Bruna Sandroni

Bruna Sandroni

Nata a Castel Focognano il 16 agosto 1926, da Francesco e Caterina Balestri, nubile, casalinga. Avvicinatasi al movimento partigiano per amore del suo compagno, Bruna divenne staffetta partigiana: impegnata in operazioni di rifornimento di beni di prima necessità, si spostava in bicicletta tra il Casentino e Arezzo. Sarà riconosciuta nel dopoguerra come partigiana combattente caduta della 23° Brigata Garibaldi “Pio Borri” dal 2 maggio fino al 15 giugno 1944. 

Proprio il 15 giugno 1944, infatti, in località “Corsalone”, nei pressi di Bibbiena, Bruna venne catturata dai fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana, comandati dal famigerato Umberto Cerasi Abbatecola, maresciallo della 96ª legione. Trascinata dentro il capannone della Ferroviaria, dopo inenarrabili sevizie e torture la ragazza venne massacrata a colpi di pugnale per poi essere abbandonata esangue. 

Solo dopo un violento scontro verbale con il sottufficiale repubblichino, il parroco di Ortignano riuscì a recuperare i resti della staffetta Bruna; la sua salma venne condotta all’ospedale di Bibbiena dove il primario, il dottor Conti, fortemente vicino alla Resistenza, prima di riconsegnare il corpo alla famiglia e al parroco di Ortignano per la sepoltura, volle misericordiosamente ricomporre la salma.

Per l’assassinio di Bruna Sandroni la Corte d’Assise straordinaria di Arezzo condannò nel marzo 1945 Giuseppe Corso, Giuseppe Mistretta, Rinaldo Del Buono e Santi Innocenti rispettivamente a 17,15,10 e 8 anni di reclusione.

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🟧Don Silio Bidi, Le memorie di un parroco, “Trent’anni fa” Ciclostilato della parrocchia di Ortignano, Agosto 1974

“II 15 giugno presso il Corsalone viene barbaramente seviziata e trucidata la staffetta partigiana Bruna Sandroni della mia parrocchia. Ho un violento scontro verbale col fascista Abbatecola, tristemente noto nella zona, ma riesco a farmi riconsegnare la salma che si trovava all’ospedale di Bibbiena; sul collo, sulle spalle e sul petto era crivellata di pugnalate”.

Lapide in memoria dei caduti, Comune di Ortignano Raggiolo (AR), località Ortignano, chiesa dei santi Matteo e Margherita. Foto di Alessandro Bargellini (https://resistenzatoscana.org/monumenti/ortignano_raggiolo/lapide_dei_caduti/)

 




Laura Seghettini (1922-2017)

Laura Seghettini (particolare)

Nata nel 1922 a Pontremoli e rimasta orfana di madre in tenera età, cresce nella famiglia materna, insieme a nonni e zii; viene così educata all’antifascismo dagli adulti di casa, socialisti e comunisti. Laura ricorderà che nelle serate familiari anche i giovanissimi partecipano alle conversazioni con il solo ordine di non riferire all’esterno nulla di quanto si sia ascoltato.

Giovanissima le viene affidato talvolta l’incarico di portare ad alcuni compagni il giornale clandestino “L’Unità”, essendo più facile per lei, ragazza, passare inosservata. Il nonno e uno zio, Michele, imprenditori edili, pagano questa loro posizione ostile al regime con la disoccupazione. E quando lo zio sceglie di emigrare in Libia, Laura, che ha ormai ottenuto il diploma magistrale, lo accompagna e lavora negli uffici dell’azienda. Nel Paese africano ascolta i giudizi negativi sul fascismo, sulle atrocità commesse dagli italiani e le previsioni di una sconfitta nella guerra appena iniziata, vista l’inadeguatezza dell’esercito. Rientrata a Pontremoli, mentre riferisce queste considerazioni ad un amico in un prestigioso bar cittadino, le sue parole sono ascoltate da un milite fascista; è condotta negli uffici del partito dove per punizione le viene somministrato l’olio di ricino: un’umiliazione pubblica, per di più a una donna poco più che ventenne.

Laura Seghettini a Parma nella manifestazione dopo la Liberazione (Archivio ISRA)

Da quel momento la sua esistenza è segnata; non appena in città si manifesta un qualche dissenso contro il regime, lei viene indicata tra i responsabili. Arrestata, rimane per un mese nel carcere di Pontremoli. Una seconda volta è condotta al carcere di Massa, un’esperienza che la sconvolge: l’ambiente è sudicio, vi aleggiano segni di violenza. Non riesce a mangiare e nemmeno a dormire. Di quel periodo ricorderà solo la compagnia di una donna arrestata perché il figlio non si è presentato alla chiamata alle armi.

Laura si ripromette allora di non ritornare più in carcere, ma continua a far arrivare abbigliamento e cibo agli amici che per non arruolarsi sono saliti ai monti. Quando, nella primavera del 1944, è informata di un arresto imminente, senza indugio sceglie la stessa via, sulle montagne a nord di Pontremoli, all’estremità settentrionale della Toscana. Il gruppo a cui si aggrega è il Battaglione “Guido Picelli”, da poco guidato da un giovane calabrese, Dante Castellucci, nome di battaglia “Facio”. Il comandante non accoglie di buon grado la presenza di una donna, ma gli amici di Laura lo informano sulla sua vicenda e alla fine viene accettata. Fra i due inizia una storia d’amore, interrotta da un evento drammatico: a seguito di tensioni sorte tra i partigiani, dopo un processo farsa Facio viene fucilato il 22 luglio 1944.

