Il Casentino durante la guerra di Liberazione

Tradizionalmente lo studio del passato è stato prevalentemente insegnato e studiato attraverso l’utilizzo dei libri, tuttavia negli ultimi decenni questo monopolio è stato progressivamente messo in discussione dalla comparsa di diverse modalità di apprendimento che hanno enormemente accresciuto le potenzialità diffusive della storia. Ciascun campo e settore ha affinato le proprie modalità di circolazione, cercando di diversificare le possibilità divulgative e di includere al contempo un pubblico sempre più vasto che non limitasse il proprio apprendimento alla sola lettura dei libri. Per quanto riguarda l’apprendimento della Resistenza e della guerra di Liberazione un’eccezionale forma di insegnamento proviene dai numerosi luoghi della memoria sparsi per la penisola: i cippi, le lapidi e i monumenti presenti nel territorio rappresentano un’incredibile fonte a nostra disposizione, grazie alla loro accessibilità e alla loro facile comprensione. Con la loro presenza e la loro solidità i luoghi della memoria hanno inoltre un’importante funzione nei confronti della nostra società, ricordandoci la necessità di non dover dimenticare certi episodi nella speranza che questi non vengano ripetuti. Abbiamo dunque deciso di sfruttare questa ricchezza e di proporre un itinerario, che attraverso la descrizione di alcuni dei luoghi della memoria presenti nel Casentino, ripercorresse alcuni dei momenti principali della Resistenza nella vallata a nord di Arezzo e fornisse una modalità di insegnamento alternativa ed accessibile a tutti.

Il percorso si estende lungo tutto il Casentino per una lunghezza complessiva di 90 chilometri e un tempo stimato di circa due ore. L’itinerario ha inizio dal comune di Pratovecchio-Stia, situato all’estremità settentrionale del Casentino e discende la vallata fino ad arrivare ad Arezzo, capoluogo di provincia posto al confine meridionale della valle. Le ampie distanze fra uno spostamento e l’altro impongono necessariamente l’utilizzo dell’automobile. Per motivi di spazio abbiamo dovuto limitare l’attenzione solamente ad alcuni luoghi del Casentino, senza poter estendere la nostra attenzione ad altri comuni e frazioni interessati dalla guerra e meritevoli di un approfondimento. Il nostro percorso rappresenta solamente un modello di itinerario che ripercorre i luoghi della memoria; invitiamo dunque i visitatori a non doversi necessariamente attenere all’itinerario da noi proposto, ma ad approfondire ed estendere la conoscenza del Casentino attraverso sentieri e percorsi alternativi.

 

L’itinerario che percorre il Casentino

 

Il nostro percorso ha inizio dal margine settentrionale del Casentino; rispetto alle zone centro-meridionali della vallata quest’area venne interessata per prima dagli eventi che seguirono l’Armistizio (8 settembre 1943): infatti nei dintorni di Stia nacque la prima formazione partigiana della provincia di Arezzo e vi fu poco dopo la scomparsa di Pio Borri, prima vittima della Resistenza nell’aretino. Oltre ad esser stata un’area particolarmente coinvolta nelle prime fasi dell’occupazione nazifascista la zona nei dintorni di Stia venne drammaticamente colpita anche nella primavera dell’anno successivo da un grande rastrellamento promosso dai comandi nazisti che tra il 12 e 13 aprile coinvolse il Casentino centro-settentrionale, colpendo i paesi di Vallucciole, Badia Prataglia, Partina e Moscaio.

Il territorio del comune di Pratovecchio-Stia conta numerosi monumenti che ricordano quel triste periodo, con particolare riferimento alla strage di Vallucciole nella quale persero la vita oltre cento civili innocenti. Sempre nell’ambito del grande rastrellamento quattro giorni dopo l’eccidio un gruppo di partigiani romagnoli venne intercettato nelle foreste casentinesi da una pattuglia nazista e condotto a Stia, dove vennero fucilati nel locale cimitero. Oggi quel cimitero non viene più utilizzato per la sepoltura dei defunti ed è divenuto un luogo monumentale presso il quale possono recarsi i visitatori ad ammirarne la bellezza. Recentemente ristrutturato, il camposanto si trova in via Roma, e contiene un ampio spazio dedicato al ricordo dei 17 partigiani fucilati: è presente un monumento, due lapidi che indicano il luogo dove avvenne la fucilazione ed infine lungo il vialetto di accesso al cimitero sono presenti 17 piccole lapidi recanti il nome dei partigiani caduti[1].

 

Monumento ai 17 partigiani

 

Le 17 lapidi poste lungo il viale d’ingresso al cimitero

 

Da Stia ci dirigiamo verso sud percorrendo via Arno e svoltiamo a destra poco prima di arrivare a Poppi, all’altezza di Ponte d’Arno; dopo aver abbandonato la principale arteria del Casentino procediamo verso ovest attraversando gli abitati di Castel san Niccolò, Prato di Strada, Pagliericcio e Pratarutoli, fino ad arrivare a Cetica, situata sulle pendici del Pratomagno. In queste zone il 29 giugno 1944 gli uomini della XXIIª Brigata Garibaldi “Lanciotto” si scontrarono in un aspro combattimento con i reparti della Brandenburg. Diversamente da quanto solitamente avveniva durante la guerra di Liberazione, caratterizzata da imboscate e azioni di guerriglia, partigiani e nazisti si fronteggiarono in uno scontro frontale, noto come “Battaglia di Cetica”. Malgrado la disparità presente tra i due contendenti la neonata Brigata evidenziò un’ottima predisposizione militare ed organizzativa che sarebbe ulteriormente emersa nel corso della liberazione di Firenze.

Il 29 giugno 1944 reparti della Brandenburg camuffati da partigiani si avviarono in direzione di Cetica, questi vennero però tempestivamente individuati dalle sentinelle partigiane che si affrettarono a porre al riparo i civili ed organizzare una difesa del paese. Giunti a Cetica i tedeschi riuscirono a limitare l’efficacia del fuoco nemico utilizzando come scudo gli abitanti del paese, nonostante questo limite, gli uomini guidati da Aligi Barducci riuscirono ad impedire che venisse attaccato il locale mulino, fonte fondamentale di cibo per la Brigata. A fine giornata buona parte del paese portava i segni dello scontro, mentre tredici erano i civili caduti durante la battaglia. Una cifra certamente alta, ma che avrebbe potuto esser ancora più elevata in assenza della presenza partigiana in paese; nel caso Cetica fosse rimasta sguarnita si sarebbero potute ripetere le scene viste a Vallucciole, Partina e Moscaio qualche mese prima. La sera del 29 l’evento assunse maggior straordinarietà grazie all’imboscata che all’altezza di Pagliericcio una quindicina di uomini della Brigata tesero alle truppe naziste in ripiegamento, infliggendogli rilevanti perdite[2].

Le dimensioni dell’evento – probabilmente il più rilevante di tutto il Casentino insieme alla strage di Vallucciole – hanno portato alla costruzione di numerose lapidi e cippi dedicati alla memoria di coloro che il 29 giugno 1944 persero la vita. Il territorio è disseminato di testimonianze dell’evento, sia lungo strada di avvicinamento a Cetica, in particolar modo a Pratarutoli, sia nella vegetazione circostante Cetica, dove è possibile imbattersi nei cippi eretti in ricordo dei caduti. In questo caso limiteremo la nostra attenzione alla descrizione dei due principali monumenti dedicati all’evento. Nello spazio che separa l’ecomuseo del carbonaio, presso la Pro Loco “I tre confini” e la chiesa di san Michele è presente un cippo in ricordo degli uomini della “Lanciotto” caduti durante la battaglia, a fianco del quale è stato recentemente collocato un pannello informativo. A pochi metri di distanza è poi possibile poter osservare sulle pareti sempre della Pro Loco una lastra in onore dei civili che persero la vita, collocata ad appena due anni dall’accaduto, il 29 giugno 1946[3].

