“Il babbo disperso in Russia”

Domani martedì 16 dicembre alle 17 nella sala Gatteschi della biblioteca Forteguerriana si terrà la presentazione del libro di Giorgio Lavorini e Riccardo Maffei Il babbo disperso in Russia – 21 agosto 1942, recentemente pubblicato dalla casa editrice Vannini di Buggiano. All’incontro intervengono l’autore e storico Riccardo Maffei, e Giorgio Petracchi docente all’università degli studi di Udine e presidente del comitato scientifico della rivista “Storialocale”.
Il volume ricostruisce la vicenda del sergente Armando Lavorini, sottufficiale della Valdinievole durante la campagna in Russia, al seguito della divisione Sforzesca. Non poté tornare a casa a causa dell’offensiva sovietica e nell’agosto del 1942 la sua vita si fermò a Simovskij.
L’iniziativa rientra nel ciclo di incontri “Leggere, raccontare, incontrarsi”, il cui programma è disponibile nella pagina Internet degli eventi della biblioteca Forteguerriana www.forteguerriana.comune.pistoia.it




I giorni dell’emergenza. Firenze, Palazzo Pitti estate 1944

L’Istituto Storico della Resistenza in Toscana e MemorySharing, in occasione della mostra “1940-1944 – Firenze in guerra” hanno lanciato un appello ai cittadini di Firenze a condividere i propri ricordi personali e di famiglia. In molti hanno risposto. Nuovi scritti, nuove immagini, nuove testimonianze. I frammenti di memoria individuale raccolti, che aggiungono tasselli importanti alla memoria collettiva, saranno presentati in un evento speciale aperto a tutti (ingresso libero) sabato 20 dicembre ore 16.30 al Rondò di Bacco, Palazzo Pitti.

Alcuni di questi fanno parte delle vicende che hanno come scenario Palazzo Pitti che fra i mesi di luglio e agosto del 1944 diviene il riparo di moltissime famiglie sfollate dalle loro case sulle vie dei Lungarni e delle altre zone del centro. Più di 5000 persone di tutte le classi sociali occupano per alcune settimane la reggia medicea, tra la disperazione di quello che è stato lasciato, la paura della guerra che circonda il palazzo, la speranza dell’arrivo degli alleati, la vita quotidiana in condizioni di emergenza.

 Vedremo tra le nuove testimonianze raccolte quelle di Fiorenza Baroni, figlia di Nello Baroni, autore del “diario dei 5000” e di una preziosa documentazione fotografica di quei giorni, Massimo Muzzarelli Verzoni, adolescente spettatore privilegiato degli eventi della piazza e figlio del medico che mette in piedi in pochi giorni un ospedale di guerra nella chiesa di San Felice; Fiorenza Stagi, la bambina che si è riconosciuta nella foto del manifesto (almeno crede), per cui quei giorni erano “un’avventura, un gioco di re, regine e principesse tra le stanze del palazzo e le statue del giardino”.

 E sentiremo Il documentario sonoro “I giorni dell’emergenza” (25’), di Filippo Macelloni e Lorenzo Garzella, è un’esperienza di grande forza evocativa che racconta quei momenti. Nel buio della sala un intreccio di suoni, voci, allarmi, boati permette di calarsi nell’atmosfera dei giorni precedenti alla liberazione del centro di Firenze, quando le distruzioni tedesche, lo sfollamento, la paralisi della vita cittadina segnarono l’ulteriore aggravarsi delle condizioni di vita della popolazione. Un tempo sospeso, in attesa della liberazione.

