Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1]. Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.
«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».
Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.
Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.
I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.
Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html
Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/
Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.
La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].
I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.
Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].
Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].
Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.
Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.
Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].
Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.
Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.
Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.
Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.
È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.
Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.
In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.
Come lei stessa ha detto:
Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]
Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.
Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.
Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.
Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.
Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere. Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.
«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»
Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].
Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.
Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].
Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.
Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).
Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].
Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.
Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].
A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa», rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].
Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:
“Bube”
Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)
E voi imparate che occorre
vedere e non guardare in aria
questo mostro stava una volta
per conquistare il mondo
i popoli lo spensero
ma ora non cantiamo
vittoria troppo presto
il grembo da cui nacque
è ancora fecondo
Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/
La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.
Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.
Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704
Note
1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.
2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].
3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.
4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.
5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.
6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.
7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.
8. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85
9. Ivi, p. 93
10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]
11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.
12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.
13. Ivi, pp. 100-103.
14. Ivi, p. 109.
15. Ivi, p. 129.
16. Ivi, pp. 133-137.
17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.
18. Ivi, p. 145.
19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.
20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]
Bibliografia
Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006
Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]
Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990
Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.
Articolo scritto nel mese di novembre 2024.
Presentazione del volume: 𝗩𝗶𝘁𝗮, 𝗰𝗮𝗿𝘁𝗲, 𝗺𝗲𝗺𝗼𝗿𝗶𝗲 𝗔𝗿𝗰𝗵𝗶𝘃𝗶 𝗱𝗶 𝗱𝗼𝗻𝗻𝗲 𝗶𝗻 𝗧𝗼𝘀𝗰𝗮𝗻𝗮 / 𝟭
Venerdì 22 novembre 2024, alle ore 17:00, si terrà presso la Biblioteca Franco Serantini la presentazione del volume:
𝗩𝗶𝘁𝗮, 𝗰𝗮𝗿𝘁𝗲, 𝗺𝗲𝗺𝗼𝗿𝗶𝗲
𝗔𝗿𝗰𝗵𝗶𝘃𝗶 𝗱𝗶 𝗱𝗼𝗻𝗻𝗲 𝗶𝗻 𝗧𝗼𝘀𝗰𝗮𝗻𝗮 / 𝟭
a cura di Rosalia Manno, Aurora Savelli, Anna Scattigno, Monica Valentini
(Effigi, 2024)
Il volume accoglie i contributi presentati in alcuni incontri promossi dall’Associazione Archivio per la memoria e la scrittura delle donne “Alessandra Contini Bonacossi” tra il marzo e il dicembre del 2022. Il ciclo, che ha coinvolto diverse istituzioni culturali toscane, ha inaugurato un itinerario a più voci attraverso gli archivi di Gina Gennai, Lara-Vinca Masini, Mirella Scriboni, Oriana Fallaci, Bruna Talluri, Verita Monselles, Rossana Rossanda.
L’intreccio di biografie, scritture, carte restituisce anche attraverso un ricco apparato iconografico profili e sguardi inediti, frammenti di vite e di opere.
Intervengono:
Martina GUERRINI (Biblioteca Franco Serantini)
Anita PAOLICCHI (Storica dell’arte)
Anna SCATTIGNO (Curatrice del volume)
Monica VALENTINI (Curatrice del volume)
Modera Franco BERTOLUCCI (Biblioteca Franco Serantini)
“Siena Libera 80. A ottanta anni dalla Liberazione del territorio senese 1944-2024
Giovedì 21 novembre verrà inaugurata, a Colle di Val d’Elsa, la mostra fotografica e documentaria “Siena Libera 80. A ottanta anni dalla Liberazione del territorio senese 1944-2024”.
La mostra sarà aperta da una conversazione sul tema “La Liberazione e gli eccidi” (ore 17:30 presso il saloncino del Teatro del Popolo) in cui interverranno:
Fabio Dei (Università degli studi di Pisa),
Laura Mattei (Direttrice delle Stanze della Memoria di Siena),
Michele Morabito (Direttore dell’Istituzione Parco nazionale della Pace e del Museo Storico della Resistenza di S. Anna di Stazzema).
MA SIAMO MATTI? 100 ANNI DALLA NASCITA DI FRANCO BASAGLIA | 19-20-21 Novembre 2024
Tre giorni dedicati allo psichiatra italiano innovatore e riformatore nel campo della salute mentale.
Un evento rivolto alle scuole e alla comunità attraverso il quale riflettere sul pensiero alla base della legge 180 del 13 maggio 1978 e sulla gestione, sia presente che futura, dei servizi ad essa legati.