Laura e i compagni ne sono fortemente turbati; sceglie insieme ad altri di spostarsi nell’Appennino parmense e di aggregarsi alla 12ª Brigata Garibaldi “Fermo Ognibene”, di cui verrà nominata vicecommissario per il suo impegno e la sua forza morale. Una foto la ritrae mentre cammina sorridente, nelle prime file con i comandanti, tra due ali di folla per le strade di Parma nella manifestazione che celebra la Liberazione.

Nel 1945 stende un memoriale sulla vicenda di Facio, su cui scende progressivamente il silenzio per l’impossibilità di avere giustizia, associata al timore che quell’episodio possa macchiare la storia della lotta di liberazione. Negli ultimi anni, anche grazie alle sue memorie, essa è finalmente tornata alla luce.

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🟥Laura Seghettini, Al vento del Nord. Una donna nella lotta di liberazione, a cura di Caterina Rapetti, Roma, Carocci, 2006, pp. 26-27.

Per il vitto, qualcuno andava a volte a prelevare qualche vitello nei paesi vicini; cucinieri erano il Corsaro (Nello Leoncini) e Giorgio Marini, fratello di Vito. Accendevano il fuoco e mettevano a bollire in un calderone la carne che, non frollata, ne usciva più dura di come vi fosse entrata. Spesso si saltava il pasto e allora cercavamo i frutti del sottobosco, fragole e mirtilli, o qualche fetta di pane e di pattona3 che le donne di Guinadi o di Cervara ci mandavano o ci offrivano quando passavamo nei paesi.

Laura Seghettini (Foto Walter Massari)

Credo che nessuno di noi si sia mai sognato di mangiare una cosa che gli era stata data, se non dividendola con gli altri. Ricordo, infatti, che una volta due tornarono con una crescente4; fu consegnata a Facio che l’affettò in modo così sottile che le fette sembravano ostie, e ne prendemmo una per uno. Quando ci si riuniva per mangiare, mentre chi aveva dei compiti li eseguiva, gli altri si disponevano in gruppo per ascoltare la lettura dei fogli di partito che Facio ed El Gato avevano con sé.

Accadeva, talvolta, che qualcuno raccontasse gli avvenimenti di cui era stato protagonista […].

Alcuni si recavano nei paesi, la sera, a sentire Radio Londra e tornavano portando informazioni che commentavamo in piccoli gruppi. Ricordo la notizia dei bombardamenti di Roma e di Milano e quella dello sbarco di Anzio che ci fece illudere che stesse per finire la guerra, mentre per noi invece iniziava.

Al lume di candela o sotto la luna si cantava sottovoce e qualcuno suonava il flauto. Facio aveva con sé un violino che gli era stato regalato; questo ha fatto scrivere che fosse un maestro d’orchestra. Studente di filosofia, era, credo, soltanto un discreto dilettante, ma in una radura tra i faggi era facile sembrare maestri.

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🟧Stralcio da un’intervista realizzata da Isa Zanzanaini il 15 maggio 1994, in Comitato provinciale per le celebrazioni del cinquantenario della Resistenza – Commissione provinciale pari opportunità, A Piazza delle Erbe! L’amore, la forza, il coraggio delle donne di Massa-Carrara, Massa-Carrara, Amministrazione provinciale di Massa Carrara, 1996, p. 162.

E per quello che mi riguarda, come donna, io debbo dire che sono stati meravigliosi, questi ragazzi, perché mai una parola sconveniente, anzi. Io ricordo, un giorno, venivo giù per un pendio e giù in fondo c’era una ventina di ragazzi che cantavano, canzonacce di caserma; uno, che sembrava tra l’altro un tedesco, sa, proprio grande e grosso, un gigante. Mi vide con la coda dell’occhio e io ho sentito che: “Ehi! Pst! Zitti, ch’a ghe la Laura!”. E mi fece molto piacere. Io gli sono passata vicino, gli ho detto: “Ehi, biondo!” e l’ho scaruffato un po’ in testa. “Eh! Quel ch’a i vo’, a i vo’!”. Quello che ci vuole ci vuole! Sì, è proprio un ricordo meraviglioso.

In quel periodo io ho conosciuto tante ragazze, tante. Anche donne di una certa età. E io so che era un lavoro molto rischioso. Rischioso il nostro, che andavamo a fare le azioni, ma molto più rischioso quello della staffetta, perché poteva essere presa in qualsiasi momento. Quindi, io ho ammirazione anche per queste, che poi sono state qualificate patriote, anziché partigiane combattenti; ma in realtà, tutto il lavoro fatto, compiuto da noi, aveva alla base il lavoro di queste donne.

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Parma, 9maggio 1945, sfilata dei partigiani

🟩Intervista a LAURA SEGHETTINI, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, p. 445.

Quindi lei è stata in formazione? Per quanto tempo?
Fino all’agosto del ’45, un anno, perché poi c’è stata una vicenda, l’uccisione del comandante Facio, io per un po’ sono stata ancora con il battaglione in zona, poi dopo essere andata in missione per il battaglione internazinale, comandato da Gordon Lett, un ufficiale inglese, mi sono portata via un Distaccamento. […] Io in formazione combattevo con le armi, ho sempre cercato di non acchiappare persone, ho comandato anche azioni, io sono stata Commissario di Brigata, ma Comandante sempre militare del Distaccamento Comando della Brigata, Per cui io ho avuto due qualifiche alla fine dal Distretto militare, come sottotenente e come capitano.

