ARCHIVIO APERTO. L’Archivio del Movimento di Quartiere si apre alla città.

L’Archivio del Movimento di Quartiere di Firenze fa adesso parte del sistema bibliotecario del Comune di Firenze in seguito alla donazione effettuata dalla Associazione che nel gennaio 2005 lo costituì.
L’Archivio conserva la documentazione prodotta dai Comitati di Quartiere nati con l’alluvione che il 4 novembre 1966 colpì Firenze fino alla costituzione dei Consigli di Quartiere (che dal 1976 sono organi elettivi) e dai Doposcuola, Scuole Popolari, Comitati Genitori che, nello stesso periodo, dettero vita al Movimento “Scuola e Quartiere”.
L’Archivio è collocato da oggi al secondo piano della BiblioteCanova Isolotto nella sezione Storia Locale ed è accessibile al pubblico.

Lunedì 4 novembre 2024

ore 15
Visita guidata della mostra ‘Le radici della Partecipazione’ nei pannelli originali del 2006 (cm100x200) progetto grafico di Marco Capaccioli.

ore 16
Proiezione del video ’Le Radici della Partecipazione’, prodotto da Nicola Melloni
Presentazione del sito dell’Archivio www.movimentodiquartierefirenze.it a cura di Mauro Zaccariello

ORE 17
Assemblea straordinaria dei soci dell’Associazione ‘Archivio del Movimento di Quartiere di Firenze’, aperta al pubblicoù

Saluto di Paola Galgani, vicesindaca di Firenze

Interventi

Moreno Biagioni, presidente dell’Associazione ‘Archivivio del MdQ
Tiziana Mori, responsabile E.Q.Biblioteche del Comune di Firenze
Mirko Dormentoni, presidente del Consiglio di Quartiere 4

Martedì 5 Novembre 2024

ARCHIVIO APERTO

ORE 15
visita all’Archivio con la visione della mostra ‘Le radici della Partecipazione’ nei pannelli originali,

ore 16
Proiezione del video ’Le Radici della Partecipazione’,
Presentazione del sito www.movimentodiquartierefirenze.it

ORE 17

‘ I manifesti degli anni ‘60 e ’70: la comunicazione politica ieri ed oggi”

La collezione degli oltre 250 manifesti dell’Archivio adesso è visibile nel nostro sito, una preziosa e singolare raccolta che spazia tra antifascismo e pace, internazionalismo e lotte popolari, comitati di base e lotte femministe…

“sono le voci dei comitati di quartiere, dei movimenti spontanei sul territorio, dei Circoli e Case del Popolo, ma anche la voce dei grandi partiti di massa di allora (primo fra tutti il PCI), dei sindacati, dei primi Consigli di Quartiere e la ricerca (e questa, forse, può essere la particolare e preziosa caratteristica del territorio fiorentino) di intese, alleanze, fronti comuni tra movimenti, comitati, partiti, istituzioni…”

Presentazione di

Isanna Generali, Laura Grazzini, Mauro Zaccariello

Interviene

Simonetta Soldani, docente di Storia contemporanea

Nel corso delle iniziative di ARCHIVIO APERTO è possibile accedere a tutte le pubblicazioni edite dall’Archivio, a manifesti e depliant, prodotti, averli in omaggio oppure a prezzi speciali in offerta.

 




“La linea Gotica Occidentale nel 1944-45 tra liberazioni, occupazioni e resistenze”

Convegno Bagni di Lucca- Castelnuovo di Garfagnana.

24-25 ottobre 2024

“La linea Gotica Occidentale nel 1944-45 tra liberazioni, occupazioni e resistenze”

 

Nei giorni del 24 e 25 ottobre si terrà il convegno “La linea Gotica Occidentale nel 1944-45 tra liberazioni, occupazioni e resistenze”.

Nell’anno dell’ottantesimo Anniversario della Liberazione i due giorni di studio ruoteranno attorno alla fase finale della Campagna d’Italia, che si svolse a cavallo del sistema di fortificazioni costruito dai tedeschi tra Pisa e Rimini passato alla storia con il nome di Linea Gotica.

Il convegno, coordinato da Paolo Pezzino, Presidente dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, è volto ad approfondire il contesto nazionale nella sessione del 24 ottobre e la storia dei territorio della Garfagnana nella giornata del 25 ottobre.

 

 

L’Iniziativa è promossa dall’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Lucca, dalla sezione ANPI Valle del Serchio e Garfagnana, dall’ANPI Provinciale e dai Comuni di Bagni di Lucca e Castelnuovo Garfagnana. Il convegno è svolto anche in collaborazione con Regione Toscana e l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri.

 




Primavera/estate 1944: le vallate aretine grondano sangue

Dopo lo sfondamento di Montecassino degli Alleati, la ritirata delle truppe tedesche dalla Linea Gustav alla Linea Gotica si è portata dietro una lunga scia di sangue con una serie raccapricciante di eccidi, molto spesso pianificati da una strategia stragista.

La sensazione, che man mano diventava realtà, di non essere più un esercito invincibile, che il sogno di conquistare il mondo sarebbe rimasto tale, che la guerra si sarebbe persa, rese i nazisti, da Hitler all’ultimo soldato semplice, sempre più violenti e disumani. In più vi era quell’azione di guerriglia portata avanti dalle formazioni partigiane, atte a contrastare la loro ritirata, che logorava fino allo sfinimento il morale tra le file dei militari; militari già esasperati dalle condizioni di una guerra che per molti di loro si stava protraendo da quasi cinque anni, in giro per il mondo, lontano da casa e con la morte sempre ad un passo. E dall’alto del comando giungeva l’ordine di usare la mano pesante per debellare l’attività di coloro che venivano definiti “banditi”, ai quali, non essendo militari, non veniva riconosciuto nessun diritto delle leggi di guerra. Lo stesso Kesserling, comandate delle forze tedesche in Italia, era andato oltre auspicando un contegno durissimo ed intransigente anche verso i civili in quanto fiancheggiatori o possibili partigiani. Per lui il problema consisteva nel fatto che i partigiani non portassero la divisa per cui si poteva supporre che ogni civile fosse pronto a colpire facendo vivere i soldati tedeschi sotto continua minaccia. Il famoso “Befehl” del 17 giugno 1944, a sua ispirazione, redazione e firma che dice: “uccidete, e qualsiasi cosa vi accada vi difenderò, e se non vi scatenerete contro gli italiani vi punirò”, costrinse tutti i militari tedeschi a strafare.

E durante il passaggio del fronte di guerra nella provincia aretina il “Befehl” di Kesserling fu messo in pratica con una ferocia disumana che probabilmente andò anche oltre le intenzioni del comandante tedesco. Nessuna pietà né per donne, anziani e bambini, perfino un neonato di due settimane fu trucidato con una sventagliata di mitra. Nessuna pietà neanche per quella donna incinta che durante il tragitto della “marcia della morte” da Molin dei Falchi a San Polo stanca per il cammino si accasciò a terra e fu uccisa con il suo bimbo in grembo con un colpo alla pancia. Una follia rabbiosa che trovava nell’eccidio di esseri umani inermi la sua massima espressione e che a volte non aveva bisogno neanche di giustificazioni (se possono esistere giustificazioni) di ritorsioni per uccisioni nelle file tedesche. Si uccideva barbaramente per il solo gusto di uccidere, si uccideva solo perché gli italiani venivano considerati traditori: dal nonno al nipotino seppur innocenti ed estranei alla guerra per il solo fatto di essere italiani meritavano la morte…

Nel territorio aretino non avvennero grandi stragi per numero di vittime come a Marzabotto (oltre 800 vittime) o a Sant’Anna di Stazzema (560 vittime), ma si susseguirono una serie di eccidi, 42 per la precisione, sparsi per le colline e le campagne che nella primavera/estate del ‘44, in soli quattro mesi causarono quasi 1500 morti. Quel territorio costituiva l’ultimo baluardo per contrastare l’avanzata degli Alleati e dovevano resistere fintantoché non fosse ultimata la costruzione della Linea Gotica e quando le truppe tedesche lentamente si ritiravano facevano terra bruciata dietro a loro.

