La “belva della provincia”

Il 18 dicembre 1948, ad oltre tre anni e mezzo dalla fine del secondo conflitto mondiale in Europa, la Sezione speciale della Corte d’assise di Lucca poneva la parola fine al travagliato processo contro Bruno Messori, Camillo Cerboneschi ed Erminio Barsotti, vertici e aguzzini dell’Ufficio politico investigativo della Guardia nazionale repubblicana di Lucca. Accusati di collaborazionismo, spionaggio politico-militare, arresti arbitrari, aver preso parte a rastrellamenti e inflitto a numerosi prigionieri «sevizie particolarmente efferate» – nonché, nel caso della «belva della provincia» Cerboneshi e di Messori, aver cagionato con la propria azione la morte di diversi partigiani e favoreggiatori – gli uomini dell’Upi di Lucca avevano operato in tutta la provincia (e non solo) tra il settembre 1943 e il giugno 1944, per poi seguire nel Nord Italia il trasferimento delle strutture repubblicane in ripiegamento dalla Toscana.

Solo in minima parte conosciuta, anche per l’oggettiva scarsità e in alcuni casi difficoltà di accesso alle fonti, la storia violenta di questo purtroppo efficace strumento repressivo nelle mani della Repubblica sociale italiana merita invece, in un panorama storiografico sempre più attento alla dimensione specifica e ai “molti territori” cui si sarebbe articolata la violenza fascista durante gli anni della guerra civile, un seppur breve approfondimento.

All’indomani delle convulse vicende armistiziali e dell’occupazione tedesca della Penisola, mentre il fascismo lucchese rialzava con fatica la testa, tornava infatti sulla scena l’Ufficio politico investigativo dell’86ª legione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, riorganizzato dal capo manipolo Camillo Cerboneschi. L’ufficiale, perugino di nascita (classe 1908) ma milanese d’adozione, reduce dal fronte montenegrino, era infatti sorpreso l’8 settembre 1943 in Lucchesia durante una breve licenza di convalescenza; impossibilitato a rientrare al proprio reparto, nelle settimane immediatamente successive si poneva a disposizione del locale comando germanico, riuscendo ben presto ad aggregare attorno a sé un piccolo nucleo di collaboratori e informatori avvicinati tra le fila della Milizia stessa, molti dei quali ex-squadristi o a loro volta reduci dal fronte balcanico, tragica “scuola di formazione” per alcuni tra i più violenti protagonisti della guerra civile.

Capace di accattivarsi la fiducia dell’alleato-occupante grazie alla «notevole attività nella collaborazione» e la fattiva opera delatoria, la squadra politica di Cerboneschi poteva quindi condurre nell’autunno del 1943 le prime operazioni sul campo: se da un lato le indagini si concentravano nel rilevare la presenza di prigionieri di guerra alleati evasi dai campi di concentramento, nonché soldati sbandati del Regio Esercito rifugiatisi sulle colline lucchesi – segnalando nel caso l’aiuto prestato dalla popolazione civile – dall’altro i militi riuscivano a fornire le prime informazioni sul nascente movimento resistenziale, denunciando parimenti la collusione e l’azione di sabotaggio di molti carabinieri.

Targa commemorativa apposta all'ingresso della ex-caserma di S.Agostino (Lucca), sede dell'UpiSolo con la crescente organizzazione e strutturazione sul territorio lucchese della Gnr – il cui comando, relativamente alla componente della Milizia, veniva affidato al seniore Bruno Messori – l’Upi poteva però dirsi pienamente operativo, imponendosi rapidamente quale punto di riferimento per il capo della provincia Mario Piazzesi, fautore di una dura politica di contrasto nei confronti dell’antifascismo organizzato. Nel tentativo di estorcere informazioni e confessioni altrimenti difficili da ottenere, a partire dal gennaio del 1944 i locali dell’Ufficio politico investigativo lucchese annessi alla sede del comando della Gnr presso l’ex-convento di Sant’Agostino divenivano quindi sede di efferate sevizie, inflitte con odiosa professionalità durante estenuanti interrogatori. Nei mesi successivi, dalla camera di tortura appositamente allestita, transiteranno infatti diversi favoreggiatori del movimento resistenziale e alcuni esponenti di vertice del Cln lucchese, nonché semplici cittadini accusati di dar rifugio a militari alleati o di essersi espressi sfavorevolmente nei confronti di militi repubblicani, in un crescendo di violenza – riscontrabile non solo a livello locale – coincidente con l’intensificarsi dell’attività partigiana e la conseguente erosione della capacità di controllo del territorio da parte della Repubblica fascista.

