbrini e Anelida Chietti riesce ad aggirare le linee nemiche e raggiungere la collina da dove il grosso della formazione sta combattendo. Le tre donne curano i feriti e apprendono che, se i combattimenti dovessero prolungarsi, i partigiani si troverebbero senza munizioni perché il punto più vicino per i rifornimenti è nella direzione del fuoco nemico. Cordara decide allora di andare a prendere le munizioni nel nascondiglio più lontano e, con Norma e Anelida, riesce nell’impresa, anche se la battaglia si conclude di lì a poco con la sconfitta dei repubblichini.

Successivamente viene catturata dai fascisti e trattenuta prigioniera nella sede della Polizia politica, la famigerata Casermetta di Siena, dove viene più volte interrogata, non parla e attende la sua liberazione che avviene dopo oltre venti giorni di prigionia.

Alla fine della guerra si sposa con Walter Ottaviani e vanno a vivere a Roma. Sarà riconosciuta partigiana combattente.

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🟥 Le storie in cinque minuti dell’ISRSEC “V. Meoni”. Podcast su LA BATTAGLIA DI MONTICCHIELLO

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🟪 Testimonianza riportata in Vittorio Meoni, “Ora e sempre Resistenza. Scritti e testimonianze su Montemaggio, Monticchiello e la Resistenza in terra di Siena“, Arcidosso, Effigi, 2014, pp. 74-5.

La sera del 5 sapemmo in paese da uno dei nostri di ritorno da Siena che la mattina seguente sarebbero venuti in rastrellamento alcune centinaia di militi. Furono avvisati i nostri ragazzi che ebbero così il tempo di prepararsi e piazzare le armi. Io trascorsi la notte in bianco. La mattina, verso le sette, mi ero assopita, quando sento alcune raffiche di mitraglia. […] Uscii, ma avevo il cuore straziato ad ogni colpo, e dovevo fare l’indifferente per quei due o tre disgraziati repubblichini del mio paese, già elettrizzati dalla gioia. Andai in fondo al paese, dove ora si vedeva tutto. I fascisti erano molti, li vidi bene con i binocoli. Fin verso le dieci e mezza assistetti, e non posso descrivere quello che soffrii. Poi non ne potei più e decisamente dissi a Norma: “Io vado, non posso più assistere da lontano”. Essa cercò di farmi comprendere i pericoli a cui mi esponevo, passare fra i fascisti per raggiungere gli amici. Ma io non volli nulla sentire. Passai da mia cugina Adelinda a mettermi gli scarponi. Anch’essa non ci lasciò partire sole. Per la strada si può immaginare quello che provammo. Da tutte le parti sparavano, ma riuscimmo a nasconderci ai fascisti, e per i campi arrivammo dopo due ore alla zona che volevamo raggiungere. Giunte abbastanza vicino sapemmo da una sentinella nostra che nessuno era morto né ferito. Io volli andare proprio dove si combatteva e rimasi meravigliata. I ragazzi scherzavano e mi accolsero come sempre, rumorosamente. Walter poi mi disse che immaginava che sarei andata da loro. Tutti i timori svanirono di fronte al buon umore incredibile di quei ragazzi. Intanto i proiettili fischiavano, a volte molto vicini. Fu tenuto consiglio. Poi decisero di mandare squadre più in basso per attaccare i fascisti alle spalle mentre salivano a Monticchiello. Erano già alle scuole, non c’era tempo da perdere. Io mi informai delle munizioni e seppi che c’erano, ma a seconda di quanto fosse durata la sparatoria. Senza dire nulla a Walter, altrimenti non mi avrebbe mandata, partii. Le mie amiche mi seguirono. C’era all’incirca un’ora e più di strada e bisognava correre. Attraverso i campi giunsi io per prima. Non volevano darci le munizioni, perché non ci conoscevano. Capitò per fortuna una contadina che conosceva me. Mentre le dissotterravamo, mi volto e da una stradina alle nostre spalle giungono una decina di armati in borghese. Immaginai che fossero dei nostri ma per prudenza gli andai incontro e dissi alcuni nomi di battaglia. I ragazzi capirono. Mi chiesero notizie ma io, senza perder tempo, li caricai di munizioni e via. Eravamo vicini, quando si sente gridare: “Scappano tutti! Venite! Correte!” Io grido: “Chi?” “I fascisti!” Per poco non caddi dalla gioia. E allora piangendo (non avevo fatto lacrima durante il giorno, piangevo di gioia) corsi con gli altri ancora di più. Trovammo i ragazzi in festa.