 

PERCHE’ LA MEMORIA NON SI CANCELLI

Nell’anno dell’ottantesimo Anniversario della Liberazione della provincia aretina, perché si tenga sempre alta l’attenzione e vivido il ricordo di ciò che è avvenuto, abbiamo individuato una sorta di “Sentiero Resistente” inteso come caduti per la Resistenza, dove narriamo e ripercorriamo alcune stragi meno note compiute nell’aretino. Nel corso di questo percorso andremo a visitare i vari monumenti dedicati alle vittime di quelle violenze compiute dai nazifascisti nell’estate del ‘44.

L’itinerario è lungo complessivamente 39 km, percorribili in automobile in circa un’ora, in bicicletta in due ore, oppure per i più “coraggiosi” amanti del trekking è possibile effettuarlo a piedi impiegando circa 8 ore di cammino.

 

Mappa del percorso

 

Le Tappe: Monumento ai caduti dell’eccidio di Badicroce – Monumento ai caduti dell’eccidio dell’Intoppo-Palazzo del Pero – Monumento ai caduti di Staggiano – Carcere di Arezzo – Cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio – Monumento ai caduti di San Leo – Monumento in memoria dell’eccidio di San Polo – Murales della Chiassa Superiore.

 

1° tappa: Monumento ai caduti dell’eccidio di Badicroce

Il nostro percorso inizia con la visita al monumento in ricordo delle 17 vittime civili trucidate dai tedeschi nella fattoria di Badicroce e nei suoi dintorni. Il monumento si trova in uno spiazzo al lato della strada provinciale che unisce Gambaronica a Palazzo del Pero.

Dalla metà di giugno questa era un’area di passaggio delle truppe tedesche che facevano la spola tra il fronte e il presidio di Arezzo. Una sera un ufficiale dopo essersi fermato a cenare alla fattoria aveva sparato in aria un colpo di pistola ottenendo come risposta una raffica di mitra in lontananza, segno inequivocabile che nella zona ci fossero uomini armati. Questo fu sufficiente a sospettare che il proprietario della fattoria, il dottor Alberto Lisi, fosse coinvolto con la Resistenza e a considerare la zona un ricettacolo di partigiani protetti dalla popolazione civile, cosicché nei giorni seguenti la morte di un soldato fece scattare subito la rappresaglia in quel luogo. Iniziarono mettendo a fuoco le case di contadini e boscaioli all’interno della tenuta eccetto la colonica detta “Aia vecchia”, che fu occupata dai tedeschi diventando la loro base logistica per i crimini dei giorni a seguire. Le stalle della casa furono adibite a centro di raccolta e detenzione, ma anche luogo di interrogatori e torture (e non mancarono in quelle stanze anche stupri per le malcapitate donne), per tutti gli abitanti e gli sfollati che furono presi in ostaggio durante le azioni di rastrellamento.

Il 3 luglio cominciava l’emorragia di civili: le prime vittime furono tre uomini arrestati a Palazzo del Pero e condotti a Badicroce per essere giustiziati e fino al 10 luglio caddero sotto i colpi nazisti diciassette persone (sei anziani, sette adulti, due donne e due bambini). Una delle donne era Olga Badini, giovane sposa sfollata ad Arezzo, la cui colpa fu solo quella di impedire, opponendosi energicamente, a due soldati tedeschi di usare violenza su alcune ragazze. I due inizialmente desistettero ma dopo alcune ore tornarono nella stalla dove erano reclusi gli sfollati, presero la Badini e la condussero fuori. Il suo cadavere fu trovato insieme ad altre vittime il giorno dopo la liberazione nel bosco con incredibili segni di violenza e con un fazzoletto alla gola, causa probabile di morte per asfissia[1].

L’opera in ricordo dell’eccidio è stata realizzata dagli studenti di terza dell’Istituto d’Arte “Piero della Francesca” di Arezzo, ed è stata inaugurata il 26 marzo 2011. La scultura rappresenta una donna che cerca di rialzare il corpo di un uomo, con accanto anche quello giacente di una ragazza. Sul basamento sono poste due targhe in metallo, una, quella a destra, in cui sono incisi i nomi dei caduti, l’altra, quella a sinistra, ha invece inciso il simbolo della Repubblica italiana, la dedica alle vittime e gli autori dell’opera.

 

Monumento eccidio Badicroce, a Pian di Usciano.

 

2° tappa: Monumento ai caduti dell’eccidio dell’Intoppo-Palazzo del Pero

Badicroce – Palazzo del Pero 3,4 km (4 minuti in auto, 46 minuti a piedi).

Proseguendo in direzione nord si oltrepassa l’abitato di Palazzo del Pero, in direzione Molin Nuovo e si arriva, dopo circa tre chilometri e mezzo, al monumento ai caduti dell’eccidio di Palazzo del Pero, posto in un ampio spazio nella parallela della strada statale 73.

In uno scontro a fuoco il 23 giugno, nelle vicinanze della fattoria Bianchini a Palazzo del Pero, fu ucciso un soldato della Wehrmacht. Immediata fu la reazione dei tedeschi che arrestarono il proprietario Domenico Bianchini insieme al figlio ed al nipote. Il mattino seguente furono rilasciati, ma un reparto tedesco, probabilmente appartenente alla polizia militare, tornò alla fattoria, catturò i contadini che stavano tranquillamente mietendo il grano e dettero fuoco ai loro poderi. Dal modo di comportarsi dei soldati si comprese fin da subito la gravità della situazione e che la loro azione di rappresaglia sarebbe stata molto dura e luttuosa. Infatti nove contadini vennero prelevati e portati nei pressi di una chiesa in località il Muraglione per essere giustiziati. A niente valsero le grida disperate dei parenti e le loro invocazioni di pietà per i propri cari cercando soprattutto di mettere in rilievo la loro innocenza. Il comandante del reparto fece rispondere all’interprete: “anch’io sono convinto della loro innocenza, come pure sono convinto che noi abbiamo perduto la guerra, però dobbiamo farli fucilare egualmente[2]. Quegli uomini vennero fatti allineare lungo la strada ed al comando uccisi con scariche di mitra.  La decima vittima, Giulio Bacci, fu sorpresa mentre tentava la fuga sulla via fra Maiano e Le Lastre. Sarà la madre il giorno dopo a ritrovare il corpo straziato del figlio sul ciglio della strada.

Due manufatti sono stati posti in tempi diversi in memoria della fucilazione di 10 uomini, tra civili e partigiani, avvenuta in questo luogo il 24 giugno del ‘44 per mano dei soldati tedeschi. Il primo, collocato a breve distanza dall’accaduto, è un cippo di pietra con incassata una lapide di marmo sulla quale sono riportati i nomi dei dieci caduti. L’altro monumento invece, posto nel cinquantesimo anniversario dall’eccidio, è costituito da un masso di pietra in cui è incastonato un bassorilievo che raffigura una Pietà in bronzo.

 

Monumento ai caduti dell’eccidio dell’Intoppo.

 

3° tappa: Monumento ai caduti di Staggiano

Palazzo del Pero – Staggiano 9,5 km (12 minuti in auto, un’ora e mezzo circa a piedi).

Dal monumento dell’eccidio di Palazzo del Pero torniamo indietro per pochi metri sulla strada provinciale e svoltiamo a destra prendendo la strada statale 73, per poi uscire dalla strada principale all’altezza del bivio con indicazione “Poti”; infine proseguiamo fino a Staggiano, una piccola frazione del comune di Arezzo, vittima di un altro eccidio nazista nel luglio del ’44.

Lungo la strada di fronte alla chiesa delle Sante Flora e Lucilla, in via Santa Fiora, si trova il monumento ai caduti di Staggiano, due lapidi di marmo nelle quali sono incisi i nomi dei caduti della prima e della seconda guerra mondiale.

