1915-1918 . Lucca e l’Italia di fronte alla Prima Guerra Mondiale

In occasione del centenario della Prima guerra mondiale e dell’entrata in guerra dell’Italia, martedì 12 maggio a Lucca un’intera giornata sarà dedicata alla discussione sulla Grande Guerra. La mattina i lavori, che si terranno nella sala Tobino di Palazzo Ducale, apriranno alle ore 9,30 con gli interventi di Gianluca Fulvetti (Direttore ISRECLU), Umberto Sereni (Università di Udine), Marco Manfredi (Università di Pisa), Gianluca Fruci (Università di Padova) e Pietro Finelli (ISRECLU), con una sessione sul contesto nazionale, sulle ragioni della neutralità dell’Italia e sulla Public history.

Nel pomeriggio i lavori si sposetranno alla Biblioteca Agorà a partire dalle ore 15, con relazioni dedicate invece al contesto provinciale lucchese.

Per maggiori dettagli e info scarica la locandina in allegato.




L’incendio di Brolio

Roma liberata e la collaborazione con il Governo Militare alleato nel racconto di Bettino Ricasoli.

Nella tarda primavera del ‘44 Roma è ancora occupata dai nazisti mentre il fronte è bloccato a Cassino.
Dopo l’Armistizio Bettino Ricasoli, non volendo aderire all’esercito di Salò, si è arruolato nella Guardia palatina del Vaticano. In questo modo è al sicuro dai rastrellamenti. Da molto tempo ha perso i contatti con i familiari, non sa più nulla di loro né riesce a far avere sue notizie. Ma una notte accade qualcosa…

“Finalmente cominciò la ritirata tedesca da Roma. Io mi trovai proprio sugli spalti di un terrapieno, che fa parte della Casa Generalizia dei Gesuiti, la notte fra il 3 e il 4 giugno del ‘44. Si vedevano i Tedeschi che venivano via con tutti i mezzi possibili e immaginabili su carretti, in bicicletta, in motocicletta, sulle automobili sequestrate, sui carri armati. Passavano lungo il Tevere e andavano verso nord. Per tutta la notte c’è stata una colonna disordinata di fuggitivi e poi, a un certo momento, è finito tutto. Dopo un’ora sono arrivati gli Alleati con le camionette. Faceva impressione vedere tutti questi mezzi, i carri armati. Ma il passaggio è stato completamente pacifico. Non credo che i tedeschi abbiano opposto, anche in altre parti di Roma, nessuna resistenza. Anzi, dopo tutto il rumore delle truppe in ritirata, prima dell’arrivo degli Americani c’è stato un periodo di assoluto silenzio. Capimmo che era la fine dell’esercito tedesco e che fra poco sarebbero arrivati gli Alleati. Infatti dopo un’ora cominciarono ad arrivare le prime truppe. Era mattina, il passaggio dei tedeschi era durato tutta la notte”.

Roma è finalmente libera. Ricasoli vorrebbe tornare subito a casa, è in ansia per la sorte dei familiari ma, con il fronte in rapido movimento, è impossibile trovare mezzi di trasporto. Per fortuna parla un ottimo inglese. Fa conoscenza con un certo colonnello Kennedy, destinato a essere il responsabile dell’agricoltura nel futuro Governo Militare alleato della Toscana. La persona giusta al momento giusto.

“Gli avevo detto che mi interessavo di agricoltura nell’azienda della mia famiglia e che ero studente di Agraria all’università di Firenze. Allora il colonnello mi chiese: “Se vieni con me, mi puoi aiutare e darmi dei consigli, perché io di agraria non me ne intendo”. Io accettai volentieri, e allora si combinò che lui mi portava con sé sulla sua jeep, e con questa, via via che il fronte avanzava, ci spostavamo in su lungo la costa. Stemmo a Santa Marinella per qualche tempo, poi andammo fino a Civitavecchia e poi su fino a Grosseto. Era la prima provincia della Toscana, il colonnello già si sentiva un po’ investito, anche se nelle province toscane il responsabile dell’agricoltura, che era lui per tutta la regione Toscana, non aveva un proprio corrispondente, un proprio ufficio per l’agricoltura, per cui doveva affidarsi agli uffici dell’alimentazione. Mi disse “Qui non ho nessuno a cui io possa dare delle istruzioni. Senti, se vuoi rimanere in una delle province toscane rimani, anzi, se hai qualche altro amico disposto a fare come te, io lo manderei in altre province. Io starò a Firenze e terrò i contatti attraverso voi”. Io accettai e scelsi Siena. Pensavo che i miei fossero ancora a Brolio, ma eravamo rimasti interrotti dalla guerra, non sapevo cos’era successo”.

