Il male del Novecento. Presentazione.
La marcia della morte: da Molin dei Falchi a San Polo

“Il valore della testimonianza e del ricordo sono fondamentali perché certi episodi non si verifichino più”. Così esordiva Laura Ewert il 14 luglio alla commemorazione della strage di San Polo, venuta appositamente dalla Germania in Italia per chiedere perdono. Suo nonno, il colonnello Wolf Ewert, è stato colui che ha ordinato quell’orribile eccidio, e dopo averlo recentemente scoperto per caso, sua nipote Laura non ha esitato a partecipare, per manifestare la propria “tristezza, dolore e vergogna”, all’ottantesimo anniversario di quella che è stata definita una delle più orrende e barbariche stragi protratte dai nazisti sul suolo italiano.
Il dottor Carlo Silli, che aveva assistito al disseppellimento delle salme, nella sua relazione scriveva: “Mai ho visto e mai ho potuto concepire la scena da incubo che si parava davanti ai miei occhi in quel boschetto di lecci dietro Villa Gigliosi… Tre fosse colme di cadaveri ammucchiati gli uni sopra gli altri, parte dilaniati da esplosivi, tutti con i visi tumefatti e con un aspetto trasfigurato da essere irriconoscibili…Ancora vivi, ma probabilmente tramortiti (non trovammo segni di arma da fuoco nella maggior parte) furono ammucchiati e ricoperti dalla terra nella quale morirono soffocati e poi furono fatti esplodere. Alcune delle salme erano atrocemente mutilate e frammenti di tessuti umani e di vestiti furono trovati sulle piante circostanti fino ad un’altezza notevole”[1].
Ed è per l’atrocità di questo eccidio con quell’orribile modo con cui si è consumato che la signora Laura Ewert si è abbandonata ad un pianto a dirotto, si è inginocchiata ed ha deposto fiori sulla lapide di Villa Gigliosi. Qui ha incontrato ed ha abbracciato la nipote di una sopravvissuta all’eccidio, qui ha cercato di capire, senza trovare alcuna spiegazione, il perché suo nonno dette quell’infausto ordine ai soldati della Wehrmacht, qui ha dichiarato che per lei “… è l’ora dell’ascolto, dalle testimonianze e dagli incontri… voglio tentare di capire perché tutto ciò successe. Viviamo tempi difficili, con guerre in corso e questo dimostra che non siamo del tutto fuori dal pericolo che certi momenti possano essere vissuti nuovamente”. E qui va considerato il valore del gesto di Laura perché è una delle rare volte in cui un discendente di un nazista chiede scusa per i misfatti combinati durante la seconda guerra mondiale.
Di tutte le grandi stragi del ’44 quella di San Polo oltre ad essere una delle più orribili e disumane per come è stata eseguita possiamo considerarla una delle più beffarde se pensiamo che fu messa in atto proprio quando gli Alleati erano ormai alle porte di Arezzo e si preparavano a lanciare l’offensiva per la liberazione della città. La dinamica di quel massacro fu frammentaria e complessa, fatta almeno di tre momenti distinti: i rastrellamenti nella notte fra il 13 e il 14 luglio con le fucilazioni nella zona di Pietramala e Molin dei Falchi, l’uccisione di 48 “rastrellati” a Villa Gigliosi e le fucilazioni di San Severo [2].
I fatti di San Polo furono l’epilogo di un’azione stragista, in parte pianificata, che in quattro mesi nella sola provincia aretina portò al compimento di 42 eccidi, raggiungendo il loro culmine per numero e per ferocia nel mese di luglio, quando le truppe naziste si trovarono ad affrontare l’aumento della combattività e la consistenza delle brigate partigiane da un lato e l’avanzata irrefrenabile degli alleati dall’altro. Quel “filo di sangue” ebbe inizio alla fine di giugno quando a Palazzo del Pero, in località l’Intoppo, vennero uccise 10 persone e proseguì a Badicroce, dove ne morirono nella notte tra il 3 e il 4 luglio altre 17. Seguirono successivamente le stragi dell’11 luglio compiute a Staggiano, Quota di Poppi, Matole di Cavriglia, Pogi e Castiglion Fibocchi, per poi giungere alla scena finale – per quanto riguarda il territorio aretino – dell’azione stragista del 14 luglio a Molin dei Falchi, Pietramala, San Polo e San Severo, eventi distinti ma che fecero parte di un’unica azione repressiva.
Nei primi giorni di luglio il Comando della Divisione Arezzo aveva cercato di realizzare un collegamento tra le varie formazioni partigiane operanti nella zona, in particolare tra il primo Battaglione Sante Tani della Brigata Pio Borri, dislocato nella zona di Poti – Molin dei Falchi, e gli alleati fermi lungo la Valdichiana, per mettere a punto una strategia per liberare la città di Arezzo [3]. La loro intenzione era quella di attaccare alle spalle quelle truppe tedesche che da alcuni giorni erano assestate sulle alture della Valdichiana per permettere la ritirata sulla Linea Gotica ostacolando l’avanzata degli Alleati.
Ma l’indisponibilità degli Alleati per questo progetto, non avendo al momento le truppe adatte alle operazioni di montagna, portò a concordare un piano che prevedeva l’invio in segreto di un gruppo di partigiani dentro la città di Arezzo il giorno 14 luglio, al fine di agevolare la discesa delle altre brigate che stazionavano nella zona di Poti. L’operazione effettuata contemporaneamente all’attacco delle truppe alleate alla Sella dell’Olmo avrebbe dovuto indebolire le difese tedesche agevolando così l’ingresso degli Alleati in città [4].
All’alba di quel 14 luglio i partigiani del primo Battaglione si affacciavano sulla displuviale di Poti pronti a marciare sulla pianura di Arezzo. Analogo movimento venne effettuato dai reparti del secondo Battaglione che non avevano ancora oltrepassato le linee di Palazzo del Pero. Compito di questi reparti era quello di conquistare la foce dello Scopetone, svolgendo un’azione di sostegno a quella contemporanea del primo Battaglione al quale avrebbero coperto il fianco [5].
