Valtiberina: un itinerario fra i luoghi intrisi di storia e di memoria della Resistenza

Proposta per una gita nei primi tre comuni della Valtiberina, Monterchi, Anghiari e Caprese Michelangelo, ricordando per ogni luogo quanto accaduto durante la Liberazione dal nazifascismo: partenza da Monterchi fino ad Anghiari (spostamento in auto 10 minuti e in autobus in circa 15 minuti); si prosegue poi verso Caprese Michelangelo (22 minuti in auto, circa mezz’ora in autobus). In totale sono 25,6 chilometri.

Il percorso è possibile anche effettuarlo a piedi in circa 5/6 ore di cammino.

 

Mappa del percorso da Monterchi a Caprese Michelangelo.

 

1° Tappa

MONTERCHI

 

Monterchi è un paese della Valtiberina a ventotto chilometri da Arezzo ed è posto su un piccolo colle da cui domina il territorio circostante. È proprio quest’altura a dare il nome al paese, infatti era detta fin dall’antichità Mons Herculis (Monte di Ercole), da qui Monterchi.

Il comune è attraversato dalla strada statale, dalla Toscana all’Umbria, che durante la seconda guerra mondiale aveva un’importanza strategica notevole in quanto rappresentava una via di ritirata delle truppe tedesche.

Nella zona di Monterchi operavano diverse bande partigiane sempre sorrette ed assistite dalla popolazione locale sia da un punto di vista logistico che di sostentamento nonostante le continue requisizioni di vettovaglie e le razzie di bestiame con le quali i tedeschi tentavano di arginare questa preziosa collaborazione del mondo contadino.

Ricordiamo nel territorio di Monterchi la figura del parroco Don Fiorenzo Moretto che aderì all’antifascismo fin dall’ottobre ’42 scoraggiando i giovani del paese dopo l’8 settembre del ’43 ad arruolarsi nella repubblica sociale italiana (RSI) e mettendo a disposizione la sua canonica per nascondere armi e munizioni per i partigiani. Purtroppo quattro di questi giovani cattolici morirono per mano nazifascista subito dopo essersi arruolati nelle brigate partigiane: era il 26 giugno del 1944, quel giorno i tedeschi rastrellavano l’intera zona di Anghiari; la mattina venne fermato Sabatino Mazzi, giovane partigiano, e poco dopo, probabilmente a seguito di una spiata, fu la volta dei quattro giovani monterchiesi, Enrico Riponi, Francesco Franceschi, Tommaso Calabresi e Pasquale Checcaglini; essi avevano deciso di unirsi ai partigiani la mattina stessa ed erano passati da Anghiari per prendere contatto con le formazioni partigiane locali. Tutti e cinque furono giustiziati per impiccagione dopo essere stati interrogati e torturati[1].

Alvaro Tacchini in “Guerra e Resistenza nell’Alta valle del Tevere[2] ci racconta l’orribile fine che fecero questi poveri ragazzi: verso sera vennero impiccati con il fil di ferro ad un tronco d’albero poggiato su due colonne in prossimità del Valico della Scheggia, nel luogo nel quale oggi campeggia una lapide che li ricorda, a fianco di Villa La Speranza. Compiuta la carneficina appesero poi sulla testa della forca un cartello con la scritta “Partigiani puniti, camerati sparate”.

Da quella sera i tedeschi che passavano dal valico per scendere in Val di Tevere o in quella dell’Arno, fermavano il veicolo, leggevano la scritta ed ubbidivano all’invito, scaricando le pistole sui cadaveri ormai ridotti a brandelli di carne… era stato impedito anche ai parenti di rimuovere e dare degna sepoltura alle loro salme[3].

Finalmente qualche giorno dopo un gruppo di partigiani che passava di lì, nonostante il pericolo, riuscì ad appoggiare a terra i loro corpi, che furono poi bruciati all’arrivo delle truppe alleate ai primi di agosto. Uno di essi raccontò come andarono esattamente le cose: «In cima alla Libbia ci fermammo a staccare i cinque impiccati, fra i quali c’era il nostro compagno Sabatino Mazzi: lo seppellimmo nel piccolo cimitero di Colignola. […] Agli altri, per risparmiargli lo scempio delle soldataglie in transito, che scaricavano su quei poveri corpi i loro mitra, tagliammo le corde e li adagiammo per terra. Era l’unica cosa che potevamo fare»[4].