Nella città di Siena appena liberata Bettino Ricasoli collabora con il Governo Militare Alleato. Ha il suo ufficio in Prefettura, alloggia con gli ufficiali, pur essendo un civile – il passaggio nelle Guardie Palatine comportava il licenziamento dall’esercito – e viene trattato come uno di loro.
In provincia invece si combatte ancora, i cannoni alleati piazzati sotto le mura sparano verso nord. Un giorno si sparge la voce che il castello di Brolio sta andando a fuoco…

“Sentii la gente che si era radunata nella piazza del Duomo che diceva: “A Brolio c’è stato un combattimento, è andato tutto distrutto”. Impressionato, andai subito sulle mura di Siena, a San Francesco, da dove si vede benissimo Brolio. La giornata era bellissima, chiara, e vidi effettivamente il castello in una nuvola di fumo rosso. Pensai “sta bruciando”. Proprio sotto Siena c’erano delle batterie di cannoni che sparavano in quella direzione. Ero molto preoccupato per la sorte dei miei. Immaginavo che fossero lì, ma avrebbero anche potuto essere andati via, non potevo saperlo. Dopo qualche giorno l’avanzata alleata proseguì abbastanza rapidamente e anche Brolio venne liberato. Alcuni ufficiali inglesi mi dissero: “Adesso si può andare, ti portiamo a vedere cos’è successo”.
Trovai il posto ridotto male, ma tutti i miei, i genitori, le mie quattro sorelle e il mio fratello minore, erano lì e stavano bene. Mi resi conto che quel fumo rosso che si vedeva da Siena era la polvere dei mattoni della facciata. Le cannonate, esplodendo sul mattone, davano una polvere rossa che tingeva le nuvole di fumo. Era quella la causa del rosso, non c’era stato nessun incendio”.

Ironia della sorte. Il castello è stato scelto come rifugio dalla famiglia Ricasoli e, per un certo periodo, anche da una cinquantina di contadini. Si rivela invece il luogo più pericoloso, l’unico edificio della zona ad essere preso di mira dalle cannonate. Per via della sua posizione elevata, i Tedeschi vi hanno stabilito un posto d’osservazione e da lì dirigono il fuoco delle artiglierie contro gli Alleati che, in risposta, cannoneggiano il castello per diverse ore al giorno.

“I tedeschi lì erano pochissimi, una pattuglia, pochi soldati che non avevano altro scopo che di dirigere il fuoco sulle colonne alleate che da lì potevano vedere. Volevano far credere che lì ci fosse una forza militare di una certa importanza. Stavano nelle cantine, e anche i miei familiari vi si erano rifugiati. Anzi, prima che gli alleati si avvicinassero, le mie sorelle avevano fatto amicizia con uno o due di questi ufficiali tedeschi e loro con i binocoli gli facevano vedere i movimenti dei carri armati alleati intorno a Siena. Le mie sorelle si divertivano, “si vede la guerra!” dicevano. A un certo momento sentirono il fischio di un obice che passava sopra le loro teste, allora i tedeschi dissero loro di mettersi al sicuro in cantina perché il gioco si faceva più pericoloso.
Il cannoneggiamento contro il castello durò parecchio, diverse ore tutti i giorni. Quando io arrivai a Siena era in pieno svolgimento. La liberazione del castello avvenne quattro-cinque giorni dopo”.

I primi ad entrare a Gaiole e nel castello come liberatori sono i Sudafricani. Gente civilissima e ottimi soldati, così li ricorda il barone. Dopo il passaggio del fronte, tutto intorno spuntano gli accampamenti. Brolio diventa zona di riposo per le truppe che hanno combattuto in prima linea e che periodicamente si alternano con quelle delle retrovie.
Il castello è danneggiato, ma le mura hanno resistito egregiamente alle cannonate. Qui come altrove ci si mette subito a riparare, a ricostruire.
Bettino Ricasoli continuerà a collaborare con il Governo Militare alleato per alcuni mesi. Il suo ufficio deve organizzare tutto il settore agricolo nella provincia di Siena. Lascia l’incarico a fine ottobre del ‘44 per riprendere gli studi di agraria che aveva dovuto interrompere.
La guerra non è finita, nel nord si combatte ancora. Ma nelle zone liberate si ricomincia a vivere.