L’11 luglio una pattuglia di soldati tedeschi giunse alla casa colonica Torri, situata in collina sopra il paese di Staggiano, in cui abitava la famiglia Carboni che aveva ospitato alcuni sfollati. Quel giorno era presente in casa anche un giovane capitato lì per caso che possedeva una pistola. Alla vista dei tedeschi egli si allontanò precipitosamente nascondendo l’arma sotto un covone di grano. Quel gesto non passò inosservato: il giovane fu catturato e la sua arma ritrovata. Ma nelle vicinanze vi era una compagnia della formazione “Pio Borri” guidata da Siro Rossetti, che si era attestata su Poggio Tondo, sopra Staggiano per prepararsi alla calata sulla città di Arezzo. I partigiani intervenuti prontamente per risolvere la questione riuscirono ad avere la meglio respingendo la pattuglia tedesca anche se nello scontro a fuoco persero la vita due suoi uomini. Inevitabilmente la ritorsione non tardò ad arrivare e dopo qualche ora i tedeschi ritornarono incendiando la fattoria, considerata una base dei partigiani, sterminarono il bestiame e fermarono sei uomini: i fratelli Angelo e Ferdinando Carboni, intenti a pascolare il gregge; Manlio, Alfonso e Alberto Mazzi, che si trovavano in casa ed il giovane Piero Poretti, il proprietario della rivoltella. Tutti quanti furono portati a villa Sacchetti, sede del comando tedesco, e qui barbaramente uccisi.  I loro corpi vennero rinvenuti quattro giorni dopo, il 16 luglio, giorno della liberazione di Arezzo, in una buca a Santa Fiora: “I corpi da quanto si poté constatare erano stati calcati a forza nella buca. In tasca a ciascuno era stata messa una quantità di esplosivo e si poté anche constatare che per rendere più tremenda la morte erano state sparate addosso a loro alcune fucilate con cartucce di pallini[3].

 

Monumento ai caduti di Staggiano

Nomi dei sei uomini caduti a Staggiano durante la Resistenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

4° tappa: Carcere di Arezzo

Staggiano- Arezzo carcere 5,5 km (10 minuti in auto, un’ora circa a piedi).

Da Staggiano proseguiamo in direzione nord-ovest verso Arezzo, prendendo via Anconetana fino a giungere nella zona del centro storico della città.

In via Garibaldi, distante dieci minuti dalla cattedrale dei Santi Pietro e Donato, troviamo la casa circondariale di Arezzo, dove il 15 giugno del ’44 vennero barbaramente trucidati, da componenti della Guardia Nazionale della Repubblica di Salò, Santino Tani (anima della Resistenza aretina), suo fratello don Giuseppe Tani e Aroldo Rossi, catturati il precedente 30 maggio nei pressi di Montauto (Anghiari)[4].

La cella dove i tre partigiani vennero sottoposti ad inaudite violenze e poi massacrati con decine di proiettili è oggi monumento nazionale. Nella lapide posta accanto alla cella sono raffigurati i loro volti, ritratti nei tre ovali apposti sulla sommità della lapide, che recita: “In odio alla libertà, qui furono imprigionati, straziati, uccisi Santino Tani, don Giuseppe Tani, Aroldo Rossi. La libertà risorta ne addita la fede e il sacrificio agli italiani”.

 

Targa posta accanto alla cella nel carcere di Arezzo dove vennero trucidati i tre partigiani.

 

5° tappa: Cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio

Arezzo carcere – Mulinaccio 2,3 km (6 minuti in auto, mezz’ora a piedi).

Si continua percorrendo via Giuseppe Garibaldi in direzione sud, per poi svoltare a destra all’altezza dell’incrocio con via San Lorentino e continuare per più di un chilometro fino ad arrivare al bivio con via Antonio Stoppani, svoltiamo a destra e proseguiamo fino a via Camillo Golgi, dove è visibile, prendendo una rampa pedonale, segnalata da un apposito cartello, che scende verso il torrente Castro, il cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio.

Il monumento inaugurato nel dopoguerra è stato restaurato, grazie ai parenti delle vittime, nel 2008.

La strage del Mulinaccio venne compiuta il 6 luglio del 1944, a dieci giorni dalla liberazione di Arezzo. Quindici uomini che stavano lavorando nei campi, residenti presso il podere il Mulinaccio, vennero presi dai tedeschi. Nonostante i giorni precedenti avessero intrapreso rapporti amichevoli con loro, i soldati quel 6 luglio li divisero dalle loro mogli e madri e li fecero camminare lungo il sentiero che porta verso il torrente Castro. Qui, poco oltre il guado, vennero uccisi a colpi di mitraglia e gettati in una fossa. Il giorno successivo gli stessi soldati ritornarono al podere intimando alle donne la partenza dalle case coloniche e comunicando loro la morte dei familiari, dicendo ripetutamente “Partisanen kaputt!”.  Le donne, non conoscendo la lingua, non capirono, e soltanto una settimana dopo si resero conto del crimine che era stato consumato scoprendo la fossa dei cadaveri.

Ancora oggi non si riesce a capire le motivazioni dietro a quella strage: la memoria locale suggerisce la motivazione della rappresaglia, ma per il partigiano e scrittore Enzo Droandi si tratta invece di “violenza ingiustificata” e non si esclude la possibilità che si possa parlare di “terra bruciata”: “i tedeschi erano esasperati e catturavano chiunque, vedendo partigiani un po’ ovunque e nelle donne vedevano delle informatrici ribelli[5].

 

Cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio.

 

6° tappa: Monumento ai caduti di San Leo

Mulinaccio- San Leo 2 km (cinque minuti in auto, venti minuti a piedi).

Procediamo in direzione est percorrendo via Fiorentina poi via San Leo e giunti all’angolo con via Gaetano Donizzetti scorgiamo in un’area verde al lato della strada il monumento ai caduti di San Leo.

Il 6 giugno 1944 in località San Leo la gendarmeria tedesca catturò tre giovani che riteneva partigiani e li passò immediatamente per le armi. Questi ragazzi, secondo il racconto del parroco di San Leo, don Guido Terziani, che li conosceva di persona, erano stati mobilitati contro la loro volontà dai repubblichini ed aggregati – come tanti altri giovani – all’esercito tedesco[6]. Successivamente decisero di disertare e andare in montagna con i partigiani, ma vennero catturati dai fascisti e consegnati ai tedeschi. Condannati alla fucilazione per diserzione furono condotti lungo il canale della Chiana (nei pressi della Chiusa dei Monaci), in una piccola valle: uno alla volta furono legati ad un palo, bendati e fucilati al petto.

Le vittime: Aldo Esalti di Rovigo, Bruno Greggio di Villadosa, Luigi Guerra di Bosco di Rubano, tutti ventenni, furono sepolti nel cimitero di San Leo. Sopra la tomba vennero poste tre croci di legno con i loro nomi incisi.

Nella lapide commemorativa figurano i nomi di altri tre giovani anche loro disertori che furono fucilati presso il ponte della Chiassa.

Il monumento ai caduti è composto da tre grandi stele rettangolari di pietra che poggiano su un comune basamento in muratura. Nella prima stele, dedicata ai sei disertori italiani fucilati dai tedeschi il 6 giugno ’44, vi è raffigurato un angelo che depone dei fiori in un prato costeggiato da dei cipressi e un’epigrafe che riporta i nomi dei fucilati. Le altre due stele invece sono dedicate, quella centrale, ai caduti della Grande guerra e, la terza, ai caduti della seconda guerra mondiale.

 

Monumento ai caduti di San Leo.

Stele in memoria dei sei disertori italiani fucilati dai tedeschi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7° tappa: Monumento in memoria dell’eccidio di San Polo

San Leo – San Polo 8 km e mezzo (12 minuti in auto, un’ora e cinquanta circa a piedi).

Dal monumento a San Leo prendiamo a ritroso via Fiorentina fino ad arrivare all’incrocio con viale Giovanni Amendola, dove svoltiamo a sinistra e proseguiamo in direzione nord-est percorrendo viale Filippo Turati. Giunti all’incrocio con via Buonconte da Montefeltro proseguiamo fino al bivio con via Fontebranda che percorriamo fino ad arrivare a San Polo.