 




Ofelia Giugni (1906-2001)

Giugni Ofelia (©️Archivio Fondazione CDSE)

 

Nasce a Schignano (frazione di Vaiano, allora nel Comune di Prato) nel 1906, tredicesima di quattordici figli. Da giovanissima si trasferisce a La Briglia per lavorare alla fabbrica tessile Forti e fin da subito mostra una forte avversione al regime e a qualsiasi forma di sopruso, tanto che non ha alcuna difficoltà a schiaffeggiare un fascista noto molestatore di sue colleghe.

Ofelia Giugni

Dopo l’8 settembre 1943, con l’inizio dei bombardamenti alleati, la famiglia Giugni sfolla alla cosiddetta Casa Rossa, punto di riferimento dei partigiani della zona, che si trova in un’area collinare in prossimità del Monte Javello. Lì conosce l’antifascista Armando Bardazzi, futuro comandante militare della Brigata Buricchi, che diventerà compagno per la vita e che sposerà in articulo mortis.

Secondo alcune testimonianze orali, all’indomani dell’armistizio, con la collaborazione della madre e della sorella Ada aiuta cinque renitenti che, fermati a un posto di blocco tedesco, sono già destinati all’internamento in Germania. Nasconde anche molti altri soldati permettendo loro di raggiungere i partigiani sul Monte Javello, che domina il paese di Schignano. Lei stessa partecipa alla Resistenza come staffetta della Brigata Bogardo Buricchi, portando instancabilmente comunicazioni, armi e viveri. Nel 1944, ad esempio, si reca a Vaiano per recuperare medicine e lungo il sentiero s’imbatte in un tedesco addormentato: non esita a sottrargli la pistola per consegnarla ai partigiani.

Prende parte a numerose azioni che le fanno conoscere da vicino tutti i più importanti membri della Resistenza pratese, ai quali rimarrà sempre fortemente legata. Terrà sempre in camera una foto dei 29 partigiani uccisi a Figline di Prato il 6 settembre 1944.

Nel dopoguerra le è riconosciuta la qualifica di partigiana combattente; continua a impegnarsi nella vita pubblica per tenere viva la memoria dell’antifascismo e della Resistenza. Si spegne il 18 maggio 2001 a Prato; le sue ceneri riposano all’ombra dei Faggi di Javello, il luogo della “sua” brigata.

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🟧 Stralcio dall’intervista realizzata da Laura Antonelli ad Anna Martini nel 2005, in: Laura Antonelli, Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione, Prato, Pentalinea, 2006, pp. 644-5. 

Ofelia Giugni al funerale di Gilberto Favini (©️Archivio Fondazione CDSE)

[…] facevo quello che serviva, il volantinaggio, portare qualcosa, avere rapporti con la famosa Ofelia che era il nostro punto di riferimento poiché stava nella zona di Schignano, dei Faggi. L’Ofelia era una donna piena di iniziativa, lei e l’Ada2 ricordo. Anche quando finita la guerra s’andò a vivere in via Magnolfi si stava accanto, siamo rimasti amici anche dopo con l’Ofelia e Armando, anche lui veniva quando facevano i lanci perché c’era da preparare il campo con tutte le luci sennò l’aereo non sapeva dove buttare la roba, loro quindi li ho conosciuti durante il periodo clandestino. Lei era un po’ tipo maschiaccio, sempre con i pantaloni, con tutti i capelli tirati su, non aveva paura. L’Ada era più dolce, anche se anche lei era piuttosto decisa, ma era più dolce non perché l’Ofelia non sia stata poi una donna dolce, generosa e gentile, ma magari anche fisicamente l’Ada era più grassoccia, più pacioccona, invece l’Ofelia era più scattante.
L’Ofelia se ha potuto fare i piaceri s’è prestata in tutti i sensi, sempre, anche dopo, era una donna sulla quale potevi sempre contare se avevi bisogno di qualche cosa.

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🟦Stralcio della testimonianza di Ennio Saccenti in: Luca Squillante (a cura di), Ultime Voci. Memorie dei combattenti della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti, Prato, 2012

Ofelia Giugni (Credits: L. Squillante (a cura di), “Ultime Voci”, Prato, 2012)

[…] Ofelia comincia subito la sua attività come staffetta fin dal settembre 1943 ed il suo primo atto di resistenza è il favorire la fuga di alcuni militari italiani fermati e costretti dai tedeschi a scendere dal camion su cui viaggiavano poiché si rende conto che li attende una sorte incerta. Il camion era stato fermato proprio davanti a casa sua a La Briglia ed Ofelia fa capire a gesti ai giovai di entrare in casa e poi, con la collaborazione della madre e della sorella Ada, anche in seguito sua compagna nella lotta partigiana, li fa uscire dalla porta posteriore che si apre sul bosco.