(Seconda parte della testimonianza di Bettino Ricasoli, raccolta il 5 marzo 2004)

la prima parte dell’intervista in: L’8 settembre di Bettino Ricasoli

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




L’8 settembre di Bettino Ricasoli

L’Armistizio, la dissoluzione dell’esercito, Roma occupata dai nazisti nel racconto di Bettino Ricasoli.

La tragedia dell’8 settembre 1943 ha segnato un’intera generazione di Italiani.
Dopo l’annuncio dell’Armistizio centinaia di migliaia tra soldati e ufficiali, sparsi sui vari fronti di guerra, si trovarono di colpo privi di ordini, senza saper che fare né dove andare, abbandonati alla mercé dei Tedeschi, non più alleati ma nemici.
Qualcuno riuscì a tornare a casa con mezzi di fortuna. Chi cercò di resistere, come i nostri soldati a Cefalonia e Corfù, venne massacrato senza pietà. Oltre 630.000 militari italiani, rastrellati o catturati con l’inganno, furono deportati in Germania.
Bettino Ricasoli aveva allora 21 anni. Richiamato alle armi nel gennaio del ‘43, alla fine di luglio era a Terracina per un periodo di addestramento prima di essere inviato al fronte. Qui lo colse l’8 settembre, quando non aveva ancora combattuto né sparato un solo colpo.
Il barone ha accettato di raccontare la sua personale avventura. Lucidità e chiarezza della narrazione, insieme all’eccezionalità delle circostanze di cui è stato testimone, rendono preziosa la sua testimonianza.

“C’era già stato lo sbarco a Salerno, Terracina e la ferrovia Roma-Napoli venivano spesso bombardate dall’aviazione alleata. Noi dovevamo sorvegliare la costa e agire se ci fossero stati degli sbarchi nel tratto fra il monte Circeo e Terracina. Lì ci prese l’8 settembre. Rimanemmo ai nostri posti, non sapendo esattamente cosa fare, tutte le comunicazioni con i comandi erano interrotte. Con i nostri ufficiali decidemmo di togliere gli otturatori ai cannoni per renderli inservibili, nel caso che i tedeschi si impossessassero di queste zone, e di andare a Sabaudia, dov’era il comando della divisione da cui dipendevamo. Vi arrivammo andando a piedi attraverso i campi durante la notte per non farci vedere. Eravamo convinti che i Tedeschi avrebbero opposto resistenza”.

Li attendono due sorprese. La prima è che a Sabaudia il comando di divisione non c’è più, dissolto come neve al sole. Increduli e confusi, i soldati decidono di tornare indietro e rioccupare le posizioni, per non rischiare di passare da traditori. Precauzione inutile, perché la postazione è deserta e dei comandanti non c’è traccia.
La seconda sorpresa è che i Tedeschi fuggono in maniera disordinata, con tutti i mezzi che riescono a trovare.

“Scappavano lungo la costa con chiatte, barche, barconi, soprattutto di notte. Andavano verso il nord. Vicino a noi c’era una postazione antiaerea tedesca. Una mattina un gruppo di soldati tedeschi che erano al servizio di questa postazione, armati fino ai denti, con collane di proiettili, vennero a dirci: “La guerra è finita, noi ci arrendiamo a voi”, proprio così. Noi non sapevamo cosa fare nemmeno di noi stessi, non avevamo più rifornimenti di cibo, non sapevamo più niente, eravamo abbandonati lì. Gli dicemmo: “Se volete restare con noi rimanete, ma non abbiamo nemmeno da darvi da mangiare”. Allora andarono via”.

Nei primi giorni dopo l’armistizio i Tedeschi che si trovano a sud di Roma attraversano una fase di smarrimento, con l’esercito alleato che incalza. Scappano verso il nord più velocemente che possono senza incontrare, purtroppo, nessuna resistenza. Ben presto si riorganizzano e riprendono il controllo della situazione.

“Per un certo numero di giorni anche i Tedeschi non sapevano cosa fare e si ritiravano. Secondo quello che potevamo giudicare noi dal nostro punto di vista, se a Roma ci fosse stata una volontà di combattere, se ci fosse stato un esercito organizzato e comandato in modo efficace, sarebbe stato possibile bloccarli. Dopo qualche giorno, a una settimana circa dall’armistizio, è arrivato nella nostra zona, fra il monte Circeo e Terracina, un ufficiale tedesco. Hanno emesso un proclama in cui si stabiliva che tutti i giovani in età militare dovevano consegnarsi alle autorità tedesche. A quel punto decidemmo di andar via”.

