La videoarte italiana dagli anni ’70 agli anni ’90

L’11 gennaio alle 17.30 a Firenze al Museo del Novecento Silvia Grandi, Gianni Melotti e Maurizio Marco Tozzi presenteranno La videoarte italiana dagli anni ’70 agli anni ‘90 ripercorrendo i momenti più significativi dei primi decenni dell’arte in formato audiovisivo.
Il racconto prenderà avvio dagli avvenimenti che portarono l’Italia ad essere uno dei centri internazionali di produzione e diffusione della videoarte: dalla mostra Gennaio ’70 alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, alle performance della Galleria L’Attico di Roma, alle prime opere realizzate alla Galleria del Cavallino di Venezia, ad art/tapes/22 di Firenze e al Centro Videoarte Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Seguirà il racconto di alcune delle vicende più significative degli anni Ottanta e Novanta.
Fonte: Museo del Novecento




PROGRAMMA di SEMINARI di FORMAZIONE nell’ambito dell’allestimento della mostra “Ebrei in Toscana XX-XXI secolo”

L’Istituto storico della Resistenza in Toscana e l’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Livorno, promuovono il seguente ciclo di seminari di formazione per insegnanti, aperti alla cittadinanza:

30 gennaio 2017, presso la sede dell’Istituto della Resistenza in Toscana, Via Carducci 5/37, ore 15,00-18,00, Fascismi in Europa. Ne discuteranno Matteo Mazzoni (direttore dell’Istituto della Resistenza in Toscana) e Valeria Galimi (Università di Milano).

2 febbraio 2017, presso la sala Pistelli di Palazzo Medici Riccardi, ore 15,00-18,00, Persecuzione e scrittura. Ne discuteranno Marta Baiardi (Istituto storico della Resistenza in Toscana) e Catia Sonetti (direttore Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea della provincia di Livorno).

14 febbraio 2017, presso la sala Pistelli di Palazzo Medici Riccardi, ore 15,00-18,00, La Chiesa di fronte agli ebrei. Ne discuteranno Daniele Menozzi (Scuola Normale Superiore di Pisa) e Elena Mazzini (Università di Firenze).

21 febbraio 2017, presso la sala Pistelli di Palazzo Medici Riccardi, ore 15,00-18,00, Le borghesie ebraiche tra Otto e Novecento. Ne discuteranno Gian Carlo Falco (Università di Pisa) e Mirella Scardozzi (Università di Pisa).

23 febbraio 2017, presso la sala Pistelli di Palazzo Medici Riccardi, ore 15,00-18,00, Ricerca storica, divulgazione, e mostre. Ne discuteranno: Ugo Caffaz, Paolo Coen (Università di Teramo).

Per i partecipanti al ciclo di incontri è prevista una visita guidata alla Mostra.

La partecipazione al ciclo è gratuita. Sono graditi contributi volontari in occasione della visita alla mostra e a sostegno delle strutture e delle attività degli Istituti organizzatori.

I due Istituti organizzatori riconosciuti nell’Albo nazionale degli enti di formazione riconosciuti dal Ministero dell’Istruzione in quanto aderenti all’Istituto nazionale del movimento di liberazione in Italia.

Riteniamo che questo ciclo possa rappresentare una significativa occasione di formazione per la cittadinanza e in particolare per la classe docente.
Vi invitiamo quindi a darne notizia ai vostri insegnanti, promuovendone la partecipazione.

Si ricorda che la mostra è allestita presso la Galleria delle Carrozze (palazzo Medici Riccardi, via Cavour) e che le scuole possono prenotare visite guidate gratuite, scrivendo a isrt@istoresistenzatoscana.it all’attenzione dei prof. Paolo Mencarelli e Slvano Priori, indicando in oggetto “Visita mostra Ebrei”.

