A Firenze. “Nel libro, figlio, tu vivrai”

Una storia struggente e appassionante, un racconto della Grande Guerra vista con gli occhi di un giovane come tanti altri, un viaggio per trincee e campi di battaglia dall´Appennino al Monte Grappa. Nel libro, figlio, tu vivrai (Edizioni Sarnus), scritto da Paolo Ciampi con la collaborazione di Tania Maffei, sarà presentato giovedì 6 novembre alle 17.30 alla Libreria Salvemini (piazza Salvemini, 18) alla presenza degli autori.
Ugo Marcangeli fu uno dei tanti giovani che all´inizio del 1918, a soli diciotto anni, andò al fronte. Purtroppo il 2 luglio dello stesso anno, quasi al termine della guerra, morì sui Colli alti del Grappa ucciso da una pallottola nemica. Paolo Ciampi, giornalista e scrittore toscano da sempre attento a uomini e donne travolti dagli eventi della storia, indaga sulla vita e sul mistero di quel ragazzo del 1899, consegnandoci un testo di grande impatto uscito in libreria nel centesimo anniversario dell’attentato di Sarajevo che diede inizio alla prima guerra mondiale.




La Giornata delle Forze Armate a Certaldo ricordando il soldato Renato Niccolini

Martedì 4 Novembre 2014, in occasione della Giornata delle Forze Armate e Festa dell’Unità Nazionale, il Comune di Certaldo, ANCR e ANPI, ricorderanno il soldato e autiere Renato Niccolini, originario di Gambassi Terme ma i cui familiari risiedono oggi a Certaldo, disperso in Russia durante la Seconda Guerra Mondiale, del quale è stato recentemente trovato i “piastrino di riconoscimento” che verrà riconsegnati ai familiari.

Nato a Gambassi Terme il 1 ottobre 1921, da Niccolini Livio e Nigi Assunta, aveva tre fratelli: Rutilia Niccolini, classe 1909 – Emilia Niccolini, classe 1910, e Rutilio Niccolini classe 1913, ed era, dunque, il più giovane. La famiglia si trasferirà nel Comune di San Gimignano (SI) –Fraz. Badia a Elmi negli anni successivi. Dopo le scuole Renato divenne, come del resto la maggior parte delle persone all’epoca, un agricoltore.
Per quanto riguarda il periodo di guerra, dalla lettura approfondita delle lettere, malgrado il testo talvolta sia incomprensibile” si evince che: Renato inizialmente è a Cuneo e fa parte della 247^ Autosezione Pesante, in data 13/05/1942 Renato comunica il suo passaggio alla Pompa deposito e con lettera del 29/05/1942 scrive di essere passato definitivamente al 201° Autoreparto Pesante 4^ Divisione Alpina Cuneense ed attende di partire per il fronte russo. Dal fronte russo le lettere cominceranno ad arrivare sempre di meno. Le più significative sono quelle del mese di Dicembre 1942, e la più commovente, anche se il testo è scarno, è senz’altro quella datata 11/01/1943, e scritta, come sopradetto, al sacerdote, come se Renato avesse saputo che di lì a pochi giorni il suo destino sarebbe stato segnato.
I familiari vissero l’attesa del suo ritorno in maniera dolorosa. All’epoca i genitori cercarono di reperire sue notizie attraverso vari canali.
Solo nel 1995 riceveranno un documento dal Ministero della Difesa dove viene comunicato loro ufficialmente (dopo l’accesso agli Archivi segreti di Stato a Mosca dove era custodita la documentazione dei militari italiani) che il soldato Renato Niccolini, già dichiarato disperso, era stato catturato dalle FF.AA. Russe il 17/01/1943 a Rossoch, ed internato nel campo n 159 Odessa – Rep Ukraina, ove è deceduto. La salma di Renato non è stata mai recuperata in quanto i sovietici avevano sepolto i caduti nelle fosse comuni.
Con il ritrovamento del piastrino di riconoscimento, è come se fosse tornato definitivamente a casa assieme a chi non c’è più ed ai familiari ancora in vita.
Attualmente i nipoti diretti sono: Niccolini Renata, nata nel 1943 che porta il nome di Renato in sua memoria, e Niccolini Mara (1949), figli di Rutilio. Rigacci Eusebio e Rigacci Dino, figli di Emilia Niccolini Orlando, Marisa, Mario figli di Rutilia

Questo il programma delle iniziative del 4 novembre:
ore 09,00 Piazza Boccaccio – S. Messa nella Chiesa di San Tommaso in onore ai Caduti e ai
Dispersi di tutte le guerre.
ore 10,00 Piazza della Libertà – Deposizione della corona al sacello dei Caduti.
ore 10,30 Piazza dei Macelli, “Centro I Macelli” – Consegna ai famigliari del “Piastrino di Riconoscimento” del Soldato Autiere Niccolini Renato disperso in Russia durante la Seconda
Guerra Mondiale.
ore 12,00 Fiano, Piazza Gasparri – Deposizione della corona al Monumento dei Caduti.




