Monte Giovi e dintorni: memorie e commemorazioni della Resistenza in provincia di Firenze

Monte Giovi è un complesso montuoso situato nella provincia di Firenze, entro la dorsale appenninica di Monte Morello e Monte Senario, che separa il Mugello dal Valdarno e dalla Valdisieve. Il suo territorio è diviso tra i comuni di Pontassieve e Borgo San Lorenzo e, in misura minore, da quelli di Rufina, Vicchio e Dicomano.

Foto da Google Maps di Monte Giovi dal satellite
Il massiccio raggiunge l’altitudine maggiore nella sua cima (992 metri), ma lungo il crinale principale si trovano anche Poggio Ripaghera (914 metri) e Monte Calvana (913 metri) [1].
A dimostrazione della centralità di Monte Giovi negli eventi della Resistenza toscana, la Provincia di Firenze assieme alle Comunità montane “Montagna Fiorentina” e “Mugello” e ai comuni di Borgo San Lorenzo, Dicomano, Pontassieve e Vicchio vi hanno istituito un parco dedicato alla guerra di Liberazione chiamato, “Parco culturale della Memoria”.
Dopo l’8 settembre, giorno dell’armistizio, Monte Giovi fu uno dei luoghi dove i primi “ribelli” si aggregarono in formazioni partigiane. È qui che si costituirono alcune delle più famose brigate.
Tra la popolazione dei paesi presso Monte Giovi e coloro che parteciparono alla Resistenza si creò un legame di collaborazione. Molti, tra cui Acone, tutt’oggi luogo della memoria del Monte, offrirono rifugio, non senza ferite, come dimostrano le varie stragi nel territorio.
I partigiani ricambiarono, salvando i beni dei contadini dai sequestri che operavano i tedeschi o dall’ammasso obbligatorio che esigevano i fascisti, per poi riconsegnarli di soppiatto con la complicità dei “derubati”.
Fra i primi gruppi partigiani ci fu il “Gruppo Pontassieve” rimasto noto per la volontà di agire in totale indipendenza: i partigiani che lo costituivano non si aggregarono alle altre formazioni se non dopo il suo scioglimento. Sempre a Monte Giovi si formarono la “Faliero Pucci” e la “Spartaco Lavagnini”. Qui operarono anche la “Caiani” e la “Lanciotto Ballerini”.
Ai partigiani si unirono alcuni prigionieri di guerra russi, allora reclusi in un campo nei pressi della vetta del monte, a Tamburino, che poi avevano trovato rifugio ad Acone.
Nell’agosto del ’44 da qui partì o transitò buona parte dei partigiani che contribuirono alla battaglia di Firenze.
I tedeschi e i fascisti non restarono, però, in questi mesi, con le mani in mano. Durante la ritirata nazifascista, in vari gruppi di partigiani erano presenti anche spie e infiltrati. Il loro ruolo serviva a minare ulteriormente il rapporto tra le varie brigate e la popolazione civile, spesso vittima di ritorsioni.
Per quel che riguarda il versante pontassievese e rufinese, è bene ricordare che quel territorio, dopo l’8 settembre 1943, diventò un obiettivo di grande interesse per gli Alleati e le loro azioni aeree, essendo Pontassieve un importante snodo ferroviario e stradale, oltre ad essere sede delle Officine delle Ferrovie dello Stato. Come del resto in tutta la Toscana, i bombardamenti e le rappresaglie tedesche non mancarono, essendo stata quella toscana una terra martirizzata dalla ritirata nemica.
Monte Giovi e la sua popolazione subirono molte ferite proprio in quell’anno. A fronte del forte legame tra i partigiani e la cittadinanza, si verificarono eventi drammatici, come in molte altre zone d’Italia.
Già durante gli ultimi mesi del 1943 si erano intensificati gli scontri tra nazi-fascisti e ribelli, come dimostra il tafferuglio scoppiato a Nave di Ponte a Vico, tra Pontassieve e Rufina. Pontassieve venne inoltre presa di mira dai bombardamenti.
Nella primavera del 1944, fascisti e tedeschi avevano cercato di intercettare le formazioni partigiane tra Monte Giovi e Falterona, così come nei mesi seguenti. Nei monti del Mugello e della Valdisieve si rifugiavano molte squadre di ribelli che, via via, si andarono strutturando. Tristemente noto l’eccidio nazifascista consumatosi a Berceto (Rufina) [2][3], tappa del Sentiero della Memoria, il 17 aprile 1944. In quell’occasione, proprio durante una di queste intercettazioni, nell’incontro-scontro tra nazifascisti e partigiani, sempre per rappresaglia, furono uccise undici persone, compresi donne e bambini.
Nel frattempo, nel maggio del 1944, il movimento partigiano fiorentino fu costretto a riorganizzarsi. L’obiettivo era quello di superare il modello delle piccole formazioni autonome, per passare ad una grande formazione unica, un’unica brigata partigiana. Tale compito fu affidato dai centri dirigenti fiorentini a Aligi Barducci (“Potente”), dal 24 maggio 1944 alla guida della prima Brigata “Garibaldi”, la “Lanciotto Ballerini”. La Brigata si ricostituì proprio su Monte Giovi [4].