MAR 19
MATTINA DEDICATA ALLE SCUOLE
ore 8.30 saluti e introduzione al tema
ore 9.00 proiezione del film “SI PUÒ FARE”
Proiezione aperta a tutti
ore 11.00 Intervallo
ore 11.20 proiezione docufilm
“La vita chiusa, storie del villaggio manicomiale di Siena”
di Silvia Folchi e Antonio Bartoli
ore 11.40 Riflessioni e dibattito sul tema della giornata con il coinvolgimento dei partecipanti
POMERIGGIO APERTO A TUTTI
ore 17.30 Presentazione del libro
“Fare l’impossibile. Ragionando di psichiatria e potere.” di Franco Basaglia a cura di Marica Setaro, presenta Vinzia Fiorino (UNIPI). A seguire dibattito con i partecipanti.
MER 20
MATTINA DEDICATA ALLE SCUOLE
ore 8.30 saluti e introduzione al tema
ore 9.00 proiezione del film “SI PUÒ FARE”
Proiezione aperta a tutti
ore 11.00 Intervallo
ore 11.20 proiezione docufilm
“La vita chiusa, storie del villaggio manicomiale di Siena”
di Silvia Folchi e Antonio Bartoli
ore 11.40 Riflessioni e dibattito sul tema della giornata con il coinvolgimento dei partecipanti
POMERIGGIO APERTO A TUTTI
ore 17.00 passeggiata sulle mura dalla sala Eden al Cinghialino accompagnati dagli operatori e dalle persone che ne curano il verde, nell’ambito del progetto
“Serra Pizzetti” del Centro di Salute Mentale.
ore 18.30 Reading teatrale
“La curiosa storia di Gregor Samsa”
(tratto da la Metamorfosi di F. Kafka)
a cura del Teatro Studio.
Regia ed elaborazione del testo di Mario Fraschetti. Interpreti: Daniela Marretti ed Enrica Pistolesi. Luci ed audio: Luca Pierini.
GIO 21
MATTINA DEDICATA ALLE SCUOLE
ore 8.30 saluti e introduzione al tema
ore 9.00 proiezione del film “SI PUÒ FARE”
Proiezione aperta a tutti
ore 11.00 Intervallo
ore 11.20 proiezione docufilm
“La vita chiusa, storie del villaggio manicomiale di Siena”
di Silvia Folchi e Antonio Bartoli
ore 11.40 Riflessioni e dibattito sul tema della giornata con il coinvolgimento dei partecipanti
POMERIGGIO APERTO A TUTTI
ore 17.30 Convegno su salute mentale
“MA SIAMO MATTI?”
Intervengono:
Vanessa Roghi, giornalista e storica
(in collegamento)
Mauro Papa, direttore Polo Le Clarisse
Daniele Bonarini, regista Poti Pictures
Sara Borri, psicologa Poti Pictures Academy
Rappresentanti delle Istituzioni Locali,Operatori delle Cooperative Sociali,
Operatori del DSM dell’Azienda USL Toscana sud est, Associazioni di volontariato.
DURANTE TUTTA LA MANIFESTAZIONE SARÀ
ALLESTITA LA MOSTRA FOTOGRAFICA DI CARLO BONAZZA “1980:CASE FAMIGLIA A GROSSETO”
E SARANNO PRESENTI STAND
CON PRODUZIONI E ATTIVITÀ REALIZZATE DALLE COOPERATIVE SOCIALI.
Evento organizzato da:
Uscita di Sicurezza Soc. Coop. Sociale
Il Melograno Soc. Coop Sociale
Il Quadrifoglio Soc. Coop. Sociale
Isgrec – Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea
Arci Grosseto
Compagnia Teatrale Teatro Studio – Grosseto
Fotografia e Territorio Aps
Partner:
Polo Bianciardi Grosseto
ISIS Follonica
ISIS Leopoldo II di Lorena Grosseto
Per info:
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Le stragi nel Mugello (1944)

Fucilazioni. Massacri. Vittime innocenti. Sono questi gli episodi che caratterizzarono i paesi del Mugello durante l’occupazione nazifascista nel 1944, in attesa della liberazione alleata. Quale fu il significato di quelle stragi? Perché interessò proprio quella zona? Dobbiamo prima capire cosa rappresentano le montagne circostanti il Mugello nel contesto di guerra. Stiamo parlando di valli strette e ritenute abbandonate, al limite della regione, quindi considerate sicure. Sono al contrario estremamente strategiche perché rappresentano il passaggio tra Toscana e Emilia Romagna. Un passaggio decisivo, soprattutto la parte aretina, nella primavera del 1944, quando i comandi delle brigate Garibaldi decidono di creare una grande armata partigiana che doveva operare sull’Appennino per colpire sul forlivese e sull’aretino. Un progetto poi smantellato in seguito all’operazione di rappresaglia e rastrellamento nazista, deciso subito dopo le Ardeatine, che potremmo definire il punto di svolta sulla concezione da parte di Kesselring e dei comandi nazisti del pericolo partigiano, considerato da lì in avanti potenzialmente pericolosi per le proprie truppe. Fino a quel momento non vi erano state stragi di matrice nazista infatti, era stato lasciato ai fascisti il controllo del territorio. Da quel momento cambia tutto. A quel punto, tutte le brigate partigiane che si stavano portando sull’Appennino per raggrupparsi, ovviamente devono separarsi per non essere catturate. Ed è per questo che quindi si verificò la divisione sui territori. Da quel momento l’Appennino diviene strategico, in quanto zona centrale dei combattimenti, e lo resterà finché la linea non si attesterà a Bologna, nell’autunno del 1944[1].