Ma l’azione Alleata concordata per il 14 luglio non ebbe luogo e ciò dette la possibilità ai tedeschi di attaccare il mattino stesso le posizioni di San Severo e Molin dei Falchi. L’attacco fu preceduto da azioni di artiglieria e trovò le formazioni partigiane ancora in fase di schieramento offensivo, per cui queste non poterono reggere all’urto del fuoco nemico. Il ripiegamento dei partigiani avvenuto nella zona di San Severo provocò la reazione dei tedeschi che si accanirono sulla popolazione di quella località compiendo il primo eccidio di quella nefasta giornata [6].
Così scrive nel suo diario Almo Fanciullini, allora un ragazzo di quindici anni, il quale registrò con straordinaria lucidità tutto ciò che stava avvenendo intorno a lui in quei terribili mesi:
“Mercoledì notte arrivarono i tedeschi a San Severo (…) i partigiani scappando lasciarono sul luogo le loro armi ritrovate poi dai tedeschi (…) La popolazione visto che i tedeschi non molestarono nessuno non temeva grandi sorprese (…) ma stamani una decina di nazisti armati di mitra e di bombe a mano irrompevano in San Severo e catturavano 17 uomini, la maggior parte capi famiglia (come mio zio) e tra il pianto di bambini e di donne li portarono per un viottolo in direzione del Pineto. Pochi minuti dopo una volta scomparsi dietro una piccola vallatina a 500 metri dal caseggiato, si udirono raffiche di mitra. (…) tutti furono sfracellati da molti proiettili (…)” [7].
A San Polo già il 12 luglio era giunto il 274° reggimento tedesco, un reparto dipendente dalla 94° Divisione di fanteria [8], aggregato in quel momento alla 305° Divisione di Fanteria, agli ordini del colonnello Wolf Ewert, che requisì la villa dei fratelli Mancini e vi stabilì il comando.
I bombardamenti degli Alleati in quel periodo sempre più intensi si spinsero verso San Polo e molti degli sfollati, che avevano lasciato Arezzo per rifugiarsi nel paese, decisero di spostarsi nelle frazioni e nelle fattorie di montagna, come Pietramala e Molin dei Falchi, dove erano nascosti anche alcuni partigiani. Avevano lasciato San Polo nella speranza di salvarsi ed evitare di trovarsi in mezzo agli scontri che potevano verificarsi con l’arrivo degli Alleati che ormai erano alle porte di Arezzo. E di sicuro non immaginavano che quello sarebbe stato il loro ultimo viaggio…
I nazisti vennero a conoscenza di un concentramento di partigiani alle estreme pendici dell’Alpe di Poti, nei pressi di Pietramala, in seguito alla cattura di un giovane disertore tedesco, tale Heinrich Kruger, legato alla “Pio Borri”, che sotto tortura rivelò dove erano nascosti i prigionieri nelle mani dei partigiani. Erano gli uomini del comandante Siro Rossetti, che si preparavano a scendere su Arezzo per liberarla insieme agli Alleati in arrivo dalla Valdichiana. Secondo le testimonianze dello stesso Rossetti, rilasciate in più occasioni, la brigata aveva fatto prigionieri 19 tedeschi che il giorno 13 luglio erano tenuti a Molin dei Falchi e poi portati a Pietramala e rinchiusi in una grande autorimessa nei pressi di alcune case del paese [9].
Nella zona di Molin dei Falchi si trovava anche il comando di brigata, che si era spostato quella notte perché qui erano giunti, provenienti da Cortona, i partigiani Eugenio Calò, Angelo Ricapito e Villa, portatori di un messaggio del comando alleato.
I nazisti organizzarono un’azione che mirava alla liberazione dei propri commilitoni e non si limitarono solo a questo…
L’azione tedesca venne compiuta di sorpresa all’alba del 14 luglio quasi contemporaneamente all’eccidio che si consumava a San Severo: i tedeschi riuscirono a liberare i prigionieri, che fino ad allora erano stati sicuro pegno di garanzia per azioni di rappresaglia, ma che adesso non più vincolati dalla preoccupazione di ritorsioni, si sfogarono sulla popolazione, rastrellando decine di persone e dando alle fiamme le loro abitazioni [10].
Una quindicina di civili furono uccisi in questa prima fase del rastrellamento a Molin dei Falchi e Pietramala: almeno sette donne, due bambini e alcuni anziani.
Da qui inizia “la marcia della morte”: una lunga fila di prigionieri civili e partigiani tenuti legati col fil di ferro si trascinava verso San Polo, e man mano che si andava avanti le abitazioni venivano incendiate e aumentava il numero degli ostaggi, più il cammino proseguiva più la coda si allungava, con altri catturati nei pressi di Vezzano e Castellaccio, e coloro che non riuscivano a tenere il passo (una donna incinta, suo marito, alcuni bambini e anziani) venivano eliminati lungo il tragitto.
L’ordine di esecuzione fu emanato dal comandante del reparto Wolf Ewert ma avvallato da Klaus Konrad ufficiale del Reggimento, dal sottotenente Schmidt e dall’ufficiale austriaco Herbert Hantschk, sul quale è stata pronunciata la sentenza di primo grado nel febbraio 2007 dal Tribunale Militare di La Spezia. Dai vari interrogatori effettuati si può escludere la presenza a San Polo di reparti o unità SS, i soldati presenti appartenevano alla Wermacht, nonostante alcuni testimoni li abbiano scambiati per SS a causa del berretto tipo bustina con il bottone rosso e bianco [11].
La “lugubre processione” che si lasciava dietro una lunga scia di sangue arrivò a destinazione a Villa Gigliosi, a San Polo, posta a pochi metri da quella Villa Mancini sede del comando tedesco.
“I soldati scesero in cantina con i loro ufficiali e si ubriacarono. Con le canne di gomma poi, che servivano per travasare il vino, presero a fustigare i prigionieri. Caddero svenuti sotto i colpi. I tedeschi costrinsero quelli rimasti in piedi a scavare tre fosse nel giardino e vi gettarono dentro tutti i prigionieri alcuni finiti a colpi di pistola altri tramortiti, iniziando a ricoprirli di terra, seppellendoli vivi e poi fatti esplodere” [12].