SUONI DI GUERRA

un documentario sonoro di Filippo Macelloni e Lorenzo Garzella

una produzione: Acquario della Memoria & NANOF

montaggio: Domenico Zazzara

con le voci di: Massimo Salvianti,

e di: Federico Guerri, Patrizia Hartman, Alessandro Poletti, Margherita Guerri




20 dicembre 1943. Il rastrellamento del Gabbro (Livorno)

All’alba del 20 dicembre 1943 un gruppo di carabinieri della stazione di Gabbro (Rosignano Marittimo, Livorno) circondò una cascina poco fuori dal centro abitato. L’obiettivo della retata erano tre famiglie ebree recentemente sfollate da Livorno e arrivate da poche settimane nel piccolo centro. I Bayona, i Baruch e i Modiano, in totale diciassette persone, furono tratti in arresto senza alcuna difficoltà. Nella colonica dove si erano sistemate, le tre famiglie si erano dovute adattare a vivere in ristrettezze: «era una stalla, s’è preso nella macchia dei legni, s’è fatto dei letti, insomma ci si arrangiava a quella maniera lì»; al Gabbro si sentivano però al sicuro, «a quell’epoca lì non ci passava nemmeno per la mente di andare da un’altra parte». Isacco Bayona ha lasciato un resoconto dell’arresto particolarmente drammatico nella sua semplicità: «Era ’na domenica, ci siamo trovati con degli amici del Gabbro e s’è fatta ’na festicciola. Ero giovane…s’andava a ballà. Il lunedì mattina, erano le cinque, hanno circondato tutto questo casolare coi mitra spaniati. C’hanno preso gli uomini soli, le donne le hanno lasciate sta’ […]. C’hanno portato alla caserma dei carabinieri del Gabbro, c’hanno tenuto due giorni lì, poi il maresciallo ha dato l’ordine di andare a caricare anche le donne, le bimbe, tutte quelle che c’erano lassù al capannino, dove eravamo sfollati».

Carlo Bayona

Carlo Bayona

Uno degli elementi centrali nella vicenda del Gabbro è l’assenza dei tedeschi dalla scena del rastrellamento. «Il nostro arresto», avrebbe in seguito ricordato sempre Isacco Bayona, «è da imputare senza dubbio al maresciallo di Gabbro che era pure uno squadrista. Di sua iniziativa, forse per farsi benvolere dai tedeschi, ci arrestò tutti consegnandoci a loro». Quella di queste tre famiglie non fu una vicenda isolata. Dopo l’8 settembre, gli ebrei italiani rimasero in uno stato di sostanziale abbandono: pochi potevano immaginarsi cosa sarebbe successo loro e chi ne era cosciente raramente aveva i mezzi materiali per abbandonare il Paese. I Bayona, i Baruch e i Modiano furono anche vittime dello zelo con cui i carabinieri del Gabbro recepirono la celebre ordinanza di polizia n. 5 firmata dal ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi e trasmessa a tutti i capi delle province della Repubblica Sociale Italiana (RSI) il 30 novembre del 1943:

A tutti i capi provincia, comunicasi, per l’immediata esecuzione, la seguente ordinanza di polizia che dovrà essere applicata in tutto il territorio di codesta provincia: Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengono e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili e immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica sociale italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.

Il 12 dicembre, a meno di due settimane da questa circolare, le prefetture ricevettero un nuovo telegramma ancora più perentorio nei toni: «In applicazione recenti disposizioni», scriveva il capo della Polizia, «ebrei stranieri devono essere consegnati tutti ai campi di concentramento. Uguale provvedimento deve essere adottato per ebrei puri italiani». Mentre i capi delle provincie cominciarono ad allestire i campi d’internamento (talora adibendo a tale scopo le carceri o gli edifici delle comunità ebraiche), i questori iniziarono a ordinare gli internamenti. Gli arrestati del Gabbro furono tra i primi della provincia di Livorno, ma ne seguirono molti altri. Nel marzo dell’anno successivo il capo provincia, Edoardo Facdouelle, avrebbe consegnato alle autorità tedesche un gruppo composto di circa sessanta persone che aveva raccolto a Livorno.

