Tosca Martini (1914-1988)

Ritratto di Tosca Martini, anni Trenta (©️Archivio famiglia Maullu Martini)

 

Nata a Cantagallo nel 1914 in una numerosa famiglia contadina della zona, a dodici anni Tosca va a lavorare nella fabbrica tessile di La Briglia, di proprietà della famiglia ebrea Forti. Proviene da un ambiente antifascista, come pure l’amato fratello minore Lido, che nel dopoguerra sarà dirigente sindacale della Val di Bisenzio e di Prato. Sotto il regime, Tosca diviene un punto di riferimento per le rivendicazioni operaie e per la propaganda antifascista.

Lido, fratello di Tosca Martini (©️Archivio Fondazione CDSE)

Dopo l’8 settembre 1943 agisce da staffetta nella formazione “Orlando Storai” di stanza sul Monte Javello; aiuta i renitenti a raggiungere i partigiani diventando anche punto di riferimento per le loro famiglie e fidanzate.

Nel suo percorso è cruciale la decisione di far cucire in segno di protesta una bandiera rossa per la festa dei lavoratori del 1944. La mattina del 1° maggio il paese di Usella, nel fondovalle, si sveglia con una bandiera rossa che sventola su un alto cipresso, sopra la strada provinciale (oggi SR 325), e con manifesti che tappezzano i muri delle case (“morte ai fascisti, fuori i tedeschi e viva il 1° maggio”). Di nascosto dalle famiglie, infatti, nei giorni precedenti Tosca e altre donne di Usella (Giulia Lavati, Martina Martini, Nigella Catani, Fernanda Ferrantini, Rosa “la merciaia”) hanno confezionato il drappo con un nastrino tricolore. I militi della Guardia nazionale repubblicana accorrono immediatamente per togliere la bandiera e per arrestare Tosca, ritenuta autrice della protesta. Già il 2 maggio è nel carcere femminile di Santa Verdiana a Firenze, dove conosce la partigiana fiorentina Tosca Bucarelli, che di lei racconterà: “insieme a me era la più torturata di tutte”.

Tosca Martini, al centro, con una sorella e un’amica di Usella, anni Trenta (©️Archivio Fondazione CDSE)

Viene interrogata numerose volte dalla Banda Carità presso Villa Triste e torturata per circa due mesi, ma non rivela mai informazioni sulla Resistenza. Secondo la sua testimonianza è salvata dalla possibile deportazione grazie all’intervento, tra giugno e luglio, di un noto avvocato pratese su insistenza dei compagni partigiani.

Tornata a casa, benché debilitata dalle sevizie e dal carcere, continua a dare il proprio contributo all’organizzazione della Resistenza fino al passaggio del fronte in Val di Bisenzio nel settembre 1944. Il 23 aprile 1951 si aprirà a Lucca il processo alla Banda Carità e Tosca Martini verrà chiamata più volte a testimoniare.

Nel Dopoguerra riprende a lavorare nel tessile, impegnandosi nel sindacato con il fervore che sempre l’ha contraddistinta; è riconosciuta partigiana combattente il 12 marzo 1947.

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🟪Stralci dall’intervista realizzata da Laura Landi il 10 settembre 1988, pubblicata in Alessia Cecconi, Francesco Venuti (a cura di), Sul cipresso più alto. La storia di Tosca Martini e altre vicende di guerra e Resistenza, Montemurlo, Fondazione CDSE, 2013, pp. 66-69.

Io entrai al Forti alla briglia appena finito dodici anni, sono nata di gennaio, a marzo ero già a lavorare nel reparto orditura. Si lavorava tante ore e ho imparato alle macchine di ritorto, sempre in orditura. Poi c’era il magazzino e poi si andava alla grande tessitura, perché il Forti è sempre stata una grande ditta, lì siamo cresciuti. […]

In fabbrica ci andavo in bicicletta, dopo parecchio tempo hanno messo un autobus. Noi donne non si prendeva la stessa paga degli uomini, per carità, e allora ho dovuto fare la sindacalista.

Nel 1943 morì la mia povera sorella Duilia di malattia e lasciò due bambine. Succede il patatrac di Badoglio, a questo punto mi venne chiesto di iscrivermi al sindacato di Badoglio, ma io non volevo assolutamente accettare, perché dovevo badare alle bambine ed ero troppo occupata, gli dissi “sentite, non ho proprio punta voglia di mettermi a fare la sindacalista perché ho altre cose, m’hanno lasciato due bambine”, non volevo accettare. Allora cosa hanno fatto? Hanno fermato tutte le macchine, i magazzinieri, 14 orditoi, tutte le macchine da ritorto, poi tutte quelle che facevano le rocche e i fusi, tutta la tessitura, era una grande ditta e io mi son trovata in mezzo a tutti gli operai in quella maniera, “lo devi far te, lo devi far te”, e alla fine ho accettato.

Ora succede che Badoglio sta poco, liberano il Duce e ritorna il sindacato fascista. Noi tutti in fabbrica si era d’accordo che questa cosa non si poteva assolutamente accettare. E allora vengono in tessitura a sparare con le rivoltelle, allora quel pover’uomo del mio zio di Vaiano, fratello della mia mamma, disse che accettava lui di essere delegato del sindacato fascista, mentre tutti urlavano e scappavano come pazzi. Poi [dopo l’8 settembre] successe la ribalta un’altra volta e allora io sono rimasta lì al sindacato mio, che non era più il sindacato di Badoglio, ma era il nostro. Sono sempre rimasta all’avanguardia della briglia fino a quando il 1° maggio non sono stata arrestata e portata via.

Dall’8 settembre al maggio ’44 si lavorava con le formazioni partigiane. Io avevo tutta l’organizzazione: quando venivano gli aerei americani o inglesi a portare la roba sulle colline, informavo le formazioni sugli arrivi: s’aveva il nostro ordine del giorno. […]

Salivo anche ai Faggi personalmente a portare le notizie e si vede che il Barellini2 l’hanno messo a fare la spia e mi ha visto. io e la povera Teresa moglie del mio povero fratello [Lido] si fece finta di andare a lavorare perché mi seguivano. Si aveva il segretario del partito fascista che stava lì a dormire nell’ultima casa in fondo, era di Prato, era un gobbino e diceva “benedetto il Dio, quella donna ci va la mia padrona di casa a veglia la sera e vado a chiamarla delle volte, ci resto anche io, l’è tutta casa e lavoro, possibile che lei la faccia codeste cose?”.

Insomma, mi presero il 1° maggio del ’44, qui [facendo riferimento a un libro] è un po’ raccontato, un po’ tralasciato, ’un possono mica dire tutto. Si capisce quanto è importante, c’è fatti per fare un libro. Mi arrestarono per cosa si è fatto con il mio cognato che era ferroviere di Vaiano.

Al mio cognato dissi: te la metti, e io preparo la bandiera, e vai per il 1° maggio a metterla proprio in cima al cipresso, quello che va al cimitero gl’era bello alto. Proprio in cima in cima aveva messo questa bandiera rossa, l’aveva legata con una maniera che lui figurati gl’ha avuto il primo premio che ha in casa, andava a allacciare i fili quando va il treno.3 L’aveva messa in un modo che non c’era modo nemmeno levarla, mandarono a levarla e non lo sapevano fare. La vedevano proprio bene dalla ferrovia, la si vedeva proprio bene, tutti la vedevano. La sera prima gli si dette la botta, si mise tre manifesti “morte ai fascisti”, ma grandissimi, tre di qua e tre di là, rivolti alla chiesa, e la mattina tutti li leggevano: “morte ai fascisti, fuori i tedeschi, viva il 1° maggio”, grandi così, io e la povera Fernanda sia andò a metterli. Non mi avevano visto, era notte.