La strage di San Polo  avvenne il 14 luglio del  ’44, due giorni prima della liberazione di Arezzo, e conta complessivamente 63 vittime. Fu un eccidio che si consumò a più riprese in diversi luoghi della stessa zona ed ebbe l’epilogo finale a San Polo presso villa Gigliosi. Rimane impressa nella Storia la terribile, raccapricciante violenza con cui si perpetrò questa strage ad opera dei nazisti che non risparmiarono neanche un neonato di due settimane.

 

Monumento in memoria della strage di San Polo.

 

8° tappa: Murales della Chiassa Superiore

San Polo – Chiassa Superiore 7,3 km (9 minuti in auto, un’ora e quaranta a piedi).

Da San Polo ci rechiamo ad Antria e intraprendiamo lo Stradone di Ca’ de Cio per svoltare successivamente all’altezza dell’incrocio della strada della Catona, che percorriamo fino ad arrivare al Murales della Chiassa, posto nel parco vicino al campo sportivo in ricordo dei due partigiani Giovan Battista Mineo e Giuseppe Rosadi, eroi della Chiassa che riuscirono ad evitare l’ennesima strage perpetrata dai tedeschi[7].

Una strage mancata:

Il 26 giugno del ’44 un colonnello tedesco, Maximilian Von Gablenz insieme al suo aiutante, vennero rapiti per la strada della Libbia da una banda partigiana autonoma capitanata da “il Russo” (erano partigiani slavi scappati dal campo di Renicci). Come rappresaglia il comando tedesco organizzò un rastrellamento di 500 civili (scesi poi a 209) che vennero rinchiusi nella chiesa della Chiassa, dando un ultimatum di 48 ore affinché fosse liberato l’ufficiale tedesco pena la fucilazione dei cittadini.

Il comando partigiano guidato da Siro Rossetti incaricò il partigiano siciliano Giovan Battista Mineo di farsi concedere una proroga di 24 ore e di riuscire a scoprire dove la banda partigiana teneva nascosto il colonello. Ottenuta la proroga, Mineo partì immediatamente alla ricerca dei partigiani che tenevano in ostaggio l’ufficiale tedesco riuscendo a trovarli nei pressi di Montercole, ad Anghiari, e dopo una lunga trattativa convinse “il Russo” a liberare il colonnello. Mineo con Giuseppe Rosadi e Bruno Zanghi, appartenenti alla banda del Russo, si misero in marcia verso la Chiassa portandosi appresso i due tedeschi. Dopo molte peripezie, quando ormai sembrava impossibile arrivare in tempo, i partigiani si fecero scrivere una lettera dal colonnello dove dichiarava che era stato liberato e presto sarebbe giunto presso il reparto tedesco. Mineo si mise subito in viaggio correndo verso la Chiassa e arrivò proprio mentre i primi ostaggi venivano portati fuori per la fucilazione. La lettera di Von Gablenz fermò così la strage e poco dopo arrivarono i partigiani con i due tedeschi.

 

Murales dedicato a Gianni Mineo e Giuseppe Rosadi.

 

Pieve di Santa Maria alla Chiassa. Qui possiamo trovare sulla sinistra della chiesa un’abitazione (si vede nella foto) con un’iscrizione che ricorda l’eroico gesto.

 

Ma in questo luogo, pochi giorni prima dalla strage mancata della Chiassa, il 23 giugno, i tedeschi avevano già giustiziato sei persone in segno di rappresaglia per l’uccisione di tre soldati tedeschi.

 

Lapide ai caduti dell’eccidio de “La Casina”, si trova affissa sulla parete esterna della villetta “La Casina”, un’abitazione privata ubicata sulle colline sovrastanti la Chiassa Superiore, dove si consumò la strage.

 

 

Questo fu il pegno da pagare per la popolazione della provincia aretina durante la ritirata delle truppe tedesche. Un sacrificio di vite umane per la Resistenza che sembrava interminabile: vittime di una violenza inaudita che non risparmiava niente e nessuno. Su su, paese per paese, borgo per borgo, porta per porta la furia barbarica nazista passava e livellava come una falce. In ogni luogo come belve feroci e affamate i tedeschi arrivavano balzando con i loro lanciafiamme, con i loro capestri, con i loro strumenti di sterminio, pronti ad impiccare, a fucilare, a torturare, ad incendiare, a massacrare, lasciando dietro di loro una lunga scia di sangue, di cenere e macerie.

 

NOTE:

[1] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 134.

[2]Citato in Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Tip. Badiali, Arezzo 1957. p. 486.

[3]Ivi, p. 505.

[4]La vicenda dell’uccisione dei fratelli Tani e Aroldo Rossi è stata ricostruita nelle pagine di “Una lira per tre vite” il libro scritto da Enzo Gradassi e Santino Gallorini.

[5]G. Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 133.

[6]A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, cit., pp. 482-483.

[7]Sull’eroica vicenda della Chiassa Superiore cfr. il libro di Martinelli Renzo, I giorni della Chiassa, Arti grafiche Cianferoni, Firenze 1946 ed il libro di Santino Gallorini, Vite in cambio: Gianni Mineo, il partigiano infiltrato, che salvò dalla strage la popolazione della Chiassa, Effigi, Arcidosso 2014.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di ottobre 2024.

 




LE CASE DEL POPOLO TOSCANE NELLA TORMENTA FASCISTA

Le fiamme che han distrutto le Case del popolo sono state l’inizio
d’un vasto incendio che minaccia di dar fuoco all’Europa.
(Angelo Tasca, 1938)

Non è certo un caso che, fra il 1920 e il 1923, anche in Toscana il primo obiettivo delle spedizioni fasciste, quasi sempre supportate dalle forze dell’ordine, furono le Case del popolo, costruite su iniziativa e con l’opera diretta dei lavoratori. Esse, infatti, dall’inizio del secolo rappresentavano, nelle città e forse ancor di più nelle campagne, un importante punto di riferimento per la socialità delle comunità locali e per le lotte della classe lavoratrice.
Le Case del popolo erano invise alla reazione filo-padronale in quanto offrivano occasioni di solidarietà e aggregazione sociale, alternative a quelle dell’osteria e della parrocchia. Al termine della giornata lavorativa e alla domenica, i lavoratori e le lavoratrici vi trovavano, oltre alla mescita, biblioteche popolari, spazi per pranzi sociali, feste, spettacoli, canto e ballo. Inoltre, vi si tenevano riunioni, inaugurazioni di bandiere dei sodalizi proletari e conferenze; talvolta erano anche sede delle Leghe operaie o bracciantili e, in qualche caso, della locale Camera del Lavoro.
Significativo il ritratto scritto dal repubblicano fiorentino Augusto Borchi nel 1921:

le case del popolo sono divenute oltre che i centri della mutualità soprattutto i centri della cultura e della educazione proletaria. Aggredirle costituisce dunque il peggiore dei delitti. Le case del popolo sono luoghi sacri e inviolabili poiché sono il simbolo di una fede che sopravanza le competizioni di potere. Davanti a esse si inchinino tutti gli uomini di onore e chi osa dichiararsi solidale con gli assassini di tali istituzioni sappia che egli non si qualifica soltanto un avversario del popolo ma anche e soprattutto un nemico della civiltà .

In tale ambiente, potevano quindi incontrarsi e confrontarsi lavoratori e lavoratrici di diverse categorie, così come aderenti alle rispettive tendenze politiche (sindacalisti, socialisti, anarchici, repubblicani, comunisti o senza partito), anche se talvolta la convivenza poteva essere problematica:

La scissione di Livorno, seguita in Empoli da gravi defezioni tra i socialisti, e perciò anche da una perdita di prestigio dei socialisti stessi nelle organizzazioni economiche, creò uno stato di tensione gravissima fra socialisti e comunisti. I socialisti empolesi, riunitisi dopo la scissione, decretarono immediatamente lo sfratto ai «secessionisti», sistematisi in due stanze della Casa del Popolo; per tutta risposta la «Guardia Rossa», passata armi, bagagli e bandiera ai comunisti, occupava la Casa del Popolo vietando il passo ai socialisti. Il dissidio in merito ai locali fu risolto con un accordo, che prevedeva l’uso del primo piano da parte dei socialisti e del secondo piano da parte dei comunisti .