La celebrazione del ‘Giorno della vittoria’ a Fucecchio

Come ogni 4 novembre anche quest’anno il Comune di Fucecchio celebrerà la ricorrenza del giorno della vittoria della Prima guerra mondiale avvenuta il 4 novembre 1918. Domani, in occasione del 96° anniversario, la cerimonia, che si terrà alle ore 11, prevede il raduno delle autorità e delle associazioni di fronte al Monumento ai Caduti in Piazza XX Settembre e, a seguire, la deposizione di una corona di alloro da parte del sindaco Alessio Spinelli.
La celebrazione sarà anche l’occasione per ricordare, oltre ai caduti di tutte le guerre, l’impegno delle forze armate italiane impegnate in tante parti del mondo in difesa della pace e a sostegno delle popolazioni civili.




4 novembre: a Campiglia Marittima e Venturina Terme il ricordo dei caduti

4 novembre CampigliaMartedì 4 novembre, giorno dell’unità nazionale si celebra nel Comune di Campiglia Marittima (Livorno) con le cerimonie istituzionali durante la mattinata. L’amministrazione ha previsto per la stessa data, con orario diversificato, un programma di celebrazioni istituzionali sia nel capoluogo sia a Venturina Terme. Alle ore 9.00 a Campiglia Marittima nella Chiesa Parrocchiale di San Lorenzo ci sarà la celebrazione Santa Messa e alle ore 10.00 in Piazza Gallistru la deposizione corona di alloro ai caduti. Alle ore 10.30 la celebrazione si sposta a Venturina Terme dove in Largo Sbarretti le autorità deporranno la corona di alloro ai caduti. La cittadinanza è invitata a partecipare.




Presentazione del volume di Marco Rossi, Gli ammutinati delle trincee, a Pisa

Martedì 4 novembre, ore 17, presso la libreria Tra le righe di Pisa (via Corsica 8), il primo degli eventi organizzati nel mese di novembre dalla Biblioteca Franco Serantini. Alessandro Breccia dell’Università di Pisa presenterà il volume di Marco Rossi Gli ammutinati delle trincee. Dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale. 1912-1918, appena uscito da BFS edizioni. Con la partecipazione dell’autore.

 

In allegato la locandina dell’evento




La fontana “Riti di primavera” il capolavoro di Jorio Vivarelli realizzato in collaborazione con Oskar Stonorov e ispirato alle “Le Sacre du Printemps” di Igor Stravinskij.

Sono trascorsi cinquant’anni da quando nel dicembre del 1964 Jorio Vivarelli vinse il Concorso Internazionale bandito dalla Città di Philadelphia e dal Fairmount Park Association  con il progetto, elaborato in collaborazione con gli architetti Stonorov e Haws, di una grandiosa fontana destinata al centro urbano di quella città. L’opera allora si affermò per la sua straordinaria innovazione formale tratta com’è dai motivi ispirati ad un’opera di Stravinskij “La sagra della primavera”, sorprende ancora oggi quanti, come il critico Ragghianti, hanno potuto ammirarne “la rotazione centrifuga dei corpi quasi, un rito di danza nel contesto delle forme scultoree”.

Chi era Oskar Stonorov? Scopriamolo guardando il suo ritratto

Jorio Vivarelli ritrae l’architetto Oskar Stonorov subito dopo aver appreso della sua precoce scomparsa in seguito ad un disastroso incidente aereo nel maggio del 1970. Si tratta di un ritratto che Vivarelli tiene in casa fino alla fine dei suoi giorno e che entra nella collezione della Fondazione pistoiese, a lui intitolata, solo dopo la scomparsa dell’artista pistoiese avvenuta il 1 settembre del 2008. Si tratta di un ritratto teso ad evocare la personalità dell’amico architetto Oskar Stonorov nato nel 1905 a Francoforte sul Meno figlio di padre russo, poi naturalizzato statunitense. Bruno Zevi nel numero speciale de «L’architettura cronache e storia» del giugno 1972 lo descrive dotato di “una personalità multiforme, straordinariamente energica e incisiva”; a sua volta Frederick Gutheim nella stessa rivista scrive: «Stonorov era uno sportivo oltre che un artista, andava a cavallo, giocava a tennis, nuotava. Guidava una delle auto di moda dell’epoca, una Moon. Era pianista dotato, frequentava le sale da concerto come i nights. La sua formazione cosmopolita era rafforzata dalla conoscenza di quattro lingue, ma non si può dire che venisse ammirato dagli americani. Era ben accetto da coloro che avevano familiarità con il mondo dell’arte, come Lewis Mumford, e dall’influente circolo di persone che si raccoglievano intorno al Museum of Modern Art di New York».

