Cristo si è fermato in piazza Pitti

«Nel mezzo del cimitero si apriva una fossa, profonda qualche metro, con le pareti ben tagliate nella terra secca pronta per il prossimo morto. Una scaletta a pioli mi permetteva di entrarci e di risalire senza difficoltà. In quei giorni di calura avevo preso l’abitudine di scendere nella fossa e di sdraiarmi sul fondo… In quella solitudine, in quella libertà passavo delle ore». Così scrive Carlo Levi nel Cristo si è fermato a Eboli. Il cimitero è quello di Aliano, in provincia di Matera, dove il fascismo confinò l’intellettuale torinese nel 1935. Il camposanto era anche il luogo che non doveva oltrepassare. E qui, in un angolo, si fermava a dipingere, sorvegliato da una guardia che non lo perdeva mai di vista. Anzi, il cimitero è stato il primo soggetto che dipinse in questa terra abbandonata da Cristo e dagli uomini. In quello stesso angolo riusciva a scorgere la casa del confino, poco dopo la Fossa del Bersagliere dove i briganti avevano spinto un soldato che si era perso su questi monti. Ed è qui che Carlo Levi ha voluto essere sepolto, dopo la morte avvenuta nel gennaio 1975.

La casa del confino di Carlo Levi

La casa del confino di Carlo Levi

Per otto anni Carlo Levi raccontò i giorni del confino. Ma solo a Firenze, fra l’inverno del 1943 e l’estate del 1944, trovò la forza di scrivere Cristo si è fermato a Eboli, definito da Vittore Brancail libro più importante del nostro dopoguerra”. A Firenze Levi c’era già stato a vent’anni e c’era tornato poco dopo per fare il militare come allievo medico ufficiale nella caserma di via Monte Oliveto. Carlo Levi tornò a Firenze una terza volta nel 1941 indirizzato dalla donna che amava, Paola Olivetti, fiorentina, moglie di Adriano, l’industriale delle macchine da scrivere. Paola e la zia Drusilla, compagna di Eugenio Montale, gli trovarono uno studio nel piazzale Donatello. Ci doveva restare un mese. Si fermò, invece, per quattro anni.

Nell’autunno del 1943 trovò rifugio in casa di Anna Maria Ichino in piazza Pitti. In quell’appartamento Levi scrisse Cristo si è fermato a Eboli, mentre per le strade di Firenze si eseguivano retate di ebrei e si uccidevano renitenti alla leva. Dal cielo gli Alleati bombardavano gli scali ferroviari per impedire i rifornimenti ai tedeschi. Nella casa dove alloggiava Carlo Levi si riunì più volte la Commissione Stampa del Comitato Toscano di Liberazione nazionale. Ed è lì che venne ideata e preparata “La Nazione del Popolo”, organo del Comitato di Liberazione, diretto da Carlo Levi.

Un libro ricostruisce ora la vicenda umana e politica di Carlo Levi. Il volume, scritto da un giornalista, Nicola Coccia, è stato pubblicato da Ets e si intitola L’arse argille consolerai: Carlo Levi dal confino alla Liberazione di Firenze attraverso foto, testimonianze e documenti inediti (pagine 299, 15 euro).

Vi si racconta, fra l’altro, di un partigiano milionario, delle carognate dei fascisti in un convento di clausura, delle stragi di bambini e civili, dell’uccisione della donna più bella del mondo, di Manlio Cancogni portiere di un torneo di pallone nella villa di Mussolini, del furto della valigia di Carlo Cassola, dell’olio e della farina portati a Giorgio Bassani in fuga da Ferrara, dell’erede al trono finito a vendere motorini, del matrimonio della figlia di Amedeo Modigliani con l’uomo che si era gettato in acqua col cappotto per sfuggire all’arresto. Il libro parla soprattutto di Carlo Levi, medico, pittore, componente del Comitato Toscano di Liberazione, della donna che lo protesse, del bambino di cui fu padre putativo, della figlia segreta, della scrittura del Cristo si è fermato a Eboli. Ci sono testimonianze e foto mai pubblicate prima e anche un quadro molto significativo di quel periodo, rimasto chiuso in una stanza. E poi c’è la foto e la storia della persona che suggerì a Levi il titolo del suo capolavoro.
“L’arse argille consolerai” è il verso di una poesia che l’intellettuale torinese scrisse durante il confino ad Aliano. Ed è da quel paese che cominciano le ricerche di Nicola Coccia.

