Celebrazione solenne in Consiglio regionale per la Giornata della Memoria 2017

Gentili signore e signori, gentili consiglieri, Rabbino Levi, Presidente della Comunità ebraica Bedarida, rappresentanti delle istituzioni e delle associazioni sono lieto e soprattutto molto onorato dell’invito a parlare in questa occasione. Per questo saluto e ringrazio vivamente il Presidente del Consiglio regionale, Eugenio Giani, e il Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi.

Ne sono onorato perché come Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana non posso che leggere in questo invito un importante riconoscimento del nostro lavoro.
Il lavoro che come rete toscana degli istituti storici della resistenza e dell’età contemporanea, pur tra crescenti difficoltà, svolgiamo quotidianamente con l’impegno volontario di molti uomini e donne e con l’indispensabile sostegno delle istituzioni, per porre il nostro patrimonio documentario e le nostre competenze al servizio degli studiosi, degli insegnanti, dei cittadini di questa città, di questa regione, del nostro paese e per promuovere con rigore scientifico la ricerca, la formazione e la divulgazione della conoscenza storica.

Ne sono onorato anche perché come docente di storia contemporanea in una delle università di questa regione ogni qualvolta scruto i volti dei miei studenti diciannovenni mi sento sollecitato a fargli comprendere il senso del loro studio. Ecco, l’invito di oggi è anche un riconoscimento per quei ragazzi, che nella storia contemporanea cercano uno strumento per comprendere il mondo in cui vivono. E se oggi fossero qui ci chiederebbero di spiegargli a cosa serve celebrare la Giornata della Memoria. E’ una domanda che tutti dobbiamo porci, proprio qui in questa regione che così tanto e da molti anni lavora su questi temi con grandi sforzi e grandi risultati.

Le memorie e la storia

A cosa serve la memoria, uno strumento prezioso e fragilissimo? Come farne una risorsa per la cultura del nostro presente? Quale nesso riusciamo a costruire tra la memoria e la cronaca, oggi drammatica, delle guerre e dei nazionalismi, delle stragi e delle migrazioni più o meno forzate? Una cronaca che ci turba e ci disturba, e poi ci si assuefà a seconda che i corto circuiti o le onde della globalizzazione l’accostino o meno alle nostre case.

La memoria è una risorsa preziosa, ma che si consuma. Non è come la fiaccola del tedoforo che passa di mano in mano, sempre rinnovando la sua fiamma. La memoria non si conserva, né si tramanda. Dobbiamo essere ben consapevoli che la memoria vive solo perché si riproduce, si rielabora, certo nel dialogo tra le generazioni e dunque e anzitutto nel dialogo con il tempo presente.

Perché la memoria è inefficiente, come ha scritto di recente Michael Corballis, uno psicologo neozelandese, parlando di quelle individuale, ma ciò vale anche per quelle collettive che ne discendono. La memoria non è una registrazione fedele del passato, semmai ci fornisce informazioni, talora anche false o incomplete, con cui costruiamo delle storie. Perché, per riprendere le parole di Marie Howe, una poetessa americana, “La memoria è un poeta, non uno storico”.

Ecco, la memoria è poesia e noi abbiamo molto bisogno di quella poesia per poter immaginare il passato, per riflettere sul passato, come ci chiede la legge 211/2000, la legge istitutiva della Giornata della Memoria. Abbiamo bisogno di sentirci raccontare delle storie. Quelle che i testimoni, ormai sempre meno numerosi, ci hanno raccontato con saggezza e talora con dolore, quelle che i viaggi ad Auschwitz ci fanno rievocare, quelli che i nuovi linguaggi ci raccontano in forme talora straordinariamente efficaci, come da ultimo ad esempio nel bel film Shalom Italia di Tamar Tal Anati, recentemente proposto al Festival dei Popoli.