Anche il mese di giugno era iniziato con uno scontro tra tedeschi e partigiani, proprio sul Monte Giovi, a Monte Rotondo, presso Casa Messeri, coinvolgendo la 10° Brigata “Garibaldi”, la “Caiani”, dove morirono un partigiano e tre tedeschi. Seguirono bombardamenti degli Alleati su Pontassieve per rendere difficile ai tedeschi di raggiungere Firenze [5].
È in questo contesto che si verificò anche la triste vicenda della Pievecchia, a Pontassieve, l’8 giugno 1944, dove quattordici uomini vennero uccisi, di cui tredici fucilati durante la rappresaglia tedesca, con l’obiettivo di punire la popolazione inerme [6][7].
Tra il 10 e l’11 luglio 1944 si consumerà un nuovo eccidio, questa nel versante mugellano, verso Vicchio. Il mattino del 10 luglio, si presentò alla fattoria di Padulivo, a circa 6 km da Vicchio, alle pendici di Monte Giovi, un reparto di SS con circa una sessantina di uomini. La fattoria ospitava allora circa centocinquanta sfollati mentre il proprietario, Aldo Galardi, aiutava, saltuariamente, le locali formazioni partigiane.
Durante la perquisizione, i tedeschi si accorsero della mancanza di un cavallo che era stato nei giorni precedenti requisito dai partigiani. Questi furono avvertiti della presenza dei tedeschi e tesero un’imboscata poco lontano da Padulivo, quando le SS si stavano ritirando. Un tedesco venne ferito, mentre un altro morì. I tedeschi, tornati alla fattoria, arrestarono tutti coloro che trovarono, prima di appiccare il fuoco all’abitato.
Per rappresaglia, sul ponte dove avevano subito l’agguato, le SS giustiziarono, tra gli arrestati, dieci uomini e una donna; solo uno degli uomini sopravvisse. Dopo una notte di prigionia, i catturati subirono un interrogatorio e furono rilasciati, tranne quattro uomini e tre donne. Gli uomini furono portati di nuovo nel luogo dell’agguato partigiano e uccisi, mentre le donne vennero liberate [8].
In ricordo della triste vicenda è stato posto un cippo in località Padulivo nel 1994. Ogni anno, inoltre, il Comune di Vicchio con l’Anpi locale commemora l’eccidio.
Sempre sul versante mugellano, in zona Borgo San Lorenzo, villa Cerchiai, presso Sagginale, fu attaccata, verso la metà dell’agosto 1944, da alcuni tedeschi che tentarono un accerchiamento delle forze partigiane.
Nello stesso mese vi sarà la strage della famiglia Einstein , nota anche come strage di Rignano o strage del Focardo (3 agosto 1944) e la strage alle ville e fattorie di Legacciolo e di Podernovo, alla Consuma (25-26 agosto 1944), per ricordare altri tristi eventi, non troppo distanti da Monte Giovi [9].
Posteriore e ben diverso il fatto che scosse il Santuario della Madonna del Sasso, vicino a Santa Brigida, reso noto dal romanzo di Cassola, La ragazza di Bube. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora ancora ben visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.
Il 13 maggio 1945, in occasione della festa alla Madonna del Sasso, infatti, una normale giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò nel caos. Fuori dalla chiesa, prima della funzione, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, si scontrarono verbalmente, a causa dei vestiti “succinti” di quest’ultimi. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Carmine Zuddas, incaricato della sorveglianza, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. La situazione degenerò: pare che alcuni abbiano tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine. Stando alle testimonianze, il figlio, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’arrivo di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciambri (Bube), che sparò contro il ragazzo, uccidendolo.
Vennero arrestate 10 persone, dopo le prime indagini, 7 delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube.
Il processo si tenne a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di S. Brigida.
La dinamica non è tutt’oggi chiara, Bube si è sempre dichiarato innocente, ma l’evento è significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano. Chiunque si riteneva portatore di una giustizia, spesso in contrasto con le altre. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e un fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta [10].
La vicenda ispirò Carlo Cassola che la raccontò nel suo romanzo, La ragazza di Bube [11], dal quale Comencini trasse la storia per farne un film. Nada Giorgi, protagonista del libro assieme al marito, non sentendosi ben rappresentata da Cassola, ha in seguito delegato a Massimo Biagioni la scrittura di un altro libro sulla vicenda (Biagioni M., Nada. La ragazza di Bube, Edizioni Polistampa, 2006) [12].
Nessuna lapide ricorda l’evento al Santuario e non vi sono commemorazioni e cerimonie ufficiali al riguardo.
Monte Giovi è rimasto invece un luogo simbolico della Resistenza locale, dove ogni anno si tiene una vera e propria festa dei Partigiani e dei Giovani. Una festa per socializzare e commemorare, come viene definita. L’evento si tiene proprio nel versante pontassievese, presso Acone, piccola frazione in collina.