Rientrato in Toscana Bettino Ricasoli si ricongiunge ai familiari, che da Firenze si sono trasferiti nel loro castello a Brolio, presso Gaiole in Chianti. Dovrebbe essere una sistemazione abbastanza sicura, lontana dalle principali vie di comunicazione. Ma non è affatto sicura per il giovane, che a Gaiole è un personaggio molto in vista. Non avendo nessuna intenzione di arruolarsi nell’esercito di Salò, non gli rimane che nascondersi. Sceglie Roma, dove ha dei parenti che possono aiutarlo ed è più facile far perdere le proprie tracce.
Nella capitale occupata dai nazisti l’atmosfera è cupa. Repubblichini e tedeschi danno la caccia ai renitenti, gli scantinati sono pieni di sfollati, manca il cibo. Il Vaticano ricorre a un espediente per salvare un certo numero di giovani dai rastrellamenti: li arruola nella Guardia Palatina. Tra di loro c’è anche Bettino Ricasoli.

“A un certo momento il Vaticano ha voluto mettere più al sicuro molti di quei giovani che erano a Roma nelle mie condizioni e ottenne dal comando tedesco di aumentare l’arruolamento delle proprie guardie palatine, per proteggere gli immobili extraterritoriali, che appartengono allo stato del Vaticano ma sono nella città di Roma.
In quell’occasione anch’io riuscii a entrare al servizio della Città del Vaticano, con l’obbligo di fare un turno di guardia ogni 10 giorni. Fui assegnato alla Casa Generalizia dell’ordine dei Gesuiti, che è dietro il colonnato di San Pietro e domina la collina che guarda il Tevere. Ci sono ancora le vecchie mura di Roma, il servizio consisteva nel passeggiare avanti e indietro su queste mura. Facevo il turno di guardia e mi occupavo di assistenza. Roma si riempì di sfollati dalle campagne che venivano su, spinti dall’avanzare del fronte. Venivano dal napoletano, da Cassino. Stavano accampati in questi tunnel, erano state organizzate delle mense che ottenevano dal Vaticano piselli secchi che venivano cotti e distribuiti. Me ne alimentavo anch’io. Giravo per Roma con una tessera che avrebbe dovuto proteggermi se fossi incappato in quelle che chiamavano le retate: i repubblichini chiudevano un gruppo di strade e passavano al setaccio tutti quelli che erano dentro; se trovavano qualcuno in età da militare veniva preso e portato via su al nord, si diceva nei campi di concentramento in Germania. Ma con la carta del Vaticano si era quasi sicuri”.

Nonostante la fame e il clima di oppressione Ricasoli è convinto, come tutti, che gli Alleati non tarderanno ad arrivare. Nell’autunno del ‘43 nessuno immagina che il fronte rimarrà bloccato a Cassino per sei lunghi mesi. E l’occupazione nazista della Capitale si trasforma in un incubo che sembra non aver mai fine.

(Prima parte della testimonianza di Bettino Ricasoli raccolta il 4 marzo 2004)

La seconda parte dell’intervista in “L’incendio di Brolio”.