Oggi il percorso pedonale che attraversa il parco fluviale di Monterchi è stato intitolato “ai caduti martiri di Via Libbia” e in Piazza Umberto sulla torre civica sono poste tre lastre in memoria dei caduti di Monterchi nelle due guerre mondiali e una di queste è dedicata proprio ai cinque giovani partigiani traditi e barbaramente uccisi dai nazisti. Mentre nel cimitero locale è presente invece la tomba dei quattro partigiani.

 

Cartello del percorso pedonale del parco fluviale di Monterchi intitolato “ai martiri di via Libbia”.

 

Cimitero di Monterchi, tomba dei quattro giovani partigiani uccisi al Valico della Scheggia.

 

Lastra posta sulla Torre Civica in Piazza Umberto I a Monterchi in ricordo dei giovani monterchiesi uccisi per mano nazista.

Torre Civica, Monterchi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alcuni giorni prima della liberazione del comune, a Monterchi i nazisti fecero saltare l’antico ponte sul torrente Cerfone, obbligando con la forza alcuni civili a mettere le mine lungo le strade del capoluogo e per scongiurare una reazione da parte della popolazione e dei partigiani del luogo tennero in ostaggio una decina di capifamiglia in una casa nei pressi di via del Borghettino. Ma fortunatamente vennero rilasciati incolumi quando i soldati si allontanarono dal paese con l’avanzare dell’esercito alleato.

Il 26 luglio 1944 Monterchi venne liberata dalle truppe alleate.

 

Monumento ai Caduti di tutte le guerre di Monterchi, in via della Piaggia.

 

 

Da Monterchi si intraprende la Strada Provinciale 42 (SP42) e si procede in direzione nordovest per poi prendere dopo alcuni chilometri la Strada Statale 73 (SS73) ed infine la Valcelle San Lorenzo che ci porterà ad Anghiari, dopo circa dieci minuti di tragitto.

 

 

2° Tappa

ANGHIARI

 

Borgo situato a 429 metri di altezza sul livello del mare, su una dorsale che divide la Valtiberina dalla valle del torrente Sovara, posto all’estremo ovest della Toscana non lontano dal confine con l’Umbria. In questo luogo si combatté nel 1440 la mitica battaglia di Anghiari tra la Repubblica di Firenze e le truppe milanesi dei visconti, battaglia resa celebre da un murale di Leonardo Da Vinci oggi andato perduto.

Percorrendo la strada che da Anghiari conduce a Caprese Michelangelo si arriva alla minuscola frazione di Motina. Qui alla nostra destra era situato il campo di internamento di Renicci, uno dei peggiori campi di concentramento d’Italia per numero di internati e per i comportamenti tenuti dal personale di sorveglianza[5]. Inizialmente realizzato per ospitare prevalentemente prigionieri sloveni e croati, dall’agosto del 1943, con la caduta del fascismo e l’avvicinarsi delle truppe alleate, vi vennero traferiti anche i confinati politici, provenienti dalla colonia di Ustica, ed altre centinaia di confinati, fra cui gli anarchici, dalle colonie di Ventotene e Ponza.

 

Campo di Renicci, estate 1943.

 

Con l’arrivo dei prigionieri politici cambiò l’atmosfera nel campo ed iniziarono proteste, scioperi della fame e dimostrazioni. E dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43, quando diversi soldati italiani cominciarono a disertare alla spicciolata e dunque il servizio di guardia si era allentato, gli internati, temendo di cadere nelle mani dei nazisti, abbatterono i cancelli del campo e lo evacuarono in massa. Si parla di circa 5.000 fuggiaschi e molti di essi si unirono alle formazioni partigiane della zona. Per questo motivo agli inizi di novembre venne effettuato un capillare rastrellamento ad opera dei nazifascisti che investì tutto il territorio: dai monti della Valtiberina toscana ai due lati del Tevere, tra Caprese Michelangelo e il passo di Viamaggio. L’operazione si proponeva di ripulire tutta la zona dalla variegata comunità di fuggiaschi che vi avevano trovato rifugio: oltre agli internati slavi, vi erano anche renitenti e disertori italiani ed ex-prigionieri anglo-americani. Ma il rastrellamento produsse risultati molto modesti, anche perché la popolazione continuò a mostrarsi sempre solidare con gli uomini alla macchia[6].