Ma per fare educazione civile, quella poesia deve diventare strumento di conoscenza del presente, e non solo del passato. I testimoni ci emozionano, ma possono essere anche indurre ritualità e ripetitività. Quando li trasformiamo in monumenti, quando li trasformiamo in oracoli della verità esperienziale e nell’incarnazione del bene, quando li schiacciamo nel loro ruolo di vittime, senza riflettere su cosa sia stato storicamente il male cui li contrapponiamo, rischiamo di consolarci in una visione manichea che assolutizza il male, lo destoricizza e lo allontana da noi. Mentre il male era anche fra noi. Non era solo altrove, lontano dalle nostre città, nei luoghi dell’orrore dove pure ci rechiamo in viaggio, ma ai quali dobbiamo accostarci sempre con adeguata conoscenza e consapevolezza storica.

Quando si moltiplicano le vittime, e le loro memorie, che pure e giustamente chiedono ascolto, si deve però porre molta attenzione a non alimentare atteggiamenti autoassolutori e deresponsabilizzanti, all’insegna dell’”eravamo tutti antifascisti” e ovviamente “siamo tutti antirazzisti”. Attitudini che molto spazio hanno avuto nella storia del nostro paese. Soprattutto si rischia di perdere di vista i carnefici, uomini e donne come noi e come le loro vittime, si rischia di perdere di vista le idee e le scelte, le responsabilità e i progetti, i luoghi e le situazioni, qui e ora, che hanno trasformato milioni di uomini e donne in vittime.

Per questo, la poesia della memoria deve necessariamente coniugarsi con la conoscenza storica. Dobbiamo essere consapevoli che oggi più che mai la cultura e la conoscenza storica sono risorse indispensabili per la formazione di una coscienza civile e la costruzione di una società democratica. Anche nel tempo presente, proprio perché apparentemente schiacciato nell’immediatezza e nella novità dell’oggi, la cultura storica è chiamata ancora una volta e più che mai a svolgere per intero la propria funzione educativa, nel senso più alto, nel nostro paese così come, è auspicabile, in Europa e nel mondo.

Non perché si debba demandare ad essa la trasmissione di valori e di ideali, ma perché la cultura storica consente di mettere in prospettiva i problemi e le domande dell’oggi. Perché illuminando il passato, aprendoci alla comprensione di ciò che è stato, di perché è accaduto, essa ci aiuta a elaborare risposte capaci di misurarsi con consapevolezza critica con la complessità delle trasformazioni che investono il nostro presente, e con le sfide, le minacce, le ingiustizie che prendono nuova forma e sostanza.

Ed è chiaro che per cultura storica non intendo solo quella che possiedono gli accademici, ma anzitutto quella che dovremmo possedere tutti noi, insegnanti e studenti, uomini di cultura e politici, ma, allo stesso modo, tuti noi semplici cittadini. Appunto, la storia come risorsa per una cultura civile, nel senso proprio del termine.
È questo, deve essere questo, io credo, il senso profondo delle leggi del cosiddetto calendario civile, quelle che hanno istituito la Giornata della Memoria, il Giorno del Ricordo e le altre giornate memoriali.

La forza delle passioni, la poesia delle memorie dunque non possono non essere calate nel contesto delle condizioni storiche contingenti e specifiche che, nel loro convergere, costruirono il genocidio, nella Shoah, come altrove.

Il nazismo e l’Europa del Novecento

Del genocidio, dei molti genocidi di cui è lastricata la storia dell’umanità e in specie quella dei secoli a noi più vicini, la Shoah è divenuta il paradigma. E è giusto che sia così. Lo è divenuta in ragione della drammatica ferocia che l’ha alimentata e della enormità dei numeri che la distinguono, della sua centralità nel mondo cosiddetto sviluppato, della eccezionale convergenza di nazionalismo e antisemitismo, antislavismo e anticomunismo che ne fu all’origine. Alla condanna morale deve associarsi la conoscenza storica: cosa è accaduto? ma soprattutto perché è accaduto? Rispondere a queste domande, e ancor prima porsele è indispensabile per ricostruire il rapporto tra quegli eventi e la nostra modernità, vale a dire tra quegli eventi e noi stessi.