Tutti gli anni, a cominciare dal 1949, il secondo fine settimana di luglio, l’ANPI della provincia di Firenze con la collaborazione delle Case del Popolo dei paesi vicini, delle Pro-loco e altre associazioni organizza una festa sulla cima del Monte. La manifestazione si articola in due giorni, il sabato dedicato ai giovani, con spettacoli e balli che durano fino a notte fonda, e la domenica, quando si tengono, invece, le commemorazioni e le orazioni ufficiali. Visto che la strada dalla Rufina è lunga ed arrivare ad Acone non è semplice, in molti campeggiano nell’abetina di Fonte alla Capra.
Nella due giorni sono anche attivi stands gastronomici, si effettua la vendita di libri tematici e altre manifestazioni che variano ogni anno [13].

La piramide in ricordo del contributo femminile alla Resistenza
In ricordo del contributo
femminile alla Resistenza
ed alla Costituzione
dello Stato Repubblicano
Note:
[1] Vivi Acone! https://viviacone.it/acone/luoghi-da-visitare/monte-giovi/ [consultato nel maggio 2024]
[2] Vangelisti, Lazzaro, Una vita trascorsa sotto tre regimi, Consiglio Regionale della Toscana, Edizioni dell’Assemblea, 2014
[3] Atlante stragi nazifasciste, Berceto, Rufina, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2308 [consultato nel mese di maggio 2024]
[4] cfr. Fusi, Francesco, Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, pp. 322-323
[5] cfr. Ivi, p. 322
[6] Atlante stragi nazifasciste, Pievecchia, Pontassieve, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2400 [consultato nel mese di maggio 2024]
[7] cfr. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008
[8]Atlante stragi nazifasciste, Ponte a Vicchio e Strada Padulivo-Vicchio, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2412 [consultato nel mese di maggio 2024]
[9] Atlante stragi nazifasciste, Consuma, Pelago, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2371 [consultato nel mese di maggio 2024]
[10] Mazzoni, Dania, Attraverso la bufera. Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione (1943-1948), Comune di Pontassieve, 1990, pp. 142-144
[11] Cassola, Carlo, La ragazza di Bube, Einaudi, Torino, 1960
[12] Biagioni M., Nada. La ragazza di Bube, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006
[13] Baldini, Giovanni, Monte Giovi, ResistenzaToscana.it, (9 gennaio 2004), https://resistenzatoscana.org/storie/monte_giovi/ ]
Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.
Articolo pubblicato nel luglio 2024.
Mostra LA STORIA IN SOFFITTA
Domenica 21 alle 15,30, all’interno del fitto programma promosso dall’associazione Organo della Pace – Freunde der Friedensorgel Sant’Anna di Stazzema inaugurazione della mostra LA STORIA IN SOFFITTA un percorso emozionale attraverso la storia, quella che non è scritta sui libri ma, appunto, nella soffitte reali e della nostra memoria.
Scorrete per scoprire di più sulla mostra… ci sarà una sorpresa alla fine!
Un progetto che nasce dai ragazzi della ex terza E della scuola secondaria di Lammari (I.C. Ilio Micheloni) dell’anno scolastico 2022/2023.
Un’ esperimento all’interno di una classe, un processo per capire meglio la storia partendo dalle proprie famiglie, dagli oggetti, dalle memorie e dei luoghi di nonne/i, bisnonne/i e altri parenti diretti o indiretti.
Un progetto che ha voluto creare intrecci continui con il territorio, le associazioni, i cittadini, l’università di Firenze, l’ISREC, l’Associazione Amici dell’Organo della Pace e che vuole continuare a crescere attraverso gli scambi.
Diciotto pannelli che non raccontano solo la storia, ma anche il percorso di ri-cercazione effettuato dalle ragazze e dai ragazzi, immergendosi nelle emozioni di coloro che hanno vissuto le proprie storie e raccontando le proprie.
Un connubio tra storia e pedagogia che ha visto protagonisti le ragazze e i ragazzi assieme al loro insegnante Enea Nottoli, alla pedagogista Valeria Bonetti, a Simona Sarti, Eleonora Pollacchi e all’ex assessore alla scuola Francesco Cechetti.
Un grande successo la quarta edizione del Pistoia Docufilm Festival
Pistoia, 16 luglio 2024 – Si è conclusa con grande successo la quarta edizione del Pistoia Docufilm Festival, organizzato dall’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Pistoia. Un evento che ha saputo coinvolgere e appassionare il pubblico con una selezione di film documentari di grande rilevanza culturale e sociale sul tema del confine.
La prima serata ha visto la proiezione del film “Il valore della donna è il suo silenzio“, resa possibile grazie alla collaborazione con il Museo del Cinema di Berlino e con il Festival dei Popoli di Firenze. Il film narra la storia di una donna lucana emigrata a Francoforte che, ancora negli anni ’70, vive in un totale isolamento linguistico e culturale. La regista svizzera Gertrud Pinkus è arrivata a Pistoia per parlare, insieme alla storica Anna Badino, del ruolo delle donne italiane nelle migrazioni del dopoguerra. “Ringrazio Pistoia e il festival per la bella atmosfera e la grande partecipazione di pubblico“, ha dichiarato Pinkus.