[…] Ofelia insieme alla madre ed alla sorella aiuta questi giovani soldati, ma uno dei ragazzi che si è rifugiato da loro rifiuta di scappare nel bosco perché troppo impaurito e le donne sono quindi costrette a nasconderlo sotto il letto anche se si rendono conto del pericolo che corrono ed addirittura si preparano con alcuni bastoni a difendere il giovane in caso di perquisizione dei tedeschi, fortunatamente a fuga non viene scoperta ed il ragazzo per il momento è salvo.

In seguito sarà sempre Ofelia a portarlo al sicuro presso la casa di un contadino a Popigliano ed a mandare un messaggio alla famiglia del ragazzo, messaggio in cui, fingendosi una parente, rassicura sulle sue condizioni di salute e si firma con il nome di Nicoletta, poiché il ragazzo si chiama Nicola. Poco tempo dopo, in conseguenza di questo messaggio la famiglia del soldato manda a La Briglia un cappellano militare per riportare a casa Nicola, dopo un primo momento di diffidenza in cui Ofelia, chiamata dal prete del paese, nega di conoscere il ragazzo il cappellano militare le mostra il messaggio scritto da lei ed allora Ofelia ammette di conoscerlo e li fa incontrare.

Ofelia per far partire con sicurezza i due uomini li accompagna anche a casa di una cugina dove Nicola può travestirsi da prete, il suo timore infatti è che far uscire da casa sua due preti possa dar adito sospetti ai fascisti locali, essendo una cosa assai insolita ed essendo La Briglia una piccola frazione in cui tutti si conoscono, da casa della cugina poi, rassicurando continuamente il giovane, li accompagna a fino alla stazione per assicurarsi che prendano il treno per tornare sani e salvi a casa.

Ofelia è una donna molto decisa ed anche impulsiva, in un’altra occasione trova un soldato tedesco addormentato su un sentiero e, dopo essersi accertata con un calcio che dorme profondamente, anche a causa dell’alcol ingerito gli porta via la pistola per consegnarla ai partigiani.

L’attività partigiana di Ofelia è ininterrotta fino alla liberazione, nel settembre del ’44, instancabile porta armi, viveri e messaggi ai partigiani della Bogardo Buricchi, ai faggi di Javello; una testimone la ricorda così: “… l’Ofelia, pantaloni bermuda, scarponi con certi calzini e i capelli ricciuti al massimo, tirati su con le forcine, non legati, abbastanza grande, non bella, determinata, bandoliera, energica però brava e buona …”. Una donna forte e decisa che non ha paura dei pericoli e che proprio tra i partigiani incontra anche l’amore della sua vita, il comandante Armando Bardazzi a cui rimane accanto per tutto il resto della sua esistenza e che sposa in punto di morte nel 2001.




Lina Cecchi (1926-2002)

Lina Cecchi, particolare di foto concessa da Fondazione CDEC, Milano, © Press Association, Inc. 

Nasce a Pistoia il 7 ottobre 1926 da Giuditta Agostini e Massimiliano Cecchi, che gestisce un negozio di prodotti ortofrutticoli nel quartiere popolare di San Marco. Il padre, come molti abitanti del quartiere, è ostile al regime e, non avendo mai voluto essere tesserato del PNF, viene spesso intimidito e provocato dai fascisti. Come ricorderà la sorella Liliana, le due ragazze vivono in un contesto umile ma di saldi principi: esse assimilano la caparbia volontà dei genitori di non essere obbedienti e di non sacrificare le proprie convinzioni.

Lina, di idee comuniste, decide di unirsi alla Resistenza dopo che il fratello Guglielmo deve darsi alla macchia per non aver aderito ad un bando di reclutamento emesso dalla Repubblica sociale; così, all’età di 17 anni, diventa una staffetta ed entra a far parte della sezione pistoiese dei Gruppi di difesa della donna, costituitasi il 10 gennaio 1944, rimanendovi fino al suo scioglimento avvenuto nel settembre successivo.

La sua attività si lega a quella della sorella maggiore Liliana, con cui ad esempio affigge manifesti del CLN nel quartiere di San Marco. Fra i diversi episodi, è fermata una sera dai tedeschi sulla via Pratese mentre trasporta bombe ed armi; dichiara di avere con sé viveri, i militi si offrono di aiutarla, ma risponde che preferisce riposarsi sul ciglio della strada per poi ripartire. Si rimette in cammino solo dopo due ore, ancora spaventata e consapevole del pericolo appena scampato.

