Lotte sociali e proteste politiche. Il 1917 di una città industriale

Nel settembre del 1917, scrivendo al ministero, il prefetto di Livorno Giovanni Gasperini si mostrava allarmato per i «ripetuti propositi di sovvertimento dell’ordine, la propaganda contro la guerra e quella pel rifiuto della tessera del pane», «tanto più se si poneva mente che nelle ultime, recenti elezioni, la locale Camera del Lavoro, è caduta qui addirittura in balia dei socialisti ufficiali e degli anarchici e che si hanno qui nei molti stabilimenti 14mila operai». Queste poche frasi condensavano in sé alcuni degli aspetti più rilevanti e peculiari del ’17 livornese.

Giuseppe Emanuele Modigliani

In primo luogo, rilevavano l’improvvisa ripresa in quell’anno di proteste su larga scala, dopo oltre un anno e mezzo di sostanziale silenzio dalle ultime manifestazioni neutraliste dei primi mesi del 1915. Un silenzio che aveva indotto il prefetto a sbilanciarsi nell’agosto del 1915 in dichiarazioni sul «risveglio patriottico» ormai diffuso dei livornesi, dopo il prevalente neutralismo prebellico, e sulla perfetta tenuta dell’ordine pubblico cittadino. Ma la situazione, così come le opinioni di Gasperini, erano appunto destinate a cambiare; già nel 1916, secondo una dinamica che attraversa altre aree della Toscana, si era registrato qualche segno di ripresa di proteste di segno economico, non del tutto estraneo a impulsi politici che partendo proprio dai temi della pace e della guerra erano incentivati dal protagonismo del deputato livornese Giuseppe Emanuele Modigliani nelle conferenze internazionali socialiste.

Fra l’aprile e il maggio 1916, all’indomani di un concordato con cui gli operai avevano costretto la Società Metallurgica Italiana a riconoscere il sussidio straordinario integrativo, a fronte del rincaro del caro-viveri, una Commissione del Comitato Regionale della Mobilitazione Industriale (CRMI) dell’Italia Centrale era dovuta intervenire per esaminare le richieste dei lavoratori del grande Cantiere Navale cittadino, imponendo qualche concessione sulle indennità di guerra; ma in ottobre le agitazioni al Cantiere ripresero, con richieste di aumenti per l’accresciuto prezzo dei generi di prima necessità e per la mancanza dei cottimi normali. A fronte dell’atteggiamento dilatorio della direzione dello stabilimento la conflittualità salì di tono, con l’indizione di uno sciopero di mezza giornata (particolare non da poco in uno stabilimento “ausiliario” in cui gran parte della manodopera era militarizzata); gli operai, convinti anche da Bruno Buozzi appositamente giunto in città, decisero infine di fare pressioni sul CRMI che riconobbe miglioramenti salariali segnando una vittoria di Buozzi e della FIOM. Questa protesta si saldò direttamente con le prime settimane dell’anno nuovo, il momento di più acuta crisi sul “fronte interno”, che si aprì pertanto con una netta vittoria del sindacato e degli operai. Proprio in virtù di questi successi, e di altre dinamiche che vedremo, il protagonismo della FIOM nelle grandi fabbriche labroniche si affermò in quei mesi rapidamente (malgrado la riluttanza di diversi industriali, adusi a tradizionali forme di paternalismo, ad accettare il suo ruolo di mediazione nelle vertenze). La città labronica divenne nel corso della guerra una delle sue roccaforti: se nel novembre 1915 la sezione locale aveva 277 iscritti, nel maggio 1917, il rapido incremento dei mesi immediatamente precedenti li portò alla cifra di 3000, salita a ben 14000 nell’agosto 1918.