Per ogni richiesta di informazione è possibile scrivere allo stesso contatto mail, così come a istoreco.livorno@gmail.com




Togliatti e il PCI di fronte ai “fatti d’Ungheria”

Tra l’ottobre e il novembre del 1956 l’Ungheria balzò al centro delle cronache internazionali per la rivolta pacifica della popolazione contro il sistema sovietico. Un evento cruciale che riverberò i suoi effetti nel breve e nel lungo periodo rimodulando, anche in Italia, le coordinate entro le quali si sviluppò la Guerra Fredda e la questione comunista. In occasione dei sessant’anni da quegli avvenimenti l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco), ha promosso un convegno dal titolo “Ungheria 1956. Considerazioni inattuali in una cornice di guerra”. L’iniziativa ha avuto luogo giovedì 27 ottobre 2016,  presso la Sala Conferenze dell’Istoreco, Palazzo della Gherardesca. Pubblichiamo qui un’estratto della relazione tenuta in quest’occasione da  Alexander Höbel, assegnista di ricerca presso l’Università di Napoli “Federico II”.

Dopo varie manifestazioni per commemorare Rajk e chiedere il ritorno al potere di Imre Nagy, il 23 ottobre una manifestazione che rivendica l’“indipendenza dell’Ungheria” è seguita da assalti alle sedi della radio e del partito, con le prime vittime da entrambe le parti [Dalos, 37-48]. Alla richiesta di intervento di truppe sovietiche si affianca la nomina a capo del governo di Nagy. Nei suoi Diari, Luciano Barca – allora a capo dell’edizione torinese de “l’Unità” – segnala, oltre al sorgere di “consigli operai”, la presenza “di gruppi di provocatori, veri e propri commandos”, legati alla “vecchia classe agraria” e al clero reazionario [Barca, 156-7].

Il PCI prende posizione con un editoriale di Ingrao – Da una parte della barricata – che esorta a scegliere “tra la difesa della rivoluzione socialista e la controrivoluzione bianca”; poi con un comunicato. Il 27 Nagy forma un governo comprendente anche non comunisti, che ordina il “cessate il fuoco” e annuncia il ritiro delle truppe sovietiche, lo scioglimento della polizia politica e il ritorno della vecchia bandiera. Il 30 è abolito il monopartitismo e si chiede all’URSS “di ritirare tutte le proprie forze armate dall’Ungheria”, ciò su cui il PCUS mostra una cauta disponibilità. I rivoltosi parrebbero aver vinto; solo l’uscita dal Patto di Varsavia – “una richiesta a cui nessun governo ungherese poteva venire incontro” – non è accolta [Dalos, 86-8, 97-101, 107-11].

Tuttavia la rivolta prosegue: un gruppo armato occupa il ministero della Difesa; inizia la “caccia al comunista”. La sede del partito a Budapest è assaltata con artiglieria pesante: vari funzionari vengono linciati o fucilati, e i loro cadaveri appesi agli alberi [Dalos, 76-7, 103-4, 122, 203]. In Italia si verificano aggressioni a sedi del PCI e dell’“Unità”, mentre una lettera di 101 intellettuali chiede “un rinnovamento profondo nel gruppo dirigente del partito” [Ajello, 401-6, 535-8]. “Poli di contestazione” emergono a Roma (la sezione “Italia”, Natoli, Lombardo Radice); Milano (Fortini, Rossanda, Occhetto, l’Istituto Feltrinelli); Torino (la cellula dell’Einaudi). L’intero partito è scosso da una discussione serrata. La CGIL deplora l’intervento sovietico, con un comunicato che indica nei fatti ungheresi “la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di direzione”; Di Vittorio in persona conferma tale linea.