Nicola Coccia ha lavorato all’Avanti, al “Lavoro” di Genova, diretto da Sandro Pertini e per 30 anni alla Nazione dove si è occupato dei principali fatti di cronaca.

Articolo pubblicato nel dicembre 2015.




“Anche dietro le nuvole” mostra retrospettiva di Silvio Loffredo

Il Comune di Fiesole, a due anni dalla scomparsa, organizza la prima mostra retrospettiva del maestro Silvio Loffredo, dal titolo ‘Anche dietro le nuvole’, che sarà inaugurata sabato 12 dicembre alle ore 17:00 nella sala del Basolato. Saranno presenti tante personalità del mondo della cultura che hanno dato il loro contribuito al catalogo e all’organizzazione della mostra.

La mostra, a cura di Alessandro Sarti e Andrea Pignataro, ripercorre cronologicamente la vita del maestro con opere che attraversano i vari periodi e le sue tematiche.

Loffredo, persona estrosa e stravagante, è tra i più noti artisti del Novecento italiano. In questa mostra, saranno esposte circa 90 opere provenienti dall’archivio Loffredo, selezionate dai curatori insieme al figlio Christopher, e altre appartenenti ad alcuni collezionisti privati. Tra i quadri spiccano: i suoi gatti degli anni ‘50, i bestiari, volti di donne, modelle del periodo dell’Accademia, i Battisteri che tanto ha amato e rappresentato in diverse forme. E poi ancora le arche di Noè, ricche di animali che vengono portati in salvo, viste in parallelo con i barconi pieni di emigranti rappresentati negli ultimi anni di attività del maestro.

Loffredo nacque a Parigi nel 1920 da genitori italiani e qui cominciò a studiare arte frequentando corsi di disegno. Dopo la guerra, a cui prese parte nei reparti italiani affiancati alla VIII Armata, ricominciò gli studi in varie accademie italiane, stabilendosi poi a Firenze dove frequentò, fra gli altri grandi interpreti della vita culturale fiorentina, Ottone Rosai e Ardengo Soffici.

Nella sua carriera ha fatto anche il regista, partecipando a numerose rassegne di Cinema, ed è stato titolare della cattedra di pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze per quasi venti anni.

Ha vissuto tra Trebiano (La Spezia) e Firenze, dove aveva lo studio in piazza Santa Croce.

Loffredo ha partecipato a mostre, sia collettive che personali, tenutesi in tutte le parti del mondo, dagli Stati Uniti al Cile, dalla Polonia alla Francia.

Loffredo ha conseguito diversi premi ed è stato insignito nel 2010, dall’allora Sindaco Matteo Renzi, del ‘Fiorino d’oro’ il più alto riconoscimento della città di Firenze.

La mostra è patrocinata dalla Regione Toscana, dai Comuni di Firenze, Pontassieve, San Casciano in Val di Pesa, Montespertoli, e dall’Accademia di Belle Arti di Firenze.




Presentazione del libro ‘Margherita Sarfatti’ di Rachele Ferrario

Mercoledì 9 dicembre, alle 17.30, per Pagine d’arte la storica dell’arte Rachele Ferrario presenterà il suo ultimo libro Margherita Sarfatti. La regina dell’arte nell’Italia fascista. Interverranno con l’autrice il sindaco di Firenze Dario Nardella, il giornalista del Corriere della Sera Aldo Cazzullo e lo storico dell’arte e critico Marco Fagioli.