 

Cippo in onore dei componenti della “Lanciotto” caduti a Cetica

 

Lastra in ricordo dei civili che persero la vita il 29 giugno 1944

 

Da Cetica ritorniamo a fondovalle e procediamo in direzione sud fino ad arrivare a Soci, da dove seguiremo le indicazioni per Marciano, frazione di Bibbiena. In questo caso la lapide che stiamo cercando non è storicamente paragonabile ai monumenti precedentemente incontrati, ma nonostante ciò ha una notevole importanza poiché testimonia la cooperazione che partigiani e forze alleate misero in campo durante la guerra di Liberazione e che troppo spesso viene dimenticata. La lapide è dedicata ai partigiani Arpelio Cresti e Renato Ristori, caduti il 3 settembre 1944 nel tentativo di liberare Marciano alla testa di una pattuglia inglese. Il cippo non è facilmente individuabile sia perché si trova in una posizione marginale (di fianco a un piccolo cancello all’altezza della curva che precede l’ingresso a Marciano), sia perché è ormai inghiottita dalla vegetazione circostante. Il monumento è composto da due lapidi, una risalente al 1947 ed ormai illeggibile e una più recente, inglobata a quella originaria nel 1992. Al Ristori, medaglia d’argento al valore, è stata inoltre dedicata una lapide situata sotto il loggiato della Misericordia di Pratovecchio[4].

 

Monumento in ricordo di Arpelio Cresti e Renato Ristori

 

Dopo Marciano continuiamo a discendere la vallata fino a Rassina e svoltiamo a destra in direzione di Castel Focognano, superiamo il cartello che indica l’ingresso all’interno del comune e continuiamo lungo la strada principale fino a quando ci si imbatte in un monumento incastonato all’interno di un muro appartenente ad un’abitazione posta sulla sinistra. Il cippo in questione è dedicato ai quattro partigiani che il 4 luglio 1944 vennero impiccati lungo la strada che attraversa Castel Focognano.

La notte del 3 luglio alcuni membri della XXIIIª Brigata “Pio Borri” si diressero in direzione di Arezzo per recuperare del materiale bellico; sfortunatamente Giuseppe Ceccaroni, Elio Vannucci, Leonello Lenzi, Niccolino Niccolini e un ex prigioniero di guerra sovietico di cui non conosciamo il nome (non verrà impiccato, ma verrà deportato in Romagna) non erano a conoscenza di un contemporaneo rastrellamento nell’area che stavano attraversando e vennero fermati vicino a Terrossola e trasportati al Comando di Castel Focognano. Dopo esser stati percossi e interrogati senza alcun esito i partigiani vennero impiccati. L’impiccagione e la conseguente esibizione dei loro corpi aveva l’intento di intimorire la popolazione e di sconsigliare future azioni o forme di sostegno nei confronti della Resistenza. Durante l’esecuzione anche il partigiano Piero Pieri, precedentemente catturato dai nazisti, venne costretto ad osservare la tremenda scena. Riguardo un potenziale intervento da parte dei compagni dei partigiani tratti in arresto sono presenti due versioni che non necessariamente si escludono vicendevolmente, ma che possono con gradi differenti coesistere: i membri della XXIIIª Brigata “Pio Borri” sostengono che non intervennero a causa della rilevante presenza di forze tedesche all’interno del paese, mentre gli abitanti di Castel Focognano affermano che furono loro stessi a dissuadere i partigiani da un intervento per la paura di probabili ripercussioni nei loro confronti[5]. Il monumento venne inaugurato in occasione del ventisettesimo anniversario dell’accaduto, il 4 luglio 1971[6].

 

Cippo in ricordo dei quattro partigiani impiccati a Castel Focognano

 

Dopo aver visitato Castel Focognano ritorniamo sui nostri passi e da Rassina proseguiamo verso sud fino ad arrivare a Subbiano, il confine meridionale del Casentino, situato alle porte di Arezzo. Diversamente dagli altri comuni casentinesi a Subbiano durante la guerra di Liberazione non si verificarono stragi o altri fatti incresciosi. Dopo la liberazione di Arezzo (16 luglio 1944) il territorio venne interessato dall’arrivo del fronte e l’area compresa tra Subbiano e Capolona divenne terra di nessuno, contesa dalle fazioni rivali. Malgrado non si siano verificati eventi che abbiano segnato drammaticamente la memoria delle popolazioni locali a Subbiano è presente una lapide che testimonia l’ampio contributo che il comune ha fornito durante il secondo conflitto mondiale: si tratta di un enorme lapide suddivisa in due parti, quella posta più in alto ricorda i caduti della Grande Guerra, mentre quella sottostante riporta gli abitanti del comune caduti nel corso della seconda guerra mondiale. La sezione riguardante il conflitto conclusosi nel 1945 elenca 96 vittime suddivise in nove categorie diverse, riferenti alle modalità e alle tempistiche della loro morte. La lapide è situata all’incrocio tra via Verdi e via Martiri della Libertà, sulla facciata del municipio di Subbiano[7].

 

Lapide in onore delle vittime causate dalle guerre mondiali

 

A qualche minuto di distanza è poi possibile recarsi al locale cimitero, dove è presente una cappella dedicata ai caduti della Resistenza provenienti da Subbiano. Tra le quattordici lapidi all’interno della struttura sono state incluse quella di don Domenico Mencaroni, fucilato nei pressi di Anghiari nel 1944 e quella di Siro Rosseti, animatore della Resistenza nella provincia di Arezzo venuto a mancare nel 2004[8].

 

Cappella all’interno del cimitero di Subbiano dedicata ai partigiani caduti durante la guerra di Liberazione

 

Il nostro percorso si conclude ad Arezzo, al Monumento ai caduti della Resistenza, situato in piazza Poggio del Sole. L’imponente struttura, realizzata dallo scultore Bruno Giorgi, rappresenta la degna conclusione del nostro percorso grazie al suo forte impatto emotivo che ci ricorda la sofferenza e lo sforzo di coloro che combatterono e subirono l’occupazione nazifascista. Nella parte inferiore del monumento è riportata la frase di ringraziamento a coloro che sacrificarono la loro vita in nome della libertà, “il popolo della vallate aretine ai caduti della Resistenza”.

 

Monumento alla Resistenza

 

Note:

[1] https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-ai-17-partigiani-fucilati-il-17-4-44-al-cimitero-vecchio-di-stia/.

[2] F. Fusi, La 22° Brigata Garibaldi “Lanciotto” e la battaglia di Cetica (29 giugno 1944), https://www.toscananovecento.it/custom_type/la-22-brigata-lanciotto-e-la-battaglia-di-cetica-29-giugno-1944/.

[3] https://www.pietredellamemoria.it/search/keyword/Cetica/type/pietre/.

[4] https://www.pietredellamemoria.it/pietre/cippo-ad-arpelio-cresti-e-renato-ristori-marciano-di-bibbiena/.

[5] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, Quaderni dell’Istituto Storico della Resistenza Toscana, ed. Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 105-108.

[6] https://resistenzatoscana.org/monumenti/castel_focognano/monumento_a_ceccaroni_ed_altri/.

[7] https://www.pietredellamemoria.it/pietre/lapide-ai-caduti-di-subbiano-nella-seconda-guerra-mondiale/.

[8] https://resistenzatoscana.org/monumenti/subbiano/cappella_dei_caduti_partigiani/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nell’ottobre 2024.




Alla “scoperta” del Parco Memoriale della Torricella

Rivivere le emozioni, le paure e la tragedia di un conflitto diretto perpetuato per più di dieci giorni in una zona suggestiva e immersa nella natura. Questo è ciò che si propone di fare il Parco Memoriale della Linea Gotica, istituto nel 2003 grazie alla Provincia di Prato, alla Comunità Montana Val di Bisenzio, al Comune di Vernio e all’UNUCI di Prato, come luogo della memoria di una delle battaglie più cruente vissute dalla Val di Bisenzio, la battaglia della Torricella. L’obiettivo di questo museo aperto ed itinerante, oltre che il mantenimento vivido del ricordo, è la possibilità di dare al visitatore l’occasione di passeggiare tra i campi di battaglia, scorgendo i resti di trincee e postazioni tedesche immerse nel verde dei castagni, in una zona dal forte carattere suggestivo ed emozionale. Per raggiungerlo è possibile optare per due diverse tipologie di itinerari, una più impegnativa utilizzando “in prestito” due sentieri del CAI (Club Alpino Italiano) e un’opzione maggiormente tranquilla e meno impegnativa fisicamente.