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🟪Testimonianza di Laura Seghettini per gli Archivi della Resistenza.

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🟥Marcello Flores racconta la vita di Laura Seghettini – Trasmissione di Rai Radio3 ‘Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza’.



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🟧Intervista a Laura Seghettini (www.testeparlantimemorie900.it)




Teresa Toniolo (1890-1970)

Teresa Toniolo (a destra) al convegno provinciale del CIF nel 1966.

Teresa Toniolo nasce a Pisa nel 1890, ultima di sette figli, da Giuseppe Toniolo, professore di Economia nel locale ateneo e importante intellettuale cattolico, e Maria Schiratti.

E’ attiva politicamente già nel primo dopoguerra per la campagna di estensione del voto alle donne e come vicesegretaria nazionale della Sezione femminile del Partito popolare; negli stessi anni si fa portavoce della denuncia delle violenze fasciste. Bibliotecaria all’Università, si impegna nell’associazionismo cattolico, in contatto con numerose figure che frequentano la cerchia paterna.

Proprio in quel 31 agosto 1943 in cui i bombardamenti devastano la città, in casa Toniolo è in corso la prima riunione della Democrazia cristiana a Pisa. E sempre in casa sua dopo l’8 settembre 1943 si tengono inizialmente le riunioni del CLN provinciale. Grazie ad un avvertimento di Toniolo riguardo una possibile spia, il CLN dell’Alta Italia (CLNAI), riunito a Genova, riesce a scampare ad un’imboscata alla fine del 1943.

Teresa Toniolo permette di tenere stretti collegamenti fra il CLN e i vari gruppi partigiani; svolge attività di assistenza, tra gli altri, ad ebrei, prigionieri inglesi e renitenti alla leva fascista; finge di operare come crocerossina in una “casa di cura” improvvisata, in cui sostanzialmente nasconde alcuni di essi come “malati”. Inoltre si adopera affinché, dopo l’eccidio nazista avvenuto il 1° agosto 1944 nella casa del presidente della Comunità ebraica cittadina Giuseppe Pardo Roques, i corpi delle 12 persone trucidate vengano seppelliti.

La sua figura è infine legata all’organizzazione nell’aprile 1944 della sezione cittadina del Centro italiano femminile (CIF), tramite la quale fornisce assistenza ai bisognosi nella zona urbana, pesantemente provata dalla fame, dai bombardamenti e dall’occupazione. Teresa, che non farà domanda di riconoscimento dell’attività clandestina, continuerà nel dopoguerra a svolgere il ruolo di dirigente del CIF e sarà consigliera comunale della Democrazia cristiana dal 1950 al 1955.

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🟦Paolo Emilio Taviani, Politica a memoria d’uomo, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 46. Il genovese Paolo Emilio Taviani (1912-2001) fu tra i massimi esponenti della Resistenza cattolica e poi importante personalità della Democrazia cristiana. Conosceva Teresa Toniolo e la sua famiglia anche perché aveva studiato negli anni Trenta alla Scuola normale superiore di Pisa. Oltre a Teresa Toniolo, nel testo si fa riferimento a fratel Arturo Paoli di Lucca, riconosciuto nel 1999 Giusto fra le Nazioni, e all’esponente del movimento cattolico livornese Palmiro Foresi.

Martedì, 3 ottobre [1943], Pisa

Camicie nere sul Lungarno di Pisa. Dovremo combattere anche contro italiani. Maledizione.

Tutto bene con zia Teresa, don Paoli a Lucca, Foresi a Livorno. Triangolo perfetto per realizzare il contatto fra Nord e Sud.

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🟥Scheda biografica elaborata sulla base delle memorie di Maria Clotilde Picotti e monsignor Antonio Landi, in Donne e resistenza, pp. 114-5.

31 agosto 1943 – A casa Toniolo, in piazza Ceci (ora piazza Giuseppe Toniolo) alle ore 12, si tenne la prima riunione per costituire la Democrazia cristiana a Pisa; lì i partecipanti furono colti dal terribile bombardamento.

Dopo l’8 settembre, ritornati al potere i fascisti con i tedeschi, Paolo Emilio Taviani, ex normalista e professore allora nel Liceo scientifico U. Dini, partendo per Genova, lasciò a Teresa Toniolo e a don Antonio Landi la parola d’ordine per collegamenti segreti.

Teresa invitò il nipote Giuseppe Toniolo a formare il Comitato di liberazione, come rappresentante democratico cristiano. Le riunioni avvennero in casa Toniolo, nella parrocchia di San Martino, cioè presso don Landi, e poi regolarmente presso l’Istituto di radiologia dell’Ospedale di Santa Chiara, dove il prof. Toniolo era aiuto.

Teresa Toniolo con i genitori

Verso la fine del 1943 (ottobre o novembre) venne da Genova un tale che si diceva inviato da Taviani per “fare studi sulla storia del Risorgimento”: aiutato e ospitato da Teresa, dal prof. Bozzoni e da don Landi, sparì improvvisamente. Con molta probabilità era una spia. Teresa inviò don Landi, con un rischioso viaggio, a Genova, per avvertire Taviani: così fu possibile salvare il Comitato di liberazione Alta Italia (CLNAI). Dopo pochi giorni, infatti, i tedeschi irruppero nel Convento dei Carmelitani a Genova, dove esso si riuniva; ma non trovarono nulla e nessuno; deportarono il priore a Verona.