La seconda serata è stata dedicata alla storia recente dell’Albania con la proiezione del film “Annoluje Lijin“. Una serata per comprendere il rapporto con la propria storia di un paese da cui proviene una delle comunità di immigrati più numerose residenti a Pistoia. Il regista barese Fabrizio Bellomo ha dialogato con lo storico Stefano Bartolini offrendo spunti di riflessione profondi e coinvolgenti.
La serata conclusiva ha visto la proiezione di “Oltre la valle“, un film arrivato a Pistoia tramite il festival Sguardi Altrove di Milano, un festival del cinema al femminile. Il film racconta la realtà di un centro di accoglienza della Val di Susa e delle persone che ogni giorno cercano di attraversare il confine tra Italia e Francia. La regista pistoiese, Virginia Bellizzi, ha parlato insieme a Enrica Fragai, educatrice del servizio di accoglienza migranti del gruppo Incontro di Pistoia, affrontando il tema dell’accoglienza oggi in Italia e a Pistoia.
“Il festival, realizzato grazie al Bando Cultura della Fondazione Caript, è stata un’occasione – spiega Francesca Perugi, curatrice del festival – offerta alla città per riflettere sul tema dell’identità, della patria e dei confini. Per provare ad allargare il nostro sguardo sia nel tempo che nello spazio, e per non confondere il nostro campo visivo con i confini del mondo”.
Il Pistoia Docufilm Festival, ormai da quattro anni, porta a Pistoia film fuori dal circuito della grande distribuzione, grazie alla collaborazione con enti di livello nazionale come il Festival dei Popoli, AAMOD (Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico) e l’Associazione Italiana di Storia Orale, e quest’anno anche internazionali come il Museo del Cinema di Berlino.
Un premio per “La riserva mancata” ISRPt editore
Annunciamo con grande piacere che il volume “La riserva mancata. Il Padule di Fucecchio fra crisi ambientale e difficile tutela. 1970-1989” di Emilio Bartolini, edito da ISRPt Editore, è risultato vincitore del Premio Sipari, assegnato dalla Fondazione Erminio e Zel Sipari Onlus per le opere a stampa attinenti alla conservazione della natura e del paesaggio, ovvero alla divulgazione delle conoscenze e delle buone pratiche utili alla corretta gestione di aree naturali protette, monumenti naturali, aree di considerevole valore paesaggistico tutelate per legge o riconosciute di interesse pubblico.
Carta dei luoghi della memoria di Poggibonsi

Per l’Ottantesimo anniversario della Liberazione di Poggibonsi dall’occupazione nazifascista (18 luglio 1944), l’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea “Vittorio Meoni” ha deciso di realizzare, con il sostegno del comune di Poggibonsi e delle locali sezioni dell’Anpi e di Unicoop Firenze, un percorso trekking, all’interno del centro di questa Città, che proponesse ad appassionati e visitatori la storia di alcuni luoghi dell’abitato particolarmente significativi per la Storia del secolo scorso.
La realizzazione del lavoro presentava una serie di difficoltà oggettive date dal fatto che, durante la Seconda guerra mondiale, Poggibonsi venne colpita settanta volte dagli attacchi aerei alleati e vide per le sue strade uno scontro armato di una certa entità; tutto ciò, oltre a causare un alto numero di perdite umane, modificò parzialmente strade ed edifici cancellando varie strutture precedenti.
Per ovviare all’inconveniente si è deciso pertanto di avvalersi di un disegnatore (Duccio Santini) che, sulla base di fotografie storiche, riproponesse al visitatore un’immagine della situazione preesistente per poter operare una comparazione con l’attualità. Il disegno è andato a collocarsi (al momento) su uno strumento assai tradizionale, una carta in formato A3 fronte-retro, che, opportunamente ripiegata, potesse entrare in una tasca ma che fosse anche liberamente disponibile sui banconi degli uffici informazioni e di alcuni esercizi commerciali.
L’intero tragitto, prevalentemente in pianura, può essere coperto, compresa la lettura delle note storiche a margine del percorso (realizzate da Mauro Minghi e Riccardo Bardotti), in circa un’ora e mezza e conduce alle seguenti tappe:
1. I’ Tondo (attuale stadio comunale S. Lotti); ex ippodromo e luogo storico del passaggio della Seconda guerra mondiale;
2. L’ex vinicola Fassati con il ponte sul “canale”; luogo storico dell’industrializzazione del primo Novecento e del passaggio della Seconda guerra mondiale;