Dopo le Ardeatine vi è quindi un punto di svolta che portò agli episodi stragisti interessati da questo articolo e che colpirono quasi tutti i paesi del Mugello. Volendo fare una raccolta seguendo un principio temporale, la prima tragedia avvenne a Vaglia, tra il 10 e l’11 aprile 1944, nel cosiddetto «eccidio di Pasqua».
Il 10 aprile, lunedì di Pasqua, iniziò sulle pendici di Monte Morello una grossa operazione antipartigiana ad opera del Reparto esplorante della Divisione Herman Göring, comandato dal colonnello G.H. Von Heydebreck, con lo scopo di stroncare la presenza del movimento partigiano locale[1]. La mattina del 10 aprile, le compagnie del Reparto esplorante giunsero in località Cercina, nel comune di Sesto Fiorentino, razziando le case e rastrellando la popolazione civile. Proseguì poi in direzione di Paterno e Cerreto Maggio, località limitrofe poste nel comune di Vaglia. I paracadutisti fecero irruzione nella casa del guardaboschi Gabriello Mannini, dove trovarono anche la moglie Giulia, la giovane figlia e il suo sposo. Seguì una perquisizione durante la quale venne trovata una pistola, per la quale Gabriello possedeva regolare permesso. L’attestato non fu però sufficiente, dato che i tedeschi, forse già a conoscenza dell’ospitalità che Gabriello diede ad alcuni partigiani, lo condussero fuori dall’abitazione e lo uccisero con un colpo di arma da fuoco alla testa. Poco dopo, i soldati si spostano in direzione di Vaglia, in località Morlione, dove irruppero nelle abitazioni delle famiglie Biancalani e Sarti, note per la loro assistenza data ai partigiani. Furono uccisi i fratelli Giovanni e Sabino Biancalani, il colono Affortunato Sarti e il nipote Aurelio. L’operazione di rastrellamento nell’area riprese il giorno successivo. Una nuova irruzione venne compiuta in località Cerreto entro la casa dei Paoli, allora abitata dalle famiglie dei fratelli Cesare e Giovanni. Dopo la perquisizione dell’abitazione, venne intimato ai fratelli di allontanarsi. Atteso però che il gruppo giungesse alla distanza di alcune centinaia di metri, i militi aprirono il fuoco e uccisero colpendolo alle spalle Cesare Paoli[3]. Questi martiri sono oggi ricordati dal Monumento posto in via Cerretto Maggio, a Vaglia.
Ci spostiamo ora a Marradi, protagonista di due episodi efferati. Ricordiamo che Marradi, per la sua posizione strategica di confine con la Romagna e la sua rilevanza di snodo viario e ferroviario, nell’estate del 1944 costituiva un territorio di estrema importanza ai fini dell’occupazione tedesca e in particolare per l’ultimazione delle fortificazioni sul versante orientale della Linea Gotica. Proprio a protezione dei lavori di completamento della linea difensiva da possibili sabotaggi e attacchi partigiani, con ordine del 18 giugno 1944 vennero dislocate tra il Mugello e la Romagna Toscana alcune compagnie del 3. Polizei Freiwilligen Bataillon Italien, il reparto di polizia italo-tedesco guidato dal capitano Gerhard Krüger allora ancora impegnato col grosso del proprio organico in Maremma (dove si rese responsabile delle stragi di Niccioleta e Castelnuovo Val di Cecina). Il 20 giugno, i soldati tedeschi si imbatterono in un gruppo di sette giovani (tra i quali vi è il trentunenne Carlo Milanesi, di fatto, l’unico identificato del gruppo), che avevano da poco disertato dall’organizzazione Todt, dandosi alla macchia nei dintorni di Marradi. Catturati, i sette furono condotti quindi presso Villa Poggio, sede della compagnia tedesca, dove vennero interrogati e trattenuti sino al 22 giugno, quando infine furono trasportati presso il cimitero comunale di Marradi e qui fucilati[4].