Grazie a questi brutali metodi e alle indagini condotte attraverso una fitta rete di informatori locali, l’azione dell’Upi riusciva a raggiungere importanti successi operativi: numerosi saranno infatti gli arresti direttamente imputabili all’azione dei militi dell’Ufficio, tra cui la cattura di Vittorio Monti e di Domenico Randazzo, accusati di far parte del movimento resistenziale e fucilati a Massarosa il 19 aprile 1944, nonché il ferimento a morte del partigiano Roberto Bartolozzi, caduto il successivo 29 giugno.

Con lo sfollamento delle strutture politico-militari fasciste dalla regione a seguito dell’avanzata alleata, l’Upi lucchese raggiungeva l’Emilia Romagna, sciogliendosi pochi giorni più tardi; il Comando generale della Gnr, nel tentativo di non veder dispersa la preziosa “esperienza” accumulata dagli agenti durante i mesi precedenti, ne disponeva quindi il trasferimento in altre squadre politiche attive nelle province settentrionali.

Già nei mesi successivi la liberazione di Lucca, le denunce presentate dalle numerose vittime dell’Upi innescavano il lungo procedimento giudiziario intentato contro gli uomini di Cerboneschi: appesantito da una complessa fase istruttoria e dalla contemporanea apertura, nei confronti dello stesso Cerboneschi, di ulteriori filoni di indagine a Pistoia e Como (sua ultima sede di attività), il processo poteva inaugurarsi solo il 14 dicembre 1948, colpo di coda di una stagione giudiziaria ormai al tramonto. Nei locali oggi occupati dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca, Erminio Barsotti – milite accusato delle più atroci torture – sarà l’unico a sedersi al banco degli imputati: a seguito di alcuni decessi e per l’intervenuta amnistia, le posizioni di molti imputati minori erano infatti stralciate, mentre Cerboneschi (evaso nell’aprile del 1946 dalle carceri di Como) e Messori (espatriato in Spagna) risultavano latitanti. Lo stesso Barsotti, condannato a otto anni di reclusione, vedeva interamente condonata la pena inflitta ed era immediatamente scarcerato.

Lorenzo Pera è laureato in scienze storiche presso l’Università di Pisa, ha recentemente pubblicato, presso la casa editrice dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, Squadrismo in grigioverde. I battaglioni squadristi nell’occupazione balcanica (1941-1943), I.S.R.Pt, 2018.

Articolo pubblicato nel giugno del 2018.




A Strada in Chianti presentazione di “Donne in guerra scrivono”

Mercoledì 27 giugno alle ore 18.00 a Strada in Chianti presentazione del volume Donne in guerra scrivono, a cura di Marta Baiardi.

Intervengono, presso LA DISPENSA di Andrea e Gregorio (p.za E. Landi 1,2,3):

Valdo Spini, presidente della Fondazione Rosselli

Valeria Supino, autrice

Marta Baiardi, curatrice




74° Anniversario dell’eccidio di Guardistallo

Domenica 1° luglio si concluderà con la cerimonia solenne alla presenza della Vicepresidente della Regione, Monica Barni, il ricco calendario di iniziativa in occasione del 74° anniversario della strage di Guardistallo.




74° ANNIVERSARIO LIBERAZIONE – Castiglione d’Orcia

22 giugno 2018 | dalle ore 18 alle ore 20
@ Casa dell’acqua di Vivo d’Orcia

 

CASTIGLIONE D’ORCIA
Celebrazioni 74° anniversario della Liberazione del Comune

Programma
– Saluto del Sindaco
– Letture a cura dell’Associazione Teatrale “Talenti Tintinnanti”
– Consegna delle Costituzioni ai diciottenni
– Inaugurazione della targa del 74° dalla Liberazione

Rinfresco a cura dell’Associazione Pro Loco di Vivo d’Orcia
In collaborazione con l’Anpi comunale

Tutta la cittadinanza è invitata a partecipare!