Per decenni il luogo nel quale si trovava il Campo di Renicci è rimasto sepolto nella memoria storica, fino a che, nel 2009, all’interno dell’area del campo è stato realizzato un giardino[7], che ospita ogni anno le celebrazioni legate alla Giornata della Memoria. All’interno del giardino sono riportati dei cartelloni che spiegano la storia del campo di concentramento e un monumento realizzato dagli studenti dell’Istituto d’Arte di Anghiari.

 

Ingresso del giardino della memoria, Anghiari.

 

Cartello informativo.

 

A lato della strada provinciale della Libbia è posta una lapide commemorativa all’interno di una piccola area di rispetto per ricordare l’atroce eccidio al Valico della Scheggia di quei cinque giovani partigiani di Monterchi di cui abbiamo narrato i fatti nella tappa precedente.

 

Lapide in memoria dell’eccidio al Valico della Scheggia, Anghiari.

 

Anghiari a metà luglio del ‘44 si ritrovava poco più a sud della Linea Gotica e forti erano i combattimenti nell’area di Arezzo che era stata appena liberata dagli Alleati. In questo contesto di forte presenza militare a causa della vicinanza del fronte, a Tortigliano, una frazione del comune di Anghiari, il 17 luglio 1944 si verificò un brutale episodio: don Domenico Mencaroni, giovane parroco di Toppole a Verrazzano, venne fucilato dai tedeschi dopo essere stato pesantemente percosso per farsi rivelare informazioni riguardanti i partigiani. Egli era da tempo ricercato per gli stretti rapporti di collaborazione che aveva con i partigiani della zona e per il sospetto che conservasse copie dell’“Osservatore Romano” e dell’“Avvenire” con articoli di contenuto ostile al nazionalsocialismo[8]. Il suo contributo era risultato in più di un’occasione determinante per la riuscita delle azioni di guerriglia.

Chi oggi volesse conoscerne il volto lo trova raffigurato nella lapide collocata nel decennale della fine della guerra all’interno dell’ex Seminario di Sansepolcro (l’attuale scuola di Ragioneria). Mentre in località Subbiano (confine meridionale del Casentino) nel cimitero locale è presente una cappella dedicata ai caduti della Resistenza ed una delle quattordici lapidi è proprio quella di don Domenico Mencaroni.

Un altro sacerdote attivo sempre ad Anghiari che trovò la morte il 15 giugno del ’44 nel carcere di Arezzo fu il parroco di Casenevole, don Giuseppe Tani, fratello di Sante Tani, capo della Resistenza aretina. Egli era stato arrestato alla fine di maggio insieme al fratello e ad Aroldo Rossi, entrambi partigiani aretini rifugiatisi nella sua canonica. A lungo sottoposti a interrogatorio e torturati in carcere, i tre prigionieri furono fucilati insieme ad altri tre partigiani che tentarono di farli evadere.

Il 16 agosto ad Anghiari arrivarono i tanto attesi liberatori: un distaccamento alleato composto da polacchi ed indiani. Ma purtroppo i lutti e le sofferenze non erano finiti… due giorni dopo esplose un ordigno ad alto potenziale, nascosto dai nazisti in ritirata nel pozzo della caserma dei carabinieri, provocando la completa distruzione dell’edificio e causando la morte di 17 persone fra carabinieri e civili.

Antonio Ferrini, subito sopraggiunto, così racconta: “Al posto della caserma non si scorgeva che qualche rudere fumante ed un ammasso di macerie cosparsi di frammenti di carne umana e di arti troncati; rimasi come pietrificato dinanzi ad un sì orrendo spettacolo, accorsero altre persone ed allora mi riscossi, ponendomi con esse a ricercare e liberare i corpi affioranti di carabinieri e civili semisepolti, straziati nelle carni dalla terribile esplosione[9].