Strano destino quello di Margherita Sarfatti, giornalista, scrittrice e primo critico d’arte donna in Europa. Ha fondato il gruppo del Novecento, ha progettato e allestito mostre in patria e all’estero, ha frequentato gli intellettuali all’avanguardia del suo tempo, per oltre vent’anni ha influenzato in modo profondo la cultura e l’arte italiane. Eppure, per una sorta di damnatio memoriae, la maggior parte del pubblico la conosce solo come «l’amante del duce». La sua figura è rimasta a lungo «appiattita» su quella di Mussolini. In realtà rivestì un ruolo da protagonista, soprattutto in campo artistico, ma anche in politica e nel forgiare l’ideologia del fascismo.

Colta, elegante, raffinata, Margherita nasce a Venezia nel 1880 da una ricca famiglia ebrea, i Grassini. Fin da giovane frequenta Antonio Fogazzaro e Guglielmo Marconi, conosce la regina Elena e il patriarca Sarto, futuro papa Pio X. Il suo salotto di Milano, un vero laboratorio del pensiero artistico del tempo, è frequentato da futuristi come Marinetti e Carrà, Russolo e Boccioni – con cui intreccia una storia d’amore –, i pittori di Novecento (Sironi, Funi, Bucci), letterati e poeti come d’Annunzio e Ada Negri, e da un giovanotto trasandato ma ambizioso di nome Benito Mussolini. Tra i due scoppia presto la passione, ma nasce anche un proficuo sodalizio in cui ognuno si serve dell’altro. Il duce usa la lucida intelligenza, la spregiudicatezza, le entrature internazionali e nel mondo dell’arte di Margherita; lei, anche grazie al suo rapporto con l’uomo più potente d’Italia, riesce a imporsi sulla scena culturale e a compiere il suo progetto: un’avanguardia artistica in linea con la tradizione classica italiana. Costretta a espatriare nell’imminenza delle leggi razziali, rientra in patria solo dopo la caduta del fascismo, ma resta relegata ai margini della storia.

Oggi il libro di Rachele Ferrario, grazie a una capillare ricerca documentaria e a carteggi inediti, ci restituisce il temperamento di una donna libera, capace di affrontare con coraggio anche il dolore estremo della morte del figlio diciassettenne Roberto, arruolatosi volontario nella Prima guerra mondiale contro la volontà dei genitori. Una donna che vive in anticipo sul proprio tempo e non ama sentirsi dire di no. Nemmeno dal duce, a cui scrive, rivendicando la propria indipendenza: «Mi hai presa, mi hai conquistata, ti sei fatto amare oggi? Sì? Tanto meglio, domani bisogna ricominciare da capo … Io sono nuova; io nasco ogni mattina. Ciò che feci ieri non è la ragione determinante di quanto farò domani…».

Rachele Ferrario, storico e critico d’arte, insegna Fenomenologia delle arti all’Accademia di Brera e Storia delle tecniche artistiche allo Iulm. Cura archivi d’arte e mostre. Collabora con il Corriere della Sera. Nel 1998 ha scoperto un nucleo di 45 opere inedite di Paresce, di cui ha curato mostre antologiche, dirige l’Archivio, ha pubblicato la biografia (Lo scrittore che dipinse l’atomo. Vita di René Paresce da Palermo a Parigi, Sellerio, 2005) e il catalogo generale (Skira, 2012). È autrice di Giulio Paolini. Un viaggio a distanza (Nomos Editore, 2009) e, per Mondadori, di Regina di quadri (2010), la prima biografia di Palma Bucarelli, e Le signore dell’arte (2012), ritratti di Carol Rama, Carla Accardi, Giosetta Fioroni e Marisa Merz.