Teresa continuò a partecipare al Comitato di liberazione, contribuendo a mantenere i contatti tra i gruppi (quello dell’ospedale, di Enzo Meucci, di Leopoldo Testoni, ecc.).

Regolarmente, durante tutta la guerra, Teresa, con l’amica Maria Tizzoni in Dardi, tenne corrispondenza con i soldati della parrocchia, confortandoli con parole di speranza e di pace. Prigionieri inglesi fuggiti furono da lei aiutati con cibo, denaro, vestiti. Ebrei furono da lei salvati e inviati in zone remote della diocesi (colline, Barga, ecc.).

Prestò la sua opera dopo l’eccidio dei Pardo Roques, in via Sant’Andrea, perché fossero seppelliti, temporaneamente, nel Chiostro di San Francesco. Trasferitasi in casa Cella, in via San Giuseppe, nascose in uno stanzino della soffitta cinque giovani, due dei quali, Landolino Giuliano e Renato Giovannozzi, facevano parte del Comitato di liberazione, gli altri tre, Paolo Cella, Antonio Mossa, Marco Picotti, della classe 1925, si erano sottratti alla chiamata alle armi: passibili tutti della pena di morte. Vestita da crocerossina, riuscì a rinviare più volte i tedeschi, che si presentavano alla porta, per perquisire la casa. Una notte, cadde una bomba sulla soffitta, ed ella accorse immediatamente, col lume, per aiutare i rifugiati a uscire dallo stanzino e trovare altri precari nascondigli. Per le commissioni fuori casa mandava Renzino Mossa, quindicenne, ma ancora quasi bambino di aspetto, e perciò meno in pericolo di essere preso dai tedeschi. Purtroppo il caro, coraggioso ragazzo, il giorno stesso della Liberazione fu dilaniato da una mina antiuomo, lasciata dai tedeschi in una casa in rovina, in piazza Carrara




Lina Tozzi (1915-2002)

Lina Tozzi nel 1940

Nasce nel 1915 in una famiglia mezzadrile del Comune di Radicondoli; il padre, socialista e iscritto alla Lega contadina, è avverso al fascismo fin dalle sue origini. All’età di 23 anni Lina si sposa con Primo Radi e vanno a vivere nel podere La Brezza non lontano da Gerfalco, in un territorio posto fra le provincie di Siena, Grosseto e Pisa. Primo viene richiamato in guerra: inviato a combattere sul fronte albanese, otterrà l’esonero solo nella primavera del 1943. Nel frattempo Lina alleva tre figli, coltiva il podere e accudisce gli animali.

Con l’occupazione tedesca diventa col marito un riferimento per il coordinamento e la trasmissione di informazioni tra i primi gruppi di partigiani che si vanno organizzando nella zona e che da lì a pochi mesi daranno vita alla 23a Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”. Fornisce aiuto e solidarietà sfamando i soldati sbandati che bussano alla porta del podere nei giorni successivi all’8 settembre 1943. Con l’organizzarsi della lotta il marito fa la staffetta di notte, Lina prepara da mangiare, lava, cuce gli indumenti ai partigiani, affronta frequenti spostamenti anche in presenza di pattuglie armate e tiene i contatti con gli esponenti del CLN di Gerfalco, da cui si reca per richiedere i rifornimenti di medicinali da consegnare alle bande.

Lina Tozzi

Cura lei stessa i partigiani che arrivano malati e feriti a La Brezza. Così accade anche nei primi giorni di maggio del 1944, quando dà ricovero ad Alvaro Betti e Dario Cellesi. Alvaro, nome di battaglia “Ciocco”, non sopravvive nonostante Lina sia riuscita a contattare di notte il dottore della brigata e condurlo al suo capezzale; Dario (“Luigi”) invece è in condizioni meno gravi e viene curato. Nello stesso scontro ha perso la vita il partigiano Guido Radi “Boscaglia”, alla cui memoria viene dedicato il nome dell’intera brigata.

Durante il passaggio del fronte ospita diversi sfollati in cerca di rifugio a causa dei bombardamenti che colpiscono soprattutto i centri abitati.

Nel dopoguerra si impegna nella campagna per il diritto di voto alle donne; è attiva nella Lega contadina, motivo per cui subisce ben due sfratti dai poderi dove va ad abitare dopo aver lasciato La Brezza. Con la fine dei patti di mezzadria nei primi anni ’60, Lina si sposta con la famiglia a Poggibonsi; qui si iscrive all’UDI partecipando attivamente alle iniziative dell’organizzazione. Non fa invece domanda di riconoscimento dell’attività partigiana. Muore a Poggibonsi il 7 ottobre 2002.

Lina Tozzi col marito Primo Radi

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🟦Stralcio da un’intervista realizzata nel 1992, in Folchi, Frau, La memoria e l’ascolto, pp. 113-4.