Sulla tragedia di Anghiari sottolinea Alvaro Tacchini nel suo libro “Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere”, incombono ancora dubbi e sospetti, in quanto da giorni si sapeva che i nazisti avrebbero piazzato una bomba nella cisterna dell’edificio e forse questo rischio fu gravemente sottovalutato[10].

Sul luogo del misfatto è oggi posto un cippo per ricordare qui tragici fatti

 

Cippo in memoria della strage collocato in via Nova, vicino ai giardini.

 

Da Anghiari prendiamo la Strada Provinciale 47 (SP47) e la percorriamo per circa venti minuti fino ad arrivare a Caprese Michelangelo.

 

3° Tappa

CAPRESE MICHELANGELO

 

Caprese Michelangelo è un paese circondato da splendidi boschi a nord-est dell’Alpe di Catenaia che deve il suo nome al famoso pittore che vi nacque nel XV secolo. Da questo paese si accede a numerosi sentieri dell’Alpe sul versante della Valtiberina.

Oltre che per la natura che la circonda Caprese Michelangelo è nota per l’antica tradizione della coltivazione delle castagne, un tempo principale fonte di sostentamento della popolazione locale. Ed è proprio in quei castagneti che trovarono rifugio e nascondiglio, durante la seconda guerra mondiale, centinaia di slavi e croati, fuggiti dal vicino campo di internati civili di Renicci d’Anghiari, all’indomani dell’8 settembre ‘43, dove sostarono alcune settimane prima di disperdersi nelle macchie appenniniche o di raggiungere la riviera adriatica per tentare il loro ritorno in patria. Ricevettero aiuto e sostentamento da tutta la popolazione capresana che era solita dare asilo a fuggiaschi e perseguitati. Tutti i giorni le famiglie consideravano un loro dovere cristiano il portare una minestra calda e un tozzo di pane ai rifugiati[11]. Il parroco di Sigliano nel suo diario così scriveva: “I fuggiaschi si annidavano nei boschi vicini, ma non tardarono a venire, spinti dalla fame nelle nostre case, e tutti si fece a gara nel prodigare a loro aiuti ed assistenza. Devo dire, in verità, che si comportarono assai bene, si contentarono di quello che si poteva dare loro e si mostravano educati e rispettosi. Feci amicizia con molti e tenni la mia tavola apparecchiata per loro ogni volta che venivano[12].

Questo moto di solidarietà trovò immediato sostegno anche nel Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista di Arezzo che promosse l’assistenza ai prigionieri alleati e slavi evasi dal campo di Renicci e da quello di Laterina.

Gli slavi di Renicci rappresentarono una componente di rilievo del movimento di Resistenza dell’Appennino umbro-tosco-marchigiano: nel dicembre del ’43 coloro che erano rimasti ancora nei boschi di Caprese costituirono due bande agguerrite per combattere a fianco dei partigiani aretini fino alla Liberazione.

Il 14 giugno 1944 in uno scontro a fuoco presso Chiusi della Verna alcuni partigiani slavi uccisero un tedesco e come risposta i nazisti scatenarono la loro rabbia contro la popolazione inerme di Chiusi ammazzando dieci civili innocenti e quanti incontrarono per la strada provinciale che scendeva verso Pieve Santo Stefano, secondo la loro legge che per ogni tedesco ucciso bisognava ammazzare dieci italiani. Alcuni soldati tedeschi di passaggio su un camion lungo l’arteria uccisero i due fratelli Elmo e Quinto Romolini abitanti di Caprese Michelangelo. Essi commerciavano in uova e legname e stavano scendendo a piedi all’alba del 14 giugno a Pieve Santo Stefano per il mercato[13].

Nel luogo dell’uccisione dei due fratelli lungo la strada provinciale 208 della Verna che conduce a Pieve Santo Stefano è stato eretto un cippo commemorativo.