L’ingresso, libero fino a esaurimento posti, non prevede l’accesso al percorso museale




Oreste Ristori: una storia antifascista tra Toscana e Sudamerica

Oreste Ristori nasce il 12 agosto 1874 sulle colline del Pino, nei pressi di San Miniato. Suo padre fa il pastore, ma a causa della crisi agricola del 1878 la famiglia si deve trasferire a Empoli. Oreste cresce in un ambiente di grande povertà senza poter frequentare la scuola. La madre esegue lavori con la paglia e alleva animali che vengono poi venduti nei mercati di Empoli e San Miniato. Oreste accompagna spesso i genitori e ha occasione di conoscere vari giovani che “blasfemano contro la chiesa” e discutono di politica e anarchia. Inizia a frequentare il gruppo anarchico di Empoli, dove conosce Antonio Scardigli ed Enrico Petri. Con questo viene arrestato per la prima volta durante una manifestazione a San Miniato il 21 marzo del 1892. Nel maggio dello stesso anno muore il padre. Giudicato dalle autorità “anarchico esaltato, di pessimo carattere, contrario al lavoro capace di qualsiasi azione criminale”, negli anni successivi viene arrestato altre volte, e inviato in carcere o al domicilio coatto. Prima a Porto Ercole, da dove fugge assieme ad altri 6 compagni, ripreso finisce alle Tremiti. Qui le condizioni di vita provocano una rivolta, capeggiata dal gruppo degli anarchici, che viene repressa nel sangue e nella quale muore Argante Salucci, anarchico fiorentino del gruppo di Santa Croce sull’Arno. Ristori è processato per incitamento alla violenza e finisce a Pantelleria. Nel settembre ottiene la libertà e ritorna a Empoli, dove è sospettato di voler formare un gruppo per compiere attentati contro persone e cose. Entra in clandestinità ma viene rintracciato e mandato di nuovo al domicilio coatto, questa volta a Ventotene. Di nuovo liberato, ritorna a Empoli, dove fonda un gruppo e inizia a fare propaganda lungo la costa toscana tra Piombino e La Spezia. Siamo nel 1898 e, a seguito dei fatti di maggio a Milano, si succedono varie rivolte un po’ ovunque. Oreste passa clandestinamente a Marsiglia, dove si stabilisce nella folta colonia italiana con il nome di Gustavo Fulvi; identificato, a settembre è rimpatriato e poi inviato al domicilio coatto, a Favignana. Comincia a scrivere articoli per diversi giornali, nell’ottobre del 1899 viene trasferito a Ponza dove conosce Luigi Fabbri. Partecipa alla pubblicazione del numero unico «I Morti» e viene confinato nella fortezza di Gavi. Nel marzo del 1900 organizza una manifestazione in ricordo delle vittime della Comune di Parigi, ma è scoperto e trasferito a Ustica. Intanto, da giovane anarchico irrequieto e ribelle diventa, come segnala la polizia, un capace oratore, guadagnandosi il soprannome di Beccuto, propagandista e stimato giornalista: “Dal 1901 era già un noto corrispondente dei giornali anarchici «L’Agitazione» di Ancona, «Il Risveglio», di Ginevra, «Le Libertaire», di Parigi e «L’Avvenire», di Buenos Aires”. All’inizio del 1901, messo in libertà e rimandato a Empoli, comincia a maturare l’idea di emigrare in Argentina dove ci sono molti anarchici italiani coi quali è in corrispondenza. Dopo un primo vano tentativo riesce a salire come clandestino su una nave e raggiungere, nell’agosto del 1902, Buenos Aires.

Foto segnaletica di Oreste Ristori, anni Venti del '900

Foto segnaletica di Oreste Ristori, 1911

La sua vita in America Latina è degna di un romanzo. Costretto a spostarsi più volte tra Argentina, Uruguay e Brasile a causa delle persecuzioni poliziesche, nei primi trent’anni del nuovo secolo Ristori è un protagonista delle battaglie del movimento operaio. Per ben tre volte riesce a sfuggire, in modi sempre più rocamboleschi, ai rimpatrii forzati applicatigli dalle Autorità, durante l’ultima si frattura entrambe le gambe e ciò lo renderà zoppo per il resto della vita. Fonda due giornali di grande diffusione: «La Battaglia» a São Paulo e «El Burro» (L’Asino), a Buenos Aires. In Brasile, casa sua è frequentata da intellettuali come Oswald de Andrade, uno dei maggiori poeti brasiliani, e vi passa anche il giovane Jorge Amado, come racconta nel suo Anarchici grazie a dio Zelia Gattai, sua futura compagna e che all’epoca era una ragazzina la cui famiglia era amica di Ristori. Dagli anni Venti in poi è particolarmente importante il suo impegno unitario antifascista.