Il mese successivo invece avvenne il dramma le cui ferite ancora non sono state rimarginate dalla comunità. Il 15 e il 17 luglio due tedeschi furono uccisi da dei gruppi di civili – non bande partigiane organizzate – con altri che furono feriti e costretti a scappare dal paese. La rappresaglia che ne seguì fu particolarmente dura. I tedeschi, arrivati dal comando SS di Ronta, si lasciarono andare a grandi violenze nell’area circostante il luogo dell’attentato per 24 ore. Lo stesso 17 luglio furono fucilate 28 persone che vivevano o erano sfollate nel paese di Crespino, la mattina dopo altre 13 persone furono passate per le armi nelle località di Fantino e Lozzole, altre tre vittime furono fatte lungo le strade che collegavano i piccoli paesi. A Crespino i tedeschi passarono prima dal podere “Il Prato” e poi dal “Pigara”; i contadini che stavano lavorando alla mietitura nella zona furono tutti fermati e passati per le armi vicino al fiume. Il parroco, don Fortunato Trioschi, fu l’ultimo ad essere fucilato. La mattina dopo a Lozzole furono passati per le armi tutti i maschi della famiglia, mentre le donne furono risparmiate[5]. In memoria delle vittime sono presenti vari luoghi della memoria a Marradi: dalla lapide commemorativa posta al cimitero alla Lapide del Capanno dei Partigiani, in località Monte Lavane, ma soprattutto, l’imponente monumento-cripta ossario a Crespino sul luogo della strage.
Una breve menzione la merita anche quello che successe a Palazzuolo su Senio il 17 luglio, dove mentre tedeschi e italiani del 3. Polizei-Freiwillingen-Bataillon erano impegnati nella strage sopra descritta di Marradi, i soldati di tale reparto si scontrarono nuovamente con alcuni partigiani e, pur senza patire alcuna perdita, scelsero ugualmente di punire la comunità locale, uccidendo quattro persone.
Per l’ultimo episodio stragista ci spostiamo a Vicchio, dove il mattino del 10 luglio 1944 si presentò alla fattoria di Padulivo – che ospitava circa centocinquanta sfollati – un reparto di SS composto da una sessantina di uomini. Il proprietario, Aldo Galardi, aiutava saltuariamente le locali formazioni partigiane. Durante la perquisizione i tedeschi si accorsero della mancanza di un cavallo che era stato nei giorni precedenti requisito dai partigiani, i quali furono avvertiti della presenza dei tedeschi e tesero un’imboscata poco lontano da Padulivo mentre le SS si stavano ritirando. Cadde un tedesco e un altro rimase ferito. La rappresaglia nazista fu spietata. I soldiati tornarono indietro e arrestarono tutti coloro che trovarono e incendiarono sia la fattoria sia l’abitato circostante. Incolonnarono i prigionieri in direzione di Vicchio e giunti al ponte dove aveva avuto luogo l’imboscata giustiziarono dieci uomini e una donna. Dopo una notte di prigionia i cento catturati subirono un interrogatorio e furono rilasciati, tranne quattro uomini e tre donne. Gli uomini furono portati di nuovo nel luogo dell’agguato partigiano e uccisi, mentre le donne vennero liberate[6]. Quattordici vittime, oggi ricordate dal comune di Vicchio con una lapide posta in località Padulivo, che recita:
«La storia non si ripete,
se non nella mente
di chi non la conosce»
K. Gibran (1883-1931)
Note
[1] Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, Badiali, Arezzo, 1957, pp. 23-45.
[2] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 37-38.
[3] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi nazifasciste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma, 2009, pp. 191-192.
[4] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 102-103.
[5] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia
https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=4920
[6] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia
https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2412
Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.
Articolo pubblicato nel novembre 2024.
Licio Nencetti (1926-1944)

Fra coloro che presero parte alla Resistenza non vi furono solamente individui spinti da autentici e solidi ideali di libertà, ma anche persone motivate da ragioni all’apparenza meno nobili e genuine. Nel corso dell’occupazione vi fu chi aderì alla lotta armata per spirito d’avventura, per poi ritornare rapidamente alla vita di tutti i giorni dopo aver scoperto i disagi della vita del ribelle, oppure chi partecipò per opportunismo, ritenendo la vittoria alleata ormai imminente o chi preferì entrare nelle formazioni partigiane piuttosto che arruolarsi nella Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Certamente il diciassettenne Licio Nencetti, nato a Lucignano in Val di Chiana il 31 marzo del 1926, non rientrava all’interno di queste categorie. A differenza di molti altri il giorno dell’armistizio (8 settembre 1943) non lo colse impreparato e non generò in lui alcun dubbio in merito alla decisione da dover prendere: il ragazzo, nonostante la giovane età, aveva da tempo maturato una scelta ed aveva ben chiaro il mondo che avrebbe voluto che sorgesse dopo la conclusione della guerra.