Il disegno e il realizzarsi dello sterminio nacquero e si collocarono dentro la costruzione di uno stato nazionale di impostazione razzista e coloniale, impegnato a imporre un nuovo ordine europeo, nel quale le gerarchie dei popoli fossero funzionali alla supremazia politica quanto alle esigenze dell’economia della Germania tedesca. Un disegno che coniugava l’efficienza della Wehrmacht e la potenza delle industrie tecnologicamente più avanzate con la rapina delle risorse e il lavoro schiavistico. Un progetto che si rivelò fallimentare, ma che appartiene a pieno titolo alla modernità novecentesca. Non un delirio, ma una risposta alle sfide poste da quella modernità. Una proposta politica che in Germania e in Europa raccolse larghi consensi, se non nei suoi dettagli sterminazionisti, certamente nella prospettiva generale di un ordine politico e sociale fondato sull’autoritarismo gerarchico, razzista e antisemita.

Le sue vittime furono in realtà cittadini cui si negarono diritti, non solo quelli che oggi noi chiamiamo umani – termine che trovo talora riduttivo – ma i diritti di libertà e sovranità politica, il diritto al lavoro, il diritto ad una vita sicura. I diritti di cittadinanza, insomma. Di quel disegno di esclusione da una cittadinanza fondata sulla razza, gli ebrei furono le prime vittime, in quanto considerati una “non razza”, un popolo senza stato. Gli ebrei tedeschi anzitutto, costretti alla fuga, e uccisi in circa centoventimila, e però accanto a loro tutti gli avversari politici del regime. Immediatamente dopo la conquista del potere, avvenuta per via elettorale e costituzionale, ricordiamolo, il nazionalsocialismo si scagliò contro il nemico interno, anzi, i nemici: gli ebrei, i comunisti, gli antifascisti, gli individui ritenuti socialmente dannosi. Nel 1933 furono arrestate trecentomila persone, in parte poi rilasciate, ma nel 1936 i detenuti a Dachau e negli altri campi erano ventimila e cinquantamila nel 1938 (la metà dei quali ebrei) e ancora il loro numero tornò a salire, nonostante le migliaia di espulsioni, a ottantamila all’inizio della guerra.

Dobbiamo ricordare questi numeri, perché nella loro brutalità ci raccontano come già in tempo di pace il nazionalsocialismo costruì i propri nemici, i nemici di una nazione pretesa omogenea, secondo una pretesa e una logica comune a molti altri stati europei novecenteschi, anche se fu certamente il più ferocemente radicale nel perseguire quella omogeneità. E, dunque altri numeri dobbiamo ricordare, ad esempio quelli degli oltre 20 milioni di europei costretti tra il primo e il secondo dopoguerra a lasciare le terre in cui vivevano perché considerati minoranze indesiderate rispetto ai nuovi stati in costruzione, non solo nell’Europa centrale. Storie di ieri, diverse tra loro, ma che condividono denominatori comuni. Storie che oggi si ripresentano, anche se in forme ancora diverse.

La Shoah: le radici e i frutti

E oggi, certo, parliamo un’altra lingua, adoperiamo altri strumenti. L’esperienza della Shoah è profondamente radicata nella nostra memoria e nella nostra coscienza. Ma quanto salde e vigorose sono quelle radici ? Quali frutti danno quelle radici?