Il mi’ marito andava da casa. La notte, lui girava sempre la notte. Faceva la staffetta. A volte si sapeva che erano in qualche posto in un capanno, allora andavo io a portargli da mangiare. Poi tante volte andavo a Travale, non è molto vicino. Io ero a Gerfalco, Travale resta così, più lontano su, tutto per il bosco. Andavo a Travale perché c’era un certo Cioni che aveva il collegamento con dei dottori dell’ospedale di Massa Marittima. Allora procurava un po’ di medicine. Io andavo a prenderle e poi quell’altri venivano a prenderle lì. Insomma è stato un inverno proprio di tragedia più che altro. Anche di miseria, perché ’un s’aveva nulla. […] Quando poi cominciarono questi partigiani allora facevano in modo di farci avere qualche sacco di farina, gli facevo il pane. Poi qui nel libro parla, mi pare Stoppa, che parla: “facevamo delle gallette”.1 Dico: sì, queste gallette le facevo io. Si faceva il pane, no? Poi il pane quando era un pochino mezzo cotto si tagliava a fette e poi si ricuoceva, bello secco. E poi si portava nel bosco, ci s’aveva una botte nel bosco, tutta coperta. Lì bisognava andarci la notte e senza lume. Ora non ci andrei di certo […].

Insomma, la mattina dell’8 di maggio alle 4 sono arrivati lì. C’era il mi’ cugino di Colle, che è anche decorato, Tozzi Nello, decorato a Medaglia di bronzo al valore partigiano che aveva portato questi feriti, due. Uno era Alvaro, che è morto la mattina dopo. […]. Mi ha detto: “C’è Primo?” Il mi’ marito. “Si”. Dice: “Scendete giù”. Siamo scesi giù. Alvaro stava lì in terra disteso perché non ce la faceva a stare in piedi, e così che si fa? Si mette a letto, senza nemmeno pensare. Lo vidi che ci aveva sangue. Senza nemmeno pensare a mettere un incerato nel letto, nulla. Si mette nel mi’ letto. Meno male ci avevo du’ camere. Si mette nel mi’ letto e poi ritorno giù, e questo mi stava lì. Dico: “O che fai?” Lo conoscevo, veniva tante volte. “Eh dice sai, sono ferito”. E difatti era Cellesi Dario che è morto nemmeno du’ anni fa. È morto di malattia, insomma, era anziano che aveva preso una pallottola qui. Allora che si fa? Dice: “Bisogna andare al Comitato di liberazione nazionale”. Il mi’ marito: “Via, vo io”.

Lina Tozzi

Io: “No”. Perché io l’avevo avuto tre anni alla guerra il mi’ marito, era tornato per combinazione con l’esonero. Ne aveva il diritto perché il podere era abbastanza grande, non lo lavorava nessuno, e poi perché durante la guerra fu in Albania, e allora fu malato. Fu malato e se l’è portata una vita: prese una bronchite cronica. Hai visto, a quel tempo le medicine… E allora era inabile ai servizi di guerra, e insomma glielo dettero questo esonero. E invece so’ andata io a cercare soccorso, perché avevo paura, però era la mattina, non era ancora giorno. So’ arrivata a entrare in paese, a Gerfalco, era una stradellina così, erano già arrivati da Massa i fascisti e i tedeschi. Ma su nelle Carline, nel monte, non ci andavano. Per quanto avevano paura. Avevano piazzato le mitragliatrici, schianti… Perché le Cornate è un monte di sassi, tutto di sassi. E sparavano. Gli sono passata molto vicino, però nessuno mi ha detto nulla, e sono andata a cercare quelli del Comitato di liberazione nazionale.

1Si riferisce al libro di Pier Giuseppe Martufi, La tavola del pane. Storia della 23a Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”, Siena, ANPI, 1980, e al medico Giorgio Stoppa, la cui formazione confluì nella Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”.

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🟧Il ricordo di Alfredo Merlo sull’inserto di Patria indipendente del 2003 – “Lina Tozzi Radi valorosa staffetta

Il 7 ottobre scorso cessava di vivere, all’Ospedale Alta Val d’Elsa per una grave e improvvisa malattia, Lina Tozzi Radi, valorosa staffetta partigiana che operò durante la guerra di Liberazione nella zona dei monti delle “Carline” dove conduceva la lotta contro i nazifascisti la 23ª Brigata Garibaldi “G. Boscaglia”. Ho conosciuto Lina nel febbraio del ’44 agli inizi della mia attività partigiana. Dopo l’8 settembre ’43, firma dell’armistizio, fui chiamato alle armi dai fascisti “repubblichini” ma non mi presentai anche a rischio della morte. Scelsi come altri giovani la clandestinità e successivamente mi aggregai ad uno dei primi gruppi partigiani che avevano stabilito la propria base sui monti delle “Carline” dove Lina abitava con la famiglia al podere “Brezza” – comune di Montieri – lavorando la terra. Fu verso la metà di febbraio, di un inverno rigidissimo, che fui mandato dal comando partigiano al podere “Brezza”, già importante punto di riferimento dell’attività clandestina, per ritirare scarpe ed indumenti mandatici dal CLN di Travale. Dovevo chiedere di Lina dicendo che mi mandava il “dottore”. Mi avvicinai con cautela alla modesta abitazione; lì una donna stava raccogliendo legna. Mi fece cenno di avvicinarmi… Era lei. «Tu sei il “Biondo”, ero stata avvistata che saresti venuto». Mi consegnò un voluminoso pacco, poi mi domandò quanti anni avevo. «Diciotto», dissi. «Sei molto giovane, però ai fatto una scelta giusta; noi lottiamo per la pace e un mondo migliore», mi volle dare un pezzo di pane e del formaggio poi mi sollecitò a ripartire: faceva buio e stava nevicando. Così conobbi Lina, una meravigliosa donna che con il suo coraggio e la sua solidarietà ci fu di grandissimo aiuto per tutto il periodo della lotta di Liberazione. Il podere “Brezza”, Lina e il suo compagno Primo, che nel frattempo era tornato dal fronte albanese perché ammalato, assunsero sempre maggiore importanza, con l’intensificarsi della lotta, trovandosi in un punto strategico del versante grossetano delle “Carline”. Fino alla Liberazione saranno il punto di raccordo fra le forze partigiane e il CLN di Travale, Montieri, Gerfalco e Castelnuovo Val di Cecina per l’invio e il ricevimento di messaggi, informazioni, materiale tra i partigiani operanti nei paesi della zona. Lina, insieme ad altre donne, raccolse cibo, medicinali, indumenti, nascose nella propria casa partigiani e quanti sfuggivano alla rappresaglia nazifascista. Nella notte dell’8 maggio ’44 una squadra partigiana, nel corso di un trasferimento per compiere un sabotaggio, ha un violento scontro a fuoco con militari fascisti al Ponte del Pavone (Montieri) nel corso del quale muore il partigiano Guido Radi “Boscaglia”; da quel giorno la Brigata prenderà il suo nome. Nello scontro rimangono feriti altri due partigiani – Dario Cellesi “Luigi” e Alvaro Betti “Ciocco”, che poi morirà – sarà proprio nella casa di Lina che troveranno ospitalità e cure. Dopo la Liberazione Lina è attiva, insieme al marito, nella Lega dei contadini della zona e per ben due volte sarà cacciata dal podere. Poi, quando la vita in campagna diviene più difficile ed inizia l’esodo dei lavoratori della terra verso le città, Lina con la famiglia si trasferisce a Poggibonsi. Anche nella nuova “vita” Lina rimane la donna ricca di interessi e iniziative che tendono a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e della società. Così ha fatto fino alla fine dei suoi giorni. (Alfredo Merlo)