 

L’iscrizione sul cippo così recita: “In una triste sera di sangue, il 14 luglio 1944, trucidati dal ferro tedesco caddero qui i fratelli Elmo e Quinto Romolini, senza un saluto delle famiglie in attesa, senza sapere perché morivano”.

 

Il 13 aprile del ’44 il territorio di Caprese Michelangelo fu investito da un massiccio rastrellamento volto ad eliminare la presenza partigiana dalle posizioni della Linea Gotica. Vi fu un duro scontro tra slavi e nazifascisti, nel corso del quale persero la vita, per proteggere la ritirata dei propri compagni nella boscaglia, lo studente sloveno Dusan Bordon e il russo Pjotr Fesiipovic.

Il 13 aprile 2024, a ottant’anni esatti dalla loro uccisione, è stato inaugurato, presso Samprocino, nei pressi di Caprese Michelangelo, il monumento ai partigiani caduti in combattimento che hanno dato la loro vita per la libertà.

 

Monumento ai partigiani Dusan Bordon e Pjotr Fesiipovic caduti in combattimento, Caprese Michelangelo.

 

Il territorio di Caprese Michelangelo per tutto il mese di agosto durante la ritirata dei nazisti e l’avanzata dell’esercito alleato fu teatro di scontri con bombardamenti aerei e fuoco incessante delle opposte artiglierie. Nel corso delle operazioni furono distrutte e danneggiate gran parte delle case del paese. Il capoluogo fu liberato il 24 agosto ma le operazioni nel vasto territorio comunale continuarono fino alla fine del mese.

 

Monumento ai Caduti di tutte le guerre a Caprese Michelangelo, in via Capoluogo, posizionato in un’area verde a lato della strada.

 

 

NOTE:

[1] Giuseppe Bartolomei, I sentieri della guerra. Zibaldone di voci, di impressioni e di notizie sulla guerra in Valtiberina e dintorni, ITEA Editrice, Anghiari 1994, pp. 119-22.

[2] Alvaro Tacchini, Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.

[3] Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Tip. Badiali, Arezzo 1957, p. 487.

[4] Valico della Scheggia, Anghiari 26 giugno 1944 in https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3570

[5] Cfr. Giorgio Sacchetti, Renicci 1943. Internati anarchici. Storie di vita del campo 97, Aracne, Roma 2013.

[6] Ivan Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana: la storia, la memoria, Pagnini, Firenze 1994, p. 20.

[7] Il Giardino fu istituito su iniziativa promossa dal Comune, in collaborazione col Teatro di Anghiari, Compagnia dei Ricomposti, Mea Revolutionae, ANPI, Istituto d’Arte, Associazione Cultura della Pace, e con la messa in opera delle sculture di Gianfranco Giorni.

[8] Tersilio Rossi, La valle dei castagni. Memorie di lotta partigiana tra i monti di Caprese, ILA Palma, Palermo-Sào Paulo 1986, pp. 226-7.

[9] A. Tacchini, L’esplosione della caserma dei carabinieri ad Anghiari, in Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, cit., https://www.storiatifernate.it/id/lesplosione-della-caserma-dei-carabinieri-ad-anghiari/

[10] Ibidem.

[11] Lorenzo Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina in La Resistenza dei cattolici sulla Linea Gotica, (a cura di) Silvio Tramontin, Edizioni cooperativa culturale “Giorgio La Pira”, Sansepolcro 1983, p. 172.

[12] A. Tacchini, Gli internati slavi di Renicci: fuga e solidarietà popolare, in Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, cit., https://www.storiatifernate.it/id/partigiani-slavi-nel-capresano/

[13] Sull’uccisione dei fratelli Romolini di Caprese Michelangelo cfr. T. Rossi, La valle dei castagni, cit., pp. 217-25; e Fiori Giovannino (a cura di), La memoria della gente comune. Nel cinquantesimo Anniversario della Liberazione di Caprese Michelangelo, ITEA, Anghiari 1994, pp. 114-5.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di novembre 2024.




Matteotti a Siena

Nel fine settimana che precede il Natale 1920, si tiene a Siena il congresso provinciale del Partito socialista: le elezioni amministrative sono state vinte quasi ovunque (tranne che nel capoluogo) ed ora ci sono i Comuni da amministrare e dei compagni che nella gran parte dei casi non sono molto preparati.