Sentiero 1

  • Percorso: Piazza del Comune 20, San Quirico di Vernio, Prato (Mostra permanente della Linea Gotica) – Sentiero CAI 460 – Sentiero CAI 420Passo della TorricellaParco Memoriale della Torricella
  • Tempo di percorrenza: 2 ore
  • Distanza: 7,4 km
  • Dislivello: pianeggiante (+ 555 m – 145 m)

 

Il nostro percorso inizia dalla piazza del comune di San Quirico di Vernio. Qui, la domenica e su prenotazione, sarà possibile visitare la mostra permanente della Linea Gotica, organizzata dall’associazione Linea Gotica Alta Val Bisenzio A P S. La mostra racchiude tutta una serie di reperti inerenti alla battaglia della Torricella appartenenti ad entrambi gli schieramenti: dalle Deutsche Erkennungsmarken (piastrine tedesche) e U.S. Military Dog Tags (piastrine americane) agli elmetti fino a materiale medico di ogni genere e oggetti per la pulizia personale. Vi sono persino i pezzi del bombardiere statunitense B25, originariamente preposto al bombardamento di Cecina ma poi dirottato a causa della nebbia nella zona di Vernio per colpire la Direttissima che collega Firenze e Bologna per poi essere abbattuto dalla contraerea tedesca. Una piccola mostra quindi, ma che racchiude le immagini e gli oggetti di una delle battaglie più decisive della Val di Bisenzio. Una volta visitata il nostro consiglio è quello di proseguire in auto seguendo l’indicazione per Celle, imboccandosi poi a sinistra in una strada in salita per raggiugere la località di La Bandiera. Da qui sarà possibile proseguire a piedi immettendosi nel percorso CAI 460 [1], che percorre in quota tutto il crinale della Calvana. Prima ci troveremo di fronte alla fattoria del Cotone fino a raggiungere poi i ruderi della fattoria La Soda. Da qui sarà possibile ammirare un bellissimo panorama sulla Val di Bisenzio e ci potremmo inserire nel sentiero CAI 420 [2]. Giunti sul crinale si potranno notare i resti delle trincee della Linea Gotica. Mantenendosi sul sentiero CAI 420, alla fine del pianoro, dopo una breve discesa, si incontra il passo della Torricella, dove attraversiamo la strada asfaltata per arrivare fino al Poggio della Torricella, mèta principale dell’itinerario, e al Parco Memoriale omonimo, dove si trova il monumento a ricordo della battaglia.

 

Sentiero 2

  • Percorso: Montepiano – Sentiero CAI 420Passo della TorricellaParco Memoriale della Torricella
  • Tempo di percorrenza: 30 minuti
  • Distanza: 5,2 km
  • Dislivello: pianeggiante (+ 116 m – 126 m)

 

Il secondo percorso si presenta invece come un’alternativa facilitata e meno faticosa per il raggiungimento del Parco Memoriale. In questo caso consigliamo di partire da Montepiano imboccando la strada verso Barberino fino all’incrocio del sentiero CAI 420 (si trova circa 750 m prima dell’arrivo al Parco, in prossimità di un cartello che delinea la fine di Prato e l’inizio di Firenze), dove saremmo già ad un buon punto e vicini al Parco Memoriale.

 

 

Note

 

[1] Descrizione sentiero 460 CAI

https://www.caiprato.it/sentiero-460-cai-prato/

 

[2] Descrizione sentiero 420 CAI

https://www.caiprato.it/sentiero-420-cai-prato/

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nell’ottobre 2024.

 




“Il delitto Matteotti”. Presentazione.

Giovedì 31 ottobre 2024, ore 17.30 all’Accademia La Colombaria, presentazione del volume di
MAURO CANALI

IL DELITTO MATTEOTTI
Il Mulino editore, 2024

Saluti
GUIDO CHELAZZI

(Presidente Accademia “La Colombaria”)

Interventi

GIAN BIAGIO FURIOZZI
(Università di Perugia)

ARIANE LANDUYT
(Università di Siena)

Conclusioni
MAURO CANALI

­
­




Luoghi del tempo: la memoria in provincia di Grosseto (II edizione)

Il corso prevede una quota di partecipazione di 30 euro (è possibile utilizzare voucher generati con la carta docente). Per gli insegnanti del Liceo statale “A. Rosmini” il corso è gratuito.

I docenti possono iscriversi:

    1. Inviando per mail il buono creato con la Carta del docente
    1. presso l’ISGREC (Poderino dell’Agrario, Cittadella dello Studente) in contanti
    1. tramite bonifico su c/c intestato a Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea (IBAN: IT98W0885114301000000008002).

I corsi sono aperti anche ai non insegnanti, che possono iscriversi pagando in contanti presso l’ISGREC o con bonifico

INFO per iscrizioni e pagamenti: Isgrec, Cittadella dello studente, 0564415219, segreteria@isgrec.it




ARCHIVIO APERTO. L’Archivio del Movimento di Quartiere si apre alla città.

L’Archivio del Movimento di Quartiere di Firenze fa adesso parte del sistema bibliotecario del Comune di Firenze in seguito alla donazione effettuata dalla Associazione che nel gennaio 2005 lo costituì.
L’Archivio conserva la documentazione prodotta dai Comitati di Quartiere nati con l’alluvione che il 4 novembre 1966 colpì Firenze fino alla costituzione dei Consigli di Quartiere (che dal 1976 sono organi elettivi) e dai Doposcuola, Scuole Popolari, Comitati Genitori che, nello stesso periodo, dettero vita al Movimento “Scuola e Quartiere”.
L’Archivio è collocato da oggi al secondo piano della BiblioteCanova Isolotto nella sezione Storia Locale ed è accessibile al pubblico.

Lunedì 4 novembre 2024

ore 15
Visita guidata della mostra ‘Le radici della Partecipazione’ nei pannelli originali del 2006 (cm100x200) progetto grafico di Marco Capaccioli.

ore 16
Proiezione del video ’Le Radici della Partecipazione’, prodotto da Nicola Melloni
Presentazione del sito dell’Archivio www.movimentodiquartierefirenze.it a cura di Mauro Zaccariello

ORE 17
Assemblea straordinaria dei soci dell’Associazione ‘Archivio del Movimento di Quartiere di Firenze’, aperta al pubblicoù

Saluto di Paola Galgani, vicesindaca di Firenze

Interventi

Moreno Biagioni, presidente dell’Associazione ‘Archivivio del MdQ
Tiziana Mori, responsabile E.Q.Biblioteche del Comune di Firenze
Mirko Dormentoni, presidente del Consiglio di Quartiere 4

Martedì 5 Novembre 2024

ARCHIVIO APERTO

ORE 15
visita all’Archivio con la visione della mostra ‘Le radici della Partecipazione’ nei pannelli originali,

ore 16
Proiezione del video ’Le Radici della Partecipazione’,
Presentazione del sito www.movimentodiquartierefirenze.it

ORE 17

‘ I manifesti degli anni ‘60 e ’70: la comunicazione politica ieri ed oggi”

La collezione degli oltre 250 manifesti dell’Archivio adesso è visibile nel nostro sito, una preziosa e singolare raccolta che spazia tra antifascismo e pace, internazionalismo e lotte popolari, comitati di base e lotte femministe…

“sono le voci dei comitati di quartiere, dei movimenti spontanei sul territorio, dei Circoli e Case del Popolo, ma anche la voce dei grandi partiti di massa di allora (primo fra tutti il PCI), dei sindacati, dei primi Consigli di Quartiere e la ricerca (e questa, forse, può essere la particolare e preziosa caratteristica del territorio fiorentino) di intese, alleanze, fronti comuni tra movimenti, comitati, partiti, istituzioni…”

Presentazione di

Isanna Generali, Laura Grazzini, Mauro Zaccariello

Interviene

Simonetta Soldani, docente di Storia contemporanea

Nel corso delle iniziative di ARCHIVIO APERTO è possibile accedere a tutte le pubblicazioni edite dall’Archivio, a manifesti e depliant, prodotti, averli in omaggio oppure a prezzi speciali in offerta.

 




“La linea Gotica Occidentale nel 1944-45 tra liberazioni, occupazioni e resistenze”

Convegno Bagni di Lucca- Castelnuovo di Garfagnana.

24-25 ottobre 2024

“La linea Gotica Occidentale nel 1944-45 tra liberazioni, occupazioni e resistenze”

 

Nei giorni del 24 e 25 ottobre si terrà il convegno “La linea Gotica Occidentale nel 1944-45 tra liberazioni, occupazioni e resistenze”.

Nell’anno dell’ottantesimo Anniversario della Liberazione i due giorni di studio ruoteranno attorno alla fase finale della Campagna d’Italia, che si svolse a cavallo del sistema di fortificazioni costruito dai tedeschi tra Pisa e Rimini passato alla storia con il nome di Linea Gotica.

Il convegno, coordinato da Paolo Pezzino, Presidente dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, è volto ad approfondire il contesto nazionale nella sessione del 24 ottobre e la storia dei territorio della Garfagnana nella giornata del 25 ottobre.