Il 30, un articolo di Togliatti stigmatizza l’“incomprensibile ritardo dei dirigenti” ungheresi “nel comprendere la necessità di attuare quei mutamenti […] che la situazione esigeva, di correggere errori di sostanza”; ma aggiunge che “alla sommossa armata […] non si può rispondere se non con le armi” [Höbel(b), 127-30]. In Direzione il Segretario afferma che la critica anche aspra va bene, ma non si può legittimare la rivolta armata nei paesi socialisti. Con lui concorda tutto il gruppo dirigente, eccetto Di Vittorio, secondo il quale “l’insurrezione è un fatto storico e dobbiamo trarne le lezioni”. Anche Berlinguer sottolinea che “in Ungheria c’è stata un’esplosione di malcontento popolare e ciò esige di spiegarne le cause”. Per Pajetta “chi non capisce che bisogna dirigere in modo nuovo non può dirigere il movimento operaio”. Da tutti però la rivolta è condannata, e Di Vittorio è aspramente criticato. Conclude Togliatti: “In Ungheria non era in corso una discussione, vi era una sommossa […]. In una simile situazione o si schiaccia la sommossa o si finisce per essere schiacciati” [Righi, 210-40]. Il comunicato riconduce la crisi alla “insufficiente capacità di consolidare le alleanze della classe operaia e il lavoro comune di edificazione socialista con una politica che rispondesse alle strutture sociali, alla storia e alle tradizioni nazionali”: da ciò “un distacco fra lo Stato e le masse” aggravato da “metodi burocratici di direzione”; tuttavia “era dovere sacrosanto […] sbarrare la strada” al ritorno delle forze reazionarie [Höbel(b), 151-61].

Intanto il gruppo dirigente sovietico, anche sotto l’influenza dell’attacco anglo-francese a Suez, si orienta per un secondo intervento [Kramer]. Il 1° novembre Nagy proclama l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia, mentre il cardinale Mindszenty chiede la restituzione delle proprietà della Chiesa. Il 4 il secondo intervento sovietico ha luogo [Dalos, 117-20, 125-8, 135-7].

Per Togliatti, l’alternativa sarebbe stata “l’anarchia e il terrore bianco”. L’ intervento, quindi, è “una dura necessità”, che conferma l’urgenza di correggere gli errori del passato [“l’Unità, 6.11.1956; Bonchio et alii, 97-102]. La difesa delle ragioni dell’iniziativa sovietica procede quindi di pari passo con la critica avviata nell’intervista a “Nuovi Argomenti”.

L’articolazione della posizione del PCI sui “fatti d’Ungheria” è confermata dai colloqui di Parigi tra Velio Spano e una delegazione del PCF in vista di una eventuale posizione comune. La divergenza, però, è netta. Gli italiani imputano gli eventi a due fattori: “i gravi errori compiuti” e la “disgregazione” del Partito ungherese. Ciò ha reso “possibile che una parte delle masse popolari si lasciasse trascinare a un movimento di carattere insurrezionale”, in cui si sono inserite “forze reazionarie e fasciste”. Un emendamento inviato da Togliatti ribadisce che “una correzione degli errori […] avrebbe senza dubbio evitato il movimento popolare che ha portato all’insurrezione, così come un legame più profondo con le masse avrebbe permesso al partito” di evitare quell’appello alle forze sovietiche, che ha prodotto una “esasperazione del sentimento nazionale”. È un’aggiunta non marginale, respinta dai francesi. L’idea di una posizione comune sfuma [Höbel(a)].

La linea dei comunisti italiani è insomma lontana da un allineamento acritico. L’accento è posto in particolare rapporto partito-masse e sulle questioni più generali dell’egemonia, che non a caso saranno rilanciate di lì a poco con l’VIII Congresso, quello della “via italiana al socialismo”.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