Emilia Valsuani (1924-1944)

Emilia Valsuani (Archivio ISRECLU)

Nasce nel 1924 a Camaiore da Marino Biagini e Lauretta Valsuani. Il padre è un marinaio di fede socialista che, quando torna a casa, spesso è vessato e a volte malmenato dai fascisti; secondo la memoria famigliare, a queste esperienze risale l’antifascismo viscerale di Emilia. Nei primi anni Trenta Marino, che non ha riconosciuto le due bambine tanto che portano il cognome materno, emigra in America, dove forse crea una nuova famiglia; né Lauretta né le due figlie lo rivedranno più ed è la madre a doverle mantenere da sola con il lavoro di lavandaia.

Emilia Valsuani (Archivio ISRECLU)

Le foto che ci rimangono di Emilia mostrano una bella ragazza disinvolta, in camicia dal taglio maschile e pantaloni, cosa inusuale specie per le donne di estrazione popolare. Il nipote, figlio della sorella, racconterà di una giovane moderna che ama molto andare in moto.

Nell’aprile 1944 entra nella formazione partigiana di Lorenzo Bandelloni (“Loré”), stanziata a San Rocchino; svolge prima compiti di staffetta e poi di combattente.

La cittadina di Camaiore è liberata dalle truppe brasiliane nella notte tra il 17 e il 18 settembre. Nello stesso mese buona parte della Versilia ricade sotto il controllo del IV Corpo d’armata statunitense, ma il confronto armato continua a nord, dato che i tedeschi sono indietreggiati sulla sovrastante cresta montana. Se in quasi tutto il territorio toscano l’occupazione tedesca terminerà entro l’ottobre 1944, bisognerà attendere il 25 aprile 1945 per la Liberazione della provincia apuana, della Garfagnana in provincia di Lucca e dell’area dell’Abetone nel pistoiese.

La formazione Bandelloni è una delle poche che non sono state sciolte ma continuano a guidare le pattuglie alleate in perlustrazione e a combattere nei pressi delle Apuane e della Linea Gotica. Anche Emilia continua la lotta partigiana fino al 21 ottobre, quando viene ferita gravemente durante le operazioni nella zona di Malbacco. Trasportata prima in ospedale a Pietrasanta, muore il 28 ottobre all’ospedale di Camaiore. Dopo la Liberazione sarà riconosciuta partigiana combattente.

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🟪Memoria del partigiano Moreno Costa in: Giovanni Cipollini (a cura di), Quattro anni sulla Linea Gotica. Ricordi di Moreno Costa, pp. 69-70.

Il 22 ottobre, mentre eravamo all’Argentiera, vennero portate all’infermeria due donne, che, sopra Malbacco, erano state ferite ad una gamba dalla stessa scheggia di mortaio. Si trattava della cognata di Bandelloni e di una nostra partigiana ventenne, Emilia Valsuani di Camaiore. Non ricordo bene, ma mi sembra che facessero parte di una pattuglia partigiana, composta da nostri compagni, che si trovavano a Seravezza. Erano state ferite il giorno precedente, ma non era stato possibile trasportarle subito all’Argentiera in quanto era in corso un combattimento tra Riomagno e il Monte Canala. Emilia aveva una profonda ferita ad una gamba, che sembrava anche fratturata, e probabilmente aveva anche l’infezione perché si sentiva un odore inconfondibile, invece la cognata di Lorè [Bandelloni] era ferita in modo meno grave. Nella piccola infermeria non potevamo fare nulla, pertanto partimmo subito per Pietrasanta, seguendo il percorso più breve, ma, quando arrivammo alle Ghiare, cominciarono i colpi di mortaio. Era un continuo fermarsi, gettarsi a terra con le barelle, rialzarsi e correre fino al sibilo successivo, che annunciava l’arrivo di un altro proiettile, movimenti che accrescevano le sofferenze delle due donne, in particolare di Emilia, che si lamentava in modo straziante. Finalmente arrivammo oltre Pontearanci, dove ci venne incontro una jeep con la bandiera della Croce Rossa, che caricò le due donne e un partigiano, rimasto ferito ad una mano. La cognata di Lorè riuscì a guarire, invece la povera Emilia morì il 28 ottobre all’ospedale di Camaiore.