Sono interrogativi che salgono alla mente, ad esempio, quando all’indebolimento dello stato nazionale indotto dai processi di globalizzazione si sente da più parti reagire alimentando spinte identitarie e comunitariste, che esaltano l’unilateralità e la fissità di taluni caratteri sociali o culturali. Saremmo in contraddizione con i principi fondanti della nostra professione di storici se intendessimo ricondurre queste proposte all’esperienza del nazionalsocialismo germanico. Ma, al tempo stesso, è la storia del Novecento, ad insegnarci che esaltando la pretesa fissità di taluni caratteri culturali e sociali si nega in radice il carattere necessariamente plurale della figura del cittadino, quale soggetto sovrano previsto dalla nostra Costituzione democratica.
Per questa strada – una scorciatoia sempre più frequentata – in nome di quelle identità si rifiutano, di fatto prima e di norma poi, i diritti di cittadinanza a chi è additato come estraneo alla comunità, immaginata come omogenea. Come se quei diritti discendessero dalla comunità, anziché dallo statuto di cittadinanza: è qui che il nesso tra dignità umana e diritto viene pericolosamente rimesso in questione, a danno di chi è diverso rispetto alla pretesa “comunità” per nascita, religione, orientamento sessuale o financo per condizione lavorativa.

Quelle modalità di costruzione dello stato – tornando alla storia del Novecento – erano state sperimentate nei territori sottoposti al dominio coloniale, esercitandosi in operazioni che oggi noi chiamiamo di “pulizia etnica”. Quelle stesse operazioni che, con registri e impatti pur diversi, abbiamo visto all’opera anche in Europa, prima e dopo il secondo conflitto mondiale e, non dimentichiamocelo, a poche centinaia di chilometri da noi, nei Balcani occidentali, negli anni Novanta.

Era, quella costruzione dello stato che portò alla Shoah, un progetto di marca teutonica? Certo. Non si richiamano le analogie per sminuire le responsabilità, né gettare tutto dentro lo stesso calderone. Ma non dobbiamo dimenticare che anche l’Italia aveva elaborato un diritto coloniale mirato a tutelare la “razza” italiana, prodromico alle leggi razziste persecutorie dei diritti dei cittadini ebraici. E certo anche altri stati europei avevano gravi responsabilità nel governo coloniale e si erano resi protagonisti di feroci operazioni di ‘polizia coloniale’, lo stesso l’eufemismo con cui ancora pochi anni fa, sulle pagine di un giornale di questa città, qualcuno volle definire e difendere la “riconquista” fascista della Libia che provocò direttamente o indirettamente la morte di molte decine di migliaia di libici.

Le responsabilità dell’Europa (e dell’Italia)

Il nazismo fu altro. Certamente. Ma fu altro anzitutto perché, come ci fa notare lo storico Mark Mazower, portò nel cuore dell’Europa quella linea di frattura tra noi e loro che gli europei avevano tracciato nelle colonie. Fu altro perché radicalizzò quegli obiettivi politici fino a concepire – passo dopo passo – lo sterminio come un fine in sé. Per questo la Shoah è divenuta il paradigma sul quale misurare e concepire tutti gli altri genocidi.

Il nazismo portò lo sterminio nel cuore dell’Europa perché aveva un progetto per l’Europa: unificarla, s’intende sotto il proprio dominio. Un dominio all’ombra del quale molti cercarono spazio e protezione, come ci dimostrano non solo i collaborazionismi e gli alleati subalterni che li accolsero e sostennero in quasi tutti i paesi europei, a cominciare dal nostro. Ma anche un progetto condiviso, come mostra la storia del continente tra le due guerre mondiali, segnata dalla guerra civile tra fascismo e antifascismo e dal prevalere dell’opzione autoritaria di paese in paese, di anno in anno, già prima che l’esercito tedesco si mettesse in marcia nel 1939.

Di quell’Europa, la Germania nazista fece strame, con il sostegno o la tolleranza dei suoi alleati. Uccise tra i 5 e i 6 milioni di ebrei, dei quali oltre 160mila risiedevano nel Reich, 100mila nei Paesi Bassi, 200mila in Romania, oltre 70mila in Francia, 14mila in Cecoslovacchia, oltre mezzo milione in Ungheria, oltre 2 milioni in Unione sovietica e circa 2 milioni e 700 mila in Polonia.
Nei campi di concentramento e di sterminio morirono 2 milioni e 700 mila ebrei, mentre gli internati non ebrei – cioè zingari, politici, omosessuali e altri ancora – furono tra i 2 e i 3 milioni, dei quali circa ¼, tra i 5 e i 700mila morirono durante la prigionia. Nel gennaio 1945 esistevano una ventina di campi, ove erano rinchiusi circa 700mila prigionieri.