“Vite salvate”. La storia di Lilli a Terrinca di Stazzema

Nel febbraio del 1944, nel pieno della persecuzione antiebraica, due giovani donne, Enrica Cremisi, incinta, e sua cognata Elda Funaro con i suoi due bambini, senza mezzi né protezione, si trasferirono a Terrinca, una frazione del Comune di Stazzema. Presso la padrona di casa Stella Coppedè e nel parroco del paese, don Egisto Salvatori, trovarono umana solidarietà e protezione. Grazie a loro, nel giugno del ’44, Enrica poté dare alla luce, nell’ospedale di Seravezza,una bambina, Adriana, familiarmente chiamata “Lilli”. E, sempre grazie all’azione solidale di alcune donne del paese come Riccarda Navarchi in Bazzichi, Lilli potè essere allattata.
E’ una delle storie portate alla luce nell’ambito del progetto “Vite salvate, storie di donne e uomini oltre la guerra e i razzismi”, curato dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea (ISREC) in provincia di Lucca.

Domenica scorsa, 17 giugno, Adriana Funaro, “Lilli”, che ora vive in Israele, è salita a Terrinca per ricordare quanti hanno contribuito alla sua salvezza e a quella degli altri parenti. Lo ha fatto nel corso di un incontro promosso dall’ISREC, dal Comune di Stazzema, dal Circolo Arci “Le Tanacce”, dal Gruppo Culturale “I Colombani” di Terrinca. Nella sede del circolo Arci, alla presenza di un folto pubblico, dopo le parole del Sindaco di Stazzema, Maurizio Verona, del Vicepresidente della Comunità ebraica di Pisa, Lucca e Viareggio, Paolo Molco, e dei rappresentanti degli enti organizzatori, Silvia Angelini, storica dell’ISREC impegnata nel progetto “Vite salvate” alla ha ricostruito le vicende di Lilli e dei suoi familiari.
E’ una storia familiare complessa in cui si intrecciano solidarietà e delazione, deportazione e salvezza. Infatti prima di rifugiarsi a Terrinca, Enrica Cremisi con i genitori e i fratelli Adolfo e Remo, aveva lasciato nell’autunno ‘43 Lido di Camaiore e insieme ad altre famiglie ebraiche aveva trovato alloggio e amicizie leali a Loppeglia, nel Comune di Pescaglia. Poi, nel gennaio 1944, Ernesto Funaro, fidanzato di Enrica venne arrestato su delazione a Camaiore e deportato.
Nella primavera, mentre Enrica incinta si trovava a Terrinca, sempre su delazione furono arrestati a Loppeglia e deportati il padre, il nonno della giovane e un amico di famiglia.
In questa situazione drammatica, la generosità di don Aldo Mei darà asilo a Adolfo Cremisi, il fratello maggiore di Enrica, e la solidarietà degli amici di Loppeglia avrà cura della madre di Enrica e del fratello minore.

A Terrinca dove appunto Enrica e poi anche la piccola Lilli trovarono un rifugio sicuro, è stato un pomeriggio di intensa commozione, con l’incontro di Lilli con i discendenti dei suoi soccorritori, tra cui il suo “fratello di latte”, Daniele Bazzichi. Sono stati inaugurati due pannelli che rimarranno a ricordare la vicenda. Il Sindaco di Stazzema Maurizio Verona ha consegnato attestati a memoria delle meritorie azioni compiute da don Egisto, da Stella e da Riccarda e la comunità di Terrinca ha a sua volta consegnato a Lilli una dichiarazione a memoria di questa giornata.

Il giorno successivo Lilli, completando questo percorso di memoria familiare, si è recata a Lucca dove alla presenza dell’Assessora Vietina Ilaria, del prof. Luciano Luciani e altri membri dell’ISREC ha reso omaggio alla memoria di don Aldo Mei, presso il cippo che, fuori di Porta Elisa, segnala il luogo dell’esecuzione del mistico e generoso sacerdote. Successivamente è stata ricevuta, a Palazzo Orsetti dal Sindaco di Lucca, Alessandro Tambellini.