3. Largo Dino Bellucci; luogo della memoria della Resistenza;
4. La deviazione del torrente Staggia presso la vecchia stazione ferroviaria; luogo storico del primo Novecento;
5. L’ex ferrovia per Colle di Val d’Elsa; luogo storico di fine Ottocento, primi del Novecento;
6. La vecchia stazione ferroviaria (attuale largo A. Gramsci); luogo storico del primo Novecento e dei bombardamenti;
7. L’ex S.A.C.E.; luogo storico dell’industrializzazione a cavallo della Seconda guerra mondiale e dei bombardamenti;
8. La Casa del popolo; luogo storico delle lotte operaie e dell’antifascismo;
9. Il teatro “Ravvivati Costanti”; luogo storico dei bombardamenti;
10. La piazza del gioco (attuale piazza Enrico Berlinguer); luogo storico dell’Ottocento e del primo Novecento;
11. I fossi (attuale piazza G. Mazzini); luogo storico dei bombardamenti;
12. Il palazzo comunale; luogo storico del dell’Ottocento e del Novecento;
13. Il forno del topo; luogo storico dell’antifascismo;
14. La piazza nova (attuale piazza G. Matteotti); luogo storico della Seconda guerra mondiale.
La camminata è adatta a tutti.
Il progetto è stato sostenuto dall’amministrazione comunale di Poggibonsi, dalla sezione A.N.P.I. “Armando Targi” di Poggibonsi e da UNICOOP Firenze sez. Soci Poggibonsi.
La consulenza storica è di Mauro Minghi e Riccardo Bardotti, i disegni di Duccio Santini. La realizzazione grafica è stata realizzata dalla Betti Editrice di Monteriggioni.
Cartina Poggibonsi trek-compresso
Articolo pubblicato nel settembre del 2024.
“Passi di Storia”: itinerari di guerra e Resistenza pistoiese

Ultimo progetto di un lavoro svolto da tempo dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia, “Passi di Storia” offre l’occasione per approfondire e conoscere pagine di storia del territorio pistoiese attraversandone i luoghi che ne sono stati teatro.
Sono già 30 i luoghi segnalati sul Portale (in costante aggiornamento) che richiamano a eventi significativi della storia della Resistenza nel territorio pistoiese: dalla città capoluogo al territorio provinciale, racchiusi all’interno di percorsi tematici.
Silvano Fedi, luoghi e storie di un partigiano
L’eccidio del Padule di Fucecchio: una passeggiata nella Storia.
Sono già stati censiti luoghi della memoria delle vicende belliche nei seguenti Comuni:
Pistoia: con itinerario nei luoghi della città a partire da Piazza della Resistenza.
Fucecchio
Larciano
Monsummano Terme
Ponte Buggianese
Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.
Articolo pubblicato nel luglio 2024.
La Liberazione di Arezzo

“Era giunta l’ora di resistere,
Era giunta l’ora di essere uomini,
di morire da uomini,
per vivere da uomini”
(Piero Calamandrei)
La notte del 25 maggio 1944 le vallate che circondano Arezzo si illuminarono con una miriade di falò accesi dalle formazioni partigiane e dai contadini in risposta all’ultimatum definitivo, che scadeva alla mezzanotte dello stesso giorno, diramato dal Capo della Provincia Melchiori nei confronti dei militari sbandati, dei partigiani e dei renitenti di leva: «Tutti coloro che non si presenteranno saranno considerati fuorilegge e saranno passati per le armi mediante fucilazione alla schiena»[1].
La Notte dei Fuochi, il nome con cui questo atto è entrato nella storia – tuttora ogni anno ne viene celebrata la ricorrenza – conteneva in sé una sorta di sfida ai nazifascisti come un invito corale a loro rivolto: «Siamo qua… veniteci a prendere!»[2].
Arezzo aveva già manifestato la propria insofferenza ed avversione al fascismo quando gli iscritti al nuovo partito fascista repubblicano non arrivavano a 2500 a fronte di una popolazione provinciale di circa 300.000 abitanti. E come nel resto d’Italia anche la popolazione aretina aveva accolto la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943 e l’armistizio dell’8 settembre con euforia e sollievo. Ci si illuse che quegli eventi avessero messo il punto finale ad un dramma iniziato più di vent’anni prima e a quell’immane tragedia che era la guerra. Quel sospiro di sollievo rimase però strozzato in gola… I nazisti rivelarono il loro vero volto di padroni occupanti, i fascisti quello ancor più orribile di bestie feroci. Cominciava così una parentesi non meno sanguinosa e drammatica della precedente. Ma ormai più niente e nessuno avrebbe fatto tornare indietro chi aveva assaporato di nuovo o gustato per la prima volta l’esaltante sapore della libertà.