Pochi numeri, solo per richiamare assieme la portata europea e la dimensione organizzativa della politica che portò allo sterminio. Una politica che intendeva coniugare gli scopi della guerra e gli scopi dell’economia e che, per nostra fortuna, lo fece in modo alla fine fallimentare, affollando e gestendo i campi in nome ora delle logiche produttive, ora della reclusione politica, ora della persecuzione antisemita, ora dell’internamento dei prigionieri di guerra, anzitutto russi.

Memorie e cittadinanza democratica

Ne fu investita tutta l’Europa. Per questo, la Shoah non può non essere un elemento centrale e costitutivo della memoria e dell’identità europea. Ma, come già ha ricordato lo scorso anno, proprio in questa sede e in questa occasione, anche Filippo Focardi, non può essere una memoria delle vittime, magari in competizione con quella di altre vittime. Deve invece essere la memoria dei cittadini europei cui furono negati diritti, una memoria che non è in contrasto, bensì in sintonia con quella di quanti per quei diritti si batterono. Che non è in competizione con altre memorie, quando ricordiamo la privazione dei diritti che altri uomini e donne a loro volta soffrirono ad opera di regimi di diversa od opposta intonazione politica.

Non perché si debba raggiungere un’impossibile memoria condivisa. Ma perché le memorie sono intrinsecamente plurali, perché il riconoscimento della nostra memoria passa per il riconoscimento di quella altrui. Le memorie, infatti, possiedono, anzi possono accrescere il loro senso e valore nel nostro tempo presente soltanto se promuovono il riconoscimento dell’altro, il riconoscimento delle memorie altrui. Come italiani abbiamo ancora molto da fare in questo senso, nei confronti della Libia e dell’Etiopia, della Spagna e della Grecia, dell’Albania e del Montenegro, della Croazia e della Slovenia, anche della Russi e dell’Ucraina.

La storia non è magistra vitae, ma ci aiuta a comprendere che il riconoscimento degli altri come diversi da noi è – oggi più che mai – il presupposto della cittadinanza democratica, in Italia come in Europa. L’Europa come istituzione politica adeguata alla globalizzazione degli anni Duemila non può scaturire dalla sommatoria instabile di interessi presunti nazionali in competizione. Può solo fondarsi su una ridefinizione della cittadinanza che muova da quei valori di libertà, di giustizia, di rispetto della dignità umana che spinsero parte della società europea a contrastare la costruzione di un’Europa dominata da stati attrezzati per guerre di conquista e governati dall’autoritarismo, dal razzismo e dalla sopraffazione sociale.

Articolo pubblicato nel gennaio 2017.




“STORIA LOCALE”, la presentazione dei volumi 27 e 28

Venerdì 20 gennaio 2017, alle 17:30, nella Sala delle assemblee
della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia in via de’ Rossi,
saranno presentati i numeri 27 e 28 della rivista “Storialocale”

Saranno presenti:

Luca Iozzelli, Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia;
Carlo Vivoli, Presidente dell’Associazione Storia e Città
Andrea Ottanelli, Direttore della rivista Storialocale

Interverrà Luca Mannori, Presidente della Società Pistoiese di Storia Patria




40 opere realizzate dal Maestro Gino Terreni all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze