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




La presentazione del libro “Angiolino” alla San Giorgio

Domani martedì 5 maggio alle 17 nella Sala Bigongiari della biblioteca San Giorgio sarà presentato il libro “Angiolino. Si doveva chiamare Benedetti” di Mauro Fondi, pubblicato nel 2014 dalla casa editrice Ibiskos. Insieme all’autore interverrà all’iniziativa Chiara Recchia, insegnante in pensione, a sua volta scrittrice e ricercatrice di storia locale. Gli attori Giuseppe Intrieri e Francesco Renzoni leggeranno alcuni brani dell’opera.
L’iniziativa rientra nel nuovo ciclo di Leggere, raccontare, incontrarsi, gli appuntamenti organizzati dal Comune di Pistoia con lo scopo di promuovere la conoscenza di autori e storie locali.
Alla sua prima opera narrativa, in Angiolino Mauro Fondi rievoca la storia del nonno e del modo in cui questo, all’età di trentacinque anni, riesce a ricongiungersi con la famiglia di origine. Infatti, rimasto orfano a soli due mesi, Angiolino viene affidato al baliatico di Pistoia e separato dai fratelli più grandi, che invece vengono affidati a istituti diversi nella provincia di Firenze. Adottato da una coppia di Castel Casio sull’Appennino bolognese, dopo varie traversie torna a Prato, città in cui è nato e dove si sposa. Qui, grazie all’incontro con un anziano mendicante, riesce a scoprire le sue origini e a incontrare i fratelli che aveva cercato a lungo.
Mauro Fondi è nato a Prato nel 1958. Appartiene a una famiglia che nel corso del Novecento si è distinta nella storia pratese per l’impegno civile e sociale, prima nell’antifascismo e poi, nel dopoguerra, nel movimento operaio. Ha frequentato la scuola dell’obbligo per poi interrompere gli studi e iniziare a lavorare come elettricista industriale. Dal 1998 si occupa anche di servizi tecnici per gli spettacoli teatrali e musicali, e al teatro si dedica anche in prima persona, collaborando con un gruppo teatrale amatoriale. Si è appassionato alla scrittura fin da giovane, ma la mancanza di studi gli ha posto alcuni limiti. Dopo anni di letture, ha iniziato a scrivere storie inventate o ispirate a esperienze personali, fino alla stesura del romanzo che narra le vicende del nonno. Attualmente vive nella campagna circostante la sua città natale, dove si dedica anche alla produzione di olio e miele.




Settant’anni di Resistenza. Raccontare la Resistenza.

Nell’ambito di “Fuori, vicino, attraverso”, Festa di Nazione indiana a Pistoia, presso il Circolo Le Fornaci, domenica 10 maggio ore 16.15 incontro dibattito sulle narrazioni della Resistenza.

Chi racconta, a 70 anni dalla Liberazione dell’Italia, la Resistenza partigiana come la racconta? E com’è stata raccontata nel passato? La domanda tocca trasversalmente sia le narrazioni documentaristiche che quelle finzionali, la letteratura e la storiografia, insomma tutto ciò che contribuisce a formare l’immaginario e la memoria collettiva.
Ne discutono Stefano Bartolini, storico dell’Istituto della Resistenza di Pistoia, Federico Bertoni, ordinario di Critica Letteraria dell’Università di Bologna e Helena Janeczek, scrittrice.




A Cascina la mostra “La Guerra bianca”

Cascina_11mag15Si inaugura a Cascina (Pisa) l’11 maggio alle ore 10.30 “La Guerra Bianca”, presso la biblioteca comunale Peppino Impastato, la mostra-documento sulla I Guerra Mondiale.

La mostra sarà inaugurata con una conferenza in cui interverranno Catia Sonetti, direttore dell’Istoreco Livorno, con la relazione: “Dall’elenco dei caduti della Grande Guerra: riflessioni e considerazioni ad una lettura analitica dei dati” e Marco Manfredi, docente dell’Università di Pisa, con la relazione “Piccole patrie, Grande Guerra. Il conflitto dei civili“.




A Livorno la presentazione del volume “Diario della prigionia (1943-1945)” di Ivo Michelini

Michelini_9mag15Sabato 9 maggio, alle ore 17.00, presso l’Anfiteatro del Museo di Storia Naturale del Mediterraneo di Livorno (Via Roma 234), si terrà la presentazione del volume “Diario della prigionia” (1943-1945) di Ivo Michelini, a cura di Piero Michelini.

Il volume presenta il diario di un soldato di fanteria, Ivo Michelini, fatto prigioniero a Pola dopo l’ 8 settembre 1943 e portato in un campo di concentramento in Germania.
Il diario, ritrovato dal figlio Piero, è un inedito ritratto della vita in un campo di concentramento tedesco ed è arricchito da commenti, documenti e foto, scaturiti da intense e commoventi ricerche sulle tracce del padre.

Interverranno, oltre a Piero Michelini, Catia Sonetti, Direttore dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Livorno e Gino Niccolai, presidente dell’Anpi di Livorno.

L’evento è organizzato dall’Istoreco insieme al Comune e Provincia di Livorno, ANPI, ANPPIA, ANEI, ANED Livorno.




Dopo la Liberazione.