Alla fine del massacro le vittime furono 63, 48 delle quali civili, 8 furono le donne [13]. I tedeschi lasciarono Villa Mancini lo stesso pomeriggio del 14 luglio.
Una costante di tutte le testimonianze raccolte nelle varie epoche è quella di aver visto rastrellare ed uccidere senza pietà dai tedeschi indistintamente sia uomini, anziani, giovani, invalidi, donne, sfollati e partigiani di qualsiasi età o condizione. E questa stessa condanna totale e senza appello che i nazisti infliggevano alle popolazioni, agli inermi, agli innocenti, confermava un dato di fatto: “la convinzione che partigiani e civili fossero la stessa cosa, uniti nella lotta contro il nemico invasore, protagonisti tutti, in forme e modi diversi, di una guerra patriottica per la liberazione del suolo nazionale e per il rovesciamento di quei valori liberticidi, razzisti, reazionari che erano rappresentati dal nazifascismo”[14].
La vittima più giovane e più inerme fu un bambino di tre settimane, Dante Buzzini battezzato appena due giorni prima.
Ultimo ad essere ucciso fu lo studente di medicina Mario Sbrilli che prestava servizio in qualità di medico nella formazione partigiana: inizialmente risparmiato perché medico, poi freddato da un colpo di mitra per avere tirato uno schiaffo al generale nazista che stava torturando i suoi compagni.
La ferocia con cui si accanirono contro le vittime fu accentuata anche dalla partecipazione alla strage degli ex prigionieri tedeschi liberati poco prima, che scatenarono tutta la loro rabbia, la loro sete di vendetta in modo bestiale. Alla brutalità dell’operazione contribuì anche l’opera di Hans Plumer, medico tedesco pure lui ex prigioniero, che continuamente incitava i soldati ad eliminare tutte le persone incontrate, donne e bambini inclusi, urlando più volte che nella zona vi erano solo partigiani che dovevano essere giustiziati [15].
L’immagine di queste donne ritratte immobili, quasi pietrificate, nell’atteggiamento di attesa e di atavica rassegnazione, che sono lì ad aspettare di poter riconoscere i propri cari tra quei corpi mutilati e sfigurati delle vittime di San Polo, è forse la spiegazione più esauriente dell’assurdità delle guerre, di qualunque guerra, di quelle di ieri e soprattutto di quelle di oggi che seminano tra i civili le vittime più numerose.
Nei giorni successivi alla liberazione di Arezzo gli inglesi aprirono un’inchiesta sui fatti di San Polo, che non ebbe seguito. Nel 1972 il caso fu riaperto in Germania ma archiviato l’anno seguente. In Italia nel 1960 fu avviato un procedimento di provvisoria archiviazione e tutta la documentazione venne chiusa nel tristemente noto “Armadio della Vergona” custodito a Roma a Palazzo Cesi. Un intero archivio fu occultato con documenti che riguardavano stragi come quella di Marzabotto, delle fosse Ardeatine e tra gli eccidi toscani anche quello di San Polo. Solo nel 1994 “l’Armadio” venne riaperto e una commissione di indagine visionò tutto il materiale inviandolo poi alle procure militari. Nel 1995 il Tribunale Militare di La Spezia riaprì la pratica, finché nel 2007 arrivò la sentenza che assolse, per insufficienza di prove, Herbert Hantschk, l’unico soldato tedesco imputato sopravvissuto, che ormai ultraottantenne aveva atteso la sentenza nella sua casa a Vienna.
I sessant’anni della giustizia negata sono finiti per Civitella e Marzabotto, ma non per San Polo, che resta quindi impunita. Non per la storia che ha già indicato i responsabili nei soldati della 274° reggimento della Wehrmacht, ma per la legge.
Note:
[1] La testimonianza è riportata da Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’appennino toscano, Tipografia D. Badiali, Arezzo 1957, pp. 508-9.
[2] Salvatore Mannino, La giustizia divisa: Civitella e San Polo, cronaca e storia di due stragi, Protagon, Arezzo 2008, p. 152.
[3] Luciano Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, La nuova Europa, Carrara 1972, p. 232.
[4] A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, cit., p. 226.
[5] L. Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, cit. p. 233.
[6] Un dramma indimenticato che i nipoti di una delle vittime, Silvestro Lanzi, componenti della band “Casa del Vento” hanno reso immortale nella canzone “Notte di San Severo”, https://www.youtube.com/.
[7] Almo Fanciullini, Diario di un ragazzo aretino 1943-1944, Polistampa, Firenze 1996, p. 158.
[8] La 94 Divisione Tedesca traeva origine dalla analoga formazione perduta dai tedeschi a Stalingrado. Ricostruita in Francia, la divisione fu nuovamente distrutta a Cassino. I suoi resti operarono contro i partigiani in Val Tiberina e, poi a San Polo. Subito dopo San Polo risulta trasferita a Ferrara e poi Udine per la ricostruzione, in Enzo Droandi, La Battaglia per Arezzo 4-20 luglio 1944, Luciano Landi Editore, Arezzo 1984, p. 16.
[9] Memoria di un eccidio: San Polo1944, Le Balze, Montepulciano 2003, p. 41.
[10] A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, cit., p. 242.
[11] Memoria di un eccidio, cit. p. 44.
[12] L. Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, cit. p. 235. Nella testimonianza rilasciata di fronte alla Court of Inquiry alleata, nel dicembre 1944, il proprietario della villa, Alfredo Mancini, racconta le terribili torture subite dagli ostaggi e in particolare dai partigiani che, secondo l’inchiesta britannica, sarebbero stati soltanto sei, una stima probabilmente difettosa, in Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili: le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2008, p. 147.
[13] Questa stima appare secondo lo storico G. Fulvetti la più realistica, in Ivi, p. 135.
[14] Ivan Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana: la storia, la memoria, Pagnini, Firenze 1994, p. 14.
[15] G. Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 135.
Bibliografia sull’argomento:
Chianini Vincenzo, Gli Unni in Toscana, Valecchi, Firenze 1946.
Curina Antonio, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Tip. Badiali, Arezzo 1957.