Nel giugno del 1936, a causa della sua attiva partecipazione alle agitazioni popolari che nei primi anni Trenta attraversano la città di São Paulo contro le formazioni paramilitari brasiliane che si ispirano al fascismo, le Autorità riescono infine rimpatriarlo. Pur essendo sorvegliato, poco più di un mese dopo essere arrivato in Italia, riesce a raggiungere la Spagna, ove collabora – vista l’età, probabilmente solo in veste di propagandista – con le forze antifasciste e tenta inutilmente di organizzare l’arrivo di Mecedes, l’amata compagna rimasta in Brasile; verso la fine della guerra raggiunge la Francia, sempre con l’obiettivo di riuscire a riunirsi con Mercedes. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il governo francese lo confina e, nel marzo del 1940, lo rimpatria. Le Autorità lo obbligano a risiedere a Empoli, ma Oreste è indomito, cerca gli antichi compagni e in novembre si fa due settimane di carcere per avere diffuso notizie “allarmistiche” sulle sorti della guerra e del regime. Intanto anche lo scambio di corrispondenza con Mercedes termina perché la guerra determina l’interruzione dei contatti tra Italia e Brasile. Nel 1943, è uno dei primi a scendere in strada per festeggiare la deposizione di Mussolini. Nuovamente arrestato, è rinchiuso alle Murate a Firenze. Nella notte del primo dicembre i partigiani uccidono il capo del Comando militare Gino Gobbi. Al mattino seguente Ristori, l’anarchico Gino Manetti e i tre militanti comunisti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi e Orlando Storai, vengono prelevati dalla milizia fascista, condotti al campo di tiro delle Cascine e fucilati per rappresaglia. Si dice che Ristori sia morto fumando la sua pipa e cantando l’Internazionale.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.




La grande sfida. Lectio magistralis di Paul Ginsborg

Sala Comparetti – Chiostro pizza Brunelleschi (Firenze)
PER L’INAUGURAZIONE DELLE ATTIVITÀ DIDATTICHE A.A. 2015-2016 del DOTTORATO DI STUDI STORICI – UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE E DI SIENA

Saluti introduttivi: Anna Dolfi, Delegata al Dottorato di Ricerca, e Stefano Zamponi, Direttore del Dipartimento SAGAS
Presiede: Andrea Zorzi, Coordinatore del Dottorato di Studi Storici

LECTIO MAGISTRALIS di PAUL GINSBORG (Università di Firenze)
La grande sfida. Vita familiare, diritti sociali e stato democratico 1942-2015

L’incontro è aperto a tutti gli interessati




Quali linee per il futuro della rete? A Milano la Conferenza nazionale dei direttori degli Istituti della Resistenza

Venerdì 11 dicembre alle ore 11 presso la Casa della Memoria, nuova sede dell’Insmli, è convocata la Conferenza dei Direttori della rete degli Istituti della Resistenza in Italia per discutere sulle linee e le prospettive di attività, all’indomani del Settantesimo anniversario della Liberazione. La nuova fase che si apre rappresenta una sfida significativa che necessita di risposte all’altezza delle sfide dei tempi per Istituti che, muovendosi sempre più in una dimensione di rete, sappiano essere centri di studio, ricerca, divulgazione e raccolta di documentazione sul Novecento, a partire dall’originario impegno sulla Resistenza, quale nodo cruciale della vicenda nazionale.




1975-2015 Quarant’anni senza Ernesto Ragionieri. Storia, politica e società

Nel quarantesimo anniversario della sua scomparsa, il Comune di Sesto Fiorentino rende omaggio ad Ernesto Ragionieri. Un grande intellettuale, un sestese illustre che con i suoi studi ha dato un contributo fondamentale alla ricerca storica italiana.