Poggio alla Malva

L’11 giugno 1944, un gruppo di partigiani guidati da Bogardo Buricchi fece esplodere 8 vagoni carichi di esplosivo che si trovavano in sosta su un binario morto fra il paese di Poggio alla Malva e la piccola stazione ferroviaria di Carmignano.
L’esplosivo proveniva dallo stabilimento Nobel, situato appena al di là della stazione.Nel 1944 lo stabilimento Nobel produceva materiale bellico al servizio dei tedeschi nel loro estremo tentativo di bloccare l’avanzata degli alleati e di distruggere le realtà produttive dell’Italia. Il materiale esplosivo, in procinto di essere inviato a destinazione, avrebbe potuto servire, secondo alcune ipotesi, alla distruzione dei macchinari delle fabbriche di Prato, oppure ad obiettivi sulla costa toscana, facilmente raggiungibili per ferrovia.L’azione partigiana, a lungo meditata dal gruppo che faceva capo a Bogardo Buricchi, aveva l’obbiettivo di eliminare l’esplosivo e sventare i disegni distruttivi delle forze d’occupazione tedesche, favorendo, con questa ed altre precedenti azioni di sabotaggio (taglio di fili elettrici e telefonici, danneggiamenti alla ferrovia) l’avanzata degli alleati che, dopo la conquista di Roma (4 giugno 1944) si trovavano ormai ai confini della Toscana.L’azione riuscì, maquattro partigiani persero la vita: il capo del gruppo Bogardo Buricchi, il fratello Alighiero, Ariodante Naldi, tutti fra i 20 ed i 25 anni ed il più anziano del gruppo, Bruno Spinelli, 43 anni, morti per le conseguenze della violentissima esplosione.La SAP (squadra di azione partigiana) “Fratelli Buricchi”” si era formata nell’ottobre 1943 per iniziativa di Bogardo Buricchi; operò nella zona del Comune di Carmignano compresa fra il Montalbano e la valle dell’ Arno, ebbe contatti con i partiti politici del C.L.N. di Prato e di Firenze attraverso Loris Cantini, commissario politico di zona.Non ebbe contatti diretti con il Comando Italiano e con il Comando degli Alleati, agiva in conformità delle direttive impartite da Loris Cantini.Bogardo Buricchi ne fu il primo Comandante dal 1 ottobre 1943, data di costituzione, fino all’11 giugno 1944, giorno della sua morte.Dall’11 giugno 1944 al 3 settembre 1944 , data della Liberazione, ne fu Comandante Umberto Moretti.Ne fecero parte: Bogardo e Alighiero Buricchi, Lido Sardi, Bruno Spinelli e Mario Banci, abitanti alla Serra, Ariodante Naldi, Ruffo del Guerra, Enzo Faraoni, abitanti a Poggio alla Malva, e poi Giuseppe Cardini, Umberto Pinferi, Attilio Bellini, Umberto Moretti, Daniele Gori, Bruno Castagnoli, Rizzieri Buricchi, Emilio Mainardi, Silvano Borchi, Gualtiero Giovannelli,Giuseppe Cardini, tutti ad esclusione di Gori, di Carmignano.La squadra non aveva alcun equipaggiamento militare se non le armi (1 mitra, 11 moschetti, varie rivoltelle e bombe a mano) che furono in parte acquistate con un finanziamento del C.L.N.La squadra si specializzò in azioni di sabotaggio delle linee di comunicazione nemiche, nella stampa e diffusione di manifesti di propaganda antifascista. Nel marzo 1944 organizzò lo sciopero dei contadini che si rifiutarono di portare all’ammasso una rata supplementare di grano e per impedire le verifiche annonarie da parte delle autorità nazifasciste, incendiò l’ufficio accertamenti agricoli del Comune.La notte del 30 aprile 1944 Bogardo Buricchi, con il fratello Alighiero e Lido Sardi, issò la bandiera rossa sulla torre del Campano di Carmignano, divellendo nella discesa i pioli della scala, così la bandiera sventolò nella giornata del I° maggio come una sfida visibile a tutta la pianura.Dopo la liberazione di Roma (inizi di giugno 1944) i partigiani intensificarono le azioni di disturbo ed i sabotaggi in modo da favorire l’avanzata degli alleati.I tedeschi stavano invece attuando un piano di distruzioni. Alla distruzione delle fabbriche di Prato, o ad azioni consimili in qualche città della costa toscana, era destinato sicuramente anche il tritolo contenuto nei vagoni che uscivano dal polverificio Nobel, uno dei più importanti d’Italia.Gli Alleati, consapevoli del suo valore strategico cercarono più volte di colpirlo senza riuscirvi, anche le formazioni partigiane avevano pensato di farlo saltare, desistendo poi dall’intento per le conseguenze catastrofiche che tale azione avrebbe avuto per le popolazioni dei dintorni.Restava la possibilità di sabotare il materiale esplosivo portato fuori dal deposito e lasciato in sosta su un binario apposito prima di