Droandi Enzo, Arezzo distrutta 1943-44. Calosci, Cortona 1995.
Droandi Enzo, La battaglia per Arezzo 4-20 luglio 1944, Luciano Landi Editore, Arezzo 1984.
Fanciullini Almo, Diario di un ragazzo aretino 1943-1944, Regione Toscana- Consiglio regionale, Firenze 1996.
Foghini Curzio, San Polo: ricordi di famiglia e di guerra, Letizia Editore, Arezzo 2018.
Fulvetti Gianluca, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009.
Mannino Salvatore, La Giustizia divisa. Civitella e San Polo: cronaca e storia di due stragi, Protagon, Arezzo 2008.
Memoria di un eccidio: San Polo 1944, Le Balze, Montepulciano 2003.
Tognarini Ivan (a cura di), Guerra di sterminio e resistenza, ESI, Napoli 1990.
Tognarini Ivan (a cura di), La guerra di liberazione in provincia di Arezzo, 1943/1944. Immagini e documenti, Amministrazione provinciale, Arezzo 1988.
Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.
Articolo pubblicato nel mese di ottobre 2024.
Ricordare per non dimenticare

“Cari compagni… io muoio ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella. Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibili. Se vivrete tocca a voi rifare questa Italia che è così bella… Sui nostri corpi si farà il faro della libertà”[1].
Un mostro che negli ultimi giorni di vita – due giorni dopo i nazisti avrebbero lasciato l’aretino per risalire verso la Linea Gotica – si è adoperato con una meticolosa precisione, che è una delle virtù dell’ingegno tedesco, per rendere più efficaci ed inesorabili i metodi di sterminio. Seppellire vivi degli esseri umani mettendoli in tasca dell’esplosivo e poi farlo esplodere, immaginando che i sintomi di asfissia lasciassero il posto alle lacerazioni causate dall’esplosione, è un calcolo di una finezza macabra del peggior aguzzino. Questo hanno compiuto i tedeschi a San Polo, questo è uno dei tanti orribili misfatti che hanno attuato nella provincia aretina, questa è una delle tante stragi rimaste impunite!
L’intenzione dei tedeschi di spezzare il movimento della Resistenza annientando la popolazione, perché lì vi erano i fiancheggiatori e lì si annidavano i partigiani difficilmente identificabili, causò molte vittime innocenti la cui colpa era solo di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato. E pensare che molti di loro avevano lasciato la città di Arezzo per salvarsi la vita fuggendo dai bombardamenti che nella primavera del ’44 si ripetevano quotidianamente. Ma in quelle campagne, dove credevano di poter vivere lontano dalla guerra, rimasero vittime prima di rastrellamenti e successivamente di quella macchina di morte che si era materializzata tra le file dei nazisti. Ma seppur civili e non combattenti, seppur innocenti e distanti dallo scontro bellico, anche il loro sacrificio – indubbiamente evitabile, pensiamo a tutti i bambini morti – ha dato un ulteriore spinta alla lotta contro l’invasore tedesco, coadiuvato dai fascisti repubblichini, per porre fine una volta per tutte a quella mattanza, a quello stillicidio di vite umane innocenti. E per dare un senso, per quanto difficile, alla morte di queste persone le dobbiamo accomunare al sacrificio delle vite dei partigiani che sono morti con il sogno che la loro “idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella” e dobbiamo ricordare tutti gli uomini, donne e bambini che hanno perso la vita in quel periodo, tutte vittime della Resistenza, andando anche a visitare quei monumenti che ne ricordano il sacrificio, perché su quei “corpi si è fatto il faro della libertà“, e tocca a noi fare attenzione che non si spenga, tocca a noi mantenerlo vivo ed acceso negli anni a venire.
Oggi i martiri di San Polo vengono ricordati da due monumenti. Il primo si trova nel luogo della strage, all’interno della proprietà di Villa Gigliosi ma comunque visitabile grazie ad un percorso esterno: l’Edicola ai Caduti civili e partigiani della strage del 14 Luglio 1944 a San Polo di Arezzo.
Si tratta di una struttura in laterizio e marmo a pianta rettangolare con la volta superiore ad arco. All’interno della nicchia si trova una lastra di marmo su cui è incisa l’epigrafe, con la data della strage e la dedica dei familiari delle vittime. Nella parte inferiore della nicchia è collocata una lapide marmorea su cui sono incisi i nomi dei Caduti in ordine sparso. Mentre nella parte superiore dei fianchi dell’edicola, su due listelli rettangolari di marmo, sono incastonate alcune foto stampate su ceramica di alcune delle vittime ognuna con il proprio nome [2].

Particolare del monumento (2): Lapide marmorea su cui sono incisi, su tre file da sedici, i nomi dei Caduti in ordine sparso, alcuni dei quali trascritti in maniera errata.

Particolare del monumento (3): uno dei due listelli rettangolari di marmo, dove sono incastonati i fotoritratti in ceramica di alcune delle vittime.
Spostandoci invece nella parte alta di San Polo, a lato dell’antica pieve, si può ammirare il monumento in memoria dell’eccidio di San Polo, realizzato grazie ad un progetto che a partire dal 2006 coinvolse sia il Comune di Arezzo, che la Circoscrizione 1 Giovi e il Liceo Artistico “Piero della Francesca”.
Quello che chiedevano gli abitanti di San Polo e i parenti delle vittime era di rendere giustizia alla memoria dell’eccidio attraverso un monumento e un luogo dove celebrare il ricordo dei propri concittadini e dei propri cari. Il monumento, affidato alla progettazione degli allievi della scuola, offriva anche l’occasione di condurre un’indagine conoscitiva sull’evento, per molti aspetti ancora oscuro e dibattuto. All’inizio solo pochi cittadini presero parte al processo realizzativo, poi nel tempo anche gli altri cominciarono a parteciparvi, chi con interesse e chi con dolore ha voluto testimoniare il ricordo di una strage vissuta direttamente.