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🟥Amiche per la libertà – Tosca Martini, Tosca Bucarelli e le altre – Corto realizzato dalla Scuola di Cinema “Anna Magnani” di Prato con regia di Massimo Smuraglia, ispirato alla vicenda della partigiana Tosca Martini di Usella, alla cui sceneggiatura ha collaborato la Fondazione CDSE (il film è liberamente ispirato al libro “Sul cipresso più alto”, edizioni CDSE). Con Francesca Cellini e Doriana Clemente. Musica Originale di Samuele Luca.

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🟪ISRT, Fondo Calamandrei, Processo alla Banda Carità, Busta 4.1.3. Stralcio della sentenza della Corte di Assise di Lucca del 28 luglio 19512, 25esimo episodio – Martini Tosca – (imputazione n. 27) – Il documento integrale è pubblicato in pubblicata in Alessia Cecconi, Francesco Venuti (a cura di), Sul cipresso più alto. La storia di Tosca Martini e altre vicende di guerra e Resistenza, Montemurlo, Fondazione CDSE, 2013 

[…] Questi come primo atto la prese per il petto nonostante le proteste della donna che irritarono maggiormente il Bellesi, quindi cominciò a coprirla con pugni e ceffoni al viso così violenti da farle uscire copioso il sangue dalle orecchie e dal naso. Dicendo poi che non voleva farsi male alle mani, si tolse la cinghia dei pantaloni e con questa prese a colpire la ragazza, in maniera che la placca di metallo piuttosto grossa la colpiva sulla carne che in tal modo veniva a lacerarsi avendole sollevato all’uopo anche le vesti e riducendola tutta pesta. Le cinghiate sempre più violente si protrassero per lungo tempo e la Martini per il dolore continuava ad urlare in modo tale che alcuni funzionari della Questura, che si trovavano nella stanza vicina, si affacciarono alla porta per protestare contro quel trattamento inumano. […]




Walma Montemaggi (1926-2017)

Walma (a sinistra) nel 1946 con le sorelle Clara e Fulvia

Nasce nel 1926 a Pontorme, sobborgo operaio di Empoli, da una famiglia composta dal padre, vetraio soffiatore, dalla madre sarta e da sei figli, di cui Walma è la più piccola. Frequenta le scuole elementari dalle suore, perché la famiglia antifascista non vuole che partecipi ai rituali della scuola di regime. Successivamente inizia a lavorare come operaia in una piccola ditta che produce vestiario militare.

Si avvicina all’attività politica aiutando il fratello Alfiero, comunista, nella distribuzione di volantini e nella raccolta di fondi per il Soccorso rosso. L’arresto di Alfiero nel 1936 segna anche per lei una tappa significativa, dato che a scuola è additata come sovversiva. Nella sua formazione svolgono inoltre un ruolo i legami con la famiglia allargata: è cugina per parte di madre di Giuseppina e Ateo Garemi, entrambi emigrati in Francia; Ateo aderirà ai GAP e sarà ucciso a Torino nel dicembre 1943.[1] Durante la guerra approfondisce i legami con gli ambienti clandestini empolesi e contribuisce già alla preparazione dello sciopero del marzo 1943.

Subito dopo l’8 settembre si impegna col fratello nel soccorso a militari fuggiaschi e renitenti alla leva, che vengono messi in contatto con i gruppi partigiani. Svolge il ruolo di staffetta e partecipa all’organizzazione dello sciopero del 4 marzo 1944; l’agitazione è infatti appoggiata da un corteo di donne verso il centro cittadino, alla quale si uniscono contadini dalle vicine frazioni, artigiani e bottegai e gli operai che escono dalle officine.[2] Per queste attività sarà riconosciuta patriota.

Dopo la Liberazione è assunta in una fabbrica di fiammiferi, diventando un’operaia specializzata. Il PCI le propone di frequentare un corso di formazione rivolto alle donne; Walma accetta e in seguito decide di abbandonare l’impiego per dedicarsi all’attività politica. Svolge prima un ruolo nella Federazione giovanile e poi diventa segretaria provinciale dell’UDI. Nel 1953 partecipa alla vertenza della fabbrica Pignone di Firenze, divenendo la portavoce delle famiglie degli operai presso il sindaco Giorgio La Pira, che riuscirà a evitare la chiusura dello stabilimento.

Walma Montemaggi

Nel 1955 si sposa con Ilio Bastianoni, anche lui aderente al PCI. La coppia successivamente si allontana dalla politica attiva; Walma decide nel 1963 di lasciare il ruolo di funzionaria, nel 1964 ha un figlio. Non abbandona però l’impegno pubblico, in specie nel sindacato e nell’ANPI, e nell’ultima fase della sua vita si dedica alla scrittura di racconti e memorie. Muore ad Empoli nel 2017.

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🟥Stralci dell’intervista a Walma Montemaggi in Laura Antonelli, Voci dalla storia. Le donne della resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione, Prato, Pentalinea, 2006, pp. 155-7 e 168-169

L’anno successivo, il 1944, preparammo lo sciopero del quattro marzo con una riunione preparatoria nel bosco di Corniola, facendola sembrare una scampagnata di ragazze e ragazzi.

Lì ci fu detto il giorno e l’ora (il 4 marzo appunto, ad Empoli in Comune alle ore 10-11). Così iniziammo a formare piccoli gruppi che camminavano per il “giro” di Empoli, poi si fecero dei capannelli iniziando a parlare fra noi donne, in seguito diffondemmo la voce: “Andiamo in Comune dal podestà”. Eravamo un centinaio, tutte affollate al portone del palazzo comunale, entrammo. Fummo ricevute dalle autorità di allora: il podestà appunto, il segretario del Fascio repubblichino, il commissario di polizia, il maresciallo dei carabinieri e alcuni responsabili dei servizi comunali. Noi avanzammo le nostre richieste, erano mesi che con la tessera non ci veniva dato neppure ciò che toccava di diritto. Chiedevamo pane, un po’ di carne, vedevamo i tedeschi che stavano portando via tutto. Facemmo le nostre rimostranze. Le autorità ci calmarono, dicendo che in qualche modo avrebbero provveduto e così andammo via con queste promesse verbali. Appena fuori dal Comune, le donne e gli uomini ormai erano divenuti una folla che andava via via aumentando. La strada era piena di gente che ci domandava come fosse andata, cosa ci avessero risposto.