 

 

L’Iniziativa è promossa dall’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Lucca, dalla sezione ANPI Valle del Serchio e Garfagnana, dall’ANPI Provinciale e dai Comuni di Bagni di Lucca e Castelnuovo Garfagnana. Il convegno è svolto anche in collaborazione con Regione Toscana e l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri.

 




Primavera/estate 1944: le vallate aretine grondano sangue

Dopo lo sfondamento di Montecassino degli Alleati, la ritirata delle truppe tedesche dalla Linea Gustav alla Linea Gotica si è portata dietro una lunga scia di sangue con una serie raccapricciante di eccidi, molto spesso pianificati da una strategia stragista.

La sensazione, che man mano diventava realtà, di non essere più un esercito invincibile, che il sogno di conquistare il mondo sarebbe rimasto tale, che la guerra si sarebbe persa, rese i nazisti, da Hitler all’ultimo soldato semplice, sempre più violenti e disumani. In più vi era quell’azione di guerriglia portata avanti dalle formazioni partigiane, atte a contrastare la loro ritirata, che logorava fino allo sfinimento il morale tra le file dei militari; militari già esasperati dalle condizioni di una guerra che per molti di loro si stava protraendo da quasi cinque anni, in giro per il mondo, lontano da casa e con la morte sempre ad un passo. E dall’alto del comando giungeva l’ordine di usare la mano pesante per debellare l’attività di coloro che venivano definiti “banditi”, ai quali, non essendo militari, non veniva riconosciuto nessun diritto delle leggi di guerra. Lo stesso Kesserling, comandate delle forze tedesche in Italia, era andato oltre auspicando un contegno durissimo ed intransigente anche verso i civili in quanto fiancheggiatori o possibili partigiani. Per lui il problema consisteva nel fatto che i partigiani non portassero la divisa per cui si poteva supporre che ogni civile fosse pronto a colpire facendo vivere i soldati tedeschi sotto continua minaccia. Il famoso “Befehl” del 17 giugno 1944, a sua ispirazione, redazione e firma che dice: “uccidete, e qualsiasi cosa vi accada vi difenderò, e se non vi scatenerete contro gli italiani vi punirò”, costrinse tutti i militari tedeschi a strafare.

E durante il passaggio del fronte di guerra nella provincia aretina il “Befehl” di Kesserling fu messo in pratica con una ferocia disumana che probabilmente andò anche oltre le intenzioni del comandante tedesco. Nessuna pietà né per donne, anziani e bambini, perfino un neonato di due settimane fu trucidato con una sventagliata di mitra. Nessuna pietà neanche per quella donna incinta che durante il tragitto della “marcia della morte” da Molin dei Falchi a San Polo stanca per il cammino si accasciò a terra e fu uccisa con il suo bimbo in grembo con un colpo alla pancia. Una follia rabbiosa che trovava nell’eccidio di esseri umani inermi la sua massima espressione e che a volte non aveva bisogno neanche di giustificazioni (se possono esistere giustificazioni) di ritorsioni per uccisioni nelle file tedesche. Si uccideva barbaramente per il solo gusto di uccidere, si uccideva solo perché gli italiani venivano considerati traditori: dal nonno al nipotino seppur innocenti ed estranei alla guerra per il solo fatto di essere italiani meritavano la morte…

Nel territorio aretino non avvennero grandi stragi per numero di vittime come a Marzabotto (oltre 800 vittime) o a Sant’Anna di Stazzema (560 vittime), ma si susseguirono una serie di eccidi, 42 per la precisione, sparsi per le colline e le campagne che nella primavera/estate del ‘44, in soli quattro mesi causarono quasi 1500 morti. Quel territorio costituiva l’ultimo baluardo per contrastare l’avanzata degli Alleati e dovevano resistere fintantoché non fosse ultimata la costruzione della Linea Gotica e quando le truppe tedesche lentamente si ritiravano facevano terra bruciata dietro a loro.

 

PERCHE’ LA MEMORIA NON SI CANCELLI

Nell’anno dell’ottantesimo Anniversario della Liberazione della provincia aretina, perché si tenga sempre alta l’attenzione e vivido il ricordo di ciò che è avvenuto, abbiamo individuato una sorta di “Sentiero Resistente” inteso come caduti per la Resistenza, dove narriamo e ripercorriamo alcune stragi meno note compiute nell’aretino. Nel corso di questo percorso andremo a visitare i vari monumenti dedicati alle vittime di quelle violenze compiute dai nazifascisti nell’estate del ‘44.

L’itinerario è lungo complessivamente 39 km, percorribili in automobile in circa un’ora, in bicicletta in due ore, oppure per i più “coraggiosi” amanti del trekking è possibile effettuarlo a piedi impiegando circa 8 ore di cammino.

 

Mappa del percorso

 

Le Tappe: Monumento ai caduti dell’eccidio di Badicroce – Monumento ai caduti dell’eccidio dell’Intoppo-Palazzo del Pero – Monumento ai caduti di Staggiano – Carcere di Arezzo – Cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio – Monumento ai caduti di San Leo – Monumento in memoria dell’eccidio di San Polo – Murales della Chiassa Superiore.

 

1° tappa: Monumento ai caduti dell’eccidio di Badicroce

Il nostro percorso inizia con la visita al monumento in ricordo delle 17 vittime civili trucidate dai tedeschi nella fattoria di Badicroce e nei suoi dintorni. Il monumento si trova in uno spiazzo al lato della strada provinciale che unisce Gambaronica a Palazzo del Pero.

Dalla metà di giugno questa era un’area di passaggio delle truppe tedesche che facevano la spola tra il fronte e il presidio di Arezzo. Una sera un ufficiale dopo essersi fermato a cenare alla fattoria aveva sparato in aria un colpo di pistola ottenendo come risposta una raffica di mitra in lontananza, segno inequivocabile che nella zona ci fossero uomini armati. Questo fu sufficiente a sospettare che il proprietario della fattoria, il dottor Alberto Lisi, fosse coinvolto con la Resistenza e a considerare la zona un ricettacolo di partigiani protetti dalla popolazione civile, cosicché nei giorni seguenti la morte di un soldato fece scattare subito la rappresaglia in quel luogo. Iniziarono mettendo a fuoco le case di contadini e boscaioli all’interno della tenuta eccetto la colonica detta “Aia vecchia”, che fu occupata dai tedeschi diventando la loro base logistica per i crimini dei giorni a seguire. Le stalle della casa furono adibite a centro di raccolta e detenzione, ma anche luogo di interrogatori e torture (e non mancarono in quelle stanze anche stupri per le malcapitate donne), per tutti gli abitanti e gli sfollati che furono presi in ostaggio durante le azioni di rastrellamento.

Il 3 luglio cominciava l’emorragia di civili: le prime vittime furono tre uomini arrestati a Palazzo del Pero e condotti a Badicroce per essere giustiziati e fino al 10 luglio caddero sotto i colpi nazisti diciassette persone (sei anziani, sette adulti, due donne e due bambini). Una delle donne era Olga Badini, giovane sposa sfollata ad Arezzo, la cui colpa fu solo quella di impedire, opponendosi energicamente, a due soldati tedeschi di usare violenza su alcune ragazze. I due inizialmente desistettero ma dopo alcune ore tornarono nella stalla dove erano reclusi gli sfollati, presero la Badini e la condussero fuori. Il suo cadavere fu trovato insieme ad altre vittime il giorno dopo la liberazione nel bosco con incredibili segni di violenza e con un fazzoletto alla gola, causa probabile di morte per asfissia[1].

L’opera in ricordo dell’eccidio è stata realizzata dagli studenti di terza dell’Istituto d’Arte “Piero della Francesca” di Arezzo, ed è stata inaugurata il 26 marzo 2011. La scultura rappresenta una donna che cerca di rialzare il corpo di un uomo, con accanto anche quello giacente di una ragazza. Sul basamento sono poste due targhe in metallo, una, quella a destra, in cui sono incisi i nomi dei caduti, l’altra, quella a sinistra, ha invece inciso il simbolo della Repubblica italiana, la dedica alle vittime e gli autori dell’opera.

 

Monumento eccidio Badicroce, a Pian di Usciano.

 

2° tappa: Monumento ai caduti dell’eccidio dell’Intoppo-Palazzo del Pero

Badicroce – Palazzo del Pero 3,4 km (4 minuti in auto, 46 minuti a piedi).

Proseguendo in direzione nord si oltrepassa l’abitato di Palazzo del Pero, in direzione Molin Nuovo e si arriva, dopo circa tre chilometri e mezzo, al monumento ai caduti dell’eccidio di Palazzo del Pero, posto in un ampio spazio nella parallela della strada statale 73.