Vera Vassalle (1920-1985)

Vera Vassalle

Nasce a Viareggio il 21 gennaio 1920 da Eugenio ed Ester Benedetti, terza di quattro figli. La famiglia abita nel quartiere Marco Polo e qui Vera cresce, claudicante per gli esiti di una poliomielite. Si diploma insegnante elementare all’Istituto magistrale di Pisa, ma a causa delle scarse disponibilità economiche deve rinunciare a proseguire gli studi, trovando poi occupazione presso una banca.

Dopo l’8 settembre entra a far parte del gruppo sorto, tra i primi nuclei di resistenza, per iniziativa di Manfredo Bertini, che ha sposato la sua sorella minore. Per ovviare alla mancanza di armi, munizioni e risorse, Bertini progetta di prendere contatto con gli Alleati oltrepassando la linea del fronte. Prende così avvio l’operazione denominata “Gedeone” e il ruolo di emissario è proposto proprio a Vera perché una donna minuta e claudicante pare la persona più adatta per non destare sospetti. La giovane accetta e il 14 settembre 1943 parte in treno da Viareggio; il viaggio assai complicato si conclude dopo circa due settimane quando Vera riesce ad avere i primi contatti con ufficiali americani, che le propongono di diventare un’agente dell’Office of Strategic Services (OSS).

Ha così inizio il suo periodo di addestramento a Taranto. A conclusione Vera, agente del 2677° Reggimento OSS, intraprende il viaggio di ritorno, denso di pericoli e faticoso. Sbarcata il 14 gennaio 1944 presso Orbetello, il 19 giunge a Viareggio con una valigetta contenente un prezioso apparecchio ricetrasmittente.

Radiotelegrafo

Dà così avvio alla missione “Radio Rosa”, con l’importante compito di tenere i contatti tra le varie formazioni partigiane e le forze alleate, trasmettendo informazioni su possibili obiettivi militari e ricevendo le date dei lanci con i rifornimenti per i resistenti. Vera si mette subito al lavoro per creare l’indispensabile rete di collaboratori e collaboratrici. Purtroppo l’incompetenza del radiotelegrafista che le è stato assegnato non permette al servizio di essere subito attivo, ma la giovane partigiana riesce infine ad avere un nuovo radiotelegrafista nella persona di Mario Robello, “Santa”, ed inizia ad operare, rendendo un importante servizio alla Resistenza ed agli Alleati: sono inviati oltre trecento messaggi, ottenendo numerosi aviolanci a brigate partigiane toscane e liguri. Il 12 luglio, a seguito di una delazione, “Radio Rosa” è scoperta e Vera, Robello e altri sono costretti a fuggire, ma riprendono in seguito la loro attività di resistenti.

Dopo la Liberazione Vera e Robello si sposano e si trasferiscono a Cavi di Lavagna, dove Vera entra nella scuola come maestra elementare ed è attiva nella vita civile come esponente del PCI. Riconosciuta partigiana combattente e insignita nel 1946 della Medaglia d’oro al valor militare, muore nel 1985.

Vera Vassalle

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🟪Archivio ISRECLU, Fondo Resistenza, Serie “Missione Balilla”, 15, rapporto di Vera Vassalle alle autorità alleate, 14 settembre 1944.

[…] Iniziate le trasmissioni a fine aprile ed intensificando il lavoro riuscimmo ad aggiornarci con le informazioni alla base, nonché a trasmetterle […]. Intanto venivo organizzando a Viareggio un vero e proprio centro di raccolta delle informazioni, che mi venivano trasmesse da vari agenti che mi era riuscito di trovare sul posto. Mi valsi anche dell’opera di tecnici e di ufficiali per ottenere grafici relativi ad opere di fortificazione, depositi e concentramenti di truppe. Tali documenti affidai al corriere Maber, che avrebbe dovuto portarli alla base. Tali grafici riguardavano le zone di Viareggio, Marina di Carrara, l’intera costa tra quest’ultima località e Spezia compresa, nonché la zona dell’Appennino toscano e [la] zona Firenze-Pistoia. Questi ultimi (molto precisi) mi erano stati forniti dal Centro regionale di Firenze del Partito di Azione, insieme a dettagliate relazioni sulla situazione politica e militare. Sfortunatamente tali documenti andarono distrutti in seguito all’arresto (per il servizio obbligatorio del lavoro) del corriere, che avrebbe dovuto (come poi ha fatto) riferire anche verbalmente sull’attività partigiana. Provvidi ad avere copie dei detti documenti e, di fatti, avutele le consegnai all’RT  “Aurelio”, perché nel frattempo la nostra radio era caduta. Il 2 luglio, intanto, nella zona di Camaiore (ove io avevo fatto trasportare la radio da circa 8 giorni), tre donne, amiche di ufficiali tedeschi, denunziarono il mio RT Santa come prigioniero evaso e il comando [tedesco di] Camaiore concentrò sulla zona tutti i radio-goniometri, riuscendo ad individuare l’apparecchio nella stessa casa in cui era il Santa ed a conoscere le ore di trasmissione. In quella stessa mattina, alle ore 11 circa, mentre Santa era intento alla trasmissione, due vetture dell’SS tedesca, da diverse direzioni, si avvicinarono alla casa e ne scesero una decina di SS comandati da un maggiore, che circondarono la casa. Santa ebbe subito la percezione del pericolo e, dopo aver lanciato cinque bombe a mano (con le quali riuscì a colpire il maggiore ed altri quattro agenti tedeschi) si lanciò, armato di mitra, per le scale, riuscendo ad uscire incolume dal portone ed a raggiungere i campi. Di tale scena io sono stata testimone oculare, trovandomi alla finestra di una casa vicina. I tedeschi, credendo che un capostazione pensionato, che per caso si trovava nei pressi del portone, fosse un altro nostro agente, lo uccisero con una raffica di mitra. Operarono pure numerosi arresti, fra i quali quello di una mia cugina (che ospitava Santa con la radio), a nome Emilia Bonuccelli, che fu sottoposta ad un lungo interrogatorio e poi con gli altri condotta a Bologna ed, in un secondo tempo, rilasciata.