L’Associazione Archivio Gino Terreni porta a conoscenza che si è concluso l’iter della donazione di 40 opere realizzate dal Maestro Gino Terreni all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, Accademia di cui Terreni era membro dal 1970. La donazione è stata formalizzata alla presenza della dott.ssa Cristina Acidini, Presidente dell’Accademia e degli eredi del Maestro, Leonardo Giovanni e Sabrina Terreni. L’importante donazione, a cui fu fatto già cenno durante la solenne commemorazione del Maestro il giorno di San Luca, 18 ottobre 2016, fatta dal prof. Andrea Granchi e dalla dott.ssa Gabriella Gentilini, alla presenza del prof. Salvatore Settis e della dott.ssa Acidini, sarà conservata presso la sede storica dell’Accademia, nel trecentesco Palazzo dei Beccai, via Orsanmichele 4 a Firenze. Della donazione fanno parte importanti opere, dal periodo espressionista in poi, tra cui un consistente nucleo di xilografie, tre autoritratti in affresco strappato e due ritratti (disegni su carta acquerellata) del grande incisore Pietro Parigi, insegnante di Gino Terreni a Porta Romana a Firenze. Questi furono realizzati in classe da Gino durante il corso, nel 1947, proprio mentre Parigi stava svolgendo la lezione e sono completamente inediti. Tra le xilografie sono da citare quelle degli anni ’42 – ’46, tra cui i tre lavori del 1945 ispirati ad una “vecchia” contadina (Armida Regini detta Argìa), che contribuì a salvare dalla fucilazione da parte dei nazisti Gino Terreni e Gino Zani, allora partigiani, alle Casenuove di Empoli; la “Deposizione”, una delle xilo più grandi del mondo; una selezione su padre San Massimiliano Kolbe, martire di Auschwitz, commissionata da Papa Giovanni Paolo II; la xilo dell’alluvione di Firenze. Con questa donazione (non l’unica), gli eredi del Maestro vogliono esaudire le sue ultime volontà e contribuire a concretizzare quegli ideali che Terreni da tempo cercava di realizzare affinché la sua arte (ma intendeva tutta l’Arte) fosse il più possibile di dominio pubblico, fruibile da tutti.

Leonardo Giovanni Terreni, Presidente dell’Ass. Archivio Gino Terreni




L’ISRT per la Giornata della Memoria

Come ogni anno, l’ISRT rinnova il suo impegno per la Giornata della Memoria, portando avanti un’importante serie di attività con le scuole e la cittadinanza in collaborazione con Istituzioni, enti e associazioni e in particolare si comunica che sarà il Presidente dell’Istituto, prof. Simone Neri Serneri, a tenere l’orazione ufficiale nella seduta solenne del Consiglio regionale dedicata alla Giornata della Memoria nella mattina del 27 gennaio p. v.

Di seguito si riporta l’elenco delle iniziative che vedono il coinvolgimento dell’Isrt o che ne sono direttamente promosse. Cliccando su ciascuna, si accederà all’articolo specifico con il programma dettagliato.

23 gennaio: Convegno su Giorgio Castelfranco agli Uffizi.

27 gennaio: ore 9.30, Biblioteca CaNova, inaugurazione della mostra “Sterminio in Europa” a cura di ANED, con interventi del presidente del Quartiere 4, Mirco Dormentoni, e di Silvano Priori (Isrt).

27 gennaio: ore 10.00, Biblioteca delle Oblate, commemorazione della Giornata della memoria con le scuole medie fiorentine, in collaborazione con l’Assessorato all’Istruzione del Comune di Firenze. Conferenza della dott.sa Francesca Cavarocchi su Destinazione Auschwitz. Le deportazioni ebraiche da Firenze.

29 gennaio: ore 10.30, Cinema La Compagnia, proiezione del film “Il cielo cade”, con interventi di Ugo Caffaz,Comunità israelitica di Firenze, Gabriele Rizza, critico cinematografico, Matteo Mazzoni, direttore Istituto Storico per la Resistenza in Toscana, Fabrizio Trallori,docente di Storia e tradizioni fiorentine per i corsi di Guida turistica.