In uno scontro a fuoco il 23 giugno, nelle vicinanze della fattoria Bianchini a Palazzo del Pero, fu ucciso un soldato della Wehrmacht. Immediata fu la reazione dei tedeschi che arrestarono il proprietario Domenico Bianchini insieme al figlio ed al nipote. Il mattino seguente furono rilasciati, ma un reparto tedesco, probabilmente appartenente alla polizia militare, tornò alla fattoria, catturò i contadini che stavano tranquillamente mietendo il grano e dettero fuoco ai loro poderi. Dal modo di comportarsi dei soldati si comprese fin da subito la gravità della situazione e che la loro azione di rappresaglia sarebbe stata molto dura e luttuosa. Infatti nove contadini vennero prelevati e portati nei pressi di una chiesa in località il Muraglione per essere giustiziati. A niente valsero le grida disperate dei parenti e le loro invocazioni di pietà per i propri cari cercando soprattutto di mettere in rilievo la loro innocenza. Il comandante del reparto fece rispondere all’interprete: “anch’io sono convinto della loro innocenza, come pure sono convinto che noi abbiamo perduto la guerra, però dobbiamo farli fucilare egualmente[2]. Quegli uomini vennero fatti allineare lungo la strada ed al comando uccisi con scariche di mitra.  La decima vittima, Giulio Bacci, fu sorpresa mentre tentava la fuga sulla via fra Maiano e Le Lastre. Sarà la madre il giorno dopo a ritrovare il corpo straziato del figlio sul ciglio della strada.

Due manufatti sono stati posti in tempi diversi in memoria della fucilazione di 10 uomini, tra civili e partigiani, avvenuta in questo luogo il 24 giugno del ‘44 per mano dei soldati tedeschi. Il primo, collocato a breve distanza dall’accaduto, è un cippo di pietra con incassata una lapide di marmo sulla quale sono riportati i nomi dei dieci caduti. L’altro monumento invece, posto nel cinquantesimo anniversario dall’eccidio, è costituito da un masso di pietra in cui è incastonato un bassorilievo che raffigura una Pietà in bronzo.

 

Monumento ai caduti dell’eccidio dell’Intoppo.

 

3° tappa: Monumento ai caduti di Staggiano

Palazzo del Pero – Staggiano 9,5 km (12 minuti in auto, un’ora e mezzo circa a piedi).

Dal monumento dell’eccidio di Palazzo del Pero torniamo indietro per pochi metri sulla strada provinciale e svoltiamo a destra prendendo la strada statale 73, per poi uscire dalla strada principale all’altezza del bivio con indicazione “Poti”; infine proseguiamo fino a Staggiano, una piccola frazione del comune di Arezzo, vittima di un altro eccidio nazista nel luglio del ’44.

Lungo la strada di fronte alla chiesa delle Sante Flora e Lucilla, in via Santa Fiora, si trova il monumento ai caduti di Staggiano, due lapidi di marmo nelle quali sono incisi i nomi dei caduti della prima e della seconda guerra mondiale.

L’11 luglio una pattuglia di soldati tedeschi giunse alla casa colonica Torri, situata in collina sopra il paese di Staggiano, in cui abitava la famiglia Carboni che aveva ospitato alcuni sfollati. Quel giorno era presente in casa anche un giovane capitato lì per caso che possedeva una pistola. Alla vista dei tedeschi egli si allontanò precipitosamente nascondendo l’arma sotto un covone di grano. Quel gesto non passò inosservato: il giovane fu catturato e la sua arma ritrovata. Ma nelle vicinanze vi era una compagnia della formazione “Pio Borri” guidata da Siro Rossetti, che si era attestata su Poggio Tondo, sopra Staggiano per prepararsi alla calata sulla città di Arezzo. I partigiani intervenuti prontamente per risolvere la questione riuscirono ad avere la meglio respingendo la pattuglia tedesca anche se nello scontro a fuoco persero la vita due suoi uomini. Inevitabilmente la ritorsione non tardò ad arrivare e dopo qualche ora i tedeschi ritornarono incendiando la fattoria, considerata una base dei partigiani, sterminarono il bestiame e fermarono sei uomini: i fratelli Angelo e Ferdinando Carboni, intenti a pascolare il gregge; Manlio, Alfonso e Alberto Mazzi, che si trovavano in casa ed il giovane Piero Poretti, il proprietario della rivoltella. Tutti quanti furono portati a villa Sacchetti, sede del comando tedesco, e qui barbaramente uccisi.  I loro corpi vennero rinvenuti quattro giorni dopo, il 16 luglio, giorno della liberazione di Arezzo, in una buca a Santa Fiora: “I corpi da quanto si poté constatare erano stati calcati a forza nella buca. In tasca a ciascuno era stata messa una quantità di esplosivo e si poté anche constatare che per rendere più tremenda la morte erano state sparate addosso a loro alcune fucilate con cartucce di pallini[3].

 

Monumento ai caduti di Staggiano

Nomi dei sei uomini caduti a Staggiano durante la Resistenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

4° tappa: Carcere di Arezzo

Staggiano- Arezzo carcere 5,5 km (10 minuti in auto, un’ora circa a piedi).

Da Staggiano proseguiamo in direzione nord-ovest verso Arezzo, prendendo via Anconetana fino a giungere nella zona del centro storico della città.

In via Garibaldi, distante dieci minuti dalla cattedrale dei Santi Pietro e Donato, troviamo la casa circondariale di Arezzo, dove il 15 giugno del ’44 vennero barbaramente trucidati, da componenti della Guardia Nazionale della Repubblica di Salò, Santino Tani (anima della Resistenza aretina), suo fratello don Giuseppe Tani e Aroldo Rossi, catturati il precedente 30 maggio nei pressi di Montauto (Anghiari)[4].

La cella dove i tre partigiani vennero sottoposti ad inaudite violenze e poi massacrati con decine di proiettili è oggi monumento nazionale. Nella lapide posta accanto alla cella sono raffigurati i loro volti, ritratti nei tre ovali apposti sulla sommità della lapide, che recita: “In odio alla libertà, qui furono imprigionati, straziati, uccisi Santino Tani, don Giuseppe Tani, Aroldo Rossi. La libertà risorta ne addita la fede e il sacrificio agli italiani”.

 

Targa posta accanto alla cella nel carcere di Arezzo dove vennero trucidati i tre partigiani.

 

5° tappa: Cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio

Arezzo carcere – Mulinaccio 2,3 km (6 minuti in auto, mezz’ora a piedi).

Si continua percorrendo via Giuseppe Garibaldi in direzione sud, per poi svoltare a destra all’altezza dell’incrocio con via San Lorentino e continuare per più di un chilometro fino ad arrivare al bivio con via Antonio Stoppani, svoltiamo a destra e proseguiamo fino a via Camillo Golgi, dove è visibile, prendendo una rampa pedonale, segnalata da un apposito cartello, che scende verso il torrente Castro, il cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio.

Il monumento inaugurato nel dopoguerra è stato restaurato, grazie ai parenti delle vittime, nel 2008.

La strage del Mulinaccio venne compiuta il 6 luglio del 1944, a dieci giorni dalla liberazione di Arezzo. Quindici uomini che stavano lavorando nei campi, residenti presso il podere il Mulinaccio, vennero presi dai tedeschi. Nonostante i giorni precedenti avessero intrapreso rapporti amichevoli con loro, i soldati quel 6 luglio li divisero dalle loro mogli e madri e li fecero camminare lungo il sentiero che porta verso il torrente Castro. Qui, poco oltre il guado, vennero uccisi a colpi di mitraglia e gettati in una fossa. Il giorno successivo gli stessi soldati ritornarono al podere intimando alle donne la partenza dalle case coloniche e comunicando loro la morte dei familiari, dicendo ripetutamente “Partisanen kaputt!”.  Le donne, non conoscendo la lingua, non capirono, e soltanto una settimana dopo si resero conto del crimine che era stato consumato scoprendo la fossa dei cadaveri.

Ancora oggi non si riesce a capire le motivazioni dietro a quella strage: la memoria locale suggerisce la motivazione della rappresaglia, ma per il partigiano e scrittore Enzo Droandi si tratta invece di “violenza ingiustificata” e non si esclude la possibilità che si possa parlare di “terra bruciata”: “i tedeschi erano esasperati e catturavano chiunque, vedendo partigiani un po’ ovunque e nelle donne vedevano delle informatrici ribelli[5].

 

Cippo ai caduti dell’eccidio del Mulinaccio.