Vivarelli traduce la “straordinaria energia” dell’amico concentrandosi nello sguardo pungente, nelle sopracciglia ben alzate, nelle pupille che sembrano schizzar fuori dalle orbite, aggiunge poi un sorriso-smorfia per sottolineare quanto fosse puntiglioso, critico e attento verso se stesso e  verso gli altri. Il lungo collo infine, sottolinea la postura eretta e un’andatura scattante, propria di chi affronta la vita di petto. Si direbbe, guardando il ritratto, che Stonorov non era certo, a prima vista, un soggetto, affabile!

Stonorov era stato tra i primi a scegliere la frontiera americana dopo aver studiato al Polytechnique di Zurigo e aver lavorato nello studio di Andrè Lurcat a Parigi dove fece amicizia con Willy Boesiger e Giovanni Vedres con i quali più tardi collaborò al riordino degli archivi di Le Corbusier e partecipò, sotto la sua diretta supervisione, alla stesura dei testi che composero «L’opera completa di Le Corbusier et Pierre Jeanneret» il cui primo volume fu pubblicato nel 1929. In quell’anno Stonorov si stabilì in America, prima a New York nello studio di Harvey Corbett poi, a Philadelphia, dove nel 1930 aprì uno studio con i 6.000 dollari che si era aggiudicato piazzandosi al secondo posto, con il tedesco Alfred Kastner, nel concorso per il Palazzo dei Soviets a Mosca.

A Philadelphia realizzò il primo progetto pubblico di edilizia del New Deal, dedicato a un eroe del sindacalismo Carl Mackley Houses, che fu salutato con favore da Henry Wright e Lewis Mumford in un articolo della rivista «Fortune».

Successivamente disegnò con George Howe e Louis Kahn un piano residenziale per alcune città della Pennsylvania. Con Kahn nel 1943 scrisse «Why City Planning Is Your Responsibility» e nel 1944 «You and Your Neighborhood… A Primer for Neighbohood Planning».

L’anno in cui Stonorov incontrò Vivarelli era il 1951 allorché, assieme a Carlo Ludovico Ragghianti, si stava occupando di allestire a Palazzo Strozzi una mostra antologica dedicata a Frank Lloyd Wright che ritornava in Italia per ricevere a Firenze la cittadinanza onoraria e a Venezia la laurea honoris causa. Quella mostra ebbe il merito di far conoscere all’Italia la grandezza di Wright e l’architettura cosiddetta “organica”.

La passione di Stonorov per la scultura lo portò a incontrare Renzo Michelucci recandosi una domenica mattina nella sua fonderia a Pistoia. Jorio, che vi lavorava, ricordò così quel loro primo incontro. «Era domenica mattina, dovevo consegnare un lavoro e stavo facendo ore di straordinario. Sentii suonare alla porta, all’inizio feci finta di niente ma poi la scampanellata riprendeva con ancora più insistenza. Mi alzai molto contrariato e aprii la porta, vidi un uomo alto, calvo con due spalle da lottatore. “Sono l’architetto Stonorov mi faccia entrare”. “Qui lei non mette piede se non chiede il permesso al Cavalier Renzo Michelucci, la sua casa è quella là” e richiusi la porta mentre questi continuava a replicare. “Lei non sa chi sono io!” Non passò neanche dieci minuti che Stonorov tornò in fonderia con Michelucci rosso per la rabbia».

Il secondo incontro tra Stonorov e Vivarelli avvenne all’inaugurazione della mostra di Wright a Firenze. Da quel momento fra i due nacque un’amicizia che durò quindici anni e permise a Vivarelli, di lì a poco, di lavorare negli Stati Uniti dove insieme progettarono e realizzarono grandi opere. Stonorov, come Michelucci, nutriva un’attenzione particolare nei confronti dei problemi legati all’edilizia delle comunità in genere e dei lavoratori in specie. La sua idea era supportata dal convincimento che l’architettura potesse migliorare le condizioni di vita dell’uomo. Stonorov che si definiva «lecorbusiano per intelletto, wrightiano per istinto e toscano di adozione».

Fu così che Vivarelli e Stonorov realizzarono per Walter Reuther, presidente del grande United Auto Workers Union, il Villaggio nel Black Lake (UAW Family Center Education) che doveva coinvolgere in “toto” la vita del lavoratore e rendere umana e gradevole la vita dei workers.