Per tornare al sintetico intervento del prefetto, la ripresa delle proteste, sospinta da disagi socio-economici, si sarebbe accompagnata nei mesi a una radicalizzazione della classe operaia e del clima politico sui luoghi di lavoro, testimoniata dal passaggio in agosto dell’organismo camerale dal tradizionale controllo dei repubblicani, attestati com’è noto su posizioni interventiste e di collaborazione allo sforzo patriottico, a quello delle componenti libertarie e socialiste rivoluzionarie. Alla guida della locale CdL fin dalla sua fondazione, gli eredi di Mazzini non potevano più eludere il problema di gestire una conflittualità operaia che cresceva di intensità e che avevano cercato di gestire smorzando la politicità delle loro posizioni e tenendo una linea conciliativa fra autorità, imprenditori e lavoratori. Il cambio di mano fu favorito anche dall’illustrato rafforzamento nella rappresentanza sindacale della grande industria, rispetto a un passato egemonizzato fino ad allora da leghe operaie artigiane e di mestiere, più vicine alla tradizione repubblicana ma con scarsi riferimenti alla grande fabbrica. Il passaggio era esemplificato dalla fisionomia del nuovo consiglio direttivo in cui a fianco di 1 membro ciascuno per la lega pastai, fornai, tipografi, spazzini, e due per la lega carbonai stavano ben 45 rappresentanti eletti dei metallurgici aderenti alla FIOM.

Manifesto del Comitato di Propaganda Patriottica del Cantiere Orlando (Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma)

Manifesto del Comitato di Propaganda Patriottica del Cantiere Orlando (Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma)

A favorire tale dinamica sindacale fu peraltro, per una delle tante eterogenesi dei fini innescate  dalla prima guerra mondiale, la creazione della Mobilitazione Industriale, un terzo attore di matrice statale che, con le sue ingerenze nelle controversie fra capitale e lavoro, finì per rinnovare non poco le relazioni industriali. La legislazione speciale di guerra e la Mobilitazione Industriale in particolare, e ancor più una concreta applicazione fatta di temperamenti e aggiustamenti, implicarono, accanto a profili fortemente repressivi, taluni aspetti modernizzanti che a Livorno risultarono assai spiccati. A fronte delle accennate e diffuse resistenze paternalistiche di molti industriali, con un abito mentale di stampo ottocentesco, fu infatti sovente la Mobilitazione a legittimare il maggiore e più organizzato sindacato, forzando la mano agli imprenditori. In una realtà come Livorno, per il suo profilo industriale, e per la tipologia delle sue produzioni, l’introduzione e il regime della Mobilitazione (che abbracciò le maggiori industrie cittadine e molte delle minori), istituito nel luglio 1915 e in seguito rafforzato, ebbero un grande impatto sul quadro socio-politico locale.

Dalle parole del prefetto si intuiva del resto quanto la città potesse considerarsi un’area industriale importante in una Toscana a forte prevalenza mezzadrile, con un numero di occupati nel settore molto al di sopra della media nazionale sospinto ancor più in avanti dalle commesse belliche. Inevitabile che in un tale contesto l’epicentro della conflittualità sarebbe divenuto, negli anni socialmente più caldi del conflitto, la grande industria metallurgica e navale. E fu qui che nel fatidico 1917 le proteste assunsero maggiore frequenza e più espliciti contenuti politici, cominciando a non essere più confinate come nei mesi finali del 1916 entro singoli stabilimenti o categorie e popolandosi di pratiche di resistenza dalla forte valenza simbolica. Quantomai emblematico divenne il caso delle due maggiori industrie cittadine, ossia il Cantiere Navale Orlando e la Società Metallurgica Italiana, facenti capo alla medesima famiglia, che costituiva un vero e proprio gruppo di potere con la sua struttura di clan, la sua rete di clientele, il controllo sulla stampa e un’influenza sulla politica che si ramificava dentro banche ed enti assistenziali.