Ritratto di gruppo

I rastrellati del Gabbro formavano un gruppo composito. Ne facevano parte: una neonata di pochi mesi (Franca Baruch), quattro bambini (Salvatore Baruch di otto anni, la piccola Flora Modiano di appena cinque anni e le sorelline Dora e Lucia Bayona, di nove e undici anni rispettivamente) e cinque adolescenti (Giosuè, Isacco e Violetta Baruch e i fratelli Bayona, Carlo e Isacco). I più anziani del gruppo erano la nonna di Flora, Gioia Perla Mano (classe 1883), e il capofamiglia dei Baruch, Mosè (classe 1889). In totale erano diciassette persone. I percorsi di quelle tre famiglie offrono uno specchio fedele delle difficoltà che vissero gli ebrei europei negli anni quaranta. I Bayona, livornesi di origine, erano rientrati in Italia solo nell’aprile 1941 provenienti da Salonicco da dove erano dovuti scappare dopo che la città era caduta nelle mani dei nazisti. I Bayona furono rimpatriati in quanto italiani dalle autorità consolari, ma questo non li avrebbe salvati dalla deportazione. Dalla stessa città greca venivano i Modiano, che erano invece giunti a Livorno qualche anno prima, nel 1933. Stesso periodo in cui anche i Baruch si erano trasferiti in Toscana dalla città turca di Smirne. Le vicende della famiglia Bayona sono rappresentative del mondo che fu spazzato via con la Shoah. «Mi’ babbo», avrebbe poi ricordato Isacco, «era vicedirettore del monopolio di tabacchi a Salonicco. Con la posizione che c’aveva si stava abbastanza bene. Io frequentavo le scuole italiane, ma ci insegnavano anche il francese; in casa parlavamo lo spagnolo, fuori il greco, è logico». Quel mondo scomparve con lo scoppio della seconda guerra mondiale e con l’inizio delle persecuzioni. L’arrivo in Italia e l’inserimento a Livorno non furono facili; Isacco, ancora ragazzino, fu costretto a dover lavorare per aiutare la famiglia: «mandavo avanti la mi’ mamma co’ le mi sorelline. All’epoca c’avevo quattordici anni, e facevo già lavori materiali quasi da uomo».

La deportazione

Nahoum_Camelia

Nahoum Camelia

L’arresto del 20 dicembre fu l’inizio di una deportazione che sarebbe finita solo cinque settimane dopo davanti ai cancelli del campo di sterminio di Auschwitz. Immediatamente dopo il fermo, quando furono cioè fermate anche le donne e i bambini del gruppo, le tre famiglie furono trasferite in una caserma a Livorno, in Via Nazionale. Da qui, svolte poche formalità, il gruppo fu trasferito a Firenze; il capo della provincia di Livorno non aveva infatti potuto organizzare un campo di concentramento nel proprio territorio e, in questa prima fase della deportazione, si “appoggiava” alla Questura di Firenze. Le tre famiglie furono prima “registrate” presso il locale comando tedesco e poi internate nel carcere cittadino delle Murate, dove ci fu una divisione tra uomini e donne. Quando le autorità ritennero di aver concentrato un numero sufficiente di ebrei, questi furono portati alla stazione di Firenze e fatti salire su dei vagoni piombati. Erano gli ultimi giorni del dicembre 1943. La tappa successiva fu il carcere milanese di San Vittore. «C’hanno assegnato una cella. Però la sera la nebbia c’entrava nei materassi, eran bagnati praticamente. Ero nella cella insieme a mi’ madre e ho sentito un boato: mi sono affacciato alla ringhiera, ho visto un omo che si era buttato da cinque piani. Ho incominciato a capire che s’andava incontro a cose brutte, infatti io, quando poi ci hanno portati via, ho cercato di scappare. Invece l’ufficiale tedesco m’è venuto incontro, mi ha dato un calcio col fucile una botta sulla mano». Dal settembre del 1943 due raggi di San Vittore erano stati riservati ai detenuti politici e agli ebrei; a gestire questa parte del carcere era stato chiamato il tedesco Helmut Klemm, membro delle SS. Le autorità italiane, in collaborazione con quelle tedesche, stavano radunando gli ebrei arrestati nelle settimane precedenti in tutto il territorio nazionale. Raggiunto il numero minimo per organizzare un convoglio i detenuti furono prelevati in massa da San Vittore e portati alla stazione centrale di Milano. «Tutti gli ebrei, la notte del 30 gennaio, vennero allineati nel grande corridoio del carcere e furono fatti sfilare dal cancello sotto le canne delle mitragliatrici», avrebbe poi ricordato uno dei presenti, «alla stazione i deportati furono portati nei sotterranei, lontano da sguardi indiscreti e caricati direttamente sui carri bestiame in sosta. Su ognuno si trovava una damigiana di acqua e un recipiente di modeste proporzioni per i bisogni corporali. Il vagone fu chiuso e sprangato e il convoglio si avviò». Le famiglie Bayona, Baruch e Modiano erano tra quei circa 600 deportati diretti verso la Polonia in un viaggio che sarebbe durato sette/otto giorni. Dei diciassette arrestati al Gabbro l’unico a tornare dal campo di sterminio di Auschwitz sarebbe stato il diciassettenne Isacco Bayona.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2014.