 

6° tappa: Monumento ai caduti di San Leo

Mulinaccio- San Leo 2 km (cinque minuti in auto, venti minuti a piedi).

Procediamo in direzione est percorrendo via Fiorentina poi via San Leo e giunti all’angolo con via Gaetano Donizzetti scorgiamo in un’area verde al lato della strada il monumento ai caduti di San Leo.

Il 6 giugno 1944 in località San Leo la gendarmeria tedesca catturò tre giovani che riteneva partigiani e li passò immediatamente per le armi. Questi ragazzi, secondo il racconto del parroco di San Leo, don Guido Terziani, che li conosceva di persona, erano stati mobilitati contro la loro volontà dai repubblichini ed aggregati – come tanti altri giovani – all’esercito tedesco[6]. Successivamente decisero di disertare e andare in montagna con i partigiani, ma vennero catturati dai fascisti e consegnati ai tedeschi. Condannati alla fucilazione per diserzione furono condotti lungo il canale della Chiana (nei pressi della Chiusa dei Monaci), in una piccola valle: uno alla volta furono legati ad un palo, bendati e fucilati al petto.

Le vittime: Aldo Esalti di Rovigo, Bruno Greggio di Villadosa, Luigi Guerra di Bosco di Rubano, tutti ventenni, furono sepolti nel cimitero di San Leo. Sopra la tomba vennero poste tre croci di legno con i loro nomi incisi.

Nella lapide commemorativa figurano i nomi di altri tre giovani anche loro disertori che furono fucilati presso il ponte della Chiassa.

Il monumento ai caduti è composto da tre grandi stele rettangolari di pietra che poggiano su un comune basamento in muratura. Nella prima stele, dedicata ai sei disertori italiani fucilati dai tedeschi il 6 giugno ’44, vi è raffigurato un angelo che depone dei fiori in un prato costeggiato da dei cipressi e un’epigrafe che riporta i nomi dei fucilati. Le altre due stele invece sono dedicate, quella centrale, ai caduti della Grande guerra e, la terza, ai caduti della seconda guerra mondiale.

 

Monumento ai caduti di San Leo.

Stele in memoria dei sei disertori italiani fucilati dai tedeschi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7° tappa: Monumento in memoria dell’eccidio di San Polo

San Leo – San Polo 8 km e mezzo (12 minuti in auto, un’ora e cinquanta circa a piedi).

Dal monumento a San Leo prendiamo a ritroso via Fiorentina fino ad arrivare all’incrocio con viale Giovanni Amendola, dove svoltiamo a sinistra e proseguiamo in direzione nord-est percorrendo viale Filippo Turati. Giunti all’incrocio con via Buonconte da Montefeltro proseguiamo fino al bivio con via Fontebranda che percorriamo fino ad arrivare a San Polo.

La strage di San Polo  avvenne il 14 luglio del  ’44, due giorni prima della liberazione di Arezzo, e conta complessivamente 63 vittime. Fu un eccidio che si consumò a più riprese in diversi luoghi della stessa zona ed ebbe l’epilogo finale a San Polo presso villa Gigliosi. Rimane impressa nella Storia la terribile, raccapricciante violenza con cui si perpetrò questa strage ad opera dei nazisti che non risparmiarono neanche un neonato di due settimane.

 

Monumento in memoria della strage di San Polo.

 

8° tappa: Murales della Chiassa Superiore

San Polo – Chiassa Superiore 7,3 km (9 minuti in auto, un’ora e quaranta a piedi).

Da San Polo ci rechiamo ad Antria e intraprendiamo lo Stradone di Ca’ de Cio per svoltare successivamente all’altezza dell’incrocio della strada della Catona, che percorriamo fino ad arrivare al Murales della Chiassa, posto nel parco vicino al campo sportivo in ricordo dei due partigiani Giovan Battista Mineo e Giuseppe Rosadi, eroi della Chiassa che riuscirono ad evitare l’ennesima strage perpetrata dai tedeschi[7].

Una strage mancata:

Il 26 giugno del ’44 un colonnello tedesco, Maximilian Von Gablenz insieme al suo aiutante, vennero rapiti per la strada della Libbia da una banda partigiana autonoma capitanata da “il Russo” (erano partigiani slavi scappati dal campo di Renicci). Come rappresaglia il comando tedesco organizzò un rastrellamento di 500 civili (scesi poi a 209) che vennero rinchiusi nella chiesa della Chiassa, dando un ultimatum di 48 ore affinché fosse liberato l’ufficiale tedesco pena la fucilazione dei cittadini.

Il comando partigiano guidato da Siro Rossetti incaricò il partigiano siciliano Giovan Battista Mineo di farsi concedere una proroga di 24 ore e di riuscire a scoprire dove la banda partigiana teneva nascosto il colonello. Ottenuta la proroga, Mineo partì immediatamente alla ricerca dei partigiani che tenevano in ostaggio l’ufficiale tedesco riuscendo a trovarli nei pressi di Montercole, ad Anghiari, e dopo una lunga trattativa convinse “il Russo” a liberare il colonnello. Mineo con Giuseppe Rosadi e Bruno Zanghi, appartenenti alla banda del Russo, si misero in marcia verso la Chiassa portandosi appresso i due tedeschi. Dopo molte peripezie, quando ormai sembrava impossibile arrivare in tempo, i partigiani si fecero scrivere una lettera dal colonnello dove dichiarava che era stato liberato e presto sarebbe giunto presso il reparto tedesco. Mineo si mise subito in viaggio correndo verso la Chiassa e arrivò proprio mentre i primi ostaggi venivano portati fuori per la fucilazione. La lettera di Von Gablenz fermò così la strage e poco dopo arrivarono i partigiani con i due tedeschi.

 

Murales dedicato a Gianni Mineo e Giuseppe Rosadi.

 

Pieve di Santa Maria alla Chiassa. Qui possiamo trovare sulla sinistra della chiesa un’abitazione (si vede nella foto) con un’iscrizione che ricorda l’eroico gesto.

 

Ma in questo luogo, pochi giorni prima dalla strage mancata della Chiassa, il 23 giugno, i tedeschi avevano già giustiziato sei persone in segno di rappresaglia per l’uccisione di tre soldati tedeschi.

 

Lapide ai caduti dell’eccidio de “La Casina”, si trova affissa sulla parete esterna della villetta “La Casina”, un’abitazione privata ubicata sulle colline sovrastanti la Chiassa Superiore, dove si consumò la strage.

 

 

Questo fu il pegno da pagare per la popolazione della provincia aretina durante la ritirata delle truppe tedesche. Un sacrificio di vite umane per la Resistenza che sembrava interminabile: vittime di una violenza inaudita che non risparmiava niente e nessuno. Su su, paese per paese, borgo per borgo, porta per porta la furia barbarica nazista passava e livellava come una falce. In ogni luogo come belve feroci e affamate i tedeschi arrivavano balzando con i loro lanciafiamme, con i loro capestri, con i loro strumenti di sterminio, pronti ad impiccare, a fucilare, a torturare, ad incendiare, a massacrare, lasciando dietro di loro una lunga scia di sangue, di cenere e macerie.

 

NOTE:

[1] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 134.

[2]Citato in Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Tip. Badiali, Arezzo 1957. p. 486.

[3]Ivi, p. 505.

[4]La vicenda dell’uccisione dei fratelli Tani e Aroldo Rossi è stata ricostruita nelle pagine di “Una lira per tre vite” il libro scritto da Enzo Gradassi e Santino Gallorini.

[5]G. Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 133.

[6]A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, cit., pp. 482-483.

[7]Sull’eroica vicenda della Chiassa Superiore cfr. il libro di Martinelli Renzo, I giorni della Chiassa, Arti grafiche Cianferoni, Firenze 1946 ed il libro di Santino Gallorini, Vite in cambio: Gianni Mineo, il partigiano infiltrato, che salvò dalla strage la popolazione della Chiassa, Effigi, Arcidosso 2014.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di ottobre 2024.