Il monumento che ricorda l’efferato eccidio – in cemento e bronzo – è opera dell’artista Sandro Ricci, su bozzetto della studentessa Elisabetta Festa dal titolo “La disperazione e la memoria”. Una lastra verticale forata simboleggia una vittima con le braccia alzate prima di cadere colpita a morte. A terra una statua in bronzo di un caduto e a sinistra, su un supporto metallico, una targa in plexiglass con l’elenco dei caduti tra i rastrellamenti avvenuti a Pietramala, Molin dei Falchi, Vezzano e San Polo e l’eccidio di Villa Gigliosi [3].

Targa in plexiglass con l’elenco dei caduti, accanto al monumento in memoria dell’eccidio di San Polo.
Un monumento per ricordare a tutti le vittime civili innocenti morte in guerra, per ricordare cosa vuol dire perdere un amico, un fratello od un padre che aveva la sola colpa di essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato, in una guerra non cercata, non voluta e nemmeno combattuta.
Da questo progetto è stato poi realizzato anche un volume dal titolo “Memoria di un eccidio – San Polo 1944” e un docufilm per la regia di Alessandro Benci, a cui aderirono vari enti e associazioni [4].
Ogni 14 luglio la comunità locale e le autorità organizzano una cerimonia per ricordare quell’atroce eccidio. Durante queste commemorazioni vengono poste corone di fiori, accompagnate da discorsi in onore delle vittime.
Questi monumenti sono importanti non solo per la comunità locale, ma anche per mantenere viva la memoria di ciò che accadde in quei tragici giorni.
ITINERARIO NELLA MEMORIA DI SAN POLO
Calcare gli stessi passi, osservare le stesse cose, respirare la stessa aria di chi ottant’anni fa ha perso la vita in quella strage. È fondamentale che la coscienza civica rimanga forte.
Riportiamo qui di seguito un itinerario della memoria tratto del libro “Memoria di un eccidio” [5] che invita a vedere e toccare con mano i segni di quello che avvenne in quel tragico 14 luglio.
Si tratta di un’esplorazione che può essere condotta da soli o in gruppo per visitare i siti delle case che ospitavano le famiglie sfollate nel 1944, di Pietramala, Mulin dei Falchi, Vezzano, dove ebbe inizio il rastrellamento; percorrere poi il sentiero 531, soffermarsi presso i cippi che ricordano i momenti in cui i tedeschi uccisero, lungo il percorso, alcuni dei prigionieri; passare per villa Mancini a San Polo, dove alloggiava il comando tedesco e giungere poi a villa Gigliosi, nel boschetto della Ragnaia, dove vennero barbaramente uccise decine di persone, e fermarsi a guardare l’edicola commemorativa.
Tempo: Un’ora e mezzo circa a piedi (6,4 km)
Dislivello + 148, – 367
Un itinerario che si interseca con quello del paesaggio più ampio dei Beni Culturali e Artistici: sono visibili i resti del Castello di Pietramala, la chiesa della Madonna del Giuncheto di San Polo, che ospita una piccola raccolta di residui della seconda guerra mondiale e il monumento commemorativo alle vittime di San Polo.
Note:
[1] Lettera di Giordano Cavestro scritta poco prima di esser fucilato a Bardi il 4 maggio 1944, in https://www.istitutostoricoparma.it/storia-digitale/lettere-dei-condannati-a-morte/giordano-cavestro/ultima-lettera.
[2] Edicola ai caduti civili e partigiani della strage del 14 luglio 1944 a San Polo di Arezzo in https://www.pietredellamemoria.it.
[3] Monumento in memoria dell’eccidio di San Polo Arezzo in https://www.pietredellamemoria.it.
[4] Memoria di un eccidio, San Polo 14 luglio 1944 il giorno più lungo in https://www.youtube.com/.
[5] Memoria di un eccidio: San Polo 1944, Le Balze, Montepulciano 2003, pp. 150-154.
Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.
Articolo pubblicato nel mese di ottobre 2024.
Il Casentino durante la guerra di Liberazione

Tradizionalmente lo studio del passato è stato prevalentemente insegnato e studiato attraverso l’utilizzo dei libri, tuttavia negli ultimi decenni questo monopolio è stato progressivamente messo in discussione dalla comparsa di diverse modalità di apprendimento che hanno enormemente accresciuto le potenzialità diffusive della storia. Ciascun campo e settore ha affinato le proprie modalità di circolazione, cercando di diversificare le possibilità divulgative e di includere al contempo un pubblico sempre più vasto che non limitasse il proprio apprendimento alla sola lettura dei libri. Per quanto riguarda l’apprendimento della Resistenza e della guerra di Liberazione un’eccezionale forma di insegnamento proviene dai numerosi luoghi della memoria sparsi per la penisola: i cippi, le lapidi e i monumenti presenti nel territorio rappresentano un’incredibile fonte a nostra disposizione, grazie alla loro accessibilità e alla loro facile comprensione. Con la loro presenza e la loro solidità i luoghi della memoria hanno inoltre un’importante funzione nei confronti della nostra società, ricordandoci la necessità di non dover dimenticare certi episodi nella speranza che questi non vengano ripetuti. Abbiamo dunque deciso di sfruttare questa ricchezza e di proporre un itinerario, che attraverso la descrizione di alcuni dei luoghi della memoria presenti nel Casentino, ripercorresse alcuni dei momenti principali della Resistenza nella vallata a nord di Arezzo e fornisse una modalità di insegnamento alternativa ed accessibile a tutti.
Il percorso si estende lungo tutto il Casentino per una lunghezza complessiva di 90 chilometri e un tempo stimato di circa due ore. L’itinerario ha inizio dal comune di Pratovecchio-Stia, situato all’estremità settentrionale del Casentino e discende la vallata fino ad arrivare ad Arezzo, capoluogo di provincia posto al confine meridionale della valle. Le ampie distanze fra uno spostamento e l’altro impongono necessariamente l’utilizzo dell’automobile. Per motivi di spazio abbiamo dovuto limitare l’attenzione solamente ad alcuni luoghi del Casentino, senza poter estendere la nostra attenzione ad altri comuni e frazioni interessati dalla guerra e meritevoli di un approfondimento. Il nostro percorso rappresenta solamente un modello di itinerario che ripercorre i luoghi della memoria; invitiamo dunque i visitatori a non doversi necessariamente attenere all’itinerario da noi proposto, ma ad approfondire ed estendere la conoscenza del Casentino attraverso sentieri e percorsi alternativi.