In quel momento fummo affiancate dalla polizia dell’OVRA[3] che ci provocò, dicendo: “Penerone![4] Andate a casa”. A queste parole venne fuori da parte di tutte le donne un abbaione di risposta: “Andate voi a casa!” e li rincorremmo. Uno si dileguò andando verso la stazione, un altro si diresse in piazza della Vittoria presso un albergo, quando fu arrivato ci mostrò la pistola e una bomba a mano. Allora presero in mano la situazione i compagni partigiani che erano scesi dalla montagna per scortarci ed il poliziotto fascista, vista la malaparata, si rifugiò nell’albergo. Di lì a pochi minuti arrivò un camion tedesco con una mitragliatrice innestata con due soldati che ci intimarono di sciogliere il raduno non autorizzato altrimenti avrebbero fatto fuoco. Noi non ci lasciammo intimorire, tenemmo ancora per un po’ la piazza, alcuni proposero di andare ad assaltare il silos del grano, ma ci fu detto di non andare che il grano se l’erano già preso i tedeschi. In quegli istanti di paura ma anche di coraggio ricordo che accanto a me avevo mamma “Palmira”, un’anziana compagna madre di un giovane che era stato condannato a tanti anni di carcere dal Tribunale Speciale perché comunista. Questa donna mi diceva: “Abbracciami Walma, stringiti a me e non aver paura, tanto non sparano. Lo fanno per impaurirci” […].

– Aveva paura?

– Sarei stata un’incosciente a non averne. Anzi ne ho avuta tanta. Quando andavo a prendere la stampa clandestina ad Avane, e la sistemavo nella borsa a doppiofondo fatta da mia madre, ti dirò che facevo in un lampo a distribuirla a tutti, così quando c’erano i libri, li diffondevo il pomeriggio nascondendo il fatto con la giratina in bicicletta oppure che andavo a Empoli a comprare i bottoni per i vestiti delle clienti di mamma. Poi c’erano i giorni nei quali venivano ammazzate le bestie comprate dai contadini, per mandare un po’ di carne ai ragazzi che erano in montagna e per noi. Vendevamo le frattaglie e le parti meno nobili da fare il lesso e lo spezzatino; a volte compravo anche per casa, ma la carne anche la meno nobile, costava molto e non sempre potevamo permettercela. Poi passare un posto di blocco dove c’erano i tedeschi, quelli della Wehrmacht, quando dovevo portare qualcuno in formazione: giovani renitenti alla leva militare che non volevano andare al fronte a morire o disertori dell’esercito che non volevano più combattere. Questi erano i pericoli che si correvano ogni giorno. Le prime volte, tremavo ma poi riuscivo sempre a cavarmela; non ti ho detto che ero piuttosto bellina e allora a volte tiravo un po’ più su del dovere la gonna andando in bicicletta e così passavo. Però passavo più volentieri dai posti di blocco tenuti dai tedeschi che da quelli dei repubblichini: avevo paura di incontrarci qualcuno che mi conosceva.[…]

 Nel 1943 iniziò la nostra Resistenza in Toscana. Con mio fratello Alfiero portammo tanti ragazzi sia in montagna, specialmente i renitenti alla leva, ma anche ufficiali badogliani che andarono nelle formazioni partigiane che come sai, si aggregarono agli alleati per compiere azioni di disturbo ai tedeschi allora invasori ed ai repubblichini fascisti visto che Mussolini aveva formato la Repubblica di Salò. Io feci scappare in montana un maresciallo della finanza che doveva andare sul fronte russo ed anche un ufficiale dell’esercito che era ricercato come disertore: episodi che ho descritto nei miei racconti. È proprio vero che più difficile diventa la vita, più si lotta. Il coraggio a me veniva dalla consapevolezza del rischio che era anche paura. Ma nei momenti più acuti io mi vedevo la fine di tutto questo patimento e la morte mi sembrava liberazione e rinascita ad una vita più giusta, migliore e degna di essere vissuta.




Norma Parenti (1921-1944)

Norma Parenti

Figlia di Estewan e Roma Camerini, Norma Silvana Nara Parenti nasce il 1° giugno 1921 al podere Zuccantine di Sopra, allora nel Comune di Massa Marittima, oggi nel Comune di Monterotondo Marittimo. Sposa Mario Pratelli con cui ha un figlio, Alberto Maria, nato appena sei mesi prima che la madre fosse trucidata dai tedeschi il 23 giugno 1944. Negli otto mesi precedenti Norma è attiva come collaboratrice delle bande partigiane di Massa Marittima, anche se di lei si ritrovano oggi poche tracce corrispondenti al ruolo che effettivamente svolse e che le è stato riconosciuto.

Dai rapporti della III Brigata Garibaldi, scritti dopo il passaggio del fronte di guerra, insieme ad altri documenti prodotti post mortem, si delinea il suo coinvolgimento nell’opposizione al fascismo durante tutta l’occupazione tedesca. Aiuti materiali, conforto ai partigiani, diffusione di manifestini antifascisti: Norma assume compiti pericolosi fin da subito, appena i primi gruppi di giovani, rifugiatisi nelle macchie, cominciano a raccogliere armi, preparare azioni di sabotaggio e scontri armati. Coraggiosamente sfrutta i frequenti contatti con i prigionieri tedeschi nel ristorante di famiglia per indurli alla diserzione. La temerarietà è evidente anche nella decisione di dare sepoltura, nonostante il divieto delle autorità, al corpo del giovane partigiano Guido Radi, torturato e ucciso l’8 maggio 1944 dai nazifascisti dopo un’imboscata e lasciato nella piazza principale come monito per la popolazione. In spregio al divieto di sepoltura, Norma Parenti e altre donne massetane ricompongono il corpo del giovane e ne organizzano il funerale. Tutti a Massa sanno chi è Norma e quali attività svolge e molti, col senno di poi, imputano a questo gesto di aperta sfida all’autorità la sua successiva cattura e uccisione.

Norma con il figlio Alberto

La documentazione ufficiale attesta un crescendo delle attività partigiane nel territorio massetano tra la metà di maggio e la fine di giugno del 1944, anche in conseguenza dell’avvicinarsi del fronte e delle speranze crescenti legate alla fine della guerra. Alto, però, è in quest’ultimo mese anche il tributo di sangue, non solo dei partigiani ma della popolazione intera, nell’ambito della cosiddetta ritirata aggressiva dell’esercito tedesco. In questo contesto di violenza s’inscrive l’uccisione di Norma, prelevata dalla sua casa la sera del 23 giugno da militari tedeschi, con la collaborazione attiva di militi fascisti, trascinata in località Podere coste Botrelli e trucidata. A guerra ormai perduta, con gli alleati alle porte (le truppe della V Armata americana entreranno a Massa Marittima il giorno successivo), con le alte cariche fasciste già fuggite al Nord e le ultime unità tedesche in ritirata, l’uccisione di Norma è un gesto gratuito, un ultimo spregio alla comunità massetana, già duramente provata dopo la strage di Niccioleta. Riconosciuta partigiana combattente, su iniziale e precoce sollecitazione da parte dell’UDI, alla memoria di Norma è attribuita la Medaglia d’oro al valor militare.

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🟦Deposizione della madre, 20 ottobre 1944 (Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, Roma)

La sottoscritta Camerini Roma, nei Parenti, domiciliata a Massa Marittima, dichiara quanto segue:

Verso le ore 22 del 23 giugno 1944, mi trovavo nella mia abitazione situata in via Roma (Massa Marittima) quando sentii bussare insistentemente alla porta. Andai ad aprire e mi trovai di fronte una diecina di militari tedeschi i quali mi domandarono subito dove era mia figlia Norma Parenti di anni 23. Quest’ultima che aveva udito i tedeschi pronunciare il suo nome discese dalla sua camera da letto al piano terreno ove si gestiva una trattoria.