Vera Vassalle

Io intanto ero riuscita a fuggire, portando con me tutta la documentazione inerente al servizio. Riparai a Monsagrati, ove il giorno successivo ebbi notizia della salvezza di Santa. Ma, ricercata dalle SS, dovetti ancora una volta fuggire e trovare ricovero altrove: precisamente presso la formazione di patrioti, ora intitolata Marcello Garosi, di stanza presso il Monte Pania. Qui fui raggiunta da Santa. Il 10 corrente, dopo aver attraversato le linee, insieme a Santa ed a mio fratello, mi sono presentata al CIC di Lucca, il quale ci fece accompagnare al comando tattico locale, cui fornii tutte le più recenti informazioni e consegnai i documenti che avevo meco. […] Movimento Partigiano: Non appena iniziate le trasmissioni con la base, con Manfredo mi sono preoccupata di prender contatto con le locali formazioni di patrioti, allo scopo di organizzare zone di ricezione sicure. Tali zone, preventivamente esplorate da nostre persone fidate e tenute sotto controllo dalle formazioni stesse, in numero di circa quattordici, han tutte funzionato regolarmente e con risultato soddisfacentissimo senza alcun incidente, né relativo alla ricezione dei paracadutaggi, né a molestie da parte dei nazi fascisti, né ad eventuali mancanze di materiali o di denaro, che sono stati sempre recuperati e regolarmente consegnati. A suo tempo, per via radio, ho dato sufficienti informazioni sull’attività dei patrioti, non privi di organizzazione seria, di spirito patriottico e di sacrificio e dotati di gran buona volontà e decisione, cui, purtroppo, non fa riscontro un adeguato armamento e munizionamento. Mancanza questa, gravissima, che incide sulla loro attività e sulle ampie possibilità di collaborazione efficacissima con le armate alleate. Gli alloggiamenti ed il vettovagliamento sono discreti (specialmente in questi ultimi tempi), così pure può dirsi per i collegamenti e per i mezzi di trasporto, per cui si ricorre a muli (nei limiti consentiti dalle requisizioni tedesche). Si lamenta soprattutto la mancanza di armi semi-pesanti, pesanti, relativo munizionamento e dotazione sanitaria. Siena 14 settembre 1944

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🟧Testimonianza di Stella Palmerini, in L. GUCCIONE, Missioni “Rosa” – “Balilla”. Resistenza e alleati, Vangelista editori, Milano 1987.

Quando la Missione Rossa si trasferì in casa mia, Vera mi affidò la radio, e da quel momento cominciai a capire che la cosa era più seria di quanto sino allora avessi immaginato. Appena le trasmissioni erano terminate, io trasportavo la radio, nascosta dentro la mia cartella scolastica, in un’altra casa vicina. Nessuno sospettò mai che dentro la cartella ci potesse essere l’apparecchio. Le trasmissioni avvenivano secondo un cifrario di cui disponeva Mario Robello. […] Ogni volta che Mario doveva trasmettere, io uscivo e andavo ad attaccare l’antenna sul pagliaio; poi quando finiva di trasmettere andavo a toglierla. I messaggi che la Radio trasmetteva agli Alleati li ricevevo io dai vari informatori che venivano sino a casa mia, ma non entravano: si aggiravano nei pressi ed io, appena li vedevo, andavo incontro, ci si fermava come se parlassimo di cose futili, una conversazione insomma, e mentre si parlava mi passavano il messaggio che portavo subito a Robello che, dopo averlo cifrato, lo trasmetteva. Durante la trasmissione, io montavo la guardia fuori. Mario mi dava una pistola e una bomba a mano: “Appena senti un rumore sospetto – diceva – tienti pronta a sparare e a lanciare la bomba”. […] Devo dire che ogni volta che si trasmetteva o si riceveva era un momento emozionante, così pure quando venivamo a sapere che gli obiettivi militari del nemico da noi segnalati erano stati colpiti.

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🟥“Donne, fra guerra e Resistenza”, a cura di Luciana Rocchi, storica dell’ISGREC di Grosseto. Settimo episodio del video progetto “Pillole di Resistenza” curato dalla Rete Toscana degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea e promosso dalla Regione Toscana.