30 gennaio: ore 15.00, presso la sede dell’Istituto (via Carducci 5/37), l’incontro su Fascismi in Europa, a cura di Valeria Galimi (Università di Milano) e di Matteo Mazzoni (direttore Isrt), apre il ciclo di seminari di formazione, rivolti agli insegnanti e a tutta la cittadinanza interessata, sulla storia degli ebrei in età contemporanea, organizzato da Isrt e dall’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea di Livorno.

31 gennaio e 14 febbraio: ciclo di incontri culturali su “Denigrazione, discriminazione, deportazione” a cura dell’Isrt e del Quartiere 5 del comune di Firenze.

Inoltre ricordiamo che l’Isrt organizza visite guidate per le scuole alla mostra “Ebrei in Toscana”, progettata e realizzata dall’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea di Livorno. La mostra è aperta dal martedì alla domenica dalle 10 alle 18. Per prenotare le visite basta inviare una mail a isrt@istoresistenzatoscana.it, indirizzandola all’attenzione di Paolo Mencarelli e Silvano Priori.

 




Giornata della Memoria del Quartiere 4 di Firenze

Venerdì 27 gennaio ore 9.30 e ore 17.00 alla BiblioteCaNova Isolotto, per celebrare, guardando al futuro, la Giornata della Memoria 2017, sarà allestita nei locali della BiblioteCaNova la mostra “Sterminio in Europa” a cura di ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati), con l’inaugurazione alle ore 9.30 cui parteciperanno Silvano Priori (Istituto Storico della Resistenza in Toscana) e Mirko Dormentoni, presidente del Quartiere 4. Alle ore 17 invece si terrà l’incontro “I giovani intervistano la Storia”: i ragazzi della Scuola Pirandello intervistano la scrittrice di “Memorie di un tempo di guerra” (Florence Art Edizioni, 2016), Anna Macchioni.




Il cielo cade” al Cinema della Compagnia a Firenze

In occasione della Giornata della Memoria, al Cinema La Compagnia (via Cavour 50r, Firenze) domenica 29 gennaio, alle ore 10.30, proiezione del film “Il cielo cade”di Andrea e Antonio Fazzi.
Evento in collaborazione con Associazione Anémic.
Negli anni della seconda guerra mondiale due sorelline orfane vivono un’infanzia felice presso una villa toscana, insieme agli zii ebrei tedeschi, Katchen e Wilhelm, lo zio cugino di Albert Einstein, che le hanno prese in custodia. L’arrivo dell’esercito nazista, nell’estate del 1944, distrugge nel modo più tragico la serenità di questa famiglia.
Presentato e commentato da Guido Caffaz,Comunità israelitica di Firenze, Gabriele Rizza, critico cinematografico, Matteo Mazzoni, direttore Istituto Storico per la Resistenza in Toscana, Fabrizio Trallori,docente di Storia e tradizioni fiorentine per i corsi di Guida turistica.
Ingresso libero.

Alle 14,30 sarà possibile partecipare ad una passeggiata per le vie del Centro dal titolo “Storie e memoria della guerra a Firenze”. La passeggiata sarà guidata da Fabrizio Trallori.
Per informazioni e prenotazioni: infocinema@anemic.it, cell. 3476698405.
Costo 5 euro.




Diario di André Gide 1887-1950

24 gennaio 2017 alle ore 17:30, a Firenze, Palazzo Strozzi, Sala Ferri, Franco Contorbia, Daria Galateria e Piero Gelli presentano la nuova edizione in due volumi del “Diario di André Gide 1887-1950 (BOMPIANI).




Mons. Amelio Vannelli Giusto fra le Nazioni

Giovedì 19 gennaio ore 9.30 presso il Palazzo della provincia di Arezzo, piazza della Libertà 3, presentazione del volume a cura di Carlo Fabbri su Mons. Amelio Vannelli “Giusto fra le nazioni”, interverranno il curatore, il presidente della Provincia, Roberto Vasai, i sindaci di Pergine valdarno e Terranuova bracciolini, il vescovo mons. Riccardo Fontana, Rodolfo Massai Valorosi direttore dell’Ufficio diocesano per l’ecumenismo.