Nel giugno 1917 sia alla Metallurgica che al Cantiere prese forma un’agitazione contro il d.l. 29 aprile 1917 che prevedeva la ritenuta d’acconto generalizzata di 1 Lira a favore della Cassa nazionale previdenza per tutti gli operai degli stabilimenti ausiliari. Cominciata dalle categorie meno protette e pagate (donne e apprendisti), trovò ampio sostegno in tutte le maestranze. Una solidarietà trasversale favorita anche dal fatto che il 25 giugno alcuni giovani apprendisti erano stati arrestati per i picchetti effettuati all’ingresso del Cantiere; circa 2000 lavoratori fraternizzarono astenendosi dal lavoro, così come fecero in forme più massicce il 4 luglio a fronte dell’arresto di quattro operai esonerati. La fabbrica era pronta per azioni simboliche di più marcato segno pacifista; per protesta contro una trattenuta ai salari per lo sciopero precedente gli operai rientrati al lavoro rimasero fermi alle macchine, e, stando alla ricostruzione del prefetto che parlava di una «massa operaia ormai in continuo fermento», inveirono contro la guerra e la Patria, mentre alcuni lavoranti minorenni cercavano di ammainare la bandiera nazionale dai cantieri per sostituirla con un cartello bianco con la scritta “Viva la Pace”. Giuseppe Orlando giunse a minacciare di chiudere temporaneamente lo stabilimento, mentre in agosto lo stesso Orlando dovette digerire un nuovo accordo per l’aumento dell’indennità di guerra. Il passaggio di mano interno alla Cdl si inserì in questo clima teso e lo alimentò, visto che fra il settembre e il novembre 1917 si susseguirono rivendicazioni e proteste che si estesero ad altri stabilimenti minori.

Giuseppe Orlando

Giuseppe Orlando

Negli ultimi mesi del ’17 le agitazioni si caricarono di un ancor più marcata coloritura politica anche per l’atteggiamento aggressivo assunto dalle istituzioni e dalla direzione delle imprese maggiori egemonizzate dagli Orlando. Il Consiglio comunale nel dicembre 1917 tolse il sussidio camerale di cui da anni la CdL godeva per i suoi indirizzi «di natura antipatriottica».. Attestati su accesissime posizioni filointerventiste, gli Orlando giunsero all’indomani di Caporetto a istituire nei propri stabilimenti un Comitato di propaganda patriottica che dopo la rotta sul fronte orientale e l’accelerazione in senso radicale della rivoluzione russa assunse toni particolarmente forti contro i disfattisti e i pericoli del contagio rosso. L’adesione era obbligatoria per le maestranze, ma alla sua infervorata propaganda nazionalista, sostenuta  mediaticamente da veicoli di diffusione come le conferenze patriottiche e la stampa di manifesti e pubblicazioni periodiche, gli operai opposero forme di resistenza che riuscirono a boicottarne l’azione. Le conferenze si susseguirono per tutto dicembre, ma la scarsa partecipazione andò aumentando, con quasi mille astensioni in occasione della conferenza di fine anno di Paolo Orano; di fronte all’imbarazzante fenomeno il prefetto fece presente la preoccupazione dei vertici militari della Mobilitazione Industriale sconsigliando la prosecuzione di quel genere di iniziative che con ordinanza del Ministero Armi e Munizioni furono di lì a poco ufficialmente sospese.

Si trattò di una sconfitta politica per il mondo industriale livornese, sancita in gennaio-febbraio 1918 dall’esito della sfida da esso lanciata anche sul piano sindacale alla CdL che chiedeva al Cantiere Navale un nuovo aumento dell’indennità di guerra e la riduzione delle trattenute contro il caroviveri, in un momento arroventato da problemi di approvvigionamento alimentare che avevano portato in alcune fabbriche a scioperi e grandi cortei spontanei con le donne in prima fila. Di fronte all’atteggiamento duro e sordo assunto da Giuseppe Orlando, la risposta fu una mobilitazione che dilagò in ben 12 stabilimenti e coinvolse 5.431 operai, mettendo in grande imbarazzo gli organismi della MI. Fu quantomai evidente che quest’ultima trovava non di rado uno dei suoi principali ostacoli non solo, o non tanto, nella classe operaia, quanto nella rigidità degli Orlando. La vertenza ebbe vasta eco e si chiuse con un accordo non del tutto sfavorevole ai lavoratori imposto dal Comitato Centrale della MI. E in giugno-luglio, una nuova protesta avrebbe portato al riconoscimento di una sorta di scala mobile, come solo a Milano e Firenze era stata applicata, a segnare la fine delle lotte del ciclo bellico e una sconfitta definitiva per i metodi paternalistico-autoritari della famiglia Orlando.

* Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è Professore a contratto di Storia Contemporanea. Attualmente è collaboratore dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2018.




“Sono il n° A5384 di Auschwitz—Birkenau”

Per il ciclo “Monsummano …Incontri culturali”, l’Assessorato alla Cultura organizza l’evento dal titolo “Sono il n° A5384 di Auschwitz—Birkenau” Liana Millu: testimonianze di vita nel lager che si terrà giovedì 22 febbraio 2018, alle ore 21.15, nella sala Walter Iozzelli dellaBiblioteca comunale “Giuseppe Giusti” di Monsummano Terme.

Si tratta di letture sceniche a cura del G.A.D. Gruppo d’Arte Drammatica Città di Pistoia tratte da “Il fumo di Birkenau” di Liana Millu e da “Care ragazze, cari ragazzi” di Mauro Matteucci. L’adattamento drammaturgico è di Chiara Cecchi e la regia di Franco Checchi. Prenderanno parte alla lettura, oltre a Chiara Cecchi, Sara Bacci, Carlotta Cappellini, Francesca Franchi, Eleonora Zara del G.A.D. GIOVANI diretto da Patrizia Maestripieri.

La serata sarà dedicata principalmente alla figura di Liana Millu, scrittrice e partigiana, sopravvissuta all’internamento nel lager, che iniziava ogni intervista e ogni incontro con le scuole con le stesse parole: si presentava non con il suo nome, ma con il suo numero tatuato sull’avambraccio sinistro.

L’adattamento scenico dedicato a Liana Millu inizia proprio con quel numero, con il nome del campo di sterminio simbolo della Shoah, Auschwitz-Birkenau, il più grande cimitero ebraico al mondo.

La presenza di poesie scritte da tre donne nel campo di Auschwitz e da una dodicenne nel campo di Terezin fanno da trait d’union alle due parti dell’adattamento scenico: la vita nel lager e le lettere ai “nuovi testimoni”, i giovani, che porteranno nel futuro gli insegnamenti e le immagini altrimenti destinate a disperdersi.




“Pietro Bastogi e l’800 italiano, fiorentino e livornese” – Presentazione del libro, Cecina (LI)

Il Circolo Culturale “G.E. Modigliani” e il Circolo Culturale “Luigi Einaudi” in collaborazione con il Circolo Culturale “Il Fitto” sabato 17 febbraio prossimo alle ore 17,30, nel 160° anniversario della presidenza di Pietro Bastogi della Camera di Commercio di Livorno, invitano la cittadinanza presso la Sala del Circolo Culturale “Il Fitto” di Cecina (Corso G. Matteotti 101/R) alla presentazione del libro:

Pietro Bastogi e l’Ottocento italiano, fiorentino e livornese (Polistampa, 2018) di Luciano Iacoponi

Presentazione a cura del dr. Massimo Sanacore, Direttore dell’Archivio di Stato di Livorno e Introduzione del dr. Mario Miccoli, Presidente del Banco di Lucca e del Tirreno




Giornata del Ricordo a Rimini – 19-20 febbraio 2018

Il 19 e il 20 febbraio l’Isgrec sarà a Rimini per un corso di formazione/aggiornamento per insegnanti e per una lezione per gli studenti sul Confine orientale

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La reazione dentro l’innovazione. Il contratto di mezzadria toscano nel 1928

Preceduto da un nuovo capitolato colonico stipulato dai sindacati fascisti già nel 1926, il contratto di mezzadria toscano del 1928 è uno spartiacque importante nella storia di questo istituto agricolo nel Novecento, rimanendo in vigore – grazie alle resistenze padronali – ben oltre la fine del Regime. Fu infatti soltanto all’epoca dell’epilogo dell’Italia rurale, nel 1964, che si intervenne per via legislativa a riformarlo.