essere convogliato a destinazione.Nei primi giorni del giugno 1944 otto vagoni (Umberto Moretti, nella sua relazione datata 16 maggio 1945, parla di 13 vagoni di cui 8 pieni di casse di tritolo pressato per circa 140 tonnellate) sostavano sul binario morto a 400 metri dalla stazione di Carmignano.Quando Enzo Faraoni fece sapere a Bogardo che stavano per partire, Bogardo, che da tempo studiava questo sabotaggio, decise di agire.Si recò alla Catena per avvisare il commissario di zona Loris Cantini, forse anche per avere il permesso definitivo all’azione, ma Cantini era assente, Bogardo lo attese tutto il pomeriggio, poi a sera ripartì con la miccia ed una bomba a tempo che si era fatti consegnare, indispensabili per portare a termine l’azione che gli sarebbe costata la vita.La notte del 10 giugno 1944 si erano dati appuntamento a mezzanotte e mezza alla Cavaccia, una vecchia cava di pietraserena in disuso al di sopra del luogo dove erano fermi i vagoni.Là erano arrivati Bogardo Buricchi e il fratello Alighiero, Lido Sardi, Mario Banci e Bruno Spinelli che abitavano alla Serra, Ariodante Naldi, Enzo Faraoni e Ruffo del Guerra da Poggio alla Malva. Riuniti i suoi uomini, Bogardo li fece scendere in due gruppi in modo da controllare l’inizio e la fine del convoglio, per eliminare, nel caso vi fossero state, le sentinelle di guardia. Per fortuna quella sera c’era una festa alla Nobel ed i soldati tedeschi insieme ai fascisti erano andati tutti là a ballare.Raggiunti i vagoni, mentre gli altri stavano di guardia, Enzo Faraoni spiombò un vagone, Bogardo e Ariodante vi salirono per mettere la miccia e la bomba a tempo che doveva innescare l’esplosione, prelevarono anche una cassetta di esplosivo utile per successive azioni che fu consegnata a Bruno Spinelli che si avviò su per il sentiero che porta alla Cavaccia.Si dice che avessero con se’ anche un fascio di balistite e che aprissero alcune casse di tritolo forse per dare fuoco direttamente al materiale che si trovava nel vagone. Potrebbe anche essere stato questo il motivo dell’esplosione che avvenne prima del tempo.Mentre Bogardo dava il segnale luminoso convenuto per allontanarsi, avvenne la prima esplosione che colpì in pieno Bogardo, Alighiero e Ariodante, mentre Bruno Spinelli, che si trovava già nella strada soprastante, fu scaraventato dallo spostamento d’aria contro un masso dove batté violentemente la testa e morì poche ore dopo in ospedale.Dei tre che erano vicini ai vagoni vennero ritrovati solo poveri resti, disintegrati dalle esplosioni che si succedettero a catena comunicandosi da un vagone all’altro.
Invece Ruffo del Guerra, Enzo Faraoni, Lido Sardi e Mario Banci, anche se feriti ed assordati, riuscirono ad allontanarsi e a tornare alle proprie case.Ruffo del Guerra, ferito seriamente, fu trasportato in ospedale confondendosi con i feriti del paese, e benché sospettato e interrogato riuscì a non essere accusato dell’azione.Anche Enzo Faraoni ebbe bisogno di cure e il suo maestro e amico Ottone Rosai mandò un carro funebre a prelevarlo per portarlo a Firenze dove lo nascose in casa sua.Nel paese di Poggio alla Malva ed in una vasta zona intorno, i danni furono notevoli: le case ebbero i tetti scoperchiati e saltarono porte e finestre, l’esplosione fu sentita benissimo da Prato, Firenze e Pistoia.Venne fatta un’indagine che fu lunga e infruttuosa, non ci furono rappresaglie da parte dei tedeschi, probabilmente la morte dei presunti autori, le devastazioni della campagna e dei paesi intorno fu considerata punizione adeguata.
La linea ferroviaria, che tante volte inutilmente gli aerei degli alleati avevano cercato di colpire, fu definitivamente interrotta dalla larga e profonda voragine aperta dall’esplosione ed il polverificio Nobel, pur non avendo riportato danni gravi, venne chiuso per sempre lasciando l’esercito tedesco in questa zona e in questo momento cruciale della guerra, senza esplosivo. Ogni anno l’11 Giugno l’Amministrazione Comunale di Carmignano ricorda questo episodio con una serie di manifestazioni culminanti nel ricordo dei partigiani che morirono nell’azione, al cippo con i loro nomi, alla presenza dei rappresentanti e dei gonfaloni dei Comuni e delle Province di tutta la Toscana, della Regione, dell’ANPI e di altre istituzioni.
Bogardo ed Alighiero Buricchi, Ariodante Naldi e Bruno Spinelli furono insigniti della medaglia d’argento al valor militare alla memoria agli inizi degli anni 70.