Nella città di Arezzo le esigue forze politiche locali nei 45 giorni del governo Badoglio fecero fronte comune, e riallacciando contatti sia a livello regionale che nazionale con gli attivisti antifascisti riuscirono a dar vita al Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista (CPCA). L’obiettivo principale del Comitato consisteva nell’organizzare la Resistenza in città e provincia, tentando di coordinare l’attività delle squadre dei partigiani che agivano nel proprio territorio[3]. Un contributo particolare fin dall’inizio fu dato dai contadini della vallata che, dopo l’8 settembre ’43, fornirono aiuto, assistenza ed ospitalità gettando le premesse dell’azione armata agli sbandati dell’esercito, agli ex prigionieri alleati, agli ebrei, ai politici ricercati dalla polizia, ai renitenti alla leva[4]. Tutti questi individui rifugiati fuori città costituirono quindi l’ossatura delle prime formazioni partigiane organizzate dal CPCA. Ma ancora l’antifascismo aretino non era pronto per una lotta così dura quale era la lotta clandestina, soprattutto all’inizio i suoi componenti non adottarono le necessarie cautele di riservatezza che la pericolosa attività intrapresa avrebbe invece consigliato. E così una delle prime formazioni partigiane costituitasi, “La Vallucciole”, forse la più importante per numero di uomini e per armamenti, nel corso di un rastrellamento dei nazifascisti, l’11 novembre del 1943, subì una gravissima battuta d’arresto: fu ucciso il giovane capitano Pio Borri e l’intera formazione fu dispersa.
L’improvvisazione militare, la scarsità degli armamenti rispetto al nemico, la mancanza di comandanti con esperienza tale da poter contrastare le truppe tedesche in quanto a programmazione e logistica, misero a dura prova i partigiani che seppur soccombendo continuavano la loro lotta per la libertà. Mettevano a rischio la loro vita, sottostavano alle torture con uno spirito di sacrificio che non era espressione di un’avventura militaresca e neanche il dissennato e cieco amore per il rischio, ma era la consapevolezza della necessità di un rinnovamento e ricostruzione di una società che in passato aveva reso possibile gli errori e gli orrori del fascismo.
Il CPCA non riuscì mai a controllare completamente l’attività militare resistenziale, nelle quattro vallate (Valdarno, Valdichiana, Valtiberina e Casentino), di tutte e cinque le formazioni partigiane più quelle che si erano formate spontaneamente. E dopo la disfatta della “Vallucciole” l’attività di guerriglia proseguì in tono minore ma senza mai rinunciare del tutto ad azioni militari e di intelligence così da tenere occupati i nazifascisti e per tentare di ingannarli sulla reale entità di forza della resistenza aretina. Anche il rallentamento dell’avanzata delle forze alleate contribuì al ridimensionamento della lotta partigiana che dovette attendere la fine dell’inverno del 1943-44 e la disfatta di Montecassino per riprendere appieno l’attività armata. Ma durante questo periodo di tenuta della Linea Gustav, così magistralmente architettata dal generale Kesserling, che si appoggiava ad una delle più forti barriere naturali dell’Italia meridionale, non riuscendo ad avanzare gli Alleati iniziarono a bombardare le retrovie tedesche per distruggere strade, ponti, ferrovie così da tentare l’isolamento delle truppe naziste. E così Arezzo, snodo importante delle vie di comunicazione, iniziò ad essere bersagliata dall’aviazione anglo-americana. Il primo bombardamento giunse inaspettato il 12 novembre 1943, cogliendo di sorpresa l’intera popolazione e le autorità fasciste che si erano insediate dopo la proclamazione della Repubblica di Salò[5]. Visto che era stato colpito anche il palazzo della Federazione fascista, il Comitato non si fece sfuggire questa occasione e fece subito affiggere dei manifesti dove si rivendicava che il bombardamento era stato una rappresaglia degli Alleati contro i fascisti per l’uccisione del partigiano Pio Borri avvenuta il giorno prima, al fine di dimostrare che le forze antifasciste erano in contatto continuo con gli anglo-americani in modo tale da intimorire i nemici e rassicurare le proprie milizie che non erano lasciate sole a condurre la battaglia[6].
Ma il terrore ad Arezzo arrivò con il bombardamento del 2 dicembre che provocò moltissime vittime e ingenti danni alle abitazioni e segnò l’inizio dello spopolamento della città. Si calcola che dopo sei mesi di bombardamenti (solo nel capoluogo aretino furono sganciate 1800 tonnellate di bombe) alla fine d’aprile del 1944 in città erano rimasti poco più di cento abitanti[7].