Arrivato dopo una discussione con gli agrari, che avrebbero preferito restaurare la consuetudine dell’accordo individuale, magari non scritto, il contratto fu spinto dallo stesso Gran consiglio del fascismo, che nel 1927 stabilì che la mezzadria doveva essere regolata tramite accordi collettivi siglati con i sindacati fascisti. Nel 1928 fu quindi varato il “Contratto collettivo di lavoro per la conduzione dei fondi a mezzadria nella regione Toscana”, da subito portato a modello per tutta l’Italia come forma fascista preferita per la regolazione dell’agricoltura, con l’istituto mezzadrile, letto in chiave ideologica come “armonioso”, esaltato e promosso. Nei fatti tuttavia, arrivando dopo la grande stagione di lotte ed avanzamenti – ancorché solo sulla carta – del 1919-20, il contratto del ’28 segnava la vittoria di una feroce reazione.

Sul piano generale, il “capoccia” continuava ad impegnare l’intera famiglia, perpetrando così il modello patriarcale. La “disdetta” veniva di fatto mantenuta libera – con tanto di possibilità da parte del concedente di recidere in tronco in contratto senza preavviso – mitigata solo dall’obbligo di convalida presso al Magistratura del lavoro, che si limitava a sanzionare un’azione già avvenuta, e con la previsione di una possibile accordo tra le organizzazioni sindacali fasciste, chiamate a rappresentare tanto i padroni che i mezzadri e vanificando per questa via qualsiasi reale tutela della parte più debole. Il riparto di tutti i prodotti e i redditi delle industrie poderali restavano ripartiti a metà, secondo i canoni classici della mezzadria. La direzione amministrativa e tecnica rimaneva saldamente in mano al proprietario, con l’esclusiva facoltà di decidere in merito alla scelta delle sementi, delle coltivazioni ed alla loro direzione tecnica, così come gli indirizzi zootecnici.

Il Contratto entrava nel merito di tutte le questioni mezzadrili. Il carattere reazionario era evidente anche in queste questioni più dettagliate. Il colono doveva immettere in proprio gli attrezzi e gli utensili. Tutta la famiglia era tenuta a lavorare sul podere eseguendo in maniera intelligente e disciplinata le istruzioni del proprietario, che in caso di rifiuto aveva la facoltà di assumere dei braccianti addebitando la spesa al mezzadro. Al colono era vietato di svolgere qualsiasi lavoro per conto terzi, salvo autorizzazione del proprietario. Erano a carico del mezzadro il mantenimento delle strade poderali e la manutenzione. Il contadino doveva provvedere anche al trasporto dei prodotti alla fattoria padronale o alla stazione ferroviaria. A metà erano divise anche le spese che sarebbero dovute essere a carico del proprietario, come quelle per i citati trasporti e l’assicurazione sul bestiame. Sempre a metà restavano l’acquisto di concimi, sementi, anticrittogramici e insetticidi, anche se il colono non aveva voce in merito a quali e quanti. Laddove le necessità della produzione moderna comportavano l’uso di macchinari, come nella trebbiatura, il colono doveva pagare un canone di affitto al proprietario, o sostenere la metà delle spese, in aggiunta al proprio lavoro, per l’affitto di macchine necessarie alla lavorazione del terreno. In merito alla vendita dei prodotti, le operazioni spettavano al padrone. Nel caso il raccolto di cereali non coprisse le esigenze alimentari della famiglia, il proprietario avrebbe provveduto con una quota della sua parte, ceduta però a prezzo di mercato. Una norma, fra le numerose, rende bene l’idea del permanere di un regime di potere feudale: le castagne venivano divise a metà, ma la raccolta, la ripulitura del bosco e la potatura spettavano al colono.