La strage di Natale

La strage di Natale del 1984: a trent’anni dall’evento che colpì la Direttissima il Comune di Vernio, con la collaborazione della Fondazione CDSE, organizza un’importante serata di memorie e proiezioni, alle ore 21,00 nella sala superiore ex Meucci a Mercatale di Vernio.

Intervengono:

Giovanni Morganti, Sindaco di Vernio
Giuseppe Gregori, ricercatore storico
Martino Lombezzi, documentarista e curatore del progetto “La strage di Natale”
don Andrea Bigalli, referente regionale Libera Toscana

Coordina la serata Alessia Cecconi, direttrice Fondazione CDSE




Carabinieri, da 200 anni l’Arma di tutti noi

Si inaugura sabato 20 dicembre alle 16 la mostra “Carabinieri, da 200 anni l’Arma di tutti noi”, in programma allo St.Art di via Garibaldi fino al 17 gennaio 2015. L’inaugurazione si terrà nella sala convegni del Comune, al quarto piano dell’edificio di piazza Gramsci.
In occasione dell’inaugurazione si terrà anche la cerimonia di consegna della cittadinanza onoraria di Calenzano all’Arma, conferita dal Consiglio Comunale lo scorso 28 novembre, alla presenza di autorità civili e militari. Al termine la banda dell’Ispettorato dell’Associazione Nazionale Carabinieri della Toscana eseguirà l’Inno di Mameli.
La rassegna, promossa dal Comune di Calenzano e organizzata dall’Associazione Turistica di Calenzano con il coordinamento di Agostino Barlacchi e la collaborazione dell’Associazione Nazionale Carabinieri, riassume il cammino dell’Arma iniziato nel giugno 1814 per volere di Vittorio Emanuele I Re di Sardegna, che lo fondò proprio nell’isola con lo scopo di fornire al regno un corpo di polizia.
Ci saranno mezzi d’epoca, uniformi, ricostruzioni in miniatura, illustrazioni e documenti, dalle armi dei Carabinieri dell’Azienda Pedersoli di Brescia alle cartoline d’epoca ai famosi e caratteristici calendari. L’Arma stessa parteciperà alla mostra con reperti dei propri Musei e con una sezione dedicata al lavoro dei Carabinieri oggi, dai gruppi dei Nas antisofisticazione, alla tutela del patrimonio artistico e culturale, dal Gruppo anticrimine ai Carabinieri cinofili e artificieri.
Il famoso logo simbolo dei Carabinieri (la granata fiammeggiante a tredici punte) sarà ricreato dalle Scenografie Barbaro e verrà posto all’ingresso della mostra.




“Oggi e domani”

“Pace”, “lotta al fascismo”, “democrazia” e “socialismo”: intorno a queste  parole si è sviluppato il lungo percorso umano e politico di Enzo Enriques Agnoletti che attraversa il cuore del Novecento.

Cresciuto in una famiglia della borghesia intellettuale e laureatosi in Legge con Piero Calamandrei, a cui restò sempre legato dalla frequentazione della La Nuova Italia, casa editrice animata da giovani intellettuali antifascisti, fino all’impegno dell’immediato dopoguerra ne “Il Ponte” prima come redattore fino alla direzione della rivista dopo 1956 per circa un trentennio succedendo proprio al suo maestro.