Lina è insieme alla sorella Liliana e ad altre due partigiane nella foto scattata da un reporter americano a Pistoia e destinata a diventare il simbolo della pluralità dei protagonisti della resistenza. Le sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente, rilasciata a solo sette donne del GDD pistoiese.

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🟩 STORIA DI UNA FOTO

Per gentile concessione della Fondazione CDEC, Milano, © Press Association, Inc. 

Lo scatto fu eseguito da un reporter della Press Association a Pistoia, all’incrocio tra via Abbi Pazienza e via Curtatone e Montanara, durante la Liberazione della città avvenuta l’8 settembre 1944. Da sinistra Israele (Lele) Bemporad, Liliana Cecchi, Bumeliana Ferretti Pisaneschi, Enzo Giorgetti (in secondo piano e con il volto parzialmente coperto dal fucile), Marino Gabbani, Lina Cecchi, un uomo russo non identificato e Lea Cutini (o Ilva Raffaella Ferretti). La fotografia è conservata anche presso l’Archivio ISRECPT, che ha riconosciuto in Lea Cutini la prima donna a destra, mentre il CDEC l’ha identificata come Ilva (Raffaella) Ferretti.




Teresa Mattei (1921-2013)

Teresa Mattei

 

Nasce in provincia di Genova nel 1921, in una numerosa famiglia borghese cattolica e di tradizione liberale. Cresce a Firenze in un clima culturalmente vivace e anticonformista; i suoi famigliari condividono una precoce attività antifascista, dal boicottaggio alla propaganda. Durante gli anni della guerra civile in Spagna a Teresa, allora sedicenne, viene affidato il compito di trasportare in Francia una colletta per i fratelli Rosselli.

Teresa Mattei

Fin dall’infanzia si mostra capace di svolgere un’analisi critica del fascismo, con un’attitudine al ribellismo verso le ingiustizie e alla disobbedienza nei confronti delle istituzioni del regime. Ne paga le conseguenze in prima persona: emblematico è l’episodio in cui si esprime con fermezza contro le leggi razziali, che le costa l’espulsione immediata dal Liceo Michelangiolo e da tutte le scuole del Regno; consegue il diploma da privatista e si iscrive a Filosofia all’Università di Firenze, laureandosi nel 1944.

La sua attività antifascista ha un crescendo con l’inizio della guerra, a cui si oppone organizzando una manifestazione, e successivamente con la propaganda antifascista e antinazista e il sabotaggio dei macchinari nelle fabbriche destinate alla produzione bellica. Nel 1942 insieme al fratello Gianfranco si iscrive al PCI e partecipa alle prime riunioni che seguono il 25 luglio 1943. Dall’8 settembre partecipa alla Resistenza col nome di battaglia “Chicchi”, entrando in clandestinità e lavorando con i Gruppi di difesa della donna, col Fronte della gioventù comunista e coi Gruppi di azione patriottica (GAP), con attività di assistenza, di organizzatrice e di staffetta; contribuisce inoltre all’organizzazione degli scioperi del marzo 1944 a Firenze e a Empoli.

È un periodo segnato da ferite profonde e perdite incolmabili, come quella del fratello Gianfranco, che, arrestato a Roma a causa di una delazione per cui era stato individuato come artificiere dei GAP, sceglie di suicidarsi nel luogo di detenzione di Via Tasso, dopo atroci torture. Nei giorni della Liberazione di Firenze è attiva come staffetta tra il fuoco incrociato e al comando della compagnia “Gianfranco Mattei” del Fronte della gioventù.

Teresa Mattei, la più giovane delle madri costituenti, nel giorno della firma della Costituzione

Nel dopoguerra è la più giovane eletta nell’Assemblea costituente e ne diviene segretaria di Presidenza. Espulsa dal PCI nel 1955 perché non condivide la linea del partito, si impegna per tutta la vita sul piano politico, sociale e culturale nell’affermare l’uguaglianza sostanziale, i diritti delle donne, delle bambine e dei bambini. La sua figura è legata all’articolo 3 della Costituzione, che contribuisce a scrivere, e alla mimosa, perché proprio lei lo propone come fiore simbolo per la festa dell’8 marzo. Negli ultimi decenni risiede vicino Lari, in provincia di Pisa, dove muore nel 2013.