Il nostro percorso ha inizio dal margine settentrionale del Casentino; rispetto alle zone centro-meridionali della vallata quest’area venne interessata per prima dagli eventi che seguirono l’Armistizio (8 settembre 1943): infatti nei dintorni di Stia nacque la prima formazione partigiana della provincia di Arezzo e vi fu poco dopo la scomparsa di Pio Borri, prima vittima della Resistenza nell’aretino. Oltre ad esser stata un’area particolarmente coinvolta nelle prime fasi dell’occupazione nazifascista la zona nei dintorni di Stia venne drammaticamente colpita anche nella primavera dell’anno successivo da un grande rastrellamento promosso dai comandi nazisti che tra il 12 e 13 aprile coinvolse il Casentino centro-settentrionale, colpendo i paesi di Vallucciole, Badia Prataglia, Partina e Moscaio.
Il territorio del comune di Pratovecchio-Stia conta numerosi monumenti che ricordano quel triste periodo, con particolare riferimento alla strage di Vallucciole nella quale persero la vita oltre cento civili innocenti. Sempre nell’ambito del grande rastrellamento quattro giorni dopo l’eccidio un gruppo di partigiani romagnoli venne intercettato nelle foreste casentinesi da una pattuglia nazista e condotto a Stia, dove vennero fucilati nel locale cimitero. Oggi quel cimitero non viene più utilizzato per la sepoltura dei defunti ed è divenuto un luogo monumentale presso il quale possono recarsi i visitatori ad ammirarne la bellezza. Recentemente ristrutturato, il camposanto si trova in via Roma, e contiene un ampio spazio dedicato al ricordo dei 17 partigiani fucilati: è presente un monumento, due lapidi che indicano il luogo dove avvenne la fucilazione ed infine lungo il vialetto di accesso al cimitero sono presenti 17 piccole lapidi recanti il nome dei partigiani caduti[1].
Da Stia ci dirigiamo verso sud percorrendo via Arno e svoltiamo a destra poco prima di arrivare a Poppi, all’altezza di Ponte d’Arno; dopo aver abbandonato la principale arteria del Casentino procediamo verso ovest attraversando gli abitati di Castel san Niccolò, Prato di Strada, Pagliericcio e Pratarutoli, fino ad arrivare a Cetica, situata sulle pendici del Pratomagno. In queste zone il 29 giugno 1944 gli uomini della XXIIª Brigata Garibaldi “Lanciotto” si scontrarono in un aspro combattimento con i reparti della Brandenburg. Diversamente da quanto solitamente avveniva durante la guerra di Liberazione, caratterizzata da imboscate e azioni di guerriglia, partigiani e nazisti si fronteggiarono in uno scontro frontale, noto come “Battaglia di Cetica”. Malgrado la disparità presente tra i due contendenti la neonata Brigata evidenziò un’ottima predisposizione militare ed organizzativa che sarebbe ulteriormente emersa nel corso della liberazione di Firenze.
Il 29 giugno 1944 reparti della Brandenburg camuffati da partigiani si avviarono in direzione di Cetica, questi vennero però tempestivamente individuati dalle sentinelle partigiane che si affrettarono a porre al riparo i civili ed organizzare una difesa del paese. Giunti a Cetica i tedeschi riuscirono a limitare l’efficacia del fuoco nemico utilizzando come scudo gli abitanti del paese, nonostante questo limite, gli uomini guidati da Aligi Barducci riuscirono ad impedire che venisse attaccato il locale mulino, fonte fondamentale di cibo per la Brigata. A fine giornata buona parte del paese portava i segni dello scontro, mentre tredici erano i civili caduti durante la battaglia. Una cifra certamente alta, ma che avrebbe potuto esser ancora più elevata in assenza della presenza partigiana in paese; nel caso Cetica fosse rimasta sguarnita si sarebbero potute ripetere le scene viste a Vallucciole, Partina e Moscaio qualche mese prima. La sera del 29 l’evento assunse maggior straordinarietà grazie all’imboscata che all’altezza di Pagliericcio una quindicina di uomini della Brigata tesero alle truppe naziste in ripiegamento, infliggendogli rilevanti perdite[2].
Le dimensioni dell’evento – probabilmente il più rilevante di tutto il Casentino insieme alla strage di Vallucciole – hanno portato alla costruzione di numerose lapidi e cippi dedicati alla memoria di coloro che il 29 giugno 1944 persero la vita. Il territorio è disseminato di testimonianze dell’evento, sia lungo strada di avvicinamento a Cetica, in particolar modo a Pratarutoli, sia nella vegetazione circostante Cetica, dove è possibile imbattersi nei cippi eretti in ricordo dei caduti. In questo caso limiteremo la nostra attenzione alla descrizione dei due principali monumenti dedicati all’evento. Nello spazio che separa l’ecomuseo del carbonaio, presso la Pro Loco “I tre confini” e la chiesa di san Michele è presente un cippo in ricordo degli uomini della “Lanciotto” caduti durante la battaglia, a fianco del quale è stato recentemente collocato un pannello informativo. A pochi metri di distanza è poi possibile poter osservare sulle pareti sempre della Pro Loco una lastra in onore dei civili che persero la vita, collocata ad appena due anni dall’accaduto, il 29 giugno 1946[3].
Da Cetica ritorniamo a fondovalle e procediamo in direzione sud fino ad arrivare a Soci, da dove seguiremo le indicazioni per Marciano, frazione di Bibbiena. In questo caso la lapide che stiamo cercando non è storicamente paragonabile ai monumenti precedentemente incontrati, ma nonostante ciò ha una notevole importanza poiché testimonia la cooperazione che partigiani e forze alleate misero in campo durante la guerra di Liberazione e che troppo spesso viene dimenticata. La lapide è dedicata ai partigiani Arpelio Cresti e Renato Ristori, caduti il 3 settembre 1944 nel tentativo di liberare Marciano alla testa di una pattuglia inglese. Il cippo non è facilmente individuabile sia perché si trova in una posizione marginale (di fianco a un piccolo cancello all’altezza della curva che precede l’ingresso a Marciano), sia perché è ormai inghiottita dalla vegetazione circostante. Il monumento è composto da due lapidi, una risalente al 1947 ed ormai illeggibile e una più recente, inglobata a quella originaria nel 1992. Al Ristori, medaglia d’argento al valore, è stata inoltre dedicata una lapide situata sotto il loggiato della Misericordia di Pratovecchio[4].