 

 

Bibliografia: Silvia Q. Angelini Gli ebrei in provincia di Lucca tra deportazione e salvezza. 1943-1944, Documenti e Studi. Rivista dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Lucca,  n. 34, 2013, pp. 11-41.

Vedi il servizio nell’edizione serale di Raitre TG Regione Toscana del 18 giugno 2018




Premio Faustino Dalmazzo Bando per la pubblicazione di un’opera nella collana editoriale “Testimoni della Libertà”

La collana editoriale “Testimoni della libertà”, nata e sviluppatasi grazie al sostegno della Fondazione Avvocato Faustino Dalmazzo, ha pubblicato con la casa editrice FrancoAngeli tra il 2007 e il 2018 undici titoli, frutto di ricerche presentate nel corso degli anni durante il seminario “Giellismo e Azionismo. Cantieri aperti”:

Leo Valiani. Gli anni della formazione. Tra socialismo, comunismo e rivoluzione democratica, di Andrea Ricciardi;

Libertà individuale e organizzazione pubblica in Silvio Trentin, di Fulvio Cortese;

Democrazia e identità nazionale nella vita di un antifascista tra Italia e Stati Uniti: biografia di Max Ascoli (1898-1947), di Davide Grippa;

La diaspora azionista. Dalla Resistenza alla nascita del Partito radicale, di Elena Savino;

Per la giustizia e la libertà. La stampa Gielle nel secondo dopoguerra, di Diego Giachetti;

Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, «Empirico» e «Pantagruel». Per un’Europa diversa. Carteggio 1943-1945, a cura di Piero S. Graglia;

L’illusione della parità. Donne e questione femminile in Giustizia e Libertà e nel Partito d’azione, di Noemi Crain Merz;

Giulio Bolaffi, Partigiani in Val di Susa. I nove Diari di Aldo Laghi, a cura di Chiara Colombini;

Partigiani in borghese. Il movimento di Unità popolare nell’Italia degli anni Cinquanta, di Roberto Colozza

Alla ricerca della libertà. Vita di Aldo Garosci, di Daniele Pipitone

Le due Italie. Azionismo e qualunquismo (1943-1948), di Alberto Guasco

Nella convinzione che la collana abbia rappresentato un’occasione importante per molti ricercatori e che abbia dato un contributo notevole all’ambito di studi legato all’esperienza politico-culturale di Giustizia e Libertà e del Partito d’azione e dei loro protagonisti, l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” ha deciso, a partire dal 2016, di aprire il bando per l’assegnazione del Premio Faustino Dalmazzo che dà luogo alla pubblicazione all’interno della collana anche a quanti non abbiano partecipato al seminario “Giellismo e Azionismo. Cantieri aperti”.

Il presente bando ha l’obiettivo di sostenere esclusivamente i costi per la pubblicazione ed è rivolto a tutti coloro che si occupino di GL, del Pda, delle culture ed esperienze politiche che a essi si richiamino: la partecipazione al seminario “Giellismo e Azionismo. Cantieri aperti” costituirà un elemento preferenziale, ma non vincolante, nella selezione dei lavori presentati.

Gli studiosi che intendono candidare la propria ricerca per la pubblicazione devono inviare all’indirizzo e-mail chiara.colombini@istoreto.it entro il 2 luglio 2018 un progetto editoriale così concepito:

– una presentazione (non più di 5 cartelle);

– un indice;

– un capitolo o un’introduzione di prova;

– una previsione orientativa delle battute complessive.




Il vescovo Giovanni Piccioni: la Chiesa livornese tra fascismo e guerra

Giovanni Piccioni esercitò il suo ministero episcopale a Livorno dal 1921 al 1959. Quasi un quarantennio che lo vide al centro della scena in una diocesi tradizionalmente ritenuta tra le più difficili in Italia per i radicati fenomeni di irreligiosità e la presenza di una forte massoneria: un terreno difficile per lo sviluppo delle organizzazioni cattoliche [Bedeschi, 1983]. Alcuni studi hanno evidenziato le inequivocabili manifestazioni di deferenza al regime che caratterizzarono l’attività pubblica del presule durante il ventennio [Litrico, 2002; Mazzoni, 2009]: è indubbio che il vescovo salutasse con favore – specie in un contesto come quello livornese – l’inedita protezione che lo Stato fascista garantì alla religione cattolica, tanto più dopo i Patti lateranensi e la sanzione solenne del ruolo pubblico e ufficiale del cattolicesimo nella società italiana [Ceci, 2013].