Col sopraggiungere della primavera, la caduta di Montecassino e l’entrata in Roma degli Alleati dettero un ulteriore spinta emotiva alle formazioni partigiane aretine che si riorganizzarono supportati dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), trasformandosi in Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale (CPLN) così da operare quel salto di qualità che gli avrebbe consentito di contrastare con più efficacia le milizie nazifasciste e preparare il terreno per la liberazione di Arezzo. Fu una trasformazione non solo formale ma anche nella sostanza; infatti, ci fu una riorganizzazione militare con la costituzione della XXIII Brigata garibaldina “Pio Borri”, composta da tre battaglioni, e la XXIV Brigata “Bande Esterne”, che insieme andarono a formare la Divisione partigiani “Arezzo”; inoltre si operò un cambiamento ai vertici del Comitato: destituiti, con la scusa che erano ricercati e ormai compromessi, Sante Tani e Achille Ravera, presero le redini di comando del neonato CPLN Siro Rossetti, Aldo Donnini e Raffaello Sacconi, in pratica il braccio armato del vecchio CPCA, insieme ad Antonio Curina (che diventerà il primo sindaco dopo la liberazione), Eugenio Calò ed Arnolfo Funari[8]. Questo cambiamento ebbe anche l’avvallo della Chiesa aretina che entrava direttamente nell’organizzazione con don Onorio Barbagli. Del resto, il vescovo di Arezzo Emanuele Mignone si schierò fin dall’inizio apertamente con la Resistenza prendendo le distanze dalla Chiesa toscana, il cui atteggiamento si orientava verso una neutralità con frange di simpatia nei confronti del fascismo repubblicano ignorando volutamente il CTLN e le formazioni partigiane verso cui l’alto clero nutriva fortissime preoccupazioni per l’adesione di molti combattenti all’ideologia comunista[9]. Non fu così per gli esponenti del clero aretino che non si fecero condizionare dalla paura delle idee marxiste e a partire dal vescovo fino all’ultimo prete della parrocchia più sperduta delle montagne casentinesi (a parte qualche eccezione), dettero il loro insostituibile contributo alla resistenza rimettendoci anche in alcuni casi la propria vita: in poco più di due mesi nella provincia di Arezzo vennero trucidati 15 sacerdoti e 2 seminaristi, di cui 10 appartenenti alla diocesi aretina, 5 a quella di Fiesole e 2 alla diocesi di San Sepolcro (circa il 30% del totale dell’intera Toscana)[10]. E non dobbiamo dimenticare il ruolo svolto dalla parrocchia di San Domenico dove padre Raimondo Caprara riuscì a far coraggio alla poca popolazione rimasta in città provvedendo a sfamare, curare e nascondere quei disperati che avevano trovato rifugio nella sua chiesa situata in città e quindi rischiando per il continuo contatto con nazisti e repubblichini che là stazionavano.
Con le truppe tedesche ormai esasperate per i lunghi anni di guerra, in ritirata verso il nord Italia, mentre sentivano il sopraggiungere degli eserciti alleati e continuamente soggette ad imboscate da parte delle formazioni partigiane ora più che mai agguerrite e con una consistenza numerica che aumentava di giorno in giorno (soprattutto favorita dai renitenti di leva delle classi ’23, ’24, ’25), iniziò per la provincia di Arezzo il periodo tragico delle carneficine: 14 stragi a giugno, 20 a luglio, 2 ad agosto, 1 a settembre, e considerando anche le 5 di aprile e i deportati di Poppi si giunge a circa 1476 vittime. Questi eccidi per lo più di civili inermi, a volte pianificati, rispondevano ai dettami del generale Kesserling che auspicava un contegno durissimo ed intransigente verso le popolazioni considerate fiancheggiatori di coloro che reputava soltanto banditi e non militari: non avevano neanche l’uniforme e quindi dietro ogni borghese si poteva nascondere un partigiano[11]. La lotta partigiana veniva vista come una degenerazione della guerra e non come una forma di guerra conosciuta da secoli, e con questa visione deformante si giustificava per le barbarie delle stragi che perpetrava sistematicamente contro le popolazioni inermi: «uccidete, e qualsiasi cosa accada vi difenderò, e se non vi scatenerete contro gli italiani vi punirò»[12]; questo era il contenuto del comando inviato alle truppe il 17 giugno ’44 firmato dallo stesso Kesserling.
Dopo lo sfondamento della Linea Gustav con la sanguinosa battaglia di Montecassino, le truppe alleate si fermarono sulle rive del lago Trasimeno, per poi il 26 giugno ’44 entrare a Chiusi. Da lì qualche giorno dopo presero Montepulciano e finalmente il 2 luglio conquistarono il primo comune aretino, Lucignano, per arrivare il giorno successivo a Cortona. Sulle montagne cortonesi erano state attive e quindi di grande aiuto agli anglo-americani molte squadre partigiane in attesa della loro avanzata che ritardava a causa delle distruzioni messe in atto dai genieri tedeschi e dalle mine che avevano dislocato un po’ dappertutto. Le strade, i ponti e le gallerie non esistevano più e i carri armati procedevano dove capitava, anche in mezzo ai campi di grano e tra le viti distruggendo buona parte dei raccolti. L’avanzata degli Alleati, di conseguenza, rallentò il suo slancio e sembrò quasi fermarsi proprio prima di arrivare ad Arezzo. Sapendo che le truppe di Kesserling difficilmente avrebbero ceduto il passo verso Firenze, visto che la Linea Gotica non era ancora pronta (i tedeschi vi si attestarono soltanto il 27 ottobre), gli Alleati organizzarono una riunione con i comandanti delle formazioni partigiane per conoscere la dislocazione dei reparti nemici e pianificare la battaglia per Arezzo. Durante il meeting fu approntata la strategia per entrare e liberare il capoluogo: una formazione partigiana fornita di armamenti pesanti ed esplosivi si sarebbe introdotta furtivamente in città ed avrebbe atteso l’avvicinarsi degli Alleati per dare il via all’insurrezione nel centro cittadino il successivo 14 luglio. In questo modo, anche se i maggiori pericoli li avrebbero corsi i partigiani, al loro ingresso in città, gli Alleati si sarebbero trovati il CPLN già insediato. Ma la difesa delle truppe e dell’artiglieria della Wehrmacht attestate sul monte Lignano tra Castiglion Fiorentino e Arezzo ritardò l’avanzata delle milizie Alleate e il 14 luglio, ancora lo sbarramento sul monte Lignano, da cui si sarebbe aperta la strada fino ad Arezzo, rimaneva presidiato dalle forze tedesche. Ma avevano le ore contate: l’inferno di fuoco che si era riversato nei giorni precedenti dai cannoni (800 colpi al minuto) e dai bombardamenti aerei degli Alleati, che già avevano destabilizzato le truppe naziste, si completò con la sanguinosa battaglia di Lignano che causò numerose vittime in entrambi gli schieramenti. Così dopo aver perso la posizione sul monte Lignano, alle prime ore del 16 luglio, le truppe tedesche si ritirarono senza operare un inutile e sanguinoso contrattacco per assestarsi sulla Linea Irmgard sul fiume Senio. Così all’alba del 16 luglio la discesa in città dei partigiani coincise con il ritiro delle truppe tedesche e ciò permise di liberare Arezzo senza spargimento di sangue.