Il Partito invia a Siena alcuni deputati e tra di loro c’è Giacomo Matteotti, uno che in tema di finanze e di istruzione non ha niente da imparare da nessuno.

Su quanto però i socialisti senesi abbiano ascoltato Matteotti è lecito nutrire dubbi, essendo l’attenzione di tutti rivolta all’ormai prossimo congresso di Livorno.

Non è la prima volta che Matteotti passa per Siena: lui e la moglie Velia, ambedue appassionati dell’arte senese, erano stati attratti non solo dal Palazzo comunale ma anche dalle tante botteghe artigianali, comprese quelle dei bravissimi falsari del tempo.

Quando due anni e mezzo dopo Matteotti tornerà a Siena, la sua vita e quella della sua famiglia saranno ormai completamente stravolte.

Giacomo arriva in città alla fine di giugno 1923, proprio nei giorni che precedono il Palio, reduce da un non facile viaggio tra i compagni siciliani, pesantemente sorvegliato dalla polizia. Rientrando a Roma in un momento in cui i lavori parlamentari sono sospesi, egli scrive a Velia proponendole qualche giorno da passare assieme “in Lucchesia o in Umbria”; poi si eclissa e lo vediamo spuntare in segreto a Siena. Lo ha preceduto Velia, arrivata da Milano con un gruppo di amici di cui fanno parte, quasi certamente, la sorella ed il cognato, anche loro consapevoli di quanto sia opportuno farsi notare il meno possibile.

A Siena è stato allertato il cavaliere del lavoro, Giovanni Romei, affermato industriale del ferro e forse grazie a lui il gruppo trova alloggio all’Hotel Royal, dalle cui finestre si possono scorgere i giardini della Lizza e la statua equestre di Garibaldi. Velia e Giacomo visitano di nuovo la città e di certo si recano al negozio di ferri battuti di Pasquale Franci, che si trova proprio dove si esce dalla Piazza del Campo per risalire via del Casato: lì acquistano una lumiera per la casa che stanno arredando a Roma.

Poi i due visitano certamente qualche palazzo o qualche chiesa ed ancora le botteghe artigiane: falegnami, pittori, decoratori i cui lavori riportano a secoli passati, quelli della grande arte senese. Ovunque essi si presentano come “signori Steiner”, usando il cognome del cognato milanese.

Sono giornate abbastanza convulse: in città, acclamato dal popolo, c’è il ministro dell’istruzione pubblica, Gentile, chiamato a garantire la sopravvivenza della locale università minacciata da possibili riforme.

Ci sono i deputati locali, a cominciare dall’avvocato liberale Gino Sarrocchi, protagonista alla Camera di duri scontri con Matteotti.

C’è Dario Lupi, sottosegretario di Gentile, l’uomo che ha inventato i parchi della rimembranza e che soprattutto ha riportato il crocifisso nelle aule scolastiche.

E poi Cesare Rossi, il segretario della presidenza del consiglio, che un anno dopo si sarebbe personalmente occupato del rapimento e dell’uccisione di Matteotti; con lui presumibilmente gente del mondo della milizia.

Probabilmente però nessuno di loro si accorge della scomoda presenza di Matteotti: del resto su quanto poi accadrà, ogni giornale ed anche il prefetto danno versioni diverse.

In ogni caso, nel pomeriggio del 2 luglio, mentre la comitiva si divide per trovare posti da cui assistere alla corsa, Matteotti viene individuato, aggredito e rapidamente allontanato da Siena.

Come era accaduto nel 1921, in occasione della clamorosa aggressione avvenuta a Castelguglielmo, nel Polesine, Matteotti non ama fare clamore sulla violenza subita, dunque non si sofferma sull’episodio senese. Pochi giorni dopo c’è però la visita del Romei a Montecitorio, per il desiderio di  stigmatizzare l’accaduto e portare solidarietà a Matteotti; ci sono soprattutto le lettere scambiate nei giorni seguenti con Velia a dimostrare come l’aggressione subita avesse aumentato i timori della donna.