“Ancora non ci siamo totalmente ritrovati! Siamo tutt’ora smarriti, siamo come un malato in convalescenza che non trova la via di rimettersi, perché lotta fra la miseria, la sfiducia e la fiducia”. Scrivendo nel settembre 1944 al cardinale Elia Dalla Costa, don Girolamo Barzagli, parroco di S. Andrea a Fabbrica (comune di San Casciano Val di Pesa), descriveva con queste parole lo stato d’animo prevalente tra i suoi fedeli a poche settimane di distanza dalla liberazione. Fiducia per quanto rinasceva dopo il fronte ma al contempo disorientamento per un futuro ancora incerto si fondevano assieme, orientando il giudizio complessivo di coloro che avevano vissuto la guerra e la liberazione nei comuni di Barberino Val d’Elsa, Tavarnelle e San Casciano Val di Pesa; piccole comunità rurali della provincia fiorentina, chiuse nel loro mite microcosmo agricolo, sulle quali la guerra e il passaggio del fronte avevano pesato in modo particolare.

Divenuti alla fine del luglio 1944 terreno di battaglia aspramente conteso tra tedeschi e alleati in vista della liberazione di Firenze, questi tre comuni a cavallo tra Val d’Elsa e Val di Pesa avevano infatti pagato a caro prezzo questa loro rilevante posizione strategica, tanto che, il grosso delle perdite umane e materiali subite si era concentrato proprio nei giorni del passaggio del fronte, grossomodo tra il 20 e il 27 luglio. Una serie di stragi e stillicidi compiuti dagli uomini della IV FallschirmjDiffuse e capillari devastazioni prodotte in ritirata dai guastatori tedeschi nonché dai combattimenti stessi avevano al contempo straziato le campagne, distrutto strade, ponti e ridotto in macerie i principali abitati, nonché sensibilmente colpito il patrimonio agricolo e zootecnico di queste comunità. Per questo, la liberazione dei tre comuni lasciò in eredità agli amministrazioni post-bellici un’ emergenza che fu anzitutto umanitaria e demografica. Nel comune di Tavarnelle Val di Pesa, dopo la liberazione del 23 luglio, in circa 500 avevano avuto la casa completamente distrutta e 1.400 gravemente sinistrata. A San Casciano, 863 erano le persone che avevano perso la propria abitazione, 1.046 quelle con la casa gravemente danneggiata, mentre 684 ancora nel novembre 1944 vivevano in rifugi temporanei. A questa massa di sinistrati si aggiungeva inoltre un ingente numero di sfollati provenienti da altri comuni: alla fine del 1944 se ne contavano 265 a Tavarnelle, 1.412 a San Casciano e 850 a Barberino. Già prima del fronte molti di questi sfollati erano riparati in luoghi e locali di fortuna, quali cantine e tinaie, e persino in cave e miniere, come era avvenuto ad esempio nella miniera di lignite di Tignano, dove si erano sistemate 6-700 persone. Dopo il fronte, provvedere al rientro di questa popolazione negli abitati, dando un tetto a chi ne era rimasto senza, fu uno dei compiti che tentarono di portare a termine le giunte provvisorie dei tre comuni, col concorso dei locali Comitati di liberazione nazionale (Cln) e sotto la supervisione del governo militare alleato.

All’indomani della liberazione, riattivata la macchina amministrativa, le giunte provvisorie di Barberino, Tavarnelle e San Casciano danno così inizio alle prime riparazioni. In mancanza di materiale edile e di fronte ad un mercato che si caratterizza subito per l’eccessivo aumento dei prezzi, si ordina lo smantellamento delle strutture agricole superflue, come concimaie e magazzini, e il reimpiego dei materiali per consentire le riparazioni più urgenti entro gli abitati distrutti. Parallelamente, si fa affidamento su coloro che hanno avuta salva la propria abitazione, che adesso vengono richiesti di mettere a disposizione anche di altre famiglie di sinistrati. È una corsa contro il tempo quella con la quale si tenta, prima del sopraggiungere del primo inverno di liberazione, di mettere al riparo i senza tetto. Ma i principali abitati sono un groviglio di edifici semidistrutti e macerie sotto alle quali si trovano ancora ordigni inesplosi. Nella totale impossibilità di fare affidamento sull’intervento delle autorità provinciali, in ciascuno dei tre comuni si decide pertanto di iniziare autonomamente l’opera di prima ricostruzione, talvolta adottando, “il sistema di indipendenza dagli uffici burocratici” col quale cioè si pone mano alle riparazioni senza attendere il naturale decorso delle autorizzazioni necessarie  e facendo affidamento su maestranze e manodopera locale. Con questo sistema, nell’agosto 1945 a San Casciano “dei sette ponti completamente demoliti nella rete stradale interna” ben cinque erano già stati ricostruiti, grazie anche all’aiuto prestato “da parte di proprietari e coloni, i quali si sono volontariamente quotati ad offrire trasporti e mano d’opera a titolo gratuito”. D’altra parte, sin dopo la liberazione, tutta la popolazione maschile in età adulta (fatta eccezione dei mezzadri) è stata chiamata al lavoro per gli interventi più necessari, secondo una mobilitazione obbligatoria da cui dipende tra l’altro la possibilità delle famiglie di accedere alla distribuzione dei generi alimentari. Oltre alle macerie, infatti, la fame.