Sin dal 1920 si registrarono le prime spedizioni fasciste contro le Case del popolo (talvolta denominate Case dei lavoratori, degli operai o del proletariato), ma fu soprattutto a partire dagli inizi del 1921 che furono sistematicamente assaltate e distrutte, così come le sedi di altri organismi associativi del movimento operaio e bracciantile quali Camere del lavoro, Società operaie di mutuo soccorso, Cooperative di consumo, Circoli libertari di studi sociali, Circoli socialisti di cultura, Circoli repubblicani e pure cattolici, Biblioteche e Teatri popolari: le distruzioni erano pressoché quotidiane ed estese ad ogni territorio, con centinaia di strutture rese inagibili, saccheggiate o date alle fiamme, con numerose vittime.
Solo nel primo semestre del 1921, secondo i dati forniti dallo storico fascista Chiurco, e ritenuti incompleti da Angelo Tasca, risultano distrutte dagli squadristi almeno 59 Case del popolo, così come 100 Circoli di cultura, 10 Biblioteche popolari e teatri, 53 Circoli operai e ricreativi.
Nelle stesse testimonianze degli squadristi vi si trova puntuale resoconto, come ad esempio nel diario dello studente Mario Piazzesi della Disperata di Firenze che vanta la “baldanza” nel devastare, senza difficoltà, molte Case del popolo durante le scorrerie per le campagne toscane e umbre.

CANNONATE CONTRO LE CASE DEL POPOLO

A copertura delle squadre “tricolorate” dei fascisti e dei nazionalisti vi era l’immancabile presenza di carabinieri, guardie regie e anche reparti del Regio esercito. Tale alleanza, in taluni casi, comportò persino l’impiego dell’artiglieria per espugnare alcune Case del popolo, come avvenuto a Siena il 4 marzo 1921 e a Casale Monferrato (AL) due giorni dopo. Analogamente, a Scandicci (FI) il 3 marzo era stata attaccata con mitragliatrici e un cannone da 75 mm. la sede della Società di Mutuo Soccorso costruita nel 1883 da operai, contadini, artigiani ed ex-garibaldini.
L’attacco del marzo 1921 alla Casa del popolo senese (che ospitava anche la Camera del Lavoro) fu sicuramente fra i più gravi. Per vincere la resistenza armata dei lavoratori che la difendevano, i fascisti ebbero bisogno dell’intervento dei carabinieri, affiancati da 200 soldati con due cannoni da 65 mm., mitragliatrici piazzate in piazza del Monte dei Paschi e due autoblindo. Contro la Casa del popolo furono lanciate bombe a mano, sparate alcune cannonate e almeno duemila colpi di fucile. Dopo la resa, i locali vennero incendiati con la benzina fornita dal Consorzio agrario; seguirono circa 80 arresti e violente rappresaglie. Questa la cronaca, pubblicata sull’«Avanti!» del 25 settembre 1921 (Dalla Toscana insanguinata):

Il segretario della Casa del Popolo [recte: Camera del Lavoro], Giulio Cavina, ora deputato [socialista], fu scovato nel suo ufficio a notte inoltrata e dopo che il cannone aveva operato una breccia nel muro dell’edificio operaio. Fu trascinato da basso, sotto i portici, percosso a sangue da tutti: i più feroci erano i carabinieri e gli ufficiali del Presidio. Quattro soldati, con baionetta inastata, furono messi alla sua guardia […] Intanto tutti gli ufficiali del Presidio, guidati dal capitano dei carabinieri Lucatelli, sfilarono davanti al Cavina strappandogli i peli della barba e schiaffeggiandolo. In breve […] fu tutto pesto e grondante di sangue e chiese un bicchiere d’acqua. Il capitano Lucatelli ed altri ufficiali dettero ordine che nessuno portasse l’acqua richiesta […] tutti i soldati e i carabinieri si dettero a bere il vino e i liquori presi nelle cantine della Casa del Popolo davanti al Cavina. Anche il capitano medico del Distretto, anziché curarlo […] si dette a dileggiarlo.

Il drammatico assedio sarebbe stato rievocato anche in versi dall’anarchica Virgilia D’Andrea nel 1922 :

Udite, udite, o miei compagni, a Siena
Città dolce e gentil romba il cannone.
Sessanta petti han fatto una catena
E d’ansia è la difesa e di passione.

Ma la bocca di fuoco arde sui volti
E s’apre un varco ne la Casa rossa:
Escono, i vinti, màdidi e sconvolti
E cadon, muti, su la terra smossa.

La difesa armata degli organismi e delle sedi del movimento d’emancipazione sociale rappresentò comunque un fatto abbastanza sporadico; si trattava infatti di una lotta impari non solo sul piano tattico, ma finanche su quello psicologico, come significativamente osservato da Angelo Tasca:

I lavoratori, al contrario, si agglomerano intorno alla loro Casa del popolo […] La Casa del popolo, la Camera del lavoro, sono il frutto dei sacrifici di due o tre generazioni, tutto il loro «capitale», la prova concreta del cammino compiuto dalla loro classe, e il simbolo ideale dell’avvenire sperato. I lavoratori vi sono affezionati, ed esitano, per istinto, a servirsene come se si trattasse di un semplice materiale di guerra.
Non si trasforma facilmente una casa in fortezza, se si tiene alla casa […] Per i fascisti la Casa del popolo non è che un bersaglio. Quando le fiamme si elevano da queste belle costruzioni, il cuore degli operai è straziato, invaso da una cupa disperazione, quasi paralizzato dall’orrore, mentre gli assalitori alzano grida selvagge di gioia. Di queste oasi di socialismo che coprono quasi tutta la pianura del Po, non resta più, alla fine della guerra civile, che un cupo deserto.

Pur essendo nate con spirito umanitario e di civile convivenza, le Case del popolo in numerose situazioni divennero comunque la sede ospitale e solidale per le prime organizzazioni unitarie dell’antifascismo militante, come avvenne ad Empoli dove, fin dal gennaio 1920, le ex-Guardie rosse costituirono, nella locale Casa del popolo, un corpo volontario armato per l’azione antifascista, mentre presso la Casa del popolo di Borgo Vittoria, a Torino, nel gennaio 1921, si riuniva la Federazione dei gruppi d’azione diretta rivoluzionaria, emanazione dell’USI (Unione sindacale italiana), con intenti sia difensivi che offensivi; altresì, sempre nel torinese, in alcune Case del popolo si organizzarono le squadre comuniste, come ad esempio, quella di Condove di Susa strettamente sorvegliata dalla polizia.
In seguito, dopo la loro comparsa a fine giugno 1921, gli Arditi del popolo difesero le Case del popolo e da queste furono accolti, così come ebbe a dichiarare Argo Secondari, loro fondatore:

fino a quando i fascisti continueranno a bruciare le case del popolo, case sacre ai lavoratori, fino a quando continueranno la guerra fratricida, gli Arditi d’Italia non potranno avere con loro nulla in comune. Un solco profondo di sangue e macerie fumanti divide fascisti ed Arditi.

Ad Ancona la sezione ardito-popolare si costituì presso la Casa del proletariato e a Roma la sede centrale degli Arditi del popolo fu la Casa del popolo in via Capo d’Africa; tanto che, in un’intervista a Secondari, pubblicata su «L’Ordine nuovo» del 12 luglio 1921, si poteva leggere il seguente commento:

Il tenente Secondari risponde alle mie domande con molta cordialità, ma anche con grande impazienza. Giungono ogni tanto dalla periferia dei giovani operai Arditi, che portano notizie, chiedono informazioni, ordini. Questa sera ha luogo una riunione di capi-centuria alla Casa del Popolo. È perfettamente naturale che gli «Arditi del popolo» si riuniscano alla Casa del Popolo.