Il percorso di formazione e attività politica e intellettuale di Enzo Enriques Agnoletti è sicuramente legato al ruolo di primo piano svolto nel corso della Resistenza fiorentina e toscana nelle file del Partito d’Azione, il partito della “rivoluzione democratica” che tanta parte ebbe nell’opposizione e nella lotta al fascismo e di cui fu anche rappresentante all’interno del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN) oltre che estensore di manifesti e documenti di tale organismo. Tra questi l’ordine del giorno del 3 gennaio 1944 in cui chiede che il Ctln si costituisca come “governo provvisorio di Firenze e provincia” e quello dell’11 agosto dello stesso anno in cui si invita la popolazione all’insurrezione contro il nazifascismo.

La stampa clandestina azionista a partire dal periodico “Oggi e domani” a “La Libertà” lo vide tra i principali animatori e redattore assai attivo mentre la sua militanza antifascista lo porterà al carcere e al confino. Insieme a Carlo Ludovico Ragghianti e soprattutto Ernesto Codignola proprio nella stampa azionista tratteggia già durante la clandestinità i lineamenti di una concezione di stato democratico e federalista in netta rottura non solo ovviamente con il ventennio mussoliniano ma anche con lo stato liberale e monarchico.

Il nesso Resistenza-Costituzione-Repubblica democratica a partire dall’insegnamento di Calamandrei è da lui declinato con particolare attenzione anche ai diritti sociali oltre che civili e con una forte accentuazione di una prospettiva di trasformazione in senso socialista. A dieci anni dalla liberazione lo stesso Calamandrei aveva notato come “…per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa” ovvero quello che veniva individuato come il carattere “programmatico” della carta costituzionale (pieno diritto al lavoro, decentramento, ampio riconoscimento dei diritti civili e sociali ecc.). Nella sua lunga militanza Agnoletti, insieme all’amico e collaboratore Ernesto Codignola e al gruppo fiorentino di matrice azionista, cercò di essere costantemente attento a questa dimensione senza dimenticare, aspetto legato anche alla sua conoscenza della lingua inglese come traduttore per alcuni anni della casa editrice La Nuova Italia, la dimensione internazionale dei problemi geopolitici che la giovane Repubblica democratica. Da qui anche l’impegno per un’Europa federale ed autonoma dai blocchi politico-militari guidati delle superpotenze della Nato (Usa) e del Patto di Varsavia (Urss).

Ma l’attività di Agnoletti non si limitò a quella strettamente culturale incarnando da subito una figura di intellettuale-militante, tipica dell’antifascismo europeo novecentesco, oggi del tutto scomparsa e che lo spingerà dopo aver condiviso con Ernesto Codignola le esperienze della diaspora azionista (e la stagione di Unità popolare, a fianco di Ferruccio Parri, nata per contrastare la cosiddetta “legge-truffa” maggioritaria del 1953) alla militanza nel Partito socialista fino all’espulsione nel 1981 insieme all’amico Codignola in netto contrasto con il nuovo corso del partito inaugurato dalla segreteria di Bettino Craxi.

Vicesindaco nella giunta del centrosinistra fiorentino guidata da Giorgio la Pira dal 1961 al 1964 il suo nome resta anche legato alla stagione che vede Firenze come uno dei principali centri della distensione internazionale, della “diplomazia dei popoli”, oltre all’elaborazione del piano regolatore, lo sforzo per fare della città un modello di dialogo tra il mondo cattolico e le forze laiche e socialiste. E  in questo senso la nettezza delle sue posizioni a favore del  Divorzio e contro il Concordato tra Stato e Chiesa cattolica non si tradurranno mai in atteggiamenti di pregiudiziale chiusura verso l’universo religioso ma resteranno rivolti sempre a forte critica verso scelte e posizioni ben precise della Chiesa cattolica (e della Democrazia cristiana) non impedendogli rapporti di stima e amicizia con una figura centrale del cattolicesimo democratico fiorentino e nazionale come Giorgio La Pira.

Negli anni sessanta e settante molte delle sue energie verranno incanalate nelle solidarietà con il Vietnam e contro la guerra in Indocina ad opera degli Usa. Sono gli anni, soprattutto la seconda metà degli anni sessanta e la prima dei settanta del novecento, di intensi scambi e qualificate collaborazioni con associazioni, fondazioni e organismi internazionali, a partire dal Tribunale Russell, che lo vedono impegnato intensamente, in prima persona spesso a proprie spese.