Con l’interruzione della campagna granaria a causa del passaggio della guerra, la devastazione delle coltivazioni e la perdita del patrimonio bovino (diminuito del 16% a Barberino, del 27% a Tavarnelle e del 43% a San Casciano sui valori anteguerra), il sostentamento delle popolazioni locali viene a dipendere principalmente dalle distribuzioni alleate e da quanto si riesce ancora a reperire in zona. In alcune aree, si è costretti a nutrirsi prevalentemente della frutta dei campi mentre, come notano le autorità alleate, “la popolazione vive spesso procurandosi erbe selvatiche”. Le distribuzioni alleate registrano col passare dei mesi ritardi e rallentamenti, dando spesso adito a proteste popolari, come accade a San Casciano quando, alla fine del 1944, le donne del paese scendono in piazza per manifestare di fronte al palazzo municipale. Tocca dunque agli uffici comunali all’assistenza, spesso con quanto messo generosamente a disposizioni da fattorie e mezzadri della zona, organizzare i primi soccorsi, distribuendo cibo, indumenti e masserizie. È una gestione dell’emergenza, questa diretta dalle amministrazioni comunali, che sovente si scontra però con le esigenze delle autorità provinciali, le qual,i spesso con troppa leggerezza, distolgono le residue risorse locali allo scopo di soddisfare la piazza di Firenze. Allo stesso tempo, si tenta urgentemente di ripristinare i servizi medici basilari, a fronte di una situazione che a causa della malnutrizione e della contaminazione delle acque conseguente alla distruzione degli acquedotti e della rete fognaria diviene sempre più urgente. Numerosi casi di febbre tifoide, alcuni letali, si diffondono nelle settimane seguenti al passaggio del fronte, costringendo le amministrazioni a reimpiegare d’urgenza il personale medico disperso a seguito del fronte.

Ma è dirigendo la macchina governativa dei sussidi giornalieri che le amministrazioni provvisorie, tramite il reimpiego degli Enti di assistenza comunali e la costituzione di appositi comitati all’assistenza, tentano di risollevare la popolazione dalla condizione miserevole in cui l’ha spinta la guerra. Sussidi giornalieri di importo variabile sono infatti rilasciati a vantaggio delle categorie più colpite, quali i sinistrati, gli sfollati, i profughi, i reduci dalla prigionia e soprattutto i familiari delle vittime nazifasciste ed i congiunti dei partigiani caduti. Una macchina dell’assistenza che sul piano nazionale, soprattutto sotto il governo guidato da Ferruccio Parri, si adegua ad un ambizioso progetto politico volto a rifondare il paese non solo su nuovi principi politici (l’antifascismo) ma anche su nuove basi materiali di esistenza. Rispondere ai bisogni materiali di cui i superstiti della guerra chiedono soddisfazione alle autorità costituite – come ad esempio fanno le vedove della strage di Pratale in un’accorata petizione inoltrata al comune nel maggio 1945 – equivale a riconoscere ed accogliere il loro diritto materiale “di ritorno alla vita”. Una sensibilità e un indirizzo effettivo che con estrema difficoltà si tenta di soddisfare anche nei tre comuni.