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 🟥 Intervista di Bruno Enriotti e Ibio Paolucci, Dall’antifascismo attivo all’Assemblea Costituente, “Triangolo rosso”, maggio 2004, pp. 11-3.

Mio padre ha sostenuto sempre la necessità di un impegno diretto, soprattutto di noi giovani, nei confronti di un regime che – lui lo aveva capito – avrebbe portato l’Italia al disastro. Diceva che per essere antifascisti non ci si può limitare a raccontare barzellette contro il regime.
Per questo, quando avevo poco più di 16 anni, venni mandata in Costa Azzurra, per portare dei soldi ai fratelli Rosselli, capi di Giustizia e Libertà. Al ritorno venni arrestata, mentre mi trovavo a Mantova da don Primo Mazzolari. Sapevano che ero stata in Francia e quel mio incontro con un prete antifascista li insospettì, ma riuscii a cavarmela dicendo che mi occupavo di problemi religiosi. In quegli anni l’attività antifascista di tutta la nostra famiglia era notevole. In casa stampavamo in modo rudimentale dei volantini che poi con mio fratello Nino andavamo a mettere nelle buche delle lettere, all’ufficio postale o a quello dei telefoni. […]
Qualche giorno dopo il 25 luglio, credo fosse il 30, vi fu una grande riunione antifascista al Politecnico di Milano. Mio fratello Gianfranco era allora assistente di Natta, insignito in seguito del premio Nobel. Mio fratello era un chimico molto promettente, tanto è vero che dopo la Liberazione, Natta disse a mia madre che buona parte di quel premio se lo meritava Gianfranco, per le sue ricerche. Io vivevo a Firenze e Gianfranco mi avvertì di venire a Milano per partecipare a quella riunione. Cosa che feci e partecipai così ad un incontro di alto significato politico: gli intellettuali milanesi che si impegnavano a lottare contro il fascismo.
Poi tornai a Firenze, entusiasmata; e mi impegnai con gli antifascisti di quella Università dove frequentavo la Facoltà di Lettere. Ricordo Adriana Fabbri e Adriano Seroni che poi si sposarono e lei con il nome del marito divenne responsabile delle donne del Pci, ricordo Aldo Braibanti e molti altri giovani di allora. Facemmo una sorta di associazione degli studenti antifascisti e pochi giorni dopo, l’8 settembre, mentre eravamo riuniti, udimmo i carri armati tedeschi che passavano per piazza San Marco. Riunimmo le nostre forze e capimmo che dovevamo passare alla clandestinità. Con noi c’erano anche Mario Spinella ed Emanuele Rocco, ci riunivamo in casa sua. Io tenevo i collegamenti tra i diversi gruppi partigiani, ero una staffetta, ma facevo anche azioni molto più impegnative. Come quella del 3 giugno 1944. […]
Ricordo molto bene la data perché il giorno dopo mi sono laureata in modo rocambolesco.
Dunque avevamo saputo che in una galleria, i tedeschi avevano nascosto dei vagoni carichi di esplosivo, soprattutto dinamite. Io e un altro ragazzo, Dante, dovevamo farli saltare. Ci siamo inoltrati nel tunnel, io da una imboccatura lui dall’altra e siamo riusciti ad accendere una miccia, fuggendo da parti diverse prima dell’esplosione.
Quando essa avvenne io ero fuori dal tunnel; Dante, invece, era inciampato e l’esplosione lo ha travolto. È stata una cosa orribile. Sono fuggita in bicicletta e capivo che i tedeschi mi stavano inseguendo. Mi sono rifugiata nell’Università e sono entrata in una stanza dove Garin teneva una riunione di professori.1 Proprio con Garin in quei mesi stavo preparando la tesi. Gli ho detto: “professore, i tedeschi mi stanno inseguendo, dica che sono qui per discutere la tesi”. Così fecero e quando i tedeschi entrarono Garin disse: “questa ragazza sta discutendo la sua tesi, è sempre stata qui”. Con questo stratagemma non solo mi sono salvata, ma i professori hanno considerato valida la discussione della mia tesi e mi hanno laureato.

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🟩L’Italia è libera! Protagonisti della Resistenza – Nell’ambito del webdoc di RaiCultura ‘25 Aprile: il giorno della Liberazione’



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🟧 Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza – Radio Rai3 – Michela Ponzani racconta la vita di Teresa Mattei, partigiana comunista, Firenze e Roma. Per la trasmissione di Rai Radio3 ‘Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza’.



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🟦 Teresa Mattei raccontata da Simonetta Soldani, Puntata di Wikiradio del 08/03/2017