Sempre ispirato dal concetto di un’arte al servizio della comunità, Stonorov negli anni Sessanta, invita Vivarelli, appena giunto negli Stati Uniti, a pensare a sculture e monumenti che stessero nelle piazze come punti d’incontro degli spazi urbani nelle nuove città. Fu così che Stonorov coinvolse Vivarelli nel progetto per la realizzazione di un quartiere a Philadelphia costruito secondo i concetti pensati da Reuther, un quartiere dove le varie classi sociali si fondevano senza entrare in conflitto, rispettose ognuna del proprio ruolo.

Adamo e evaL’affinità tra Stonorov e Vivarelli nasceva dal fatto che il primo, avendo studiato presso lo scultore Aristide Maillol, ammirò subito la forza della modellazione plastica e la grande abilità manuale di Vivarelli e quindi insieme modellarono fontane come quella chiamata “Tuscan Girls” per il Palazzo Plaza in Benjamin Franklin Parkway, il bronzo “Adamo ed Eva” sempre a Philadelphia, la fontana “Le Bagnanti” per la piazza dello Stephen College nella città di Columbia nel Missouri.

 Il capolavoro indiscusso dei due amici, Vivarelli-Stonorov è “Riti di Primavera” del 1964 opera che risulterà vincitore del concorso internazionale indetto negli Stati Uniti dalla Città di Philadelphia per l’erezione di un grande monumento nella centralissima Piazza Kennedy.  La giuria era composta da nomi prestigiosi quali gli scultori Norman Rice nonché da Philp Price, presidente della Fairmont Park Art Association e già nel dicembre del 1963la stampa ne dà il primo annuncio ricordando che «… a vincere il concorso, cui avevano partecipato 200 artisti di tutto il mondo e un solo italiano, è stata l’opera “Riti di primavera” che trae ispirazione da motivi del compositore russo Stravinskij. Ha un’altezza di 9 metri, un diametro di 30 ed è composta da grandiosi gruppi bronzei. Sorgerà nel moderno centro di Philadelphia accanto alle opere che da venti anni si stanno attuando in questa città secondo lo sviluppo urbanistico e artistico previsto dal Piano Regolatore»

Riti di primaveraDobbiamo purtroppo ricordare che la nuova amministrazione della città di Philadelphia non riuscì ad inserire il progetto nel nuovo piano finanziario e lo abbandonò. Per tale ragione il modello di Riti di primavera è rimasto finora un soggetto di grande respiro scenico conservato dall’autore. Un vero peccato che nessun Ente locale o regionale abbia ancora pensato a trasformarlo in un monumento pubblico che, per la sua straordinaria bellezza, adornerebbe anche il più importante spazio urbano.

La scultura “Riti di primavera” prende ispirazione da “Le Sacre du Printemps” composta da Igor Stravinskij che è stata definita la “Nona sinfonia del XX secolo”.

La prima rappresentazione della “Sagra della primavera” del compositore russo ebbe luogo il 28 maggio del 1913 al Theatre des Champs Elisee di Parigi sotto la direzione di Pierre Monteaux con una orchestra tra le più colossali mai viste prima d’allora, infatti, oltre al folto stuolo di archi, Igor Stravinskij inserì ottavini, flauti, oboi, il corno inglese, clarinetti, fagotti, 8 corni, 4 trombe, tromboni, tube, timpani, grancasse, tamburelli, piatti, cimbali antichi e uno strumento sudamericano chiamato guiro.

Da una tale massa di strumenti scaturì una “granitica sonorità orchestrale” che, spazzando via le tante Primavere sdolcinate del passato, produsse un nuovo concetto di bellezza fatto di armonie e sonorità incredibili che s’abbattevano violentemente sull’ascoltatore con una sonorità brutale, selvaggia e aggressiva per rappresentare  le forze scatenate dalla natura.

Stravinskij descrisse una primavera che nasce dalle viscere della terra, con forze primordiali cito le sue parole“si contorcono negli spasmi della riproduzione”. I barbari e crudeli riti della Russia pagana celebravano l’avvento della primavera e culminano con il sacrificio della vergine.

Il capolavoro appartiene al periodo stilistico fauvista del compositore russo di origine poi naturalizzato francese e in seguito statunitense. Nato nel 1882 lasciò la Russia per la prima volta nel 1910 dirigendosi a Parigi per assistere al balletto ”L’uccello di fuoco”. Durante il soggiorno compose tre importanti opere per balletti russi; “Uccello di fuoco”, “Petruska” e “La sagra della primavera”.