Dopo Marciano continuiamo a discendere la vallata fino a Rassina e svoltiamo a destra in direzione di Castel Focognano, superiamo il cartello che indica l’ingresso all’interno del comune e continuiamo lungo la strada principale fino a quando ci si imbatte in un monumento incastonato all’interno di un muro appartenente ad un’abitazione posta sulla sinistra. Il cippo in questione è dedicato ai quattro partigiani che il 4 luglio 1944 vennero impiccati lungo la strada che attraversa Castel Focognano.
La notte del 3 luglio alcuni membri della XXIIIª Brigata “Pio Borri” si diressero in direzione di Arezzo per recuperare del materiale bellico; sfortunatamente Giuseppe Ceccaroni, Elio Vannucci, Leonello Lenzi, Niccolino Niccolini e un ex prigioniero di guerra sovietico di cui non conosciamo il nome (non verrà impiccato, ma verrà deportato in Romagna) non erano a conoscenza di un contemporaneo rastrellamento nell’area che stavano attraversando e vennero fermati vicino a Terrossola e trasportati al Comando di Castel Focognano. Dopo esser stati percossi e interrogati senza alcun esito i partigiani vennero impiccati. L’impiccagione e la conseguente esibizione dei loro corpi aveva l’intento di intimorire la popolazione e di sconsigliare future azioni o forme di sostegno nei confronti della Resistenza. Durante l’esecuzione anche il partigiano Piero Pieri, precedentemente catturato dai nazisti, venne costretto ad osservare la tremenda scena. Riguardo un potenziale intervento da parte dei compagni dei partigiani tratti in arresto sono presenti due versioni che non necessariamente si escludono vicendevolmente, ma che possono con gradi differenti coesistere: i membri della XXIIIª Brigata “Pio Borri” sostengono che non intervennero a causa della rilevante presenza di forze tedesche all’interno del paese, mentre gli abitanti di Castel Focognano affermano che furono loro stessi a dissuadere i partigiani da un intervento per la paura di probabili ripercussioni nei loro confronti[5]. Il monumento venne inaugurato in occasione del ventisettesimo anniversario dell’accaduto, il 4 luglio 1971[6].
Dopo aver visitato Castel Focognano ritorniamo sui nostri passi e da Rassina proseguiamo verso sud fino ad arrivare a Subbiano, il confine meridionale del Casentino, situato alle porte di Arezzo. Diversamente dagli altri comuni casentinesi a Subbiano durante la guerra di Liberazione non si verificarono stragi o altri fatti incresciosi. Dopo la liberazione di Arezzo (16 luglio 1944) il territorio venne interessato dall’arrivo del fronte e l’area compresa tra Subbiano e Capolona divenne terra di nessuno, contesa dalle fazioni rivali. Malgrado non si siano verificati eventi che abbiano segnato drammaticamente la memoria delle popolazioni locali a Subbiano è presente una lapide che testimonia l’ampio contributo che il comune ha fornito durante il secondo conflitto mondiale: si tratta di un enorme lapide suddivisa in due parti, quella posta più in alto ricorda i caduti della Grande Guerra, mentre quella sottostante riporta gli abitanti del comune caduti nel corso della seconda guerra mondiale. La sezione riguardante il conflitto conclusosi nel 1945 elenca 96 vittime suddivise in nove categorie diverse, riferenti alle modalità e alle tempistiche della loro morte. La lapide è situata all’incrocio tra via Verdi e via Martiri della Libertà, sulla facciata del municipio di Subbiano[7].
A qualche minuto di distanza è poi possibile recarsi al locale cimitero, dove è presente una cappella dedicata ai caduti della Resistenza provenienti da Subbiano. Tra le quattordici lapidi all’interno della struttura sono state incluse quella di don Domenico Mencaroni, fucilato nei pressi di Anghiari nel 1944 e quella di Siro Rosseti, animatore della Resistenza nella provincia di Arezzo venuto a mancare nel 2004[8].

Cappella all’interno del cimitero di Subbiano dedicata ai partigiani caduti durante la guerra di Liberazione
Il nostro percorso si conclude ad Arezzo, al Monumento ai caduti della Resistenza, situato in piazza Poggio del Sole. L’imponente struttura, realizzata dallo scultore Bruno Giorgi, rappresenta la degna conclusione del nostro percorso grazie al suo forte impatto emotivo che ci ricorda la sofferenza e lo sforzo di coloro che combatterono e subirono l’occupazione nazifascista. Nella parte inferiore del monumento è riportata la frase di ringraziamento a coloro che sacrificarono la loro vita in nome della libertà, “il popolo della vallate aretine ai caduti della Resistenza”.
Note:
[1] https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-ai-17-partigiani-fucilati-il-17-4-44-al-cimitero-vecchio-di-stia/.
[2] F. Fusi, La 22° Brigata Garibaldi “Lanciotto” e la battaglia di Cetica (29 giugno 1944), https://www.toscananovecento.it/custom_type/la-22-brigata-lanciotto-e-la-battaglia-di-cetica-29-giugno-1944/.
[3] https://www.pietredellamemoria.it/search/keyword/Cetica/type/pietre/.
[4] https://www.pietredellamemoria.it/pietre/cippo-ad-arpelio-cresti-e-renato-ristori-marciano-di-bibbiena/.
[5] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, Quaderni dell’Istituto Storico della Resistenza Toscana, ed. Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 105-108.
[6] https://resistenzatoscana.org/monumenti/castel_focognano/monumento_a_ceccaroni_ed_altri/.
[7] https://www.pietredellamemoria.it/pietre/lapide-ai-caduti-di-subbiano-nella-seconda-guerra-mondiale/.