“1975-2015 Quarant’anni senza Ernesto Ragionieri. Storia, politica e società” è il titolo del convegno organizzato grazie al fondamentale supporto della famiglia Ragionieri e insieme alla Società per la Biblioteca Circolante, storica associazione che dal 1869 gestisce il servizio di lettura pubblica (dal 1975 in collaborazione con il Comune).
Un grande evento organizzato per festeggiare i 5 anni della Biblioteca di Sesto Fiorentino che porta il suo nome dal 2001.

Sabato 5 dicembre, alle 16, nella sala Meucci della Biblioteca Ragionieri, si alterneranno gli interventi di famosi storici come Aldo Agosti (Università di Torino), Simonetta Soldani (Università di Firenze) e Gianpasquale Santomassimo (Università di Siena) e il prezioso contributo della moglie di Ernesto Ragionieri, Pina Sergi. Interverrà il vice commissario straordinario del Comune di Sesto Fiorentino, Vincenzo Arancio.

Per l’occasione, la Biblioteca resterà aperta fino alle 19

Ernesto Ragionieri, nato a Sesto Fiorentino nel 1926, è stato un importante storico. Dal 1969 è stato docente all’Università degli Studi di Firenze di storia del risorgimento e poi storia contemporanea. Consigliere al Comune di Firenze e, dal 1963, membro del Comitato centrale del Partito comunista italiano, ha svolto un’intensa attività politica e culturale anche come condirettore della rivista Studi storici. I suoi studi si sono concentrati sul risorgimento, sulla storia del marxismo, della Terza Internazionale e del PCI. Tra le sue opere più importanti, ricordiamo La polemica sulla Weltgeschichte (1951); Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani 1875-1895 (1961); Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita (1967); Il marxismo e l’Internazionale (1968); La storia politica e sociale (in Storia d’Italia, vol. IV, 1976). Ha curato i primi tre volumi delle Opere di Palmiro Togliatti (1967-73) e collaborato ad importanti riviste di settore fra cui “Critica marxista” e “Studi storici”, da lui diretta insieme a Gastone Manacorda.

L’opera che però sta più a cuore ai sestesi è naturalmente “Un comune socialista: Sesto Fiorentino” (1953). Un lavoro di grande rilievo storiografico, che tratta la vita politica e sociale della città partendo dall’Unità d’Italia e dall’insediamento della prima giunta socialista di Pilade Biondi fino al fascismo, in cui la dimensione locale si inserisce perfettamente nel sistema politico italiano e nelle sue dinamiche.

Tre anni dopo la sua morte, nel 1978, viene fondato a Firenze un istituto a lui intitolato per conservare adeguatamente la sua biblioteca e promuovere le ricerche sui movimenti sociali e politici dell’età contemporanea. Verso la metà degli anni ’80 l’Ente cambia sede e il materiale documentario viene collocato nella sede della Biblioteca pubblica di Sesto Fiorentino, in via Gramsci 282.

Nel 2002 il patrimonio librario e documentale viene devoluto alla Biblioteca e si costituisce un “Fondo Ernesto Ragionieri” che oggi conta circa 20.000 volumi, tra cui molti libri antichi anteriori al 1900, e 54 testate di riviste di settore




Le sirene della grande fabbrica nell’Alta Maremma

Ancora negli anni Settanta, andare a Suvereto, era considerato dagli abitanti della vicina città industriale: Piombino, un viaggio quasi a ritroso nel tempo, dentro una zona povera contrassegnata paesaggisticamente da un’abbondanza di macchia mediterranea. Per i giovani che vi abitavano il desiderio più forte era quello di sfuggire da quei luoghi, da quei boschi ricchi di cinghiali e di istrici ma poco, anzi pochissimo, di prospettive di vita allettanti.