 




LE CASE DEL POPOLO TOSCANE NELLA TORMENTA FASCISTA

Le fiamme che han distrutto le Case del popolo sono state l’inizio
d’un vasto incendio che minaccia di dar fuoco all’Europa.
(Angelo Tasca, 1938)

Non è certo un caso che, fra il 1920 e il 1923, anche in Toscana il primo obiettivo delle spedizioni fasciste, quasi sempre supportate dalle forze dell’ordine, furono le Case del popolo, costruite su iniziativa e con l’opera diretta dei lavoratori. Esse, infatti, dall’inizio del secolo rappresentavano, nelle città e forse ancor di più nelle campagne, un importante punto di riferimento per la socialità delle comunità locali e per le lotte della classe lavoratrice.
Le Case del popolo erano invise alla reazione filo-padronale in quanto offrivano occasioni di solidarietà e aggregazione sociale, alternative a quelle dell’osteria e della parrocchia. Al termine della giornata lavorativa e alla domenica, i lavoratori e le lavoratrici vi trovavano, oltre alla mescita, biblioteche popolari, spazi per pranzi sociali, feste, spettacoli, canto e ballo. Inoltre, vi si tenevano riunioni, inaugurazioni di bandiere dei sodalizi proletari e conferenze; talvolta erano anche sede delle Leghe operaie o bracciantili e, in qualche caso, della locale Camera del Lavoro.
Significativo il ritratto scritto dal repubblicano fiorentino Augusto Borchi nel 1921:

le case del popolo sono divenute oltre che i centri della mutualità soprattutto i centri della cultura e della educazione proletaria. Aggredirle costituisce dunque il peggiore dei delitti. Le case del popolo sono luoghi sacri e inviolabili poiché sono il simbolo di una fede che sopravanza le competizioni di potere. Davanti a esse si inchinino tutti gli uomini di onore e chi osa dichiararsi solidale con gli assassini di tali istituzioni sappia che egli non si qualifica soltanto un avversario del popolo ma anche e soprattutto un nemico della civiltà .

In tale ambiente, potevano quindi incontrarsi e confrontarsi lavoratori e lavoratrici di diverse categorie, così come aderenti alle rispettive tendenze politiche (sindacalisti, socialisti, anarchici, repubblicani, comunisti o senza partito), anche se talvolta la convivenza poteva essere problematica:

La scissione di Livorno, seguita in Empoli da gravi defezioni tra i socialisti, e perciò anche da una perdita di prestigio dei socialisti stessi nelle organizzazioni economiche, creò uno stato di tensione gravissima fra socialisti e comunisti. I socialisti empolesi, riunitisi dopo la scissione, decretarono immediatamente lo sfratto ai «secessionisti», sistematisi in due stanze della Casa del Popolo; per tutta risposta la «Guardia Rossa», passata armi, bagagli e bandiera ai comunisti, occupava la Casa del Popolo vietando il passo ai socialisti. Il dissidio in merito ai locali fu risolto con un accordo, che prevedeva l’uso del primo piano da parte dei socialisti e del secondo piano da parte dei comunisti .

Sin dal 1920 si registrarono le prime spedizioni fasciste contro le Case del popolo (talvolta denominate Case dei lavoratori, degli operai o del proletariato), ma fu soprattutto a partire dagli inizi del 1921 che furono sistematicamente assaltate e distrutte, così come le sedi di altri organismi associativi del movimento operaio e bracciantile quali Camere del lavoro, Società operaie di mutuo soccorso, Cooperative di consumo, Circoli libertari di studi sociali, Circoli socialisti di cultura, Circoli repubblicani e pure cattolici, Biblioteche e Teatri popolari: le distruzioni erano pressoché quotidiane ed estese ad ogni territorio, con centinaia di strutture rese inagibili, saccheggiate o date alle fiamme, con numerose vittime.
Solo nel primo semestre del 1921, secondo i dati forniti dallo storico fascista Chiurco, e ritenuti incompleti da Angelo Tasca, risultano distrutte dagli squadristi almeno 59 Case del popolo, così come 100 Circoli di cultura, 10 Biblioteche popolari e teatri, 53 Circoli operai e ricreativi.
Nelle stesse testimonianze degli squadristi vi si trova puntuale resoconto, come ad esempio nel diario dello studente Mario Piazzesi della Disperata di Firenze che vanta la “baldanza” nel devastare, senza difficoltà, molte Case del popolo durante le scorrerie per le campagne toscane e umbre.

CANNONATE CONTRO LE CASE DEL POPOLO

A copertura delle squadre “tricolorate” dei fascisti e dei nazionalisti vi era l’immancabile presenza di carabinieri, guardie regie e anche reparti del Regio esercito. Tale alleanza, in taluni casi, comportò persino l’impiego dell’artiglieria per espugnare alcune Case del popolo, come avvenuto a Siena il 4 marzo 1921 e a Casale Monferrato (AL) due giorni dopo. Analogamente, a Scandicci (FI) il 3 marzo era stata attaccata con mitragliatrici e un cannone da 75 mm. la sede della Società di Mutuo Soccorso costruita nel 1883 da operai, contadini, artigiani ed ex-garibaldini.
L’attacco del marzo 1921 alla Casa del popolo senese (che ospitava anche la Camera del Lavoro) fu sicuramente fra i più gravi. Per vincere la resistenza armata dei lavoratori che la difendevano, i fascisti ebbero bisogno dell’intervento dei carabinieri, affiancati da 200 soldati con due cannoni da 65 mm., mitragliatrici piazzate in piazza del Monte dei Paschi e due autoblindo. Contro la Casa del popolo furono lanciate bombe a mano, sparate alcune cannonate e almeno duemila colpi di fucile. Dopo la resa, i locali vennero incendiati con la benzina fornita dal Consorzio agrario; seguirono circa 80 arresti e violente rappresaglie. Questa la cronaca, pubblicata sull’«Avanti!» del 25 settembre 1921 (Dalla Toscana insanguinata):

Il segretario della Casa del Popolo [recte: Camera del Lavoro], Giulio Cavina, ora deputato [socialista], fu scovato nel suo ufficio a notte inoltrata e dopo che il cannone aveva operato una breccia nel muro dell’edificio operaio. Fu trascinato da basso, sotto i portici, percosso a sangue da tutti: i più feroci erano i carabinieri e gli ufficiali del Presidio. Quattro soldati, con baionetta inastata, furono messi alla sua guardia […] Intanto tutti gli ufficiali del Presidio, guidati dal capitano dei carabinieri Lucatelli, sfilarono davanti al Cavina strappandogli i peli della barba e schiaffeggiandolo. In breve […] fu tutto pesto e grondante di sangue e chiese un bicchiere d’acqua. Il capitano Lucatelli ed altri ufficiali dettero ordine che nessuno portasse l’acqua richiesta […] tutti i soldati e i carabinieri si dettero a bere il vino e i liquori presi nelle cantine della Casa del Popolo davanti al Cavina. Anche il capitano medico del Distretto, anziché curarlo […] si dette a dileggiarlo.

Il drammatico assedio sarebbe stato rievocato anche in versi dall’anarchica Virgilia D’Andrea nel 1922 :

Udite, udite, o miei compagni, a Siena
Città dolce e gentil romba il cannone.
Sessanta petti han fatto una catena
E d’ansia è la difesa e di passione.

Ma la bocca di fuoco arde sui volti
E s’apre un varco ne la Casa rossa:
Escono, i vinti, màdidi e sconvolti
E cadon, muti, su la terra smossa.

La difesa armata degli organismi e delle sedi del movimento d’emancipazione sociale rappresentò comunque un fatto abbastanza sporadico; si trattava infatti di una lotta impari non solo sul piano tattico, ma finanche su quello psicologico, come significativamente osservato da Angelo Tasca:

I lavoratori, al contrario, si agglomerano intorno alla loro Casa del popolo […] La Casa del popolo, la Camera del lavoro, sono il frutto dei sacrifici di due o tre generazioni, tutto il loro «capitale», la prova concreta del cammino compiuto dalla loro classe, e il simbolo ideale dell’avvenire sperato. I lavoratori vi sono affezionati, ed esitano, per istinto, a servirsene come se si trattasse di un semplice materiale di guerra.
Non si trasforma facilmente una casa in fortezza, se si tiene alla casa […] Per i fascisti la Casa del popolo non è che un bersaglio. Quando le fiamme si elevano da queste belle costruzioni, il cuore degli operai è straziato, invaso da una cupa disperazione, quasi paralizzato dall’orrore, mentre gli assalitori alzano grida selvagge di gioia. Di queste oasi di socialismo che coprono quasi tutta la pianura del Po, non resta più, alla fine della guerra civile, che un cupo deserto.