Con l’avvento del regime fascista e in particolare nel 1923 – l’anno della grande repressione contro l’antifascismo – le poche Case del popolo superstiti furono chiuse d’autorità e requisite per essere destinate a Casa del Fascio o sedi rionali del Fascio, così come previsto dal Decreto Legge che nel 1924 impose lo scioglimento delle S.M.S. e delle associazioni similari. In questo modo, ad esempio, a le Case del popolo di Siena e Settignano (FI) divennero Case del Fascio, così come a Colle Val d’Elsa, dove la Casa del popolo e il modernissimo Teatro del popolo furono soppiantati rispettivamente dalla Casa del Fascio e dal Teatro del Littorio, mentre a Piombino la Casa del popolo diventò Casa d’Italia, nonché sede del Fascio (oggi Commissariato di Polizia).
In molte località della Toscana, per finanziare le Case del Fascio, i lavoratori, le operaie e i contadini furono inoltre costretti a versare contributi in denaro, acquistare azioni o prestare manodopera gratuita, onde evitare ritorsioni.
Parallelamente ai decreti prefettizi di scioglimento e alle chiusure violente di Case del popolo e S.M.S., i Fasci usavano convocare i consiglieri e i responsabili di queste esperienze di democrazia proletaria, così come di quelle indipendenti, per indurli, sotto minaccia, a rassegnare le dimissioni. L’associazionismo democratico fu quindi del tutto soppiantato dalle strutture dell’Opera Nazionale Dopolavoro, istituita con il Decreto legge n. 582 (significativamente datato 1° maggio 1925).
Il Dopolavoro operava, dichiaratamente, come organo di propaganda del regime, nel tentativo di affermare una propria politica sociale fra i lavoratori e i ceti popolari, attraverso paternalismo padronale e assistenzialismo demagogico, che ne confermava la subalternità. Nonostante una certa espansione, i Dopolavoro aziendali e Statali rimasero comunque – a differenza delle Case del popolo – istituzioni imposte e gestite dall’alto, in cui il «libero pensiero» era soppresso dal «clima spirituale della rivoluzione fascista».

IL PRIMO ASSALTO, LA PRIMA VITTIMA

Il primo assalto fascista ad una Casa del popolo in Toscana vide anche la morte di un suo difensore: il diciottenne Enrico Lachi (Monteriggioni 29 luglio 1902 – Siena 11 marzo 1920), figlio di Giulio e Giulia Pagni.
Nato in località Poggiolo (Fontesdevoli), la sua numerosa famiglia si era trasferita a Siena quando aveva quattro anni, in via Fiorentina 88. Giovanissimo, aveva iniziato a lavorare come operaio avventizio delle Ferrovie, subito attivo sul piano sindacale e politico, iscrivendosi al Fascio giovanile socialista “Andrea Costa” e partecipando allo sciopero ferroviario del gennaio 1920.
Quel 7 marzo 1920 si trovava in prima fila a difendere la sede della Casa del popolo di Siena, costruita e inaugurata nel 1905 con il determinante contributo della Banca Cooperativa Ferroviaria e su iniziativa di ferrovieri e tipografi. L’edificio, in via Pianigiani, ospitava anche la locale Camera del lavoro e comprendeva una Biblioteca popolare, un Teatro, un Caffè e altre attività commerciali.

Il 7 marzo 1920, approfittando di un corteo di protesta di ex-combattenti, i fascisti riuscirono a farlo parzialmente deviare verso la Casa del popolo, simbolicamente presidiata dai carabinieri. Infatti, i fascisti – armati – poterono vandalizzare i locali del Caffè, mentre i carabinieri bloccavano i pochi lavoratori schierati a difesa della Casa del popolo. In questa fase, in piazza della Posta, un appuntato dei carabinieri sparò con la rivoltella colpendo Enrico Lachi che stava affrontando un fascista. Soccorso all’interno del Caffè e subito trasportato all’Ospedale civico, Lachi sarebbe morto alle 0.45 dell’11 marzo, dopo giorni di sofferenze.

Contro le violenze dei fascisti e dei carabinieri, subito iniziò uno sciopero prima spontaneo e poi proclamato unitariamente dalla Camera del lavoro, dalla Sezione socialista, dal Circolo giovanile socialista, dal Circolo anarchico Germinal e dalla Federazione socialista. Lo sciopero risultò generalizzato e al comizio, tenutosi la sera dell’8 marzo, in piazza Umberto I (ora piazza Matteotti), intervennero gli onorevoli Grilli e Bisogni; il segretario della Camera del lavoro. Giulio Cavina; Meini per il Partito socialista e Guglielmo Boldrini per gli anarchici: comune fu l’accusa contro, oltre ai fascisti, tutte le autorità, di cui chieste le dimissioni. I funerali di Lacchi si svolsero sabato 13 marzo, con la partecipazione di quindicimila persone. Sin dalla sera precedente la sua salma era stata esposta presso il Circolo di Cultura della Casa del popolo. Tra le tante corone risaltava una con la dedica «Alla vittima del piombo regio. Le donne del popolo». Inoltre vi erano quelle del Personale di Macchina e Depositi Locomotive, del Personale Viaggiante, dei compagni di lavoro dell’Officina ferroviaria, dei Soci della Pubblica Assistenza. L’ultimo saluto fu affidato a Bisogni per i socialisti, a Boldrini per gli anarchici e a Carlucci per i giovani socialisti. Nei giorni seguenti gli Operai delle officine ferroviarie inviarono una lettera pubblica al dirigente reclamando spiegazioni sul licenziamento di Lachi l’indomani del suo mortale ferimento.
La sua tomba si trova ancora al cimitero del Laterino, appena dietro la cappella centrale.

La Casa del popolo di Siena avrebbe subito altri tre assalti: il 4 maggio 1920, il 4 marzo 1921 e il 23 maggio 1921; nel 1923, dopo l’avvento del fascismo, fu estorta e trasformata in Casa del Fascio. Dato che, dopo le devastazioni, l’edificio necessitava di lavori di ristrutturazione, la Casa del Fascio contrasse un mutuo con il Monte dei Paschi, ma il debito non sarebbe mai stato onorato. Per recuperare il danno, la Banca acquisì gli immobili gravati da ipoteca, e contemporaneamente acquistò Palazzo Ciacci, in via Malavolti, donandolo nel 1936 alla Federazione fascista. Quella che era stata la Casa del popolo venne quindi venduta al Consorzio Agrario a un prezzo irrisorio. Il Partito fascista mantenne la propria sede a Palazzo Ciacci sino alla fine; fu qui la famigerata Casermetta in cui, nel periodo della Repubblica Sociale, centinaia di oppositori al regime, ebrei e partigiani senesi furono imprigionati, interrogati e torturati.

Anche dopo la Liberazione, la Casa del popolo non venne mai restituita ai lavoratori senesi, e tutt’ora è sede del Consorzio Agrario; a Enrico Lachi, invece, è stata dedicata una piazza del quartiere senese di Petriccio.

 




Camminare ricordando a Castiglion Fiorentino (Ar)

Sentieri resistenti nel Castiglionese (Ar)


Gita di un giorno

A piedi 15,4 km, 3,40 h.

Castiglion Fiorentino sorge su un colle a 342 m s.l.m., 17 km a sud-est di Arezzo. Delimitata a est dai Preappennini, l’area comunale si estende in parte sulla Valdichiana e sulle alture ad essa prospicienti. Il territorio confina con i comuni di Arezzo a nord, Cortona a est e a sud, Foiano della Chiana a sud-ovest e Marciano della Chiana a ovest.

Durante la Resistenza, fu dunque luogo per un importante transito da e verso gli Appennini, fatto questo che portò Castiglion Fiorentino a subire danni materiali e umani notevoli. Il passaggio del fronte fu causa di devastazioni, sia al centro storico che a buona parte del territorio comunale, colpito da bombardamenti che provocarono centinaia di morti, anche tra i civili. Particolarmente grave fu il bombardamento alleato cui Castiglion Fiorentino fu sottoposta il 19 dicembre 1943, che causò la morte di 71 civili, in buona parte donne e bambini. Per quell’episodio, il 26 gennaio 2004 Castiglion Fiorentino è stata decorata con la Medaglia d’argento al merito civile [1].