In seguito, né Giacomo, che avrebbe comunque continuato ad affrontare con infinito coraggio il regime, né Velia che con un coraggio ancor maggiore avrebbe continuato ad amare e sostenere il marito, avrebbero potuto farsi illusioni sulla fine della loro storia. Basta scorrere i resoconti apparsi sui giornali, cominciando da quello sprezzante pubblicato sul «Popolo d’Italia», firmato con uno pseudonimo che può appartenere solo ad uno dei fratelli Mussolini.

Siena ricorrerà nelle vicende di Matteotti giusto il giorno seguente il rapimento: la prima notizia del fatto appare sull’edizione serale del «Corriere della sera», 12 giugno 1924, e riporta il disperato invito di Velia a cercare Giacomo o a Siena o dalla madre, a Fratta Polesine.

Oggi è comunque bello ricordare quanto Cesare Biondi, noto medico e professore dell’Università senese, scrisse in quei giorni a Filippo Turati: “Ricordo, guardando da una finestra del mio studio la Torre del Mangia e le ondulazioni cretacee della campagna senese, come proprio l’ultima volta che vidi Matteotti parlammo di Siena e del fascino mistico di questa campagna silenziosa… egli conosceva bene l’arte senese ed io gli avevo detto che in un momento più sereno gli avrei mostrato qualcosa che egli non conosceva, in qualche cantuccio inesplorato, e che avremmo goduto insieme”.




I luoghi del fascismo in provincia di Lucca. Presentazione del progetto.

Martedì 26 novembre ore 17.00, Palazzo Ducale, Lucca.




COL NOME DEL DELIRIO

Per ricordare la figura di Franco Basaglia a cento anni dalla nascita, iniziativa promossa dalla Fondazione Macinaia, l’Azienda USL Toscana-Centro
in collaborazione con COMUNE DI SAN CASCIANO VAL DI PESA e con il patrocinio di Cesvot.

GIOVEDÌ 12 DICEMBRE 2024

ORE 20,45

al Teatro Niccolini

a San Casciano Val di Pesa (FI)
COL NOME DEL DELIRIO

proiezione alla presenza degli autori

Bianca Pananti, SImone Malavolti e Leonardo Filastò




Rinnovato il Protocollo decennale fra ISRT e Regione Toscana

La Regione Toscana conferma le proprie radici valorizzate con la firma del rinnovo del Protocollo decennale con il nostro Istituto avvenuto la mattina del 20 novembre 2024 presso la sede dell’ISRT in via Carducci. Eugenio Giani, primo presidente di Regione in visita in questa sede, ha potuto ammirare alcuni fra i documenti che conserviamo. Come ha ricordato il presidente dell’istituto Vannino Chiti, conservazione e valorizzazione del patrimonio librario e documentario, ricerca e divulgazione storica, didattica e formazione sono finalità e azioni essenziali del nostro impegno quotidiano, rafforzato dal sostegno assicurato dalla Regione. Presenti alla firma i vicepresidenti Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea Andrea Morandi e Valeria Galimi, il direttore Matteo Mazzoni, il personale.




“Riflessioni sulla violenza” di G. Sorel. Presentazione in Palazzo Vecchio.

Venerdì 29 Novembre ore 16,30, presso la Sala Firenze Capitale in Palazzo Vecchio, a Firenze, presentazione della nuova edizione del volume di Georges Sorel “Riflessioni sulla violenza”.

L’iniziativa è organizzata dall’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea col patrocinio del Comune di Firenze.

Saluti Istituzionali: Cosimo Guccione (Presidente del Consiglio Comunale di Firenze).

Interventi di: Roberto Pertici (Università degli Studi di Bergamo), Alfonso Musci e Fabio Martini (curatori del volume).

Modera: Riccardo Saccenti (ISRT).




Presentazione del volume a cura di Christian Raimo “ALFABETO DELLA SCUOLA DEMOCRATICA”




Presentazione del libro “La spagnola in Toscana. Saggi sulla pandemia influenzale del 1918-1920” a cura di Francesco Cutolo