Nasce un sito dedicato a Dino Niccolai, antifascista pistoiese

Per iniziativa della famiglia, e con la collaborazione dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, nasce un sito dedicato alla figura di Dino Niccolai, antifascista e comunista pistoiese.

Visita il sito

Condividiamo qui le parole di presentazione della figlia Nadia e del figlio Luciano
Non vogliamo qui ricordare la sua sfera intima e privata, vissuta da ognuno di noi in maniera personale e diversa a seconda dei nostri diversi caratteri. Come dice mio fratello vorremmo dedicargli un pensiero, un piccolo spazio perchè quello che ha vissuto e le cose in cui ha creduto non vadano perdute. Dino Niccolai era infatti uno di quegli eroi  silenziosi e misconosciuti di cui l’Italia era ricca in un passato non troppo remoto come tempo, ma remotissimo per spirito ed ideali. A tutti loro ed a tutti i loro figli e nipoti che non hanno potuto dar voce a questi piccoli eroismi, Luciano ed io desideriamo dedicare un “monumento” alla memoria.
Nostro padre fu di volta in  volta, e contemporaneamente, antifascista, caposquadra degli arditi del popolo diretti da Mingrino, comunista, condannato ed incarcerato per propaganda antifascista per 3 anni, sorvegliato speciale, membro del  Comitato di difesa divenuto poi  C.L.N., membro di bande partigiane, gappista e “patriota”  dal 15.02.1944 al 15.09.1944 all’interno della Formazione Montale e dal 01.06.1944 al 18.09.1944 all’interno della Formazione Libertà di Pistoia.




War is over! L’Italia della Liberazione nelle immagini dei U.S. Signal Corps e dell’Istituto Luce, 1943-1946

Aperta fino al 19 febbraio la mostra War is over! L’Italia della Liberazione nelle immagini dei U.S. Signal Corps e dell’Istituto Luce, 1943-1946 a Forte dei Marmi a Villa Bertelli.

La mostra War is Over è organizzata dall’Istituto Luce di Roma, dal Comune di Forte dei Marmi e dalla Fondazione Villa Bertelli (Curatori Enrico Menduni e Gabriele D’Autilia e regia Video Roland Sejko).