Tuttavia a leggere nel suo complesso il messaggio pubblico di Piccioni si svelano i lineamenti di una strategia giocata su due tavoli, coniugando il caloroso appoggio al governo di Mussolini, i buoni rapporti mantenuti col federale di Livorno Umberto Ajello e, soprattutto, con la potente famiglia Ciano, con la frequente esteriorizzazione di una identità separata, discordante con le ambizioni totalitarie del fascismo, e coltivata anche nei confronti riservati col proprio clero e col laicato.

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Indizi in questo senso punteggiano il suo ministero negli anni del fascismo, caratterizzato dalla particolare fermezza con cui si prodigò a difesa del clero e dell’associazionismo [Zargani, 1997], ed hanno la manifestazione più evidente nell’indizione dei sinodi diocesani del 1927 e 1938 (i primi in assoluto per la diocesi sorta nel 1806), nel secondo dei quali non si nascondevano gli obiettivi – come si legge nella lettera pastorale d’apertura – di una «restaurazione cristiana» del popolo. Va notato poi come immediata fu la reazione di Piccioni alla promulgazione delle leggi razziali: non sul piano pubblico, ma nella convocazione nel dicembre 1938 di un «incontro riservatissimo» a cui furono invitati i massimi dirigenti dell’Azione cattolica e alcuni sacerdoti (tra cui don Roberto Angeli) allo scopo di approntare una rete diocesana che favorisse «la collaborazione con i parroci e con le altre organizzazioni caritative per dare agli ebrei aiuti materiali e morali» [Erminia Cremoni, 1955].

Negli anni di guerra, fino alla destituzione di Mussolini, il presule alternò alle manifestazioni di lealismo patriottico, la vigorosa celebrazione della «missione indefettibile» del pontefice. Da un lato non si mancò di impetrare i «divini favori sull’Italia e sulle Forze Armate» nell’occasione della consacrazione dei soldati al Sacro Cuore di Gesù per la festa della Candelora del 1941 [«Bollettino Diocesano Livornese», n.1, 1941, p. 5], né furono meno solenni i momenti di invocazione alla “pace vittoriosa” come avvenne soprattutto nella imponente funzione del 16 maggio 1943 al santuario di Montenero in cui il vescovo, davanti a quarantamila livornesi, implorò la protezione della «Madre di Misericordia» sulla «nostra cara Patria», affinché potesse «presto intrecciarsi sulle bandiere al lauro dell’eroismo e della vittoria, l’ulivo della pace» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio, giugno, luglio 1943, p. 14]. Dall’altro, dal maggio 1942 al maggio 1943, la diocesi fu impegnata in un denso programma di celebrazioni per ricordare il giubileo episcopale di Pio XII, culminato con la festa di Cristo Re del 1942, nella quale Piccioni rievocò con forza gli obiettivi pacelliani di «ricostruzione della famiglia cristiana».

Dopo il 25 luglio, in linea con l’episcopato toscano, Piccioni mostrò di sposare la linea di pacificazione tracciata dal cardinale di Firenze Elia Dalla Costa pubblicando sul “Bollettino Diocesano” la notificazione del 31 luglio in cui l’arcivescovo di Firenze invitava i fedeli a rispettare le «legittime autorità» e richiamando «clero e popolo a uniformare la loro condotta ai principi che vi sono esposti» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio-giugno-luglio 1943, pp. 30-32]. Ed è significativo che il presule intese ribadire questa linea ancora nel marzo 1944, quando era ormai nota l’ampiezza dell’impegno di tanti cattolici nella Resistenza, dando spazio sull’organo ufficiale della diocesi, alla notificazione sul clero e i partiti pubblicata dal cardinale di Milano Ildefonso Schuster nell’ottobre 1943 con la quale si esprimeva la necessità che la Chiesa si mantenesse «fuori ed al di sopra di tutte le diverse competizioni d’indole politica» e si intimava esplicitamente all’obbedienza «secondo le leggi, alle legittime Autorità stabilite» [«Bollettino Diocesano Livornese», gennaio-marzo 1944, pp. 11-12].