Le tre opere segnano l’evoluzione del cammino stilistico di Stravinskij: “Uccello di fuoco” ha uno stile che si accosta a quello di Korsakov, mentre “Petruska” è l’avvento della bidimensionalità sonora per giungere, infine, alla dissonanza polifonica e selvaggia della “Sagra della primavera”. Come disse lo stesso Stravinskij, “con queste prime l’intento che riposto dietro a queste opere era quello di “a quel paese” il pubblico”. E ci riuscì benissimo, infatti la premiere della Sagra del 1913 si trasformò in una sommossa, come più oltre vi dirò.

Costume di scenaNel balletto il compositore mette in scena un rito pagano di inizio primavera tipica della Russia antica. Una giovinetta viene scelta per ballare fino allo sfinimento e la sua morte era un sacrificio offerto agli dei per renderli propizi in vista della nuova stagione.

Sono molti i passaggi famosi, ma due appaiono degni di particolare menzione: in primo luogo il motivo di apertura del fagotto con note portate all’estremo del suo registro, quasi fuori estensione, per simulare un risveglio di primavera, in secondo luogo il poliaccordo di otto note eseguito dagli archi e accentuato da corni in controtempo.

La ritmica ossessiva unita alla politonalità suscitò scandalo nella Parigi dell’epoca.

L’azione del balletto come la musica si struttura in due parti: la melodia del fagotto sembra provenire da profondità ancestrali accompagnata da tremolii e trilli che evocano il fremito della natura che sboccia e germoglia. Poi irrompe un suono martellante e sincopato formato da accordi sovrapposti (settima di mi bemolle accordo perfetto di fa bemolle maggiore) che introducono la Danza degli adolescenti.

È come una flagellazione, un corto circuito dal quale tutto scaturisce e prende vita tramite un ritmo ossessivo, implacabile che attraversa gli episodi delle Città rivali, del Corteo del Saggio e dell’Adorazione della terra.

Nella seconda parte il sacrificio inizia con un preludio nel quale l’intensità della linea melodica evoca un’atmosfera triste e meditativa.

Il Saggio e le fanciulle immobili guardano il fuoco davanti alla collina sacra: devono scegliere l’Eletta, colei che sarà sacrificata per propiziare la fertilità della Terra.

Subentrano poi violenti accordi che con cadenza martellante introducono l’episodio dei “Cerchi misteriosi degli adolescenti” mentre incalza la danza frenetica della Glorificazione dell’Eletta.

Arriva, infine, la danza sacrificale dell’Eletta.

La danza cresce vorticosamente, il ritmo diventa parossistico, tutti gli uomini sono selvaggiamente eccitati, la musica gronda nel più profondo del proprio essere (così scrisse Bechèr).

Il rito pagano nella inesorabile logica del sacrificio ci colpisce con la sua barbara violenza riportandoci alle origini ancestrali dell’esistenza umana.

Jean Cocteau parla di dolori dell’infanzia della terra e, parafrasando un’opera poetica di Virgilio definisce la partitura della Sagra una “Georgica della preistoria”.

La prima esecuzione del brano in quel lontano 29 maggio del 1913 provocò una violentissima reazione del pubblico. La musica fu coperta dai fischi e dalle grida.

Stravinskij fuggì dal teatro e ma fu inseguito, raggiunto e malmenato. Sfinito e con una vertebra rotta si ammalò a tal punto da essere ricoverato in ospedale.

Riporto qui di seguito un efficacissimo commento su quella serata fatto dallo stesso Stravinskij.

“I danzatori avevano provato per mesi e sapevano benissimo quel che facevano, anche se spesso quel che facevano non aveva niente a che vedere con la musica. ” Conterò fino a quaranta mentre tu suoni, – mi diceva Nizinskij (il maestro di ballo),- e vedremo dove ci incontreremo”. Non arrivava a capire che, benchè potessimo ad un certo punto incontrarci, questo non voleva dire necessariamente che fossimo andati insieme durante il percorso. Anche i danzatori seguivano più la battuta di Nizinskij che quella della musica. Nizinskij contava in russo, naturalmente, e poiché i numeri russi oltre il dieci sono polisillabi nei tempi veloci né lui né gli altri potevano tener dietro alla musica. Fin dall’inizio della rappresentazione si sentirono moderate proteste contro la musica. Poi, quando il sipario si alzò sul gruppo di fanciulle della “danza degli adolescenti”, la tempesta scoppiò. Dietro di me gridavano Taci Basta Basta le più agitate erano, naturalmente, le signore più eleganti di Parigi. Visto che il tumulto continuava e, pochi minuti dopo lasciai furioso la sala… Arrivai dietro il palcoscenico, dove vidi Diaghilev che faceva manovrare le luci in sala nell’ ultimo sforzo di far tornare la calma in teatro. Per tutto il resto della rappresentazione stetti dietro le quinte vicino a Nizinskij reggendolo per le code del frac, mentre lui in piedi su una sedia urlava dei numeri ai danzatori come un timoniere.