Attraverso la selezione di circa 140 immagini, anche inedite, e filmati d’epoca – compresi nel periodo tra il luglio del 1943 (lo sbarco degli alleati in Sicilia) e il 1946 – si svolge la narrazione della guerra attraverso i suoi protagonisti, italiani e americani, e il confronto, unico e suggestivo, tra due differenti punti di vista. Da una parte gli scatti dell’Istituto Luce, l’organo ufficiale di documentazione foto-cinematografica del regime, dove il “bianco e nero” è espressione prima del cupo declino del fascismo e poi della sobrietà di una classe dirigente che cerca di costruire sulle rovine della guerra; tra queste, molte immagini del fondo “Reparto Guerra Riservati” in cui erano conservati i negativi bloccati dalla censura. Dall’altra, le fotografie dei Signal Corps, l’efficiente servizio di comunicazioni al seguito delle truppe statunitensi, provenienti da un raro repertorio, conservato presso la NARA (National Archives and Records Administration) di Washington e solo in parte conosciuto in Italia. Qui il colore diventa il segno di un’Italia diversa, “rivelata” da operatori e fotografi più attenti al dato sociale e uno strumento di esportazione dell’american way of life che, con la ricostruzione, raggiunge anche l’Italia.
Ingresso gratuito, venerdì, sabato domenica dalle ore 16:00 alle ore 19:00 (1 gennaio chiuso).