Eppure è in questo contesto – che nel discorso pubblico non pare far emergere una significativa eccezione rispetto al coevo quadro regionale [Bocchini Camaiani, 2009] – che si sviluppò il Movimento cristiano sociale, senza dubbio uno dei gruppi cattolici di resistenza al fascismo più strutturati della Toscana, entrato nel Cln di Livorno già il 9 settembre 1943. Un contesto che appare di ancor più difficile lettura se solo si tenga conto che il gruppo strutturatosi intorno alla Fuci livornese ricevette a pochi giorni dall’armistizio una lettera degli assistenti don Angeli e don Amedeo Tintori che proponeva un invito aperto alla ribellione e affrontava esplicitamente il problema dell’obbedienza all’autorità costituita. Appellandosi al principio del diritto romano per il quale l’unico comando ammesso era quello proveniente dalla legge, si negava con forza ogni legittimità a comandi imposti con «la forza o la violenza o l’astuzia o l’arma di un uomo o di molti uomini» e si riaffermava che l’«unico governo legittimo», al quale era necessario «obbedire in coscienza», era «quello eletto secondo lo Statuto, il quale non è abrogabile se non per volontà concorde – liberamente e chiaramente manifestata – di tutto il popolo italiano» [Angeli, 1975, pp. 184-186].

Non può essere imputato a casualità anche il fatto che tra il clero legato a Piccioni non fu solo la figura di don Angeli ad emergere con un preciso profilo di antifascismo militante negli anni convulsi della guerra. Si è fatto ad esempio notare come tra i sacerdoti che più si impegnarono nella Resistenza nella diocesi di Massa Marittima-Populonia – retta con incarico ad personam dal vescovo di Livorno tra il 1924 e il 1933 – forti erano state le influenze esercitate dal presule livornese, assai diverso nel contegno verso il regime dal più allineato mons. Faustino Baldini che gli successe: è il caso di don Ivo Micheletti, che presiedette il Cln di Piombino, e di don Ivon Martelli, che fu a capo di quello di San Vincenzo, entrambi compagni di studio di don Angeli negli anni ’30 presso il Seminario Gavi di Livorno [Tognarini, 1995, p. 83]. Nel gennaio 1943 Piccioni non si fece scrupolo neanche nell’accogliere nella sua diocesi il lucchese don Antonio Vellutini, il quale era noto per il suo sbandierato antifascismo (tanto da essere inviato per qualche anno in una sorta di “confino” presso Montalto Uffugo in Calabria), e che, non a caso, presiedendo il Cln di Vada, fu assoluto protagonista delle azioni di difesa della popolazione contro l’occupante tedesco nel paese della costa livornese.

Piccioni 002È oltre il messaggio pubblico che, evidentemente, vanno ricercate le ragioni del fiorire in seno alla Chiesa di Piccioni di certi temi e personalità. La disponibilità completa delle carte dell’Archivio diocesano di Livorno potrebbe forse sbrogliare definitivamente certi nodi, tuttavia alcuni punti fermi emergono già con chiarezza. Intanto è il profilo biografico precedente la carriera episcopale di Piccioni a fornire più di una traccia: nella Pistoia di inizio Novecento il presule ebbe trascorsi di prete democratico-cristiano, avendo in  Toniolo e, soprattutto, in Murri i suoi ispiratori; fu tra gli organizzatori della prima Settimana Sociale del 1907 e sedette sui banchi del consiglio comunale di Pistoia dal 1903-1909 come leader dell’opposizione alla giunta socialista; nel primo dopoguerra, nominato vicario della diocesi pistoiese, entrò in rotta di collisione con le prime manifestazioni squadriste del fascismo [Angeli, 1977]. Inseriti in questo percorso non stupiscono né l’influenza che il vescovo esercitò nella formazione del fratello più piccolo Attilio, poi leader di punta della Dc degasperiana [Fanello Marcucci, 2011, pp. 15-21] né il fatto che tramite l’altro fratello Ulisse, questore a Torino, egli si procurasse letture vietate dal regime che poi metteva a disposizione dei suoi seminaristi. Fu così, ad esempio, che al Seminario Gavi si poté leggere nella sua prima stesura in francese del 1936 l’Humanisme Intégral di Jacques Maritain [Noce, 2004, pp. 84-85].