Eletto nel 1983 nelle liste della Sinistra indipendente al Senato (di cui ricoprirà anche la carica di vicepresidente) l’anno dopo sarà tra i più convinti oppositori dell’istallazione dei missili a Comiso.

Presidente della Fiap (Federazione italiana associazioni partigiane) dal 1976 al 1986 non ha mai interrotto il suo impegno per la valorizzazione del patrimonio dell’antifascismo e della Resistenza, italiana ed europea, soprattutto delle sue correnti socialiste, Agnoletti è sempre stato vicino all’Istituto storico della Resistenza in Toscana, presso cui sono depositate anche parte delle sue carte relative all’attività di resistente mentre l’archivio personale ha trovato posto presso l’Istituto universitario europeo.

Lo sdegno morale per le ingiustizie e le atrocità di cui quasi ogni mattina abbiamo notizia leggendo i giornali” da Agnoletti attribuito ad Olaf Palme, leader socialdemocratico svedese a lui vicino, è in realtà la stessa molla etica e politica che ha guidato la sua lunga e ricca esistenza dall’impegno partigiano a quello internazionalista, dalle sponde dell’Arno a quelle del Mekong del martoriato Vietnam trasformando l’indignazione “in scelta politica concreta, che deve naturalmente tenere conto delle circostanze”.

Bibliografia essenziale

Giuseppe Sircana Ad vocem, Treccani.it

Enzo Enriques Agnoletti. L’utopia incompiuta del socialismo, a cura di Andrea Becherucci e Paolo Mencarelli, “Il Ponte”,LXX, nn.1-2 (gennaio-febbraio 2014)

Articolo pubblicato nel dicembre 2014.




Conferimento Premio Giovanni Spadolini

Alle ore 11, nella sede della Biblioteca della Fondazione Spadolini Nuova Antologia, via Pian dei Giullari 36/A, procederemo al conferimento dei riconoscimenti della XVIII edizione del Premio Spadolini Nuova Antologia riservato a tesi di laurea specialistica e di dottorato discusse nelle Università italiane su tematiche relative alla “Storia culturale e politica dell’Italia contemporanea”.

Interverrà Rossana Rummo, direttore generale per le biblioteche, gli Istituti culturali e il diritto di autore, del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.
I riconoscimenti, ai sette premiati provenienti dalle diverse Università della penisola, consistono in:
– quattro assegni da 1500,00 euro ciascuno
– Medaglia del Presidente della Repubblica
– Medaglia del Presidente del Senato
– Targa del Presidente della Camera



Presentazione del volume “Le officine della follia”

L’11 dicembre alle ore 16:30 presso  la biblioteca “Francesco Chioccon” dell’Isgrec (Cittadella dello Studente), Giuseppe Cardamone, Edvige Facchi (DSM Grosseto) e Marica Setaro (Università di Firenze) presentano il volume di Vinzia Fiorino “Le officine della follia. Il frenocomio di Volterra (1888-1978)” (Ets Edizioni). Sarà presente l’autrice; introdurranno Adolfo Turbanti (Presidente dell’ISGREC) e Fabrizio Boldrini (Direttore del COESO).

L’autrice ripercorre la storia dell’ospedale psichiatrico di San Girolamo a Volterra, che si caratterizzò, fino alla dismissione dopo la legge Basaglia, per l’ergoterapia, la terapia del lavoro: al suo interno si coltivava, si fabbricava, si produceva. Non un semplice ospedale, quindi, ma una vera e propria officina, che seguiva logiche a sé, assicurandosi sempre più degenti, e quindi manodopera.

Vinzia Fiorino mette in luce i modelli culturali che hanno legittimato “le officine della follia”, andando oltre gli aspetti dello sfruttamento, mettendo invece in relazione l’ergoterapia con  una serie di valori morali alla base di un preciso ordine culturale e sociale.

Info: ISGREC, Via de’ Barberi 61-58100 GROSSETO | Tel./fax 0564415219 | segreteria@isgrec.it | www.isgrec.it