16 luglio 1944 – scalinata del Duomo di Arezzo. Incontro fra partigiani e alleati nel giorno della Liberazione della città.
Alle ore 7.00 del 16 luglio 1944 la guerra per Arezzo era finalmente conclusa: sulla torre del comune venne issato il tricolore e le campane in città iniziarono a suonare a distesa seguite dalle campane della campagna circostante, dando il segnale agli Sherman, i carri armati alleati, che nella tarda mattinata entrarono nella città libera.
Ma se Arezzo fu liberata senza spargimento di sangue, il ritardo dell’offensiva alleata convenuta il 14 luglio, con i partigiani scesi dalle colline verso posizioni più avanzate per ricongiungersi con le truppe inglesi, generò sfortunatamente l’orribile strage di San Polo: un rastrellamento rapidamente pianificato portò all’arresto di partigiani e civili inermi che furono barbaramente trucidati. Questa azione era in sintonia con le idee e i dettami del feldmaresciallo Kesserling che riteneva di poter procedere con l’impiego sistematico di rappresaglie ed eccidi contro i civili nella guerra antipartigiana. E se la signora Laura Ewert, nipote del colonnello Wolf Ewert che comandò la strage di San Polo – di cui solo recentemente è venuta a conoscenza-, è stata presente quest’anno alla giornata di commemorazione della strage per mostrare la propria angoscia e mantenere vivo il ricordo della brutale azione messa in atto dal nonno, il generale Kesserling, arrestato alla fine della guerra, scampato alla pena di morte e successivamente anche all’ergastolo, libero dopo pochi anni per motivi di salute, una volta tornato in Germania ebbe l’impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi ma che, anzi, gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i diciotto mesi di occupazione tanto che avrebbero fatto bene ad erigergli un monumento:
Lo avrai
camerata Kesserling
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli che ti videro fuggire
Ma soltanto col silenzio dei torturati
Più duro d’ogni macigno
soltanto colla roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci troverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA
Piero Calamandrei
NOTE
[1] Ivan Tognarini (a cura di), La guerra di liberazione in provincia di Arezzo. 1943-1944. Immagini e documenti, Amministrazione provinciale di Arezzo-Tipografia Badiali, Arezzo 1987, p. 50.
[2] Enzo Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, Calosci Editore, Cortona 1995, p. 124.
[3] I. Tognarini (a cura di), Guerra di sterminio e resistenza. La provincia di Arezzo (1943-1944), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990, p. 179.
[4] Il futuro CTLN, ancora “Fronte per la Liberazione Nazionale” di Firenze, nell’autunno del 1943 in un volantino ai “toscani”, elogiava i contadini per l’aiuto prestato agli sbandati dell’esercito e ai prigionieri alleati e li incitava a continuare nella lotta. Al momento del nuovo raccolto il CLN incitava i contadini ad evadere gli ammassi per sottrarre grano ai tedeschi e dare l’aiuto alle formazioni partigiane, Cfr. ISRT, Collezione manifestini CTLN, in Libertario Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino. Dalle origini del movimento alla Repubblica: 1900-1946, Contributo per il convegno “Mondo Contadino e Resistenza” Foiano della Chiesa, 15 marzo 1975, p. 84.
[5] E. Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, cit., p. 25.
[6] Ivi p. 27.
[7] Agostino Coradeschi e Mario Parigi (a cura di), Arezzo dalla dichiarazione di guerra al referendum istituzionale 1940-1946, Corocci Editore, Roma 2008, p. 114.
[8] Ivi, p. 115.
[9] L. Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino, cit., p. 79.
[10] A. Coradeschi e M. Parigi (a cura di), Arezzo dalla dichiarazione di guerra al referendum istituzionale 1940-1946, cit., p. 122.
[11] E. Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, cit., p. XVII.
[12] Ibidem.
Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.
Articolo pubblicato nel luglio 2024.