Si riconoscevano piccoli miglioramenti, quali l’obbligo del proprietario a fornire una casa adeguata al podere ed in buone condizioni, anche igieniche, e provvista in qualche modo di acqua. La manutenzione straordinaria dei fabbricati, le opere di bonifica e soprattutto le nuove piantagioni erano in linea teorica a carico del proprietario, che però di norma profittava della sua posizione di potere per evadere questi obblighi. Per la manutenzione di attrezzi e utensili si riconosceva una compartecipazione del proprietario, che poteva provvedervi con una quota forfettaria. La famiglia poteva poi tenere per i suoi consumi un orto e un pollaio, le cui dotazioni massime di animali da corte dovevano essere stabilite dai patti aggiuntivi.

Questi “miglioramenti” non erano comunque una novità, anzi per la gran parte erano già stati ottenuti durante le lotte precedenti. Venivano mantenuti, in forme attenuate, perché non inficiavano la sostanza della mezzadria, Il sindacato fascista poi doveva salvare almeno un’apparente funzione di tutela. La sostanza del Contratto era però una netta riaffermazione del potere degli agrari e la cancellazione delle conquiste più avanzate delle organizzazioni cattoliche e socialiste. Non va dimenticato poi che i patti aggiuntivi provinciali, con i loro riferimenti alle consuetudini, aggiungevano ulteriori aggravi sulla famiglia mezzadrile.

In conclusione, il contratto era nettamente sbilanciato sia dal punto di vista economico che nella regolazione dei poteri delle parti verso un “assolutismo” padronale. Il suo mantenimento anche in epoca repubblicana segnò un grave vulnus nelle campagne ai diritti nati con la Costituzione, e fu tra i motivi che impedirono una trasformazione democratica degli assetti proprietari dell’agricoltura italiana negli anni della Ricostruzione.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia, coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro e fa parte del Consiglio dell’Associazione italiana di storia orale. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione. Ha curato le due mostre La mezzadria nel Novecento: lavoro, storia, memoria e La chiave a stella. Il lavoro industriale nel ‘900. Insieme a Giovanni Contini ha realizzato il film documentario In cerca della felicità. Storie di immigrati a Pistoia.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2018.




“Campioni nella Memoria. Storie di atleti deportati nei campi di concentramento”

Dal 12 febbraio al 7 marzo presso la Biblioteca dell’ITI Leonardo da Vinci di Firenze, UNVS, l’Istitutco scolastico e l’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea vi invitano a visitare la mostra “Campioni nella Memoria. Storie di atleti deportati nei campi di concentramento”.

Orari di visita: lunedì, mercoledì, venerdì 8.30-13.30; martedì e giovedì 8.30-13.30 e 14.00-17.00

Nel corso dell’allestimento sono previste le seguenti conferenze per gli studenti della scuola:

13 febbraio dalle ore 9.00 alle 11.00 Il sistema concentrazionario nazista e la Shoa, a cura della prof.sa Marta Baiardi (Isrt)

21 febbraio ore 9.00-11.00 Calcio e nazifascismo, a cura del dott. Massimo Cervelli




Giornata della Memoria a Orbetello – 19 febbraio 2018

Per l’Isgrec sarà  presente Elena Vellati

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Presentazione del libro | Salvarsi. Gli ebrei d’Italia fuggiti alla Shoah 1943-1945

Giovedì 15 febbraio 2018 | ore 17
@ via Laura 48, Aula A3

 

 

Presentazione del libro |
Salvarsi. Gli ebrei d’Italia fuggiti alla Shoah 1943-1945

di Liliana Picciotto

 

– Saluti istituzionali
Introduce:
Silvia Guetta, Università degli Studi di Firenze
Intervengono:
Amedeo Spagnoletto, Collegio Rabbinico di Roma, Rabbino della Comunità Ebraica di Firenze
ValeriaGalimi, Università degli studi di Milano

Con la presenza dell’autrice Liliana Picciotto

Dibattito