Ottanta anni fa, inoltre, il 4 luglio 1944, quattro giovani persero la vita alla Nave, zona “Tre Acque-Ceppeto”: Giovanni Milighetti, 24 anni, Vera Buracchi, 18 anni, Zita Moretti, 17 anni e Walter Milighetti,11 anni, furono dilaniati da una mina lasciata dai tedeschi nella campagna castiglionese per assicurarsi la fuga. Il minamento dei territori, delle vie di comunicazione, ma anche di accessi a chiese o altri edifici è una tendenza diffusa nei comportamenti delle truppe naziste in ritirata, non solo per motivi militari ma anche per attuare una volontà di vendetta nei confronti di una popolazione spesso giudicata come ostile nei loro confronti. La presenza delle mine con i loro tragici effetti è uno degli aspetti che evidenzia maggiormente la “lunga durata” del conflitto al di là della data effettiva di conclusione dei combattimenti.

In quello stesso giorno alcuni residenti di Manciano, sotto la minaccia dei mitra tedeschi, vennero costretti a minare la chiesa del paese. Un tonfo sordo e la vita della piccola frazione cambiò all’istante. Eventi tragici che colpirono profondamente un’intera comunità e che segnarono, comunque, l’inizio della libertà [2]. La comunità di Castiglion Fioretino fu infatti liberata proprio quel giorno dagli Alleati.

 

Castiglion Fiorentino, 80 anni fa la liberazione grazie agli Alleati, in Arezzo Notizie, 4 luglio 2024, https://www.arezzonotizie.it/attualita/castiglion-fiorentino-liberazione-alleati.html

Ripercorrendo in breve i mesi antecedenti la Liberazione, questi appaiono piuttosto concitati. Per tale motivo, dunque, le notizie non sono sempre chiare e facili da ricostruire.

Riguardo alla situazione del movimento di Resistenza a occidente del Tevere, la Guardia Nazionale Repubblicana (forza armata istituita dalla Repubblica Sociale Italiana l’8 dicembre 1943 con compiti di polizia interna e militare) aveva informazioni assai confuse sulle bande attive nel territorio. Una di queste era comandata dal conte Ferretti di Ortona. Secondo i fascisti, vi era un’altra formazione partigiana tra Palazzo del Pero e Castiglion Fiorentino, della quale però non si conosceva la consistenza. A confondere le idee al nemico era la stessa tattica messa in atto dai partigiani.

L’incapacità del regime di avere un’idea precisa di quanto stava avvenendo sulle montagne, ne sottolineava le difficoltà politiche e militari. In realtà, tra le valli del Cerfone, dell’Aggia, del Nestoro, del Minima e del Niccone, gli affluenti di destra del Tevere, operavano le bande della “Pio Borri” di Morra, Monte Santa Maria, Badia Petroia e Cortona, oltre al Centro “Poti” e ai partigiani dell’Aretino che facevano capo a Marzana. La loro forza complessiva era assai inferiore a quella stimata dai fascisti e il loro comando strategico gravitava su Arezzo. Con la fucilazione di Venanzio Gabriotti era stata eliminata l’unica persona che, nella valle, poteva garantire un qualche coordinamento con le forze partigiane a oriente del Tevere, soprattutto con la Brigata “San Faustino”.

Le bande partigiane non trovarono grandi ostacoli nelle loro azioni: dal 27 maggio al 27 giugno se ne verificarono una cinquantina di carattere militare. A giugno, le tre formazioni di Morra, Monte Santa Maria Tiberina e Badia Petroia effettuarono incursioni quasi quotidiane. Per quanto si debbano in genere considerare con cautela i dati segnalati sulle perdite inflitte al nemico, quando mancano i dati della parte avversa, fonti della Resistenza hanno valutato in più di 20 i tedeschi uccisi nel corso di tali attacchi e in 23 quelli catturati. Per quanto riguarda i prigionieri, solitamente internati nel campo di concentramento di Marzana, il numero non appare esagerato, infatti, quando venne sgomberato, all’inizio di luglio, i partigiani ne condussero 53 oltre le linee, per consegnarli agli Alleati.

Tedeschi e fascisti avevano ormai la consapevolezza di correre seri pericoli nel percorrere le arterie che risalivano gli affluenti di destra del Tevere. L’aggressività partigiana fu particolarmente intensa a ridosso della strada che, dall’Alta Valle del Tevere, attraverso San Leo Bastia, si inerpica verso Cortona e il Valdarno. Lì le formazioni cortonesi della “Pio Borri” sferrarono dall’8 al 26 giugno una ventina di attacchi. Anche gli altotiberini giunsero talvolta a supporto dei partigiani di Cortona e di Castiglion Fiorentino. Non si trattò solo di una fastidiosa attività di sabotaggi e di disturbi al traffico. A giugno, gli agguati agli automezzi in transito sulla strada provinciale da Cortona a Città di Castello, costarono ai tedeschi 13 morti, 5 feriti, 9 prigionieri.

Ombre sull’operato della Resistenza le gettò il comportamento di una banda alla macchia sul tratto appenninico tra Cortona e Città di Castello, che “viveva di violenze e di rapine”, e di alcuni esponenti della banda di Badia Petroia. A quattro di questi non sarebbe infatti stata riconosciuta la qualifica di partigiano combattente, per “indegnità”: li si accusò di “furto commesso durante l’azione partigiana”.

Il territorio castiglionese, dunque, venne messo a dura prova, fino alla Liberazione avvenuta il 4 luglio 1944.

Prima di passare alla descrizione del percorso resistente del Comune di Castiglion Fiorentino, voglio qui citare “Il sentiero dei papaveri”, inaugurato nel 2021 [3] e composto da 18 monumenti e cippi commemorativi della Prima e Seconda guerra mondiale, dislocati nel centro storico e nel territorio. L’itinerario, lungo circa 50 chilometri, comincia da palazzo San Michele e termina al monumento dedicato ai caduti, situato ai giardini pubblici.

Il percorso resistente che intendo proporre toccherà, invece, i cinque luoghi dove vennero uccisi dai nazifascisti alcuni civili inermi. Il tratto, percorribile a piedi o in bicicletta è lungo 15,5 km e dura circa 3 ore e mezzo (a piedi). Ogni tappa potrà però costituire una meta a sé, raggiungibile singolarmente.

 

Prima tappa:

Ponte delle Fontanelle, presso località La Foce

Coordinate: 43°21’46.5″N 11°57’01.5″E

Lungo la strada che da Castiglion Fiorentino sale al Passo della Foce, si trova un monumento in ceramica smaltata dedicato alla donna belga Gabriella De Rosée in Brogi, allora trentunenne, che il 7 luglio 1944 cadde sotto il fuoco dei tedeschi nel tentativo di mediazione per liberare alcuni ostaggi di guerra. La donna era staffetta partigiana. Non si hanno altre notizie dell’accaduto [4].

Targa intitolata a Gabriella de Rosée Brogi Bruxelles, 1913 – Castiglion Fiorentino, 1944 Loc. Foce (S.P. Palazzo del Pero) – Castiglion Fiorentino, AR

 

2 tappa:

Mammi

La seconda tappa porterà alla località di Mammi, territorio, quale quello di Castiglion Fiorentino, importante via di transito, segnato dalla vicinanza del fronte e dalla sua importanza strategica e con una presenza partigiana costante, l’8 luglio 1944 venne qui ucciso da raffiche di mitra, insieme ad un militare inglese, Aurelio Casi, cinquantaduenne. Non si capisce tuttavia se il militare facesse parte delle avanguardie alleate avanzate o se fosse un prigioniero di guerra fuggito [5].