Tanto io che mia figlia Norma venivamo catturate e portate via dai militari in parola i quali prima di allontanarsi tirarono diverse bombe a mano nella bottega. Ci condussero alla periferia della città. Ad un certo momento io venni rilasciata mentre mia figlia fu condotta nei pressi del podere Moschini e fucilata.

Non sono in grado di sapere per quale motivo la detta mia figlia sia stata fucilata.

In fede mi sottoscrivo

Massa Marittima, lì 20 ottobre 1944

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A Massa Marittima si racconta [Testimonianza di Uliana Marliani e Bruna Cerboni] di un episodio che sembra sia stato decisivo per l’inizio dell’attività partigiana della Parenti: Norma e il marito si trovavano su un pullman, della linea Follonica-Massa Marittima diretto a Massa, che venne fermato dai fascisti per un controllo. Mario Pratelli, che aveva con sé documenti compromettenti, scappò ed i fascisti lo inseguirono sparando… Tutti a Massa sapevano chi era Norma e cosa faceva; e non solo per le sue aperte manifestazioni di antifascismo.

Luciana Batoni, 1978

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Sia cattolici che comunisti si sono appropriati dopo la Liberazione di questa figura… È molto difficile poter affermare… che la sua attività partigiana si può nettamente qualificare come cattolica: troppo breve fu la sua vita per poter dimostrare che anche la sua intensa partecipazione alla vita dell’Azione Cattolica fosse da ascriversi ad una matura consapevolezza cristiana e non solo ad entusiasmo adolescenziale. La sua fu attività di propaganda innanzi tutto: e non solo attraverso quei volantini che distribuiva di notte, ma anche attraverso contatti personali: nel momento in cui era ormai evidente la disfatta del nazifascismo si recò spesso dagli impiegati della DICAT, prossima alla sua casa, incitandoli a disertare e ad andare alla macchia… Fu di conforto e di aiuto a quanti erano perseguitati; incoraggiava la diserzione di quanti erano prigionieri dei tedeschi.

Marcella Vignali, 1975

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🟧Intervento di Wanda Parracciani alla conferenza di organizzazione del PCI a Grosseto nell’estate del 1944, Archivio ISGREC, Fondo Nencini

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Francobollo commemorativo

Avevo conosciuto la nostra compagna Norma Parenti, attiva patriota, durante un incontro tra lei e il comandante Chirici, in una notte non lontana, in una casa periferica di Massa. C’erano anche, in quella occasione, altri rappresentanti del Comitato di Liberazione, con i quali Norma Parenti teneva il collegamento.

Luigi Tartagli, 1996

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Io conoscevo bene Norma Parenti perché lei veniva a portarci il latte. Ogni tanto arrivava in volata la mia mamma diceva: stai attenta, stai attenta!… Norma era iscritta all’Azione Cattolica e dal punto di vista strettamente politico non eravamo vicini, però c’era la guerra, e contro i fascisti e i nazisti c’era un fronte comune.

Intervista di Luciana Rocchi a Gabriela Cerchiai, 1999

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Tessera dell’UDI del 1954, ©️Archivio ISGREC, Fondo Bruna Ziviani

Norma urlava: “Capitano, c’ho un figlio al petto”! e lì c’era uno che parlava italiano, sicché non erano tutti tedeschi, poi gli s’attaccò al collo piangendo, gli s’attaccò al collo e gli gridò “Moschini c’ammazzano” in quella via gli spararono. Norma cascò in terra bocconi e rimase di traverso, con il capo verso una vetrina incassata nella parete e le gambe alla porta d’ingresso. Il mio babbo si buttò a morto dietro la parete, fece il morto… Era buio, sentiva Norma lamentarsi, lamentarsi, poi venne il silenzio.

Testimonianza di Italo Moschini, s.d.




Ubaldina Pannocchia (1923-2021)

Ubaldina Pannocchia

Ubaldina nasce a Livorno il 29 giugno 1923. Il padre ha una macelleria e anche lei collabora fin da piccola alla sua gestione. Sente forte il rammarico di dover interrompere gli studi dopo la quinta elementare, perché la famiglia, non avendo sufficienti disponibilità, fa proseguire solo i due figli maschi. La madre la spinge ad imparare il ricamo dalle suore, ma Ubaldina preferisce la musica e riesce a prendere lezioni di piano fino allo scoppio della guerra.

Comincia a interessarsi di politica quando si innamora di Nedo Guerrucci, amico del fratello Roberto. Entrambi studenti, sono attivi nelle reti comuniste livornesi già prima dell’8 settembre 1943. Nello stesso anno, a causa dei bombardamenti sulla città, la famiglia di Ubaldina sfolla a Lorenzana.

Ubaldina Pannocchia

Dopo l’armistizio, Nedo è chiamato a presentarsi al Comando militare di Ardenza, ma si dà alla macchia e raggiunge una formazione partigiana a Castellaccio. Per mantenersi vicina a lui ed al fratello, Ubaldina prende contatti con altri partigiani come Vasco Caprai e Giovanni Finocchietti e inizia a muoversi in bicicletta per le colline livornesi trasportando viveri, armi, medicine e volantini.

Tutti questi giovani confluiscono dalla primavera del 1944 nel 10° distaccamento “Oberdan Chiesa” della 3a Brigata Garibaldi, la principale formazione attiva in quest’area.

Ubaldina non presenterà domanda di riconoscimento anche perché, come molte donne impegnate con compiti informali, acquisirà dopo molti anni la consapevolezza di aver svolto un ruolo significativo. Dopo la guerra entra nel PCI, si impegna nell’UDI e successivamente nell’ANPI. Si sposa con Nedo, che è diventato un dirigente del partito, e lo segue nei suoi incarichi a Roma e all’Isola d’Elba. È lei a insistere perché il marito completi il percorso universitario, interrotto nel periodo dell’occupazione tedesca; laureatosi in biologia, Nedo diventa assistente universitario e infine tecnico a Livorno, dove la coppia torna a vivere. Ubaldina muore il 29 luglio 2021.

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🟪Intervista in ‘Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana’

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🟧Intervista a UBALDINA PANNOCCHIA, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, p. 290

Come aiutava il suo fidanzato nella Resistenza?

– Io cercavo di procurargli le medicine, le tenevo in casa nel pianoforte.

Una volta che in formazione c’era un ferito mio fratello e il mio fidanzato presero un medico fascista e lo portarono su a Gello, lo portarono col calesse su nei boschi, quando tornò però non fece la spia. Io più che altro procuravo questi medicinali, a volte anche qualche cosa da mangiare, i medicinali li compravo in farmacia perché potevo farlo, avevo le possibilità. Io non sono mai stata in formazione, solo una volta ho accompagnato un compagno, Finocchietti, Giovanni Finocchietti a Monterotondo, io gli portai il sacco per non dare troppo nell’occhio perché era già renitente di leva, lo portai su a Castellaccio, lo salutai e tornai indietro. Ero in contatto con un altro, Vasco Caprai, che stava a Livorno, che era quello che mandava i partigiani nelle varie formazioni.

La mia famiglia ha saputo tutto dopo, sapevano solo che il mio fidanzato era in formazione […].

