Presentazione di “Le Brigate Rosselli nella Resistenza a Firenze”

Giovedì 20 aprile 2023, alle ore 17

allo Spazio Rosselli, via degli Alfani 101r, Firenze
presentazione del Quaderno del Circolo Rosselli n.1-2/2023

“Le Brigate Rosselli nella Resistenza a Firenze” di Luca Menconi
(Pacini ed.)
Interventi di:
Alessandra Campagnano, Tesoreria Comitato Fiorentino per il Risorgimento
Matteo Mazzoni, Direttore Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea
Luca Menconi, Dottore di ricerca
Presiede:
Valdo Spini, Presidente Fondazione Circolo Rosselli




25 aprile: cerimonia del Comune di Barberino Tavarnelle

78° anniversario della Liberazione
Cerimonie di deposizione delle corone ai monumenti ai caduti
ore 8:15 Vico d’Elsa
ore 8:45 Barberino
ore 9:00 Tavarnelle Largo caduti nei lager
ore 9:30 San Donato in Poggio
ore 10:00 Sambuca Val di Pesa
ore 10:45 Pratale
ore 11:15 Marcialla
ore 11:45 Tavarnelle Piazza Matteotti e corteo fino a Via 23 Luglio 1944 con la partecipazione della Filarmonica G. Verdi di Marcialla
Interventi di:
David Baroncelli, Sindaco
Matteo Mazzoni, Direttore Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea
Letture di Massimo Salvianti e degli alunni della Scuola Secondaria coordinati dalla Prof.ssa Lucia Salvietti




Antifascista per sé: Cristina Lenzini (1903-1944)

In seguito ad un accanito rastrellamento operato da ingenti forze tedesche contro la formazione, l’Ardemanni che proteggeva con la mitragliatrice il ripiegamento dei suoi compagni, veniva colpita gravemente da un colpo di mortaio nemico per cui decedeva all’istante.”[1] Con queste parole la Commissione regionale per il riconoscimento partigiano attribuisce a Cristina Lenzini in Ardimanni la qualifica di partigiana combattente caduta[2].

L’8 agosto 1944 sul monte Gabberi le compagnie III e IV della X bis brigata Garibaldi “Gino Lombardi”, guidate da Bandelloni, Palma e dal Porto, sono impegnate contro nazisti e fascisti per la seconda volta nel giro di pochi giorni dopo gli scontri sul monte Ornato, con pochi mezzi e isolate rispetto al resto della Brigata che ha deciso di ripiegare sul Lucese[3].
Lo scontro s’inserisce pienamente nel contesto dell’estate 1944 in cui alla guerra civile (patriottica e di classe) s’intreccia la cosiddetta “guerra ai civili”: la linea Gotica – che rappresenta uno spazio di demarcazione tra due eserciti regolari stranieri, due modelli di occupazione, e due schieramenti opposti di italiani, e un territorio che le comunità vedono mutare profondamento grazie alla guerra -, diventa per i nazisti uno spazio da “bonificare” integralmente, in cui è necessaria una “omogeneizzazione” per il dominio e lo sfruttamento, le cui retrovie devono essere epurate dal pericolo dei banditen, e in cui anche le popolazioni locali vengono ritenute responsabili, assimilate ai partigiani, e quindi soggette alla punizione .
Ma, tornando alla Lenzini, quello in cui perde la vita combattendo è soltanto uno dei tanti momenti in cui la donna lotta contro il fascismo. Purtroppo alla fase attuale della ricerca la sua biografia è ripercorribile a singhiozzi, il periodo antifascista precedente al 1944 è possibile intuirlo tra le pieghe delle fonti di polizia relative agli uomini a cui era legata. Infatti Cristina Lenzini in Ardimanni nata a Pisa nel 1903 da Angelo (Angiolo), bracciante, e Bartolai Rosa, casalinga, è sostanzialmente la moglie di Alfredo Ardimanni nel fascicolo del Casellario Politico Centrale, schedato come comunista (ma vicino anche agli ambienti anarchici); è con lui che condivide le idee antifasciste e con cui nel 1924, insieme al figlio Alberto, sceglie come molti la strada del fuoriuscitismo in Francia, dopo che sarebbero stati proprio due suoi fratelli squadristi a consigliarle, secondo quanto ricostruito dall’Anpi Versilia, di espatriare per evitare le persecuzioni fasciste.
A quanto si apprende dall’interrogatorio di Alfredo, arrestato a Ventimiglia nel 1943, sappiamo qualcosa sulla loro vita in Francia: dalla possibile attività di Alfredo come intercettatore di volontari per la guerra civile in Spagna (negata nelle dichiarazioni ufficiali), al suo internamento allo scoppio della guerra nel campo di S. Cyprien al confine tra Francia e Spagna, dall’andamento altalenante della loro relazione, cui l’Ardimanni attribuisce responsabilità alla condotta morale della moglie Cristina, alla sua messa a disposizione volontaria insieme al figlio per lavorare al servizio dei tedeschi e poi delle truppe di occupazione italiane a Tolone. Non abbiamo fonti a sufficienza che possano smentire o confermare ciò che Alfredo afferma durante l’interrogatorio, non possiamo garantire che sia frutto di una dissimulazione per un estremo tentativo di salvataggio o se si tratti di opportunismo politico.
Nel frattempo ritroviamo Cristina, che per i funzionari di pubblica sicurezza “[è] immune da pregiudizi penali e politici, risulta di buona condotta in genere”, nel 1932 fra la documentazione relativa a Bucchioni Azelio, schedato come pericoloso comunista nel Cpc[4]; originario di Pisa, dove “abitava in prossimità delle abitazioni di Di Paco Ferdinando detto Umberto, del quale ha assunto le generalità, e del comunista Ardimanni Alfredo di Abele col quale era in intimi rapporti di amicizia. Il Bucchioni conviverebbe presentemente con certa Lenzini Cristina, moglie del comunista Ardimanni Alfredo col quale egli avrebbe perciò troncato ogni rapporto di amicizia”.
È, quindi, una storia personale che possiamo percepire solo fra gli interstizi della documentazione, ma guardare in controluce ci permette di osservare possibili vuoti da colmare e di provare a formulare ipotesi di ricerca. Cristina Lenzini è pensata talmente all’ombra delle figure maschili che non ha un fascicolo di riferimento, sintomo che i funzionari di P.S. non pensavano potesse svolgere attività politica, o quantomeno non che potesse farlo in autonomia per propria identità e coscienza, a fianco, insieme e in condivisione delle idee con gli uomini sopra citati: è sorvegliata perché è la moglie di Ardimanni, la convivente o amante di Bucchioni. Esattamente come altre donne antifasciste la Lenzini viene osservata