[8] https://resistenzatoscana.org/monumenti/subbiano/cappella_dei_caduti_partigiani/.
Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.
Articolo pubblicato nell’ottobre 2024.
Alla “scoperta” del Parco Memoriale della Torricella

Rivivere le emozioni, le paure e la tragedia di un conflitto diretto perpetuato per più di dieci giorni in una zona suggestiva e immersa nella natura. Questo è ciò che si propone di fare il Parco Memoriale della Linea Gotica, istituto nel 2003 grazie alla Provincia di Prato, alla Comunità Montana Val di Bisenzio, al Comune di Vernio e all’UNUCI di Prato, come luogo della memoria di una delle battaglie più cruente vissute dalla Val di Bisenzio, la battaglia della Torricella. L’obiettivo di questo museo aperto ed itinerante, oltre che il mantenimento vivido del ricordo, è la possibilità di dare al visitatore l’occasione di passeggiare tra i campi di battaglia, scorgendo i resti di trincee e postazioni tedesche immerse nel verde dei castagni, in una zona dal forte carattere suggestivo ed emozionale. Per raggiungerlo è possibile optare per due diverse tipologie di itinerari, una più impegnativa utilizzando “in prestito” due sentieri del CAI (Club Alpino Italiano) e un’opzione maggiormente tranquilla e meno impegnativa fisicamente.
Sentiero 1
- Percorso: Piazza del Comune 20, San Quirico di Vernio, Prato (Mostra permanente della Linea Gotica) – Sentiero CAI 460 – Sentiero CAI 420 – Passo della Torricella – Parco Memoriale della Torricella
- Tempo di percorrenza: 2 ore
- Distanza: 7,4 km
- Dislivello: pianeggiante (+ 555 m – 145 m)
Il nostro percorso inizia dalla piazza del comune di San Quirico di Vernio. Qui, la domenica e su prenotazione, sarà possibile visitare la mostra permanente della Linea Gotica, organizzata dall’associazione Linea Gotica Alta Val Bisenzio A P S. La mostra racchiude tutta una serie di reperti inerenti alla battaglia della Torricella appartenenti ad entrambi gli schieramenti: dalle Deutsche Erkennungsmarken (piastrine tedesche) e U.S. Military Dog Tags (piastrine americane) agli elmetti fino a materiale medico di ogni genere e oggetti per la pulizia personale. Vi sono persino i pezzi del bombardiere statunitense B25, originariamente preposto al bombardamento di Cecina ma poi dirottato a causa della nebbia nella zona di Vernio per colpire la Direttissima che collega Firenze e Bologna per poi essere abbattuto dalla contraerea tedesca. Una piccola mostra quindi, ma che racchiude le immagini e gli oggetti di una delle battaglie più decisive della Val di Bisenzio. Una volta visitata il nostro consiglio è quello di proseguire in auto seguendo l’indicazione per Celle, imboccandosi poi a sinistra in una strada in salita per raggiugere la località di La Bandiera. Da qui sarà possibile proseguire a piedi immettendosi nel percorso CAI 460 [1], che percorre in quota tutto il crinale della Calvana. Prima ci troveremo di fronte alla fattoria del Cotone fino a raggiungere poi i ruderi della fattoria La Soda. Da qui sarà possibile ammirare un bellissimo panorama sulla Val di Bisenzio e ci potremmo inserire nel sentiero CAI 420 [2]. Giunti sul crinale si potranno notare i resti delle trincee della Linea Gotica. Mantenendosi sul sentiero CAI 420, alla fine del pianoro, dopo una breve discesa, si incontra il passo della Torricella, dove attraversiamo la strada asfaltata per arrivare fino al Poggio della Torricella, mèta principale dell’itinerario, e al Parco Memoriale omonimo, dove si trova il monumento a ricordo della battaglia.
Sentiero 2
- Percorso: Montepiano – Sentiero CAI 420 – Passo della Torricella – Parco Memoriale della Torricella
- Tempo di percorrenza: 30 minuti
- Distanza: 5,2 km
- Dislivello: pianeggiante (+ 116 m – 126 m)
Il secondo percorso si presenta invece come un’alternativa facilitata e meno faticosa per il raggiungimento del Parco Memoriale. In questo caso consigliamo di partire da Montepiano imboccando la strada verso Barberino fino all’incrocio del sentiero CAI 420 (si trova circa 750 m prima dell’arrivo al Parco, in prossimità di un cartello che delinea la fine di Prato e l’inizio di Firenze), dove saremmo già ad un buon punto e vicini al Parco Memoriale.
Note
[1] Descrizione sentiero 460 CAI
https://www.caiprato.it/sentiero-460-cai-prato/
[2] Descrizione sentiero 420 CAI
https://www.caiprato.it/sentiero-420-cai-prato/
Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.
Articolo pubblicato nell’ottobre 2024.
“Il delitto Matteotti”. Presentazione.
Giovedì 31 ottobre 2024, ore 17.30 all’Accademia La Colombaria, presentazione del volume di
MAURO CANALI
IL DELITTO MATTEOTTI
Il Mulino editore, 2024
Saluti
GUIDO CHELAZZI
(Presidente Accademia “La Colombaria”)
Interventi
GIAN BIAGIO FURIOZZI
(Università di Perugia)
ARIANE LANDUYT
(Università di Siena)
Conclusioni
MAURO CANALI
Luoghi del tempo: la memoria in provincia di Grosseto (II edizione)

Il corso prevede una quota di partecipazione di 30 euro (è possibile utilizzare voucher generati con la carta docente). Per gli insegnanti del Liceo statale “A. Rosmini” il corso è gratuito.
I docenti possono iscriversi:
-
- Inviando per mail il buono creato con la Carta del docente
-
- presso l’ISGREC (Poderino dell’Agrario, Cittadella dello Studente) in contanti
-
- tramite bonifico su c/c intestato a Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea (IBAN: IT98W0885114301000000008002).
I corsi sono aperti anche ai non insegnanti, che possono iscriversi pagando in contanti presso l’ISGREC o con bonifico
INFO per iscrizioni e pagamenti: Isgrec, Cittadella dello studente, 0564415219, segreteria@isgrec.it