– Lei non ha avuto contatti con altre donne staffette?

Ubaldina Pannocchia

– No più che altro uomini, Giovannino Geppetti, a Fauglia gli portai rivoltelle e roba che mi era rimasta e lui mi disse: – Guarda di portarcele -. C’erano sempre i tedeschi, io nella borsa da spesa con la biciclettina anche lì, sull’Aurelia perché con la bicicletta non potevo passare dai boschi, con questa borsa arrivai fino a Fauglia. Non ho avuto paura, è l’incoscienza dei giovani. Avevo un po’ di paura e di pensiero per il mio fidanzato in formazione perché tedeschi e specie fascisti sparavano, li cercavano. Io in formazione non sono mai stata, sono stata staffetta, ma l’ho saputo ora che quelle che facevano queste cose erano staffette, io non ero nulla, ero la fidanzata e la sorella di due perseguitati diciamo e basta. […]

– I compagni partigiani come vedevano le donne che si impegnavano?

– Bene, bene, subito dopo la guerra ai compagni non gli pareva vero che si collaborasse al partito, specie per gli asili. Io ho fatto molto specie nell’UDI, l’Unione donne italiane con cui s’è organizzato gli asili, poi si distribuiva “Noi donne”, si portava nelle case, si facevano le feste. Poi collaboravo alla Festa dell’Unità, con Osmana, Laura Diaz e altre.

– La Resistenza che insegnamenti le ha dato come donna?

Mi ha aiutato ad essere più consapevole della situazione politica italiana, mi ha fatto capire cosa era il fascismo, io sono maturata attraverso la Resistenza, ho cambiato modo di vedere la vita, prima pensavo che le donne non dovessero interessarsi di politica, invece no.




Wanda Parracciani (1921-2008)

Wanda Parracciani con il marito Ferdinando Di Giulio (Archivio della famiglia Di Giulio)

Nata a Santa Fiora il 25 settembre 1921, compie gli studi a Livorno e ad Arezzo. Si avvicina all’antifascismo grazie allo zio Ottorino Tarcioni, perseguitato politico e futuro sindaco del comune grossetano nel dopoguerra. Nell’estate del 1943 si trova proprio a Santa Fiora ed entra in relazione con l’ambiente antifascista dei minatori, di cui comincia a leggere i volantini di propaganda. Racconterà di aver maturato le sue idee politiche grazie a quei contatti, ma anche grazie all’ascolto di Radio Londra e alle discussioni collettive che nascono all’interno del gruppo di giovani antifascisti di cui fa parte e con cui legge “L’Unità” clandestina.

Wanda Parracciani con il marito Ferdinando Di Giulio (Archivio della famiglia Di Giulio)

Inizialmente collabora con lo zio nella falsificazione dei documenti di identità dei giovani di Santa Fiora, per sottrarli agli obblighi di leva; insieme alle donne del paese nutre gli antifascisti in carcere e nasconde renitenti e disertori, anche in casa sua. Aderisce quindi al PCI e alla Resistenza e, con altri due studenti sfollati da Grosseto, Aldo D’Alfonso e Fernando Di Giulio, riceve dalla formazione “Ovidio Sabatini” l’ordine di restare in paese allo scopo di controllare le attività dei gruppi fascisti, così da poter dare informazioni alla banda che, in caso contrario, si potrebbe trovare isolata in quella zona. Così i tre giovani danno vita all’undicesima cellula gappista di Santa Fiora, dieci di minatori ed una, la loro, di intellettuali. Con una vecchia macchina da scrivere e qualche foglio di carta carbone, iniziano a produrre una testata clandestina, “Il Comunista dell’Amiata”, e a diffonderla come bollettino preparatorio all’insurrezione, oltre a stampare un gran numero di manifesti e circolari per conto dei CLN clandestini della zona.

Wanda Parracciani con il marito Ferdinando Di Giulio (Archivio della famiglia Di Giulio)

Attività di collegamento con i CLN e con il PCI, azioni di sabotaggio, diffusione di stampa antifascista sono i compiti che svolgono i tre giovani gappisti fino alla fine di maggio del 1944, quando una delazione impone a Fernando Di Giulio di lasciare il centro abitato; si unirà al 7° distaccamento “Ovidio Sabatini” della Brigata “Spartaco Lavagnini” operante sul Monte Amiata. Wanda invece rimane in paese, garantendo il collegamento con i partigiani alla macchia. All’avvicinarsi della Liberazione, approfittando della confusione seguita al terribile bombardamento di Santa Fiora del 12 giugno 1944, il gruppo di cui fa parte prende il comando tedesco, fa prigionieri alcuni soldati e li rinchiude nella bottega del sarto del paese, anch’egli antifascista, per consegnarli all’arrivo delle truppe francesi e marocchine.

Nel dopoguerra Wanda è la responsabile della Sezione femminile provinciale grossetana del PCI: sua è la relazione alla Conferenza di organizzazione del PCI provinciale dell’agosto 1944, in cui anticiperà la via che avrebbe percorso negli anni a seguire, guidando la lotta delle mezzadre a Grosseto e poi anche nel Fùcino e in Basilicata come dirigente dell’Alleanza dei contadini. Sposatasi con Fernando Di Giulio, si trasferisce a Roma per seguirne la brillante carriera politica.

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🟧Stralcio dall’intervista a Wanda Parracciani realizzata da Luciana Rocchi nel 2003, in Archivio ISGREC, Fondo audiovisivi

Poi io avevo uno zio antifascista, Tarcioni Ottorino, che è stato anche sindaco dopo, che ci raccontava come i fascisti gli avevano dato l’olio di ricino, insomma, ci raccontavano un po’ queste cose perché si capiva che tanto la guerra intanto andava a finire e ci si organizzava. Ci si organizzava nel senso che più che altro si parlava tra noi e si sentiva Radio Londra, questa è stata, sì, con uno tra l’altro di Grosseto che erano sfollati a Santa Fiora, […] villeggianti e poi vennero su da sfollati a Santa Fiora e aveva, perché le radio erano state tutte bollate no?, siccome questi non erano di Santa Fiora potevano anche dire che la radio non c’era e allora si andava in questa casa dove loro erano affittuari diciamo e si sentiva Radio Londra e quindi questo ci apriva il mondo. Si sentiva Radio Londra, la parte dedicata agli italiani e per noi era una grande apertura. Poi si discuteva tra noi. Poi ci arrivavano anche dei volantini, che quelli li portavano i minatori, che era “L’Unità” clandestina che era un foglietto e quindi di nascosto si leggevano queste cose.

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🟪Podcast Isgrec: Wanda e Fernando, partigiani dell’Amiata. Un racconto di David Parri, interpretato da Luca Pierini, che illumina le vicende di due partigiani attivi sulle pendici del Monte Amiata.

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🟥“Donne, fra guerra e Resistenza”, a cura di Luciana Rocchi, storica dell’ISGREC di Grosseto. Settimo episodio del video progetto “Pillole di Resistenza” curato dalla Rete Toscana degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea e promosso dalla Regione Toscana.

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🟩Stralcio dalla relazione alla Conferenza di organizzazione del PCI provinciale, agosto 1944, conservata in Archivio ISGREC.

La donna per questo suo sacrificio, per questo suo contributo di energia e di sangue, per avere fatto suoi i doveri degli uomini, ha acquistato oggi nella vita sociale e politica i suoi stessi diritti.