Si sostanzia dunque su questi presupposti il percorso di formazione intellettuale che condusse alcuni giovani sacerdoti della diocesi livornese a manifestare con precocità una matura coscienza politica e democratica. La scelta di Piccioni di nominare don Angeli e don Tintori assistenti ecclesiastici della Fuci nel 1939 appare in questa luce frutto di un progetto ponderato: i due sacerdoti erano inseriti in un circuito di relazioni che annoverava personalità come Guido Calogero, Giorgio La Pira, Igino Giordani e il gruppo che ruotava attorno alla rivista pisana “Il crivello” diretta da don Telio Taddei  e frequentavano già da un triennio le Università pontificie romane: in particolare don Angeli alla Gregoriana era venuto in contatto con un ambiente in cui «si respirava un’aria chiaramente antifascista» [Angeli, 1975a]. È, ad esempio, significativo che il sacerdote facesse derivare l’acquisita consapevolezza di una antitesi tra il cristianesimo e il totalitarismo nazista dalla frequentazione nel 1937 delle lezioni di etica fondamentale del professor Louis Chagnon: come annota don Angeli «non venivano citati, per iscritto, esempi concreti di stati totalitari (salvo gli stati comunisti), ma si indicavano come fautori della “statolatria”, Schelling, Hegel ed altri autori tedeschi. Gli studenti dovevano trarre da sé le conclusioni». Erano argomentazioni alle quali il sacerdote attinse a piene mani per dar forma a quella che lui stesso definì la «resistenza ideologica organizzata» dei cattolici livornesi: in particolare, a partire dal 1941, quegli argomenti vennero utilizzati nell’organizzazione delle lezioni pubbliche tenute presso il Cenacolo di studi sociali di S. Giulia nelle quali vennero pubblicamente criticate le tesi naziste e il concetto fascista dello stato [Merli, 1978]: si trattava di momenti di formazione a cui parteciparono studenti universitari, operai, allievi dell’Accademia Navale che ebbero l’esplicito appoggio del vescovo Piccioni che ne dava notizia sul “Bollettino Diocesano”.

Articolo pubblicato nel giugno del 2018.




L’Assemblea dei soci ISRT approva unanime Bilanci e plaude alle relazioni di Presidente e Direttore

L’Assemblea dei soci, riunitasi presso la sede Arci di Piazza dei Ciompi, ha approvato all’unanimità il Bilancio Consuntivo 2017 e il Bilancio preventivo 2018 presentati dal Direttore Matteo Mazzoni e suffragati anche dalla relazione del Collegio dei sindaci revisori.

I 56 soci presenti hanno espresso il loro plauso alle relazioni programmatiche pronunciate dal Presidente, prof. Simone Neri Serneri, e dal Direttore, Matteo Mazzoni, che ha evidenziato il quadro dei progetti e degli impegni realizzati dall’ISRT nei diversi settori di attività: patrimonio (Biblioteca e Archivio), Ricerca, Didattica, Divulgazione scientifica, Pubblicazioni – il cui intreccio costituisce essenza ed originalità dell’ISRT – ringraziando personale, docenti distaccati, membri del Consiglio direttivo e presidenza per il lavoro costante e sinergico; è stata anche sottolineata l’importanza della crescente collaborazione con gli Istituti provinciali per la realizzazione di progetti regionali, a partire dal Portale ToscanaNovecento e da quello promosso dalla Regione Toscana in occasione del 70° dell’entrata in vigore della Carta.

Nel corso della mattinata si è svolta anche l’Assemblea straordinaria per la notifica alla presenza del notaio dello Statuto dell’Isrt approvato nel 2017.