A contribuire a questa rapida presa di coscienza avevano avuto un ruolo di fondamentale importanza i genitori: dalla madre aveva appreso l’importanza dei valori cristiani, come l’amore e l’altruismo nei confronti del prossimo, mentre dal padre aveva imparato a non piegarsi di fronte alle ingiustizie e a mantenere una propria libertà di pensiero. Con l’ascesa del fascismo iniziò per la famiglia Nencetti un periodo di declino: tra gli anni Venti e Trenta vennero ripetutamente colpiti da malattie che talora si rivelarono mortali, mentre il padre venne perseguitato a più riprese dai fascisti locali per le sue idee politiche. Numerosi furono i casi nei quali Silvio Nencetti venne maltrattato e intimorito; in un’occasione lo spavento fu tale che egli da quel giorno vide la propria salute peggiorare gradualmente e “per sette anni non fu più lui, una malattia lenta lo prese”[1]. Nella seconda metà degli anni Trenta vi fu l’apice delle disavventure della famiglia con la morte tra il 1935 e il 1937 della sorella minore e del padre. In questo frangente Licio e la madre si trovarono costretti a dover fronteggiare una situazione complicata, cercando di garantire al contempo la sopravvivenza del nucleo e pagare le spese mediche necessarie per curare l’unica sorella rimasta in vita. Licio iniziò ad affiancare allo studio qualche lavoro, ma i soldi che riusciva a guadagnare non erano sufficienti per il loro sostentamento, allora iniziò ad ingegnarsi per avere un guadagno maggiore, inviando i suoi disegni al Comune, che inizialmente li accettava e puntualmente li rigettava quando venivano a conoscenza delle idee politiche del defunto padre[2].
Questo momento invece che demoralizzarlo e renderlo passivo aumentò in lui l’avversione nei confronti del regime. Negli anni Licio seguì le orme del padre e sviluppò una coscienza antifascista che lo portò a stringere legami con gli oppositori del regime presenti nella provincia. Dopo l’armistizio il giovane fu tra i primi ad aderire alla Resistenza, abbandonando temporaneamente la Val di Chiana e dirigendosi frequentemente nel Casentino dove, nel frattempo, stavano sorgendo i primi gruppi partigiani. Nei primi mesi d’occupazione Licio mantenne una discreta libertà di movimento, facendo la spola tra le terre natale e la zona di Talla, recandosi talvolta a salutare clandestinamente la madre ormai rimasta sola dopo la morte nel 1942 dell’ultima sorella. Rispetto alla Valdichiana, prevalentemente pianeggiante e collinare, l’angusta vallata a nord di Arezzo offriva un terreno ideale per la lotta partigiana fatta di imboscate e di rapide fughe.
In una lettera inviata alla madre il 9 novembre 1943 Licio le chiedeva perdono per le preoccupazioni che le procurava con tale scelta, ma al contempo non rinnegava la propria decisione, descrivendola alla stregua di un evento ineludibile: “Io non potevo più stare quassù in mezzo a una masnada di vigliacchi, lo vado con i ribelli per difendere l’idea di mio padre che è sempre viva in me e per ridare ancora una volta l’onore alla mia bella Patria. Mamma non piangere perché io presto tornerò e poi perché devi piangere se sai che tuo figlio è a combattere per un’idea leale e giusta[3]”. Malgrado la forte emozione Licio in questa prima comunicazione evidenziava una notevole lucidità che sarebbe poi emersa nella lotta dei mesi successivi: “Non dire a nessuno che io sono con i ribelli perché faresti la mia perdita e quella dei miei compagni. Di a chi ti domanda di me che io sono da Tullio[4]”.
Nonostante non avesse ancora raggiunto la maggior età Licio venne nominato dai suoi compagni comandante della formazione attiva nella zona di Talla. Tutte le testimonianze riguardanti la sua figura concordano nell’attribuire al giovane un carisma ed una determinazione inusuali per un ragazzo della sua età. Il partigiano Raffaello Sacconi lo ricorda in questo modo: “Mi fece subito una buona impressione: viso aperto, simpatico, occhi vivacissimi. Mi colpì specialmente la sua insofferenza per l’inazione cui eravamo costretti, in attesa di organizzarci per cominciare la lotta contro i fascisti e i tedeschi”[5]. Malgrado la naturale inesperienza Licio emanava una notevole sicurezza, e quando vi fu da scegliere a quale formazione fornire del materiale bellico, di fondamentale importanza, arrivato nel febbraio 1944, Sacconi ricorda che “non ebbi alcuna titubanza ad assegnare al suo gruppo una delle due mitragliatrici di cui disponevamo. Sapevo di affidarla in buone mani”[6]. Ad accrescere l’ascendente nei confronti dei compagni contribuiva il coraggio che il giovane metteva in ogni operazione, portandolo ad essere sempre in prima linea.