Ma non basta che la donna abbia dato tutto il suo aiuto per la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo, occorre che essa partecipi direttamente alla ricostruzione democratica progressista dell’Italia e alla lotta politica unendosi e organizzandosi per rivendicare i suoi diritti in tutti i campi, per far riconoscere il suo valore sociale, per far sì che il suo sacrificio abbia come effetto l’emancipazione della donna dallo stato di inferiorità in cui ancora è tenuta. [...]

Le donne italiane debbono decisamente entrare nella vita politica per la difesa dei loro interessi, debbono organizzarsi nei sindacati per lottare per un miglioramento dei loro salari, perché [...] a parità di rendimento nel lavoro vi sia parità di salario con le corrispondenti categorie lavoratrici maschili.

Debbono organizzassi nei partiti politici, a seconda delle loro credenze politiche, e lottare per il riconoscimento dei diritti della donna nella vita pubblica.



Giuseppina Pillitteri Garemi, detta Unica (1909-2001)

Giuseppina Pillitteri

Nasce a Genova nel 1909 da una famiglia di tradizioni anarchiche e sovversive. Antifascista della prima ora, insieme al marito emigra per motivi di lavoro e politici in Francia, dove risiede fino al 1943. Rimasta vedova, prosegue la sua attività politica in clandestinità frequentando gli ambienti degli esuli antifascisti nell’Île-de-France e iscrivendosi nel 1941 al PCd’I. Conosce Ideale Guelfi, che diverrà suo marito, anch’egli comunista, combattente volontario in Spagna, partigiano e primo sindaco di Cascina dopo la Liberazione.

Il 25 luglio 1943, rientrata in Italia, rischia di essere fucilata a Genova durante una manifestazione antifascista. Nel settembre dello stesso anno arriva a Pisa, dove partecipa attivamente alle attività cospirative e alla nascita della Resistenza. Con il nome di battaglia “Unica”, lavora soprattutto come staffetta, tenendo i contatti con la direzione del PCI di Firenze. Trasporta e trasmette materiali di propaganda, stampa e direttive in quasi tutta la Toscana, rischiando più volte la vita nel corso di questa attività.

Nei primi mesi del 1944 segue il gruppo dei primi partigiani che salgono sul Monte Pisano per organizzare azioni di disturbo. Funge da dattilografa, segretaria e anche infermiera del gruppo, continuando la sua attività di staffetta e tenendo i collegamenti con il CLN. È l’unica donna di Pisa stabilmente in formazione con la 23a Brigata Garibaldi, distaccamento “Nevilio Casarosa”.

Ai primi di agosto del 1944, presso l’accampamento del Monte Pruno (sopra Calci), viene sorpresa, insieme a un nutrito gruppo di partigiani della Casarosa, da una compagnia tedesca guidata da una spia fascista; nel combattimento trovano la morte due partigiani ed il resto del gruppo è costretto a fuggire e riparare sul versante lucchese del monte. La mattina del 2 settembre entra a Pisa con i compagni del suo distaccamento andando incontro alle truppe alleate.

Giuseppina Pillitteri

Dopo la Liberazione prosegue la sua attività nei Gruppi di difesa della donna, di cui è stata una delle responsabili in clandestinità. Riconosciuta patriota, è tra le fondatrici dell’UDI pisana e dal 1946 entra nella segreteria provinciale del PCI con l’incarico di responsabile della Commissione femminile della federazione. Muore a Pisa nel 2001.

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Testimonianza raccolta da Annamaria Galoppini in Donne e resistenza. Atti del convegno, Pisa, 19 giugno 1978, Pisa, Tipografia comunale, 1979, pp. 121-4; riedita in Laura Fantone, Ippolita Franciosi (a cura di), (R)esistenze. Il passaggio della staffetta, Napoli, Scriptaweb, 2009, pp. 27-9.

II 9 settembre 1943 sono venuta a Pisa dove ho cominciato il lavoro di staffetta da una parte all’altra. In questo periodo ho avuto due avventure eccezionali: io avevo il compito di preparare il materiale dattilografato che veniva poi distribuito, nelle chiese e nelle cassette delle lettere. Sono stata l’unica donna di Pisa che è andata stabilmente in formazione (ero con la 23a Brigata Garibaldi, formazione Nevilio Casarosa). In quel momento mi chiesero da Firenze di andare là a portare questa stampa. Avevo contatti con la direzione del PCI a Firenze e trasmettevo la stampa e portavo le direttive a quasi tutta la Toscana. La tipografia si trovava a Empoli, dove passavo le nottate sotto i bombardamenti alla stazione. Da Firenze andavo poi a Empoli presso la tipografia. Per arrivare a questa tipografia dovevo passare davanti alla caserma della Milizia perché non c’era modo di fare altrimenti. Riprendevo poi la stampa e la portavo a Firenze da dove veniva distribuita ad Arezzo, a Pisa e in altre località. Mi trovai alla stazione di Firenze quando i gappisti uccisero Gobbi,[1] un centurione della milizia repubblichina. Quella volta arrivai a Firenze con due valigie piene di materiale, che invece dovevo far credere leggere perché c’era il pericolo che le prendessero per merce a mercato nero. Rimasi bloccata in stazione e si sparse la voce dell’uccisione di Gobbi. Alla porta c’erano i fascisti, i tedeschi, le guardie e i ferrovieri – i quali mi hanno aiutato tanto. Nella sala d’aspetto venivano a guardare cosa portavamo nelle borse, in tutte le maniere si doveva passare alla visita dei bagagli, non si poteva andare al caffè perché non c’era la porta d’uscita e anche lì venivano a guardare le valigie. Mi sono allora recata all’uscita, la gente passava, ho cominciato ad allacciarmi le scarpe, a tirare su le calze, tanto per guadagnar tempo. Ad un certo punto un ferroviere mi ha detto di passare, viste le difficoltà in cui mi trovavo di proposito. Pian piano le guardie si sono dileguate e sono passata, come si suol dire, per il rotto della cuffia. In quei momenti conviene abbandonare tutto e scappare, ma avevamo tanta preoccupazione perché per fare del materiale ci volevano soldi, tempo, elementi adatti, sicché il materiale per noi era prezioso e ci andava giù male buttarlo via. Doveva arrivare a destinazione con assoluta puntualità perché altrimenti si metteva a repentaglio la vita della persona che doveva dare il cambio. Infine, sono riuscita a passare, ma sempre con la paura, strada facendo, che mi fermassero. […] Un’altra volta, sempre alla stazione di Firenze, si aprì completamente il fagotto che avevo messo nel bagagliaio. Nell’andare a riprenderlo mi cascò tutto il materiale, il ferroviere se ne accorse, ma mi richiuse lui il pacco e mi lasciò andare. I ferrovieri mi hanno sempre aiutato, addirittura mi portavano i bagagli. […] Questa vita di postina l’ho fatta fino alla Liberazione di Pisa nel settembre 1944.