E scese l’inferno dal cielo

La più grande tragedia di Empoli”, come l’ha definita Libertario Guerrini nella sua storia de “Il movimento operaio nell’Empolese 1861-1946” avviene alle ore 13.00 del 26 dicembre del 1943 quando per la prima volta la città è colpita da un bombardamento aereo alleato che colpisce e devasta i quartieri adiacenti alla stazione ferroviaria ed in particolare il rione delle Cascine, determinando la morte di 120 persone e il ferimento di oltre 200, secondo le prime stime riportate dai vigili del fuoco prontamente accorsi. I danni sono evidenti ed ingenti: 50 abitazioni ed uno stabilimento completamente distrutti, oltre 90 case e 5 fabbriche sinistrate.
Una vera tragedia aggravata non solo dall’effetto sorpresa da parte di una comunità impegnata nel pranzo festivo, e “rassicurata” dal fatto che ben 57 allarmi aerei erano risuonati senza alcuna conseguenza fra il 30 agosto e il 13 novembre precedenti, e dallo “scivolamento” delle bombe dai binari della ferrovia, cui erano dirette, alle zone vicine, ma anche dal fallimento del sistema di difesa e protezione antiaerea. Non è un caso che il Commissario prefettizio che gestisce il Comune nella sua prima relazione al Capo della Provincia (carica che sotto la Repubblica sociale italiana riunifica quelle di Prefetto e di Presidente della Provincia) insista sui danni da attribuire alla ferocia “nemica” e sulla solidarietà immediata che muove gli empolesi e anche le popolazioni dei paesi vicini nel cercare di portare i primi soccorsi e affrontare le emergenze più impellenti (abbattere le parti pericolanti degli edifici, soccorrere i feriti, seppellire i morti per evitare il diffondersi di epidemie), ma non analizzi in alcun modo l’assenza di ogni difesa anti-aerea.
Viene improvvisamente meno l’illusione di essere un piccolo nucleo provinciale che non avrebbe potuto attirare l’attenzione dei potenti stormi angloamericani, rispetto alle grandi città industriali del nord, ma anche ai capoluoghi toscani, come Firenze e Pisa attaccati nei mesi precedenti. Del resto Empoli non era affatto periferica, in quanto importante centro manifatturiero e, soprattutto, fondamentale snodo del sistema ferroviario lungo le direttrici che da Firenze portavano – e portano ancora oggi – al mare e a Roma. E proprio i centri di produzione, le vie di comunicazione delle truppe e delle merci e le reti infrastrutturali erano gli obiettivi primari della guerra aerea.
Anche gli empolesi conoscono e si trovano al centro del conflitto mondiale iniziato dal nazismo nel settembre del ’39, di cui l’Italia fascista era stata attiva protagonista fino ad esserne travolta nell’estate del ’43 con l’invasione angloamericana della Sicilia, la deposizione di Mussolini, l’armistizio dell’8 settembre e l’occupazione nazista della penisola che aveva trasformato la penisola in un tremendo campo di battaglia. E proprio la guerra aerea ne segna ed esprime la dimensione di “guerra totale” capace di colpire ciascuno e tutti (senza distinzioni fra civili e militari, uomini e donne) in ogni momento della giornata, in ogni luogo, fin nelle proprie abitazioni. L’Italia ne era stata fatta oggetto dall’autunno del ’42 a partire dai porti del Mezzogiorno e dalle grandi città industriali del nord.
Ma partire dalla primavera-estate del ’43 la strategia bellica alleata aveva puntato proprio sugli attacchi aerei su tutta la penisola – a partire da Roma – per demolire il morale di una popolazione già fortemente provata che, con gli scioperi del marzo precedente, aveva mostrato il proprio crescente distacco dal regime, così da favorirne la caduta e quindi la resa del Paese. Del resto proprio la tenuta o meno del “fronte interno”, cioè la capacità di una popolazione di resistere alle prove del conflitto sostenendo lo sforzo bellico del proprio governo, è la cartina di tornasole per misurare le sorti delle parti belligeranti. Il venir meno delle promesse della propaganda sulla rapida e vittoriosa fine del conflitto e l’evidente fallimento delle strategie di difesa antiaerea intrecciate con i forti limiti nella protezione ed assistenza dei civili aprono un solco crescente fra gli italiani e il regime e fanno emergere come prioritaria e maggioritaria la volontà di uscire dal conflitto, come mostrano l’entusiasmo con cui sono accolte dalla maggioranza della popolazione sia la notizia della “caduta” di Mussolini che quella dell’armistizio.
A partire da quel 26 dicembre quindi, anche all’ombra della Collegiata e nei borghi delle valli fiorentine si diffonde il terrore della morte quotidiana che scende dal cielo, accentuando il terrore e il senso di precarietà di popolazioni già provate dal prolungarsi del conflitto e dai suoi effetti a partire dalla mancanza di adeguate risorse alimentari. E sarà l’inizio di una lunga via crusis, anche se la tragedia del primo bombardamento resta insuperata. Nei mesi successivi gli attacchi aerei si ripetono con crescente insistenza in relazione all’avvicinarsi del fronte nell’estate successiva. Empoli, ed i territori circostanti, sono infatti colpiti dal cielo fra gennaio e luglio del ’44 altre 36 volte, delle quali 13 nel solo mese di luglio.
Inoltre, a seguito del primo bombardamento e ai due successivi nel gennaio del ’44 la città viene evacuata e gran parte della popolazione conosce così l’inevitabile, ma dolorosa esperienza dello sfollamento nelle campagne vicine, da “profughi” nella propria terra. Nei mesi successivi la città torna ad animarsi al mattino e nel tardo pomeriggio per lo svolgimento delle attività e dei lavori quotidiani in un contesto segnato da un crescente discredito delle autorità fasciste della Repubblica sociale, dall’ostilità verso queste e le truppe naziste e dal sostegno alle forze della Resistenza e alle forme di opposizione al nazifascismo e alla guerra, e nella trepidante attesa della fine del conflitto.

Matteo Mazzoni, dottore di ricerca in Studi storici in età moderna e contemporanea, è attualmente Direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana e coordinatore del Portale ToscanaNovecento.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2016.




73° anniversario della battaglia di Valibona

Il 3 gennaio l’amministrazione comunale di Calenzano vi invita alla commemorazione della battaglia di Valibona:

ore 10.30 deposizione della corona in piazza Vittorio Veneto

ore 12 commemorazione della battaglia a Valibona