Pur essendo nate con spirito umanitario e di civile convivenza, le Case del popolo in numerose situazioni divennero comunque la sede ospitale e solidale per le prime organizzazioni unitarie dell’antifascismo militante, come avvenne ad Empoli dove, fin dal gennaio 1920, le ex-Guardie rosse costituirono, nella locale Casa del popolo, un corpo volontario armato per l’azione antifascista, mentre presso la Casa del popolo di Borgo Vittoria, a Torino, nel gennaio 1921, si riuniva la Federazione dei gruppi d’azione diretta rivoluzionaria, emanazione dell’USI (Unione sindacale italiana), con intenti sia difensivi che offensivi; altresì, sempre nel torinese, in alcune Case del popolo si organizzarono le squadre comuniste, come ad esempio, quella di Condove di Susa strettamente sorvegliata dalla polizia.
In seguito, dopo la loro comparsa a fine giugno 1921, gli Arditi del popolo difesero le Case del popolo e da queste furono accolti, così come ebbe a dichiarare Argo Secondari, loro fondatore:

fino a quando i fascisti continueranno a bruciare le case del popolo, case sacre ai lavoratori, fino a quando continueranno la guerra fratricida, gli Arditi d’Italia non potranno avere con loro nulla in comune. Un solco profondo di sangue e macerie fumanti divide fascisti ed Arditi.

Ad Ancona la sezione ardito-popolare si costituì presso la Casa del proletariato e a Roma la sede centrale degli Arditi del popolo fu la Casa del popolo in via Capo d’Africa; tanto che, in un’intervista a Secondari, pubblicata su «L’Ordine nuovo» del 12 luglio 1921, si poteva leggere il seguente commento:

Il tenente Secondari risponde alle mie domande con molta cordialità, ma anche con grande impazienza. Giungono ogni tanto dalla periferia dei giovani operai Arditi, che portano notizie, chiedono informazioni, ordini. Questa sera ha luogo una riunione di capi-centuria alla Casa del Popolo. È perfettamente naturale che gli «Arditi del popolo» si riuniscano alla Casa del Popolo.

Con l’avvento del regime fascista e in particolare nel 1923 – l’anno della grande repressione contro l’antifascismo – le poche Case del popolo superstiti furono chiuse d’autorità e requisite per essere destinate a Casa del Fascio o sedi rionali del Fascio, così come previsto dal Decreto Legge che nel 1924 impose lo scioglimento delle S.M.S. e delle associazioni similari. In questo modo, ad esempio, a le Case del popolo di Siena e Settignano (FI) divennero Case del Fascio, così come a Colle Val d’Elsa, dove la Casa del popolo e il modernissimo Teatro del popolo furono soppiantati rispettivamente dalla Casa del Fascio e dal Teatro del Littorio, mentre a Piombino la Casa del popolo diventò Casa d’Italia, nonché sede del Fascio (oggi Commissariato di Polizia).
In molte località della Toscana, per finanziare le Case del Fascio, i lavoratori, le operaie e i contadini furono inoltre costretti a versare contributi in denaro, acquistare azioni o prestare manodopera gratuita, onde evitare ritorsioni.
Parallelamente ai decreti prefettizi di scioglimento e alle chiusure violente di Case del popolo e S.M.S., i Fasci usavano convocare i consiglieri e i responsabili di queste esperienze di democrazia proletaria, così come di quelle indipendenti, per indurli, sotto minaccia, a rassegnare le dimissioni. L’associazionismo democratico fu quindi del tutto soppiantato dalle strutture dell’Opera Nazionale Dopolavoro, istituita con il Decreto legge n. 582 (significativamente datato 1° maggio 1925).
Il Dopolavoro operava, dichiaratamente, come organo di propaganda del regime, nel tentativo di affermare una propria politica sociale fra i lavoratori e i ceti popolari, attraverso paternalismo padronale e assistenzialismo demagogico, che ne confermava la subalternità. Nonostante una certa espansione, i Dopolavoro aziendali e Statali rimasero comunque – a differenza delle Case del popolo – istituzioni imposte e gestite dall’alto, in cui il «libero pensiero» era soppresso dal «clima spirituale della rivoluzione fascista».

IL PRIMO ASSALTO, LA PRIMA VITTIMA

Il primo assalto fascista ad una Casa del popolo in Toscana vide anche la morte di un suo difensore: il diciottenne Enrico Lachi (Monteriggioni 29 luglio 1902 – Siena 11 marzo 1920), figlio di Giulio e Giulia Pagni.
Nato in località Poggiolo (Fontesdevoli), la sua numerosa famiglia si era trasferita a Siena quando aveva quattro anni, in via Fiorentina 88. Giovanissimo, aveva iniziato a lavorare come operaio avventizio delle Ferrovie, subito attivo sul piano sindacale e politico, iscrivendosi al Fascio giovanile socialista “Andrea Costa” e partecipando allo sciopero ferroviario del gennaio 1920.
Quel 7 marzo 1920 si trovava in prima fila a difendere la sede della Casa del popolo di Siena, costruita e inaugurata nel 1905 con il determinante contributo della Banca Cooperativa Ferroviaria e su iniziativa di ferrovieri e tipografi. L’edificio, in via Pianigiani, ospitava anche la locale Camera del lavoro e comprendeva una Biblioteca popolare, un Teatro, un Caffè e altre attività commerciali.

Il 7 marzo 1920, approfittando di un corteo di protesta di ex-combattenti, i fascisti riuscirono a farlo parzialmente deviare verso la Casa del popolo, simbolicamente presidiata dai carabinieri. Infatti, i fascisti – armati – poterono vandalizzare i locali del Caffè, mentre i carabinieri bloccavano i pochi lavoratori schierati a difesa della Casa del popolo. In questa fase, in piazza della Posta, un appuntato dei carabinieri sparò con la rivoltella colpendo Enrico Lachi che stava affrontando un fascista. Soccorso all’interno del Caffè e subito trasportato all’Ospedale civico, Lachi sarebbe morto alle 0.45 dell’11 marzo, dopo giorni di sofferenze.

Contro le violenze dei fascisti e dei carabinieri, subito iniziò uno sciopero prima spontaneo e poi proclamato unitariamente dalla Camera del lavoro, dalla Sezione socialista, dal Circolo giovanile socialista, dal Circolo anarchico Germinal e dalla Federazione socialista. Lo sciopero risultò generalizzato e al comizio, tenutosi la sera dell’8 marzo, in piazza Umberto I (ora piazza Matteotti), intervennero gli onorevoli Grilli e Bisogni; il segretario della Camera del lavoro. Giulio Cavina; Meini per il Partito socialista e Guglielmo Boldrini per gli anarchici: comune fu l’accusa contro, oltre ai fascisti, tutte le autorità, di cui chieste le dimissioni. I funerali di Lacchi si svolsero sabato 13 marzo, con la partecipazione di quindicimila persone. Sin dalla sera precedente la sua salma era stata esposta presso il Circolo di Cultura della Casa del popolo. Tra le tante corone risaltava una con la dedica «Alla vittima del piombo regio. Le donne del popolo». Inoltre vi erano quelle del Personale di Macchina e Depositi Locomotive, del Personale Viaggiante, dei compagni di lavoro dell’Officina ferroviaria, dei Soci della Pubblica Assistenza. L’ultimo saluto fu affidato a Bisogni per i socialisti, a Boldrini per gli anarchici e a Carlucci per i giovani socialisti. Nei giorni seguenti gli Operai delle officine ferroviarie inviarono una lettera pubblica al dirigente reclamando spiegazioni sul licenziamento di Lachi l’indomani del suo mortale ferimento.
La sua tomba si trova ancora al cimitero del Laterino, appena dietro la cappella centrale.

La Casa del popolo di Siena avrebbe subito altri tre assalti: il 4 maggio 1920, il 4 marzo 1921 e il 23 maggio 1921; nel 1923, dopo l’avvento del fascismo, fu estorta e trasformata in Casa del Fascio. Dato che, dopo le devastazioni, l’edificio necessitava di lavori di ristrutturazione, la Casa del Fascio contrasse un mutuo con il Monte dei Paschi, ma il debito non sarebbe mai stato onorato. Per recuperare il danno, la Banca acquisì gli immobili gravati da ipoteca, e contemporaneamente acquistò Palazzo Ciacci, in via Malavolti, donandolo nel 1936 alla Federazione fascista. Quella che era stata la Casa del popolo venne quindi venduta al Consorzio Agrario a un prezzo irrisorio. Il Partito fascista mantenne la propria sede a Palazzo Ciacci sino alla fine; fu qui la famigerata Casermetta in cui, nel periodo della Repubblica Sociale, centinaia di oppositori al regime, ebrei e partigiani senesi furono imprigionati, interrogati e torturati.

Anche dopo la Liberazione, la Casa del popolo non venne mai restituita ai lavoratori senesi, e tutt’ora è sede del Consorzio Agrario; a Enrico Lachi, invece, è stata dedicata una piazza del quartiere senese di Petriccio.