Francesca Rola (1915-2010)

Francesca Rola con i partigiani della formazione “Ulivi” (Archivio ISRA)

Appartenente a una famiglia di commercianti di Fossola, una frazione di Carrara, fin dall’avvento del regime si schiera nelle file dell’antifascismo aderendo al Partito comunista, costretto ad entrare in clandestinità. Quando anche a Carrara si costituiscono i “Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà”, creati a Milano nel novembre del 1943, vi aderisce subito. Il compito di questa organizzazione consiste nell’avvicinare le donne alla lotta di liberazione, portare volantini, stampa clandestina e tenere i collegamenti tra le varie formazioni partigiane. Ovviamente quest’attività espone molto le donne che vi aderiscono e Francesca subisce anche un arresto a Parma.

Dopo la scarcerazione continua la sua attività sia in città che “ai monti”, come è solita dire, diventando partigiana combattente della formazione garibaldina “Giuseppe Ulivi”; sarà anche insignita della Croce di guerra al valor militare.

Francesca Rola è tra le protagoniste di un “unicum” nella storia della Resistenza italiana, la rivolta dell’11 luglio 1944. Il 7 luglio il Comando tedesco di Carrara fa affiggere un bando in cui si ordina che entro la sera del 9 la città venga evacuata e la popolazione sia avviata verso Sala Baganza, in provincia di Parma. L’iniziativa risponde a una più complessa strategia, che intende “liberare” un’ampia fascia di territorio per facilitare il completamento della Linea Gotica recidendo ogni collegamento fra la popolazione e le bande.

I Gruppi di difesa della donna, di concerto con il CLN e i GAP, organizzano una protesta contro il bando di sfollamento. L’11 luglio centinaia di donne, armate di cartelli con scritto “Non abbandoneremo la città” e “Non vogliamo sfollare”, si recano davanti al comando tedesco cantando e protestando, con la conseguenza di far revocare l’ordine. Questo episodio, che si può considerare anche un esempio di resistenza civile, ha un valore centrale nella Resistenza apuana, perché infonde un nuovo slancio al movimento partigiano carrarese che nelle settimane successive si strutturerà in più ampie formazioni.

Francesca Rola

Nel 2013, a tre anni dalla sua morte, in Piazza delle Erbe a Carrara, luogo dal quale è partita la protesta delle donne del luglio 1944, è stato realizzato un grande murale che la ricorda.

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🟪Intervista a FRANCESCA ROLA, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, pp. 423 e 426

Ho cominciato l’attività di staffetta subito, da quando poi ci buttarono giù la casa ancora meglio allora eravamo ancora più spinti. Una volta io e altre donne abbiamo anche portato via tre partigiani dall’opsedale, stavano andando le SS a prenderli, d’accordo con il dottore li abbiamo portati giù sulle spalle, meno male che c’era un piano solo. I tre partigiani erano Roberto Vatteroni, Pelliccia e Rosamunda di Massa.
[…] Qualcuno aveva paura, ma io gli ho detto: -Volete tenere i vostri negozi, venite con noi -. Eravamo in mezzo al fuoco, ma ci siamo riuscite, o si son presi paura oppure il Prefetto li avrà convinti, ma poi erano quelli della Wehrmacht, non erano quelli delle SS, se erano quelli delle SS non ti salvavi.
Avevano tutti le armi, c’erano i cannoni, addirittura io mi son messa davanti a un cannone: -Sparate pure se volete sparare -.
Una mia amica mi diceva; – Francesca vieni via che ti ammazzano -. -Non importa voi andate avanti intanto, vediamo se son buoni di sparare -.

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🟧Intervista realizzata da Pina Menconi e Isa Zanzanaini il 2 maggio 1994, in Comitato provinciale per le celebrazioni del cinquantenario della Resistenza – Commissione provinciale pari opportunità, A Piazza delle Erbe! L’amore, la forza, il coraggio delle donne di Massa-Carrara, Massa-Carrara, Amministrazione provinciale di Massa Carrara, 1996, pp. 117-8.

Murales a Carrara dedicato a Francesca Rola

Io coi partigiani c’ero entrata perché c’era mio fratello, mio cognato, quell’altro mio fratello; eravamo in diversi noi su, eh […]. E poi il forno di mio fratello era a disposizione dei partigiani; c’era un buco nel forno di mio fratello, e dentro a quel buco c’era la macchina ciclostile, c’erano le munizioni, lì c’era tutto… son andati anche a bombardare il forno di mia cognata, le han dato degli schiaffi a mia cognata, poverina, che ha abortito, era di sette mesi e ha perso il bambino; dov’è suo marito, dov’è suo marito; e lui, con Giosué Tanzi, eran rinchiusi dietro a tutte quelle macchine lì: se combinazione li vedevano, buttavano all’aria tutta la casa, tutto quel palazzo lì lo buttavano all’aria. Invece han buttato due bombette, piccole, han rotto i vetri, hanno spaventato un po’ la gente e basta. Noi non c’eravamo, perché di notte, capisci, loro venivano in giù a vedere, a far le perquisizioni nelle case. Io prima stavo nel Viale, poi me l’hanno buttata giù la casa, perché han detto che era la casa dei partigiani, e l’han buttata a terra completamente, rasa al suolo, la mia e quella dei Pisani, tutti e due. Allora sono andata a casa di mio fratello, quello che aveva il forno, però ero ai monti, più ai monti che giù.

Io ero nei Gruppi di difesa della donna: c’era la Bedini, la Nella, c’era la Ilva, la Pelliccia, sua sorella, c’era sua cognata, poi c’era sua zia; poi c’era la Gatti, c’era la Elena. Le più in vista, diciamo, erano loro. Poi quando ci fu la mattina delle donne del 7 luglio, ce n’erano tante, perché allora siamo andate a prenderle tutte; le vai a prendere tutte a casa, vengono fuori, escono, no, fuori: se non vuoi andar via, se non vuoi fare evacuare Carrara, porta via tutti: venite un po’ fuori, uscite fuori, no! Noi eravamo presenti alle riunioni per quello che dovevamo fare, presentare; più di tutti è stata la Ilva, il più l’ha fatto lei, ha fatto tanto, tantissimo; lei, e poi c’era la Carla, sua sorella, che ha fatto tanto anche lei. La Renata Bacciola, la Dina, quella lì della Fabbrica, la Elena, la Lavagnini… insomma, praticamente, poi eravamo tutte assieme, chi aveva più responsabilità e chi aveva meno responsabilità, capito, però eravamo tutte una mischia, diciamo, praticamente eravamo tutte nella mischia. A organizzare i gruppi eravamo una trentina, una ventina, una trentina c’eravamo senz’altro. C’erano anche repubblicane, democristiane, eravamo tutte assieme. Le più coraggiose quel giorno lì si presentavano davanti al comando tedesco, oppure anche davanti ai carri armati: io per esempio, ho una fotografia che non riesco a trovare davanti a un carro armato, che la Renata, povera donna, povera Renata, la sento ancora: “O Franca, vieni via che ti sparano!” “E se mi sparano, in fondo sono una, se mai muoio io, o ragazze, ma siete sceme, bisogna farsi vedere d’aver paura? Io non ho paura, io sto ferma qui davanti: dimmi che sparano, provino a sparare – e intanto li guardavo loro, no? nel muso – provino a sparare, per vedere se son capaci di sparare”. E non ci si muoveva davanti a quel carro armato, che era vicino lì. Poi siamo andate in piazzetta, a buttare all’aria tutto perché venissero tutte via con noi; abbiamo fatto chiudere le scuole, abbiam fatto chiuder tutto, i negozi, tutto, perché abbiam detto: “Qui è il giorno che bisogna evacuare, bisogna andar via; se volete andar via… Se volete andar via state lì, se non volete andar via, venite con noi”. E son venuti con noi.