Il gruppo guidato da Licio si differenziava per alcuni aspetti dalle altre formazioni che operavano nel Casentino. In primo luogo, il comandante della formazione non era stato un militare e non aveva nessun tipo di esperienza bellica, questo determinava all’interno del gruppo l’assenza di una rigida gerarchia e la presenza di un rapporto maggiormente democratico, improntato sul confronto e il dibattito tra i membri. In secondo luogo, la formazione era composta da ragazzi particolarmente giovani, dediti ad azioni fulminee e rischiose. Questa caratteristica portò alcuni a ribattezzare la formazione la “squadra volante”; come ricorda Domenico Peruzzi, uno dei principali componenti del gruppo, erano soliti compiere azioni rapidissime: giungevano nella zona delle operazioni all’imbrunire e alle prime luci del giorno dopo erano già in montagna a diverse decine di chilometri di distanza[7]. Dopo i primi mesi di lotta i componenti del gruppo iniziarono a chiamarsi la “Teppa” come scherno agli appellativi che le autorità fasciste utilizzavano per identificarli.
Nei primi mesi la formazione inquadrata all’interno del “Gruppo Casentino” (diverrà successivamente la XXIIIª Brigata “Pio Borri”) si occupò prevalentemente di questioni organizzative, impossessandosi di armi, materiali e viveri, senza però disdegnare allo stesso tempo la possibilità di compiere azioni di sabotaggio ai danni dei nazisti e dei fascisti che operavano nei loro territori. Ad esempio, il 4 novembre Licio ed altri tre compagni riempirono di sabbia i radiatori di alcune autocisterne che da Foiano erano dirette verso Cassino, rendendole inutilizzabili dopo pochi chilometri[8]. I ragazzi della “Teppa” si impegnarono anche nell’occultamento e nel sostentamento dei prigionieri Alleati fuggiti dai campi di detenzione della provincia di Arezzo e nel reclutamento dei soldati del disciolto Esercito sparsi per il Casentino.
Dal marzo 1944 i diversi gruppi aventi base territoriale si trasformarono in compagnie e gli ultimi partigiani che ancora vivevano con le loro famiglie abbandonarono le loro case e si diedero alla macchia nascondendosi sulle montagne. Il gruppo guidato da Licio divenne formalmente la IV Compagnia[9]. La disparità delle forze in campo obbligò i partigiani a compiere azioni di piccolo calibro: raramente miravano all’uccisione dei fascisti, puntando semmai al loro disarmo e al conseguente aumento dell’arsenale a loro disposizione. Al contempo lo scopo era anche quello di impressionare le popolazioni locali e di disorientare il nemico sulla reale entità del numero dei partigiani. Questo atteggiamento riuscì a fruttare alcuni risultati, obbligando le forze occupanti a dispiegare i soldati nelle zone nevralgiche e ad accompagnare i convogli che si muovevano sul territorio, costituendo in questo modo una continua minaccia per i nazifascisti. Rispetto alle altre unità operanti nella vallata i ragazzi della “Teppa” mantennero sempre una discreta indipendenza nei confronti degli altri gruppi casentinesi.
Dopo esser stato una spina nel fianco dei nazifascisti per tutta la primavera del 1944, il 24 maggio Licio venne catturato in località Bottigliana, sul versante casentinese del Pratomagno. Di ritorno da un incontro con alcuni esponenti della Resistenza, avvenuto sul massiccio, il comandante della “Teppa” venne accerchiato dagli uomini della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Dopo averlo disarmato i fascisti lo obbligarono a condurli nel punto dove era avvenuto l’incontro: facendosi scudo con Licio gli uomini arrivarono all’altezza dell’Uomo di Sasso, dove vennero investiti dal fuoco dei partigiani, che riuscirono successivamente a dileguarsi lungo le pendici del massiccio. La posizione di Licio era fortemente compromessa, venne trovato in possesso di armi e di documenti che riportavano le azioni svolte dalla sua formazione. Il comandante della “Teppa” venne dunque trasportato al Distretto Militare di Poppi, dove venne interrogato e torturato per diverse ore, ma nonostante le percosse e la promessa di avere salva la vita Licio non rivelò nulla ai suoi aguzzini[10].