Ponte Argenna - S. Donato

San Donato in Poggio (Tavarnelle Val di Pesa) 1945. Il ponte sull’Argenna in fase di ricostruzione dopo la guerra (Archivio Forconi)

Benché il processo di uscita dalla guerra e di ricostruzione si rivelerà un percorso lungo e difficile destinato a protrarsi negli anni seguenti, sono però i primi mesi successivi alla liberazione che costituiscono per queste comunità e i loro amministratori il momento determinante col quale tentare di risollevare dai disagi della guerra le popolazioni locali. Spesso, si cerca di far ciò attraverso provvedimenti e processi autonomi che mettono in luce, seppur con tutti i limiti del contesto, il protagonismo, la dedizione e l’impegno delle giunte provvisorie. Queste ultime puntano a fare della loro attività di assistenza e ricostruzione un’occasione attraverso la quale sperimentare un rapporto più aperto e partecipativo con le proprie cittadinanze, all’insegna del nuovo clima democratico che si apre dopo il fronte. La volontà della giunta di Tavarnelle di sottomettere la decisione di acquistare un alternatore che consenta il ripristino della fornitura elettrica ad un referendum popolare, che in effetti si svolge nel dicembre 1944 con la partecipazione di circa 200 cittadini, è un esempio significativo (oltreché curioso) di questo nuovo spirito di rinascita democratica.

Anche la ripresa della vita sociale e politica dopo il fronte si indirizza nei tre comuni lungo un percorso pervasivo, benché non sempre lineare, di rinascita democratica. Nelle giunte provvisorie, così come all’interno dei Cln, tra i diversi partiti antifascisti maturano momenti di tensione su questioni di natura politica e amministrativa. In particolare, la capacità di condurre a termine l’epurazione degli elementi collusi col fascismo, se è avvertita dai comitati come spia della genuinità della democrazia che si sta ricreando in Italia, d’altra parte viene però interpretata dai partiti antifascisti con diverso grado di radicalità. Così, mentre nel settembre del 1945 il Cln di Tavarnelle è costretto a rassegnare in tronco le sue dimissioni, perché incapace di operare a fondo quell’epurazione che la popolazione nel frattempo gli richiede, a San Casciano nel giugno 1945, proprio a riguardo di un provvedimento di epurazione, matura una rottura (seppur temporanea) ai vertici del governo locale tra il sindaco comunista Aldo Giacometti e il vicesindaco democristiano Primo Calamandrei; rottura che porta alle dimissioni di quest’ultimo e alla fuoriuscita dal Cln di tutti i rappresentanti della Dc. Tensioni queste – certo sintomo di un fermento democratico dirompente -, che si riflettono inoltre sugli assetti amministrativi esistenti tra il centro e la periferia municipale: dopo il fronte, ad esempio, si registrano infatti da parte di alcune frazioni di comune richieste e istanze a rendersi municipalità autonome, come ad esempio si tenta di fare a San Donato in Poggio e a Mercatale Val di Pesa. Tentativi di trasformazione contro i quali le autorità superiori alleate e italiane intervengono a difesa dei tradizionali equilibri territoriali e amministrativi, al pari di quanto fanno nel frattempo anche sul piano degli assetti politici. In questo campo, alleati e autorità prefettizia sembrano seguire con circospezione e preoccupazione il protagonismo che alcuni esponenti del partito comunista esercitano entro i Cln e i governi locali. Simili indirizzi sono rintracciabili ad esempio in occasione dell’interessamento alleato dimostrato per Ottavio Gimignani, membro comunista del Cln di S. Donato in Poggio, indicato come un “ardente comunista” e ritenuto addirittura pericoloso per la stessa comunità; oppure, in modo simile, orientano l’intervento dell’autorità prefettizia che alla fine del 1944 suggerisce un rimpasto della giunta comunale di Barberino con nomina di rappresentanti democristiani in sostituzione di quelli comunisti. Conflittualità, queste che interessano comunisti e democristiani, destinate poi a infittirsi in prossimità della campagna elettorale per le triplici elezioni del 1946, benché poi gli assetti usciti dalle urne non siano tali da minare ancora l‘unità antifascista esitente tra i due partiti; non almeno a San Casciano, dove  comunisti e democristiani si scambiano pubblicamente reciproche congratulazioni per i piazzamenti riportati all’indomani delle amministrative del 1946. Benché il lungo dopoguerra sia formalmente iniziato, l’ombra del conflitto che si è da poco lasciato alle spalle continua a popolare l’orizzonte comune di queste tre piccole comunità della provincia fiorentina, le cui forze politiche proprio in occasione delle prime elezioni amministrative libere del 1946 danno conto nei loro programmi elettorali di quanto fatto e di quanto ancora resta da fare per un completo ritorno – materiale, morale, sociale e politico – alla normalità.

Manifestazione CGIL San Casciano

Manifestazione della CGIL unitaria a San Casciano nell’immediato dopoguerra (Archivio La Porticciola)

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.