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🟩Francesca Rolla, staffetta partigiana e donna della rivolta di Piazza delle Erbe a Carrara – Intervista a Francesca Rolla (1915-2010) staffetta partigiana della Brigata Garibaldi “Gino Menconi”, formazione “Ulivi” e donna della rivolta di Piazza delle Erbe a Carrara, del 7 luglio 1944. Intervista a cura di Archivi della Resistenza, registrata il 30 dicembre 2009

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🟧Donne nella Resistenza, a Carrara – Frammento della IV puntata di ‘C’era una volta gente appassionata, viaggio nella Resistenza toscana’, un film di Luigi Faccini, produzione: Italia, 1986; con la collaborazione di Istituto Storico della Resistenza di Firenze, ANPI, Comuni di Piombino, Firenze, Carrara. Il film è suddiviso in quattro capitoli: La battaglia di Piombino, Firenze I e Firenze II, Carrara.

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🟥 Testimonianza di Giulia Galleni, allora quindicenne e anche lei staffetta, ha rotto un silenzio durato decenni, arricchendo inoltre la narrazione dei fatti di Carrara con ulteriori dettagli ed altri episodi accaduti nelle vicinanze (Credits: https://museonazionaleresistenza.it)



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Modesta Rossi (1914-1944)

Modesta Rossi

Nata a San Martino d’Ambra (Bucine) in provincia di Arezzo nel 1914, Modesta impara il mestiere di sarta. Nel 1935 sposa Dario Polletti, con cui ha cinque figli; la famiglia contadina abita in via Cornia, non lontano da Civitella della Chiana. Dopo l’8 settembre 1943 il marito entra a far parte della banda “Renzino”; anche Modesta aderisce alla formazione svolgendo mansioni di staffetta. Dopo la battaglia di Montaltuzzo, avvenuta il 23 giugno 1944, compie lunghi tragitti a piedi insieme alla cognata Assunta Polletti per ripristinare i collegamenti fra i componenti della formazione, ritiratisi nelle aree circostanti.

Lo scontro di Montaltuzzo e altre azioni compiute dalla banda diventano il pretesto per un grande rastrellamento operato dai tedeschi, sotto il comando della divisione corazzata “Hermann Göring”. L’operazione si deve infatti verosimilmente al più ampio obiettivo di “ripulire” dalla presenza partigiana un territorio divenuto, con la risalita del fronte, strategico nell’ottica di contrastare l’avanzata degli alleati e di garantire rifornimenti alle truppe. Il 29 giugno unità naziste compiono dunque una strage nella cittadina di Civitella della Chiana e nelle zone limitrofe (per un totale di 146 vittime), nella località Valle di Sopra (8 vittime) e a San Pancrazio di Bucine (58 vittime).

Nello stesso giorno l’azione si estende anche alla località di Cornia, riconosciuta come un punto d’appoggio della banda. Militi tedeschi e italiani giungono a Solaia, piccolo insediamento vicino alla casa di Modesta, dove si è recata per avvisare alcuni suoi famigliari del rastrellamento in corso; vogliono sapere dove sia il marito e avere indicazioni sui nascondigli dei partigiani. Dato che si rifiuta di dare qualsiasi tipo di informazione, viene uccisa insieme al figlio più piccolo (13 mesi); nei dintorni colpi d’arma da fuoco raggiungono altre quattro persone. I corpi delle vittime sono poi ritrovati in una capanna data alle fiamme.

Dopo la Liberazione sarà riconosciuta partigiana combattente e le sarà conferita la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Conferimento della medaglia d’oro

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🟪Memoria del partigiano Edoardo Succhielli, “Renzino”, comandante della formazione (in: Edoardo Succhielli, La Resistenza nei versanti tra l’Arno e la Chiana, Arezzo, Tip. Sociale, 1979, pp. 261-2. 

Un altro posto di rilievo meriterebbe Assuntina Polletti, cognata di Modesta, ed agli effetti della famiglia Polletti e della formazione Renzino sua assidua collaboratrice ed emula nei rischi e nel lavoro. Durante la battaglia di Montaltuzzo molti partigiani s’erano sbandati. Nella notte che seguì, furono Modesta ed Assuntina a camminare di più per riorganizzarli, dato che diversi erano passati da casa loro e vi avevano lasciato il prossimo recapito. Tale compito si riteneva più pericoloso per gli uomini in considerazione che pattuglie nemiche potevano essere in giro alla ricerca dei dispersi. Assuntina andò a rilevare Gesualdo Doganieri ed Edilio e Lionello Caldelli oltre la Sughera in un capanno di carbonai. Partì da sola in piena notte e da sola ricoprì quella distanza, che richiede parecchie ore di cammino a piedi senza spaventarsi all’abbaiare dei cani ed ai fremiti indecifrabili dei boschi nelle tenebre.

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🟧 Memoria del marito Dario Polletti (in: Dario Polletti, La lucida follia, in Edoardo Succhielli, La Resistenza nei versanti tra l’Arno e la Chiana, Arezzo, Tip. Sociale, 1979, p. 205)

I miei quattro bambini superstiti, appena i fascisti e le SS ebbero lasciato le casa di Solaia, si precipitarono giù per l’erta verso casa.

Non fu Giovanni il primo a darmi la notizia. Egli, che sentiva la responsabilità d’essere il più grande, era rimasto attardato per aiutare a scendere giù e sorreggere Gualtiero, che non aveva ancora compiuto i tre anni. Arrivarono per primi Mario e Silvano, sconvolti dal terrore, poveri piccoli.

“E la mamma?” – chiesi ansiosamente.

“Oh, babbo! Sono venuti gli uomini cattivi. Uno ha cavato un coltello e poi così… così… prima a Gloriano e poi alla mamma…” diceva Mario. Agitava il piccolo pugno chiuso come se realmente stringesse un coltello.

Allora corsi su con tutta la fretta che mi dava la trepidazione e più m’avvicinavo a Solaia più avvertivo la dura verità della tragedia. Vedevo alzarsi lassù una colonna di fumo e, quando fui più vicino l’odore acre dei cadaveri ch’andavano carbonizzandosi incominciò a offendere le mie narici. Appena giunto ansimante nella piazzuola, penetrai in una capanna invasa ancora dalle fiamme. Era da lì che proveniva quel fumo. Dentro respiravo a fatica. La visibilità era molto confusa; appena sufficiente a distinguere a terra i corpi umani ch’emanavano il fumo accecante e l’odore sgradevole.

Corsi difilato ad una pozza d’acqua, presi un secchio e con quello cercai di spegnere il fuoco, che lento e implacabile distruggeva le salme. Quando il fumo si fu un po’ dissolto, notai che un foro rosso segnava ogni proiettile penetrato nelle parti non ancora interamente combuste delle vittime, ch’erano sei ammucchiate una sull’altra. Poco discosto da loro c’era il corpo del piccolo Gloriano, accanto a quello di Modesta, che riconobbi dall’anello matrimoniale più che dagli squarci del pugnale, perché il fumo aveva imperversato e consumato.