La mattina del 26 maggio Licio venne trasportato a Talla e fucilato nella piazza principale. Il parroco, presente durante l’esecuzione, sostenne che dopo averlo confessato venne passato per le armi da un gruppo di repubblichini senza che vi fossero difficoltà nello svolgimento delle operazioni[11]. Questa versione differisce invece dall’esposizione contenuta all’interno delle motivazioni per il conferimento della medaglia al valore conferita a Licio nel 1990: il documento sostiene che il plotone di fronte alla solennità e alla fermezza tenute dal comandante durante la fucilazione non eseguì l’ordine e che fu lo stesso tenente Sorrentino ad occuparsi personalmente dell’uccisione sparandogli in bocca[12]. Ancora oggi non sappiamo a quale versione fare riferimento, se credere alla dichiarazione che il parroco rilasciò al Sacconi, oppure attenersi alle motivazioni per il conferimento della medaglia. Certamente durante la fucilazione perse la vita anche il giovane Marcello Baldi, colpito da un proiettile vagante mentre si affacciava dalla chiesa incuriosito dal trambusto.
Anche per quanto riguarda la cattura sono presenti due versioni in netto contrasto tra loro. I compagni di Licio hanno sempre sostenuto che l’arresto del loro comandante fosse dovuto ad una delazione compiuta da parte dei Versari, padre e figlio e del loro compaesano Brucche. Certi della loro colpevolezza i membri della “Teppa” giustiziarono pochi giorni dopo Giuseppe Versari e Brucche, mentre il figlio, Virgilio, riuscì a fuggire[13]. A porre in dubbio la solidità di tale interpretazione hanno contribuito nel corso del dopoguerra le dichiarazioni rilasciate da parte di Salvatore Vecchioni, comandante della 2ª compagnia della Brigata “Pio Borri” operante nel territorio di Partina. Dopo l’arresto di Licio, il Vecchioni fu l’unico che ebbe l’occasione di scambiare qualche parola con il comandante prima che questi venisse fucilato, visto che anch’egli era trattenuto presso il Distretto Militare di Poppi per un’altra vicenda. Alle domande del Vecchioni, in merito alla possibilità che vi fosse stato un tradimento, Licio rispose negativamente, affermando che non aveva avuto nessun tipo di presentimento e che non aveva sospetti. Inoltre è importante ricordare che i Versari militarono all’interno della Resistenza e che questi videro la loro casa bruciare ,con all’interno una delle loro mogli, dopo l’uccisione del repubblichino Mistretta[14]. Alla luce di questi elementi pure Raffaello Sacconi, che nel 1944 aveva sostenuto la colpevolezza dei Versari e di Brucche, ha progressivamente mutato le proprie convinzioni, sostenendo che un individuo lucido e sveglio come Licio si sarebbe certamente accorto che l’incontro sul Pratomagno non era altro che un’imboscata orchestrata ai suoi danni[15].
Ancora oggi, ad oltre ottant’anni di distanza dalla morte il nome di Licio riecheggia tra i monti del Casentino e le colline della Val di Chiana. La scomparsa del giovane partigiano non ha coinciso con la lenta e triste scomparsa della sua figura, ma ha combaciato semmai con la nascita e la diffusione di un mito utilizzato quale esempio di integrità e libertà. Percorrendo la provincia di Arezzo ci si imbatte in svariati luoghi intitolati alla memoria di Licio o che ricordano il suo sacrificio e quello dei suoi compagni attraverso targhe e monumenti: questo accade in prevalenza nelle aree dove i partigiani della “Teppa” operarono maggiormente, come la zona nei dintorni di Lucignano in Val di Chiana e nei pressi di Talla e Castel Focognano nel Casentino meridionale. A Lucignano, paese natale di Licio e di molti suoi compagni, è possibile ancora oggi poter vedere dall’esterno l’abitazione nella quale Licio nacque e dove è apposta una targa[16]. Sempre nello stesso comune è poi presente un monumento collocato nei giardini pubblici “Don Valentino della Mazza”: l’opera, dedicata ai partigiani Nencetti, Toti e Masini, raffigura probabilmente l’uccisione del comandante della “Teppa”, con un uomo con le mani legate dietro alla schiena che grida e un soldato che imbraccia un fucile[17]. Nonostante non fosse originario di Talla il comune ha poi intitola a Licio la piazza dove avvenne la fucilazione ed ha inserito il suo nome sul cippo che ricorda le vittime provenienti dal comune cadute durante il secondo conflitto mondiale[18].