E vicino a quel comune rurale c’era la presenza di una realtà industriale forte e consolidata che attirava con le sue sirene, sia quelle vere e proprie, sia quelle più metaforiche, ma anche forse più avvincenti, che raccontavano un inserimento diverso dentro la “modernità”: la casa in città, la centralità nel dibattito politico e culturale del tema dei “metalmeccanici”, il lavoro nella grande industria a capitale pubblico, la sicurezza del salario mese dopo mese, anno dopo anno. Non erano certo quelli i decenni del lavoro interinale, a termine o a progetto. Il lavoro alle Acciaierie, così come alla Dalmine o alla Magona, sembrava senza fine, senza scosse, dava inquadramento alla propria vita e permetteva la costituzione di un nucleo familiare appoggiato su solide premesse.

Occorre però ricordare che quell’attrazione verso i grandi stabilimenti della costa si esercitava già da molti decenni e si realizzava soprattutto tramite le donne presenti nella casa contadina mezzadrile che, quando si profilava loro la possibilità, cercavano di scappare dalla fatica dei lavori in campagna, sposando un lavoratore dell’industria. Una scelta di vita che diventava anche un vero e proprio strumento di emancipazione dalla vecchia famiglia patriarcale.

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Fonte: L. De Nigris, “Suberetum, Sughereto, Suvereto”, Comitato di Valorizzazione e Comune di Suvereto.

Questa tradizioni di “partenza verso la città industriale” che talvolta oltre ad essere quella vicina di Piombino, poteva essere anche quella un po’ più distante di Rosignano con il polo chimico della Solvay, si erano mantenute e consolidate ma erano in qualche modo soprattutto partenza di donne. Gli uomini rimanevano in casa magari aggiungevano mogli provenienti talvolta da fuori e mandavano avanti il podere.

Ma la maggiore scolarizzazione seguita alla riforma della media, l’istituto professionale legato alla siderurgia pubblica, comportò per tutto il decennio Sessanta il richiamo e la partenza anche di elementi maschili dalle campagne vicine verso un destino urbano e industriale. E questo processo si sviluppa più o meno senza fratture fino alla seconda metà degli anni Settanta.

Ma verso la fine di quel decennio, qualcosa cominciò a scricchiolare. Da una parte il tema del “rifiuto del lavoro” e del movimento degli “indiani metropolitani”, dall’altra una maggiore coscienza ecologista si irrobustì, la magia del richiamo per il lavoro senza scadenza, a tempo indeterminato, cominciò ad essere percepita come una gabbia, una gabbia dalla quale uscire. Si cominciarono a cercare soluzioni fuori dal perimetro industriale, talvolta guardando ad un turismo improbabile come quello raccontato anni dopo da Paolo Virzì nel film La bella vita, talvolta provando a fare un viaggio a ritroso, un ritorno alla campagna e da lì reinventarsi una vita, un lavoro, un’attività.

Cominciarono i primi autolicenziamenti dalla grande fabbrica (i primi casi datano 1978-79), che lasciavano soprattutto senza parole l’allora addetto all’Ufficio personale delle Acciaierie. Non c’era memoria di una tale impudenza in nessuno dei decenni precedenti.

Eppure in qualche modo, anche se sicuramente non tutti, furono percorsi a lieto fine, quei giovani che scappavano dalla siderurgia, dal mondo industriale, fecero la scelta giusta. Il tempo gli avrebbe dato ragione. Oggi, abitare a Suvereto, magari all’interno di una azienda agricola proiettata nel mondo col suo sito internet, con il suo pacchetto di relazioni, significa prima di tutto stare dentro un contesto che privilegia la qualità della vita, ma dà anche la possibilità di ricavare reddito da questa.

Non ci fu però, come talvolta si cerca di far passare, una sostituzione di un’attività con un’altra. I numeri che l’agricoltura, anche quella di qualità, mettono in gioco come possibilità di lavoro, sono assolutamente irrisori rispetto all’occupazione offerta dalle attività industriali. E questo resta il problema aperto per tutti noi.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.