La danza cresce vorticosamente, il ritmo diventa parossistico, tutti gli uomini sono selvaggiamente eccitati, la musica gronda nel più profondo del proprio essere (così scrisse Bechèr). Il rito pagano nella inesorabile logica del sacrificio ci colpisce con la sua barbara violenza riportandoci alle origini ancestrali dell’esistenza umana.

Jean Cocteau parla di dolori dell’infanzia della terra e, parafrasando un’opera poetica di Virgilio definisce la partitura della Sagra una “Georgica della preistoria”. La prima esecuzione del brano in quel lontano 29 maggio del 1913 provocò una violentissima reazione del pubblico. La musica fu coperta dai fischi e dalle grida.

Stravinskij fuggì dal teatro e ma fu inseguito, raggiunto e malmenato. Sfinito e con una vertebra rotta si ammalò a tal punto da essere ricoverato in ospedale. Riporto qui di seguito un efficacissimo commento su quella serata fatto dallo stesso Stravinskij.

“I danzatori avevano provato per mesi e sapevano benissimo quel che facevano, anche se spesso quel che facevano non aveva niente a che vedere con la musica. ” Conterò fino a quaranta mentre tu suoni, – mi diceva Nizinskij (il maestro di ballo),- e vedremo dove ci incontreremo”. Non arrivava a capire che, benchè potessimo ad un certo punto incontrarci, questo non voleva dire necessariamente che fossimo andati insieme durante il percorso. Anche i danzatori seguivano più la battuta di Nizinskij che quella della musica. Nizinskij contava in russo, naturalmente, e poiché i numeri russi oltre il dieci sono polisillabi nei tempi veloci né lui né gli altri potevano tener dietro alla musica. Fin dall’inizio della rappresentazione si sentirono moderate proteste contro la musica. Poi, quando il sipario si alzò sul gruppo di fanciulle della “danza degli adolescenti”, la tempesta scoppiò. Dietro di me gridavano Taci Basta Basta le più agitate erano, naturalmente, le signore più eleganti di Parigi. Visto che il tumulto continuava e, pochi minuti dopo lasciai furioso la sala… Arrivai dietro il palcoscenico, dove vidi Diaghilev che faceva manovrare le luci in sala nell’ ultimo sforzo di far tornare la calma in teatro. Per tutto il resto della rappresentazione stetti dietro le quinte vicino a Nizinskij reggendolo per le code del frac, mentre lui in piedi su una sedia urlava dei numeri ai danzatori come un timoniere.

Articolo pubblicato nel novembre 2014.




Il treno per Vallombrosa

La stazione di Sant’Ellero, in un edificio di uno stile che, per la nostra zona, risulta così originalmente alpino, fu costruita nel 1893, lungo il percorso verso Roma, come interscambio della linea per Vallombrosa. Adesso questa linea non esiste più; è stata chiusa nel 1924 e smantellata definitivamente nel 1937. Oggi ne sono rimaste pochissime tracce. Eppure quella ferrovia restò in esercizio per oltre trent’anni alimentando una realtà turistica di grande importanza per il periodo.

Per la medicina ottocentesca sembrava non esistesse malattia che un cambiamento d’aria non potesse guarire o lenire. Così, soprattutto se i pazienti erano facoltosi, un soggiorno in una località di villeggiatura poteva essere il rimedio per ogni male, dalla semplice spossatezza a malattie ben più gravi. Si iniziò con le località termali, poi marinare, infine acquistò credito anche la villeggiatura in montagna. Nacquero così le “stazioni climatiche” o “estive” come si diceva allora. E alberghi e strutture apposite sorsero ovunque sulle montagne svizzere e austriache.