Il cippo in ricordo delle vittime di Talla durante la Seconda guerra mondiale situato in piazza “Licio Nencetti”
Nell’area di Castel Focognano sono presenti invece alcune iscrizioni che testimoniano il buon rapporto che vi fu nel corso della guerra di Liberazione fra gli uomini della “Teppa” e le popolazioni della vallata. In una sorta di dialogo che non si è mai interrotto le targhe e i monumenti della zona sono un esplicito ringraziamento ai partigiani e ai civili per il contributo fornito durante il conflitto. Nella frazioni di Calleta e San Martino, appartenenti al comune di Castel Focognano, sono presenti due targhe molto interessanti, la prima certifica l’unione tra le due parti con la seguente frase “Qui a Caletta Licio Nencetti e i suoi ribelli trovarono gente amica che li ospitò, li curò e li sostenne condividendo con loro gli ideali e il rischio della vita”[19], mentre la seconda, posta sulla facciata della chiesa di San Martino ricorda che in quel luogo gli uomini di Licio si recarono tra il febbraio e il maggio 1944 ad assistere alla messa domenicale[20]. A pochi chilometri di distanza, nel paese di Carda, troviamo infine un monumento interamente dedicato alle popolazioni della vallata, alle quali giunge il sentito ringraziamento dei ragazzi della “Teppa”[21]. Questi sono solamente alcuni degli indizi che testimoniano l’eccellente rapporto che vi fu tra i componenti della “squadra volante” e i civili durante il periodo dell’occupazione, un legame fondato sul reciproco sostegno.
Il nome di Licio non è stato solamente scolpito sulla pietra, ma è stato impresso e “inciso” nelle memorie delle persone anche attraverso un notevole numero di canzoni dedicategli. In particolar modo questi canti vennero ideati negli anni della lotta al nazifascismo o nel periodo immediatamente successivo alla liberazione, quando ancora il ricordo e il dolore della morte del giovane partigiano erano vivi tra le popolazioni, come nel caso del testo di Libero Vietti[22] o della canzone “La fucilazione del partigiano Licio Nencetti” attribuita a un poeta di nome Casini[23]. Il repertorio non si limita solamente alla seconda metà del Novecento, ma trova anche una sua realizzazione più contemporanea nella canzone realizzata nel 2005 dai Casa del Vento un gruppo combat folk aretino[24].
Come spesso è avvenuto nel corso della Liberazione la formazione assunse il nome del defunto comandante, l’aspetto però probabilmente più curioso ed affascinante legato alla figura di Licio nasce da una promessa che i ragazzi della “Teppa” fecero dopo la scomparsa del loro leader: provati e traumatizzati i giovani giurarono che avrebbero chiamato almeno uno dei loro figli con il nome di Licia o di Licio. I componenti della formazione mantennero l’impegno, e ancora oggi, a diversi anni di distanza, sono numerose le persone che in provincia di Arezzo continuano a portare tale nome in ricordo del comandante della “Teppa”.
Note:
[1] S. Mugnai (a cura di), Madre di partigiano. Il diario di Rita Nencetti, Comune di Lucignano, Roma 1984, p. 29.
[2] Ivi, pp. 41-42.
[3] Lettera inviata da Licio Nencetti alla madre Rita il 9 novembre 1943, https://memoria.provincia.arezzo.it/biografie/licio_nencetti_corrispondenza1.asp.
[4] Ibid.
[5] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 192.
[6] Ibid.
[7] Intervento di Domenico Peruzzi detto “Mireno” nel filmato Racconti di vita partigiana. La squadra volante de la “Teppa”, realizzato dalla Banca della Memoria del Casentino, https://www.youtube.com/watch?v=AQMStAhI6jg&t=1066s.
[8] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., p. 28.
[9] Ivi, pp. III-IV.
[10] Memoria scritta di Salvatore Vecchioni citata in ivi, pp. 195-196.
[11] Memoria scritta di don Gino Vignoli citata in ivi, pp. 84-85.
[12] Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, https://www.anpi.it/biografia/licio-nencetti.
[13] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., pp. 194-195. Nonostante siano passati diversi anni dall’accaduto nel filmato registrato dalla Banca della Memoria del Casentino i compagni di Licio continuano a sostenere che si fosse trattata di un’imboscata, https://www.youtube.com/watch?v=AQMStAhI6jg.
[14] Memoria scritta di Salvatore Vecchioni in R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., pp. 195-198.
[15] Ivi, p. 199.
[16] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/lastra-commemorativa-a-licio-nencetti/.
[17] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-giardini-di-lucignano/.
[18] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-dedicato-a-licio-nencetti-a-talla/.
[19] MEMO, il progetto delle memorie, https://memo.anpi.it/monumenti/3794/lapide-a-nencetti/.
[20] MEMO, il progetto delle memorie, https://memo.anpi.it/monumenti/4172/lapide-a-nencetti/.
[21] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/cippo-ai-partigiani-della-teppa-carda-di-castel-focognano/.
[22] https://memoria.provincia.arezzo.it/canti/canzoni/Libero%20Vietti%20-%20Canzone%20per%20Licio%20Nencetti.mp3.
[23] Il Deposito, Canzone su Licio Nencetti partigiano – Testo accordi e musica | ilDeposito.org.
[24] https://www.youtube.com/watch?v=Dzm53rjZa8U.
Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.
Questo articolo è stato pubblicato nel novembre 2024