Coordinate del cippo: 43°21’24.4″N 11°55’53.4″E

Terza tappa:

Fornaci

Qui tra il 28 giugno 1944 e il 2 luglio 1944, nell’area di Castiglion Fiorentino, tra la Toscana e l’Umbria, le azioni partigiane si erano intensificate. A seguito di una serie di attacchi partigiani condotti in zona il 28 giugno a San Egidio (Perugia), uomini furono catturati sulla strada che va da Cortona (Arezzo) a Portole (frazione di Cortona)[6]. Furono portati in località Pianelli alla Villa Bertocci, dove vennero interrogati e rinchiusi in una lavanderia per un giorno e una notte. La maggior parte di loro venne poi rilasciata, ma tre delle persone coinvolte furono portate a Pergo di Cortona (Arezzo) alla Villa Passerini, dove aveva la base il comando tedesco. Furono condannate a morte e mandate alla Feldgendarmerie di stanza a Castiglion Fibocchi. Le vittime sono Antonio Bartolini, manovale di Cortona, Luigi Gnerucci, operaio cortonese con quattro figli, nato nel 1902 e Luigi Guerri, anch’egli cortonese, elettricista, nato nel 1914. Il giorno della loro esecuzione non è certo, ma probabilmente avvenne tra il 1 e 2 luglio. I loro corpi furono trovati successivamente in una fossa durante gli ultimi giorni di agosto. Non si conosce il motivo per cui erano stati condannati a morte. Non è da escludere la rappresaglia, secondo alcune fonti, avvenuta a seguito di un ulteriore attacco partigiano. Forse i tre furono fucilati in località Senaia. Nella stessa zona e nello stesso anno, altri due partigiani aretini, Sabatino Capacci e Giulio Rossi, entrambi ventenni, catturati a Favalto, vennero fucilati i primi di luglio nel letto di un ruscello nella zona della Noceta, dove forse sono stati sepolti [7].

Lapide del Municipio di Cortona https://resistenzatoscana.org/monumenti/cortona/lapide_del_municipio/

 

Cerimonia in memoria dei partigiani aretini [8] Il nuovo monumento si trova qui: 43°21’08.8″N 11°56’22.2″E

 

4 tappa:

Cimitero comunale della Misericordia di Castiglion Fiorentino

Ad un mese dalla liberazione da parte degli Alleati dell’Aretino, le forze partigiane rendevano dura la vita alle truppe tedesche dislocate nel territorio castiglionese, che aveva subito già gravi bombardamenti con stragi di civili. Il 18 giugno 1944, infatti, Espartero Bartolomei, quarantaseienne originario di Foligno, venne ucciso da colpi di arma da fuoco sparati da alcuni soldati tedeschi mentre era nell’aia della casa dove era sfollato, presso Cozzano [9]. L’altra vittima, Luigi Galoppi, quarantaseienne castiglionese, morì nelle stesse circostanze. Tutt’oggi non si conosce il motivo di queste due uccisioni.

La lapide in loro ricordo è posta nel Cimitero comunale di Castiglion Fiorentino, meta del percorso memorialistico.

6579 – Lapidi ai Caduti delle guerre mondiali – Cimitero comunale di Castiglion Fiorentino All’interno del Cimitero lapidi con nomi e date in onore dei Caduti di tutte le guerre [10].

 

5 tappa:

La quinta ed ultima tappa riguarda il cippo in via Dante Brocchi, a Castiglion Fiorentino.

Il 29 giugno 1944, Dante Brocchi di 52 anni venne ucciso da una raffica di mitra, ufficialmente per rappresaglia. Pare però che il luogo dell’uccisione fosse nei pressi della piccola frazione di Santa Cristina [11].

 

Coordinate 43.333310269695275, 11.92133425067086

 

Note:

  1. Enzo Droandi, Castiglion Fiorentino 19 dicembre 1943 – ore 13,24, Quaderni della biblioteca, Comune di Castiglion Fiorentino, Castiglion Fiorentino, 1993.

Il 19 dicembre 1943, alle ore 13,24 Castiglion Fiorentino subisce il primo bombardamento da parte delle forze aeree alleate. Le bombe vengono dirette contro il Collegio Serristori e l’Ospedale. La zona di Porta Romana viene pressoché distrutta. In tutto muoiono una settantina di persone, di cui 16 erano bambine e personale del Collegio Serristori.

Sui bombardamenti e i fatti legati al passaggio del fronte, vedi anche Carmelo Serafini (a cura di), Per non dimenticare. Castiglion Fiorentino 1943-45 nei diari del M. Gino Grifoni e di D. Angelo Nunziati, Comune di Castiglion Fiorentino. Ente Biblioteca. Quaderni della Biblioteca n. 2, Ed. Grafica l’Etruria Cortona, Arezzo.

  1. Castiglion Fiorentino, 80 anni fa la liberazione grazie agli Alleati, in Arezzo Notizie, 4 luglio 2024, https://www.arezzonotizie.it/attualita/castiglion-fiorentino-liberazione-alleati.html
  2. Camminando, in Experience Castiglion Fiorentino, https://www.experiencecastiglionfiorentino.it/Experience/Storie/Castiglion-Fiorentino_645/sentiero_memoria; cfr. Presentato il progetto “Il Sentiero dei Papaveri Rossi”, Comune di Castiglion Fiorentino, 24 aprile 2021, https://comune.castiglionfiorentino.ar.it/notizie/410117/presentato-progetto-sentiero-papaveri-rossi
  3. Gabriella de Rosée Brogi, in Chi era costui? https://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=9124
  4. Mammi, in Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3271
  5. Fornaci, in Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3226
  6. [1]L’eccidio dimenticato, dopo 76 anni il Comune commemora i giovani morti di Senaia, in SR71, 1 Luglio 2020, https://www.sr71.it/2020/07/01/liberazione-senaia-castiglion-fiorentino/
  7. Cerimonia in memoria dei partigiani aretini, in it, https://www.quinewsvaldichiana.it/partigiani-guerra-memoria-seconda-guerra-mondiale-tedeschi-nazismo-castiglion-fiorentino.htm
  8. Cozzano, in Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3198
  9. 6579 – Lapidi ai Caduti delle guerre mondiali, Castiglion Fiorentino, Pietro della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/lapidi-ai-caduti-delle-guerre-mondiali-e-per-lunita-ditalia-castiglion-fiorentino/
  10. Santa Cristina, in Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3515

 

Bibliografia e sitografia:

Enzo Droandi, Castiglion Fiorentino 19 dicembre 1943 – ore 13,24, Quaderni della biblioteca, Comune di Castiglion Fiorentino, Castiglion Fiorentino, 1993.

Pietro Pancrazi, La piccola patria: cronache della guerra in un comune toscano, giugno-luglio 1944, F. Le Monnier, 1946.

Carmelo Serafini (a cura di), Per non dimenticare. Castiglion Fiorentino 1943-45 nei diari del M. Gino Grifoni e di D. Angelo Nunziati, Comune di Castiglion Fiorentino. Ente Biblioteca. Quaderni della Biblioteca n. 2, Ed. Grafica l’Etruria Cortona, Arezzo.

Cozzano, in Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italiahttps://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3198

Fornaci, in Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia,  https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3226

Mammi, in Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia,  https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3271

Ponte delle Fontanelle, in Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia,  https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3446

Santa Cristina, in Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia,  https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3515

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di ottobre 2024.




“Muoio per te”. Presentazione.

Il prossimo giovedì 24 ottobre p.v. alle ore 17, Fiesole Democratica propone, in occasione del centenario dell’uccisione di Giacomo Matteotti, la presentazione del libro di Riccardo Nencini “Muoio per te”, editore Mondadori 2024. L’incontro, in cui l’autore dialoga con Pierandrea Vanni, giornalista e Direttore di “Storia e Storie di Toscana”. L’incontro si svolge nella Sala del Basolato di Piazza Mino, grazie al patrocinio rilasciato dal Comune di Fiesole.




CONVEGNO DI STUDI “Il 1944 e la lotta in armi nell’Italia centrale: fra guerra totale e scelte resistenziali”




Presentazione del libro di Giovanni Gozzini “Ecologia del denaro” (2024)