Doveva essere per prendersi un periodo di riposo che Giuseppe Telfener decise di soggiornare nell’estate del 1890 a Vallombrosa. La località gli era stata consigliata come “amena, saluberrima e fresca”. Inoltre era perfetta perché gli consentiva di non allontanarsi troppo dai suoi impegni di lavoro a Roma.
Telfener era infatti un imprenditore, aveva un gran senso degli affari e nella sua vita ne aveva dato ampia prova. Era nato a Foggia nel 1843 da una famiglia abbiente. Emigrato in Argentina nei primi anni ’70  fonda un’impresa di costruzioni ferroviarie e nel 1874 riesce a vincere l’appalto per la costruzione di quella che diventerà la più lunga linea ferroviaria dell’America meridionale, La Córdoba-Tucumán. L’Argentina attraversa un periodo di profonda crisi finanziaria e il governo si vede costretto a rifiutare i finanziamenti promessi per le opere pubbliche. Eppure Telfener manda avanti lo stesso la sua opera. Contatta numerose banche e riesce ad ottenere i finanziamenti per concludere i lavori nel 1876. Per questa linea ferroviaria, fonte di lustro per tutta l’ingegneria italiana, Telfener riceve il titolo di conte dal re d’Italia Vittorio Emanuele II. Ma non finisce qui. Dopo aver sposato la figlia di un ricco finanziere americano, Telfener si lancia nella sua seconda impresa ferroviaria. È il 1881 ed inizia la costruzione di una linea di 560 km fra Richmond e Brownsville nel Texas. La costruzione che durerà 5 anni ha anche un tratto bizzarro. Non sappiamo bene perché ma Telfener oltre alla manodopera locale fa arrivare 1200 operai dall’Italia. I giornali locali ribattezzano la linea ferroviaria Macaroni line.

Quando Telfener soggiorna a Vallombrosa nel 1890 è rientrato da poco in Italia, precisamente a Roma. Ha passato gli ultimi tempi ad occuparsi delle sue proprietà e di altre attività finanziarie e forse, possiamo solo immaginare, a congetturare su quale potesse essere la sua prossima impresa. Vallombrosa folgora Telfener. Rimane colpito dalle “ignorate bellezze del luogo […] era un vero peccato anzi delitto non utilizzare nella più larga e più utile misura quella inesauribile miniera di ricchezze della provvida natura”. Quando Telfener scriveva queste parole Vallombrosa infatti aveva iniziato a rivevere visitatori solo negli ultimi anni. Erano stati costruiti due piccoli alberghi ed era stata aperta una strada rotabile fino a Tosi che permetteva di raggiungere in carrozza Firenze in 4 ore e mezzo. Ma Vallombrosa restava ancora una meta ricercata con pochi turisti a disturbare la quiete secolare della famosa abbazia e del più recente Regio Istituto Forestale. Telfener si fa venire in mente un’idea: costruire una ferrovia per raggiungere Vallombrosa e costruirvi un grande albergo adatto ad ospitare un flusso di turisti come quello delle stazioni climatiche alpine.
Ma questa volta non è come in passato: devono essere reperiti tutti i finanziamenti, e va trovato l’avallo governativo per il progetto. Non è semplice ma Telfener ci riesce, illustra il suo progetto al ministro dell’agricoltura Bruno Chimirri e trova in lui un convinto sostenitore. Arriva la promessa di finanziamenti: dal comune di Firenze, da quello di Reggello e poi dal Governo. Telfener si dà da fare, illustra i benefici economici per la zona e per l’Italia, acquista dei terreni e vi fa edificare chalet importati dalla Norvegia. Presenta un progetto che prevede una nuova stazione di interscambio in località S.Ellero sulla linea Firenze-Roma e una stazione di arrivo in località Saltino per non disturbare troppo la quiete di Vallombrosa. Davanti alla stazione del Saltino ci sarà anche un nuovo moderno albergo dotato di 100 camere, l’Hotel Stazione, oggi Grand Hotel Vallombrosa. Il progetto viene approvato definitivamente a livello governativo il 21 maggio 1892. Può iniziare la costruzione.

I lavori vengono completati nel tempo record di quattro mesi, a fine settembre 1892. La linea ha una lunghezza di 8 km e in 57 minuti porta i passeggeri al Saltino coprendo un dislivello di 854 metri. Ci sono due fermate intermedie lungo il tragitto: Donnini e Filiberti e oltre alla salita dei passeggeri permettono il rifornimento di acqua e carbone. Non è ancora pronta la stazione passeggeri a S.Ellero. Verrà costruita l’anno successivo. Al viaggio inaugurale la stampa rimane colpita dalle locomotive a vapore dalla forma inclinata che spingono le carrozze passeggeri. Ancora di più impressionavano le pendenze, fino al 27%, che si riuscivano a superare grazie alla ferrovia a cremagliera. All’hotel viene offerto un grandioso pranzo di benvenuto a cui vengono invitate le autorità da tutta Italia. Parte una grande campagna pubblicitaria che parla di Vallombrosa come della “Svizzera italiana [a] 1000 metri sul mare, [con] secolari foreste di abeti, clima balsamico [e] splendido panorama”. La risposta di pubblico è entusiasta. L’albergo stenta a soddisfare la richiesta turistica. Negli anni successivi Vallombrosa avrà ospiti illustri fra i quali Milton che a Vallombrosa dedicò alcuni versi del suo Paradise Lost, oppure Gabriele D’Annunzio che nel 1898 descriveva il paesaggio ammirandolo da un balcone panoramico al Saltino: “Tutta la valle ondulata nella sua corona di monti cerulei ha un’apparenza magica, ha il carattere d’una visione mistica. Un vapore tenue vi si diffonde e le ombre delle nubi vi divengono indicibilmente molli. Le case bianche, le città lontane, le strade tortuose formano una specie di sogno luminoso. Il ciglio del poggio più vicino è reale, esistente, nettamente disegnato; ma tutto il resto, a contrasto, è irreale, inesistente, magico”.

I problemi però sono dietro l’angolo. La costruzione della ferrovia ha avuto costi molto superiori al previsto. La società fondata da Telfener è costretta a ricorrere a continui prestiti e si indebita fortemente con le banche. E per quanto l’afflusso turistico sia molto buono è limitato ai soli mesi estivi. I debiti rischiano di strozzare la società e si fa fatica a pagare gli stipendi. Ci sono più agitazioni e scioperi fra il personale. In questo periodo così difficile Telfener viene meno nel 1897. La società viene rilevata da Francesco Benedetto Rognetta. La situazione sembra inizi a migliorare e il passivo finanziario a dileguarsi. Ma è in agguato un nuovo colpo per le finanze e l’immagine della società ferroviaria: il Grand Hotel Vallombrosa viene quasi completamente distrutto da un incendio nel 1902. Comunque grazie ai rimborsi delle assicurazioni l’albergo viene velocemente ricostruito. Gli anni della Belle epòque sono i più floridi e la società ritorna in attivo fino a quando nel 1914 non esplode la prima guerra mondiale e nel 1915 l’Italia scende in campo accanto alle truppe dell’Intesa.

Con la Grande Guerra il flusso di turisti è destinato a calare vertiginosamente e il prezzo del carbone a raggiungere vette proibitive. Si prova con la lignite estratta a S. Barbara, ma non ha la stessa resa e inoltre la combustione provoca continue scintille che rischiano di raggiungere le carrozze passeggeri. Le corse del treno per Vallombrosa vengono fermate e potranno riprendere solo nel 1919.
Ma questo punto quello che non avevano potuto la sfortuna prima e gli eventi bellici poi riuscirà all’evoluzione dei costumi, della società e soprattutto della tecnologia. La neocostituita SITA, Società Italiana Trasporti Automobilistici già prima della guerra aveva inaugurato dei trasporti di prova per Vallombrosa con partenza da Firenze e più tappe intermedie. Il servizio viene ora potenziato e si dimostra velocemente più rapido e più economico di quello ferroviario. La società ferroviaria tenta tutti i mezzi per sopravvivere, compreso un servizio di pullman alternativo a quello della SITA. Ma tutto invano. L’unica speranza potrebbe venire dall’elettrificazione della linea, ma non ci sono le disponibilità finanziarie per farlo. Le corse del treno vennero definitivamente fermate nel 1924. La linea venne smantellata nel 1937 e il ferro dei binari riciclato da una società milanese.

Ad oggi rimane pochissimo: la stazione di Sant’Ellero con i suoi tetti spioventi e le panchine in ghisa con inciso R.A, Rete Adriatica, la stazione di Filiberti che adesso è un rudere in stato di completo abbandono, un sentiero CAI lungo il tratto dove erano posati i binari, la stazione di Saltino adesso abitazione privata denominata Villa Rognetta e il vecchio Grand Hotel Vallombrosa, ancora oggi attivo durante la stagione estiva.

Articolo pubblicato nel novembre 2014.




Inaugurazione della Biblioteca Morvidi di Manciano

Foto RocchiIl Comune di Manciano e il Circolo Arci Manciano invitano le istituzioni, le associazioni e la cittadinanza all’inaugurazione della Biblioteca Comunale.

…dalle ore 16.00
Nuovo Cinema Moderno di Manciano:
Saluto delle istituzioni, presentazione del progetto di recupero e del nuovo allestimento dei locali
…a seguire visita alla sede della biblioteca.

Interverrà Luciana Rocchi, Direttore dell’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea.

L’ISGREC da tempo ha in corso una collaborazione con il Comune di Manciano e con un gruppo di giovani (ARCI Manciano), cui il Comune ha affidato la getsione della biblioteca. L’Istituto ha curato il riordino e l’inventariazione dell’archivio della Cooperativa di consumo di Manciano, attualmente conservato nella sede ARCI.

comune di Manciano:
0564625342 biblioteca@comune.manciano.gr.it
Circolo arci Manciano:
0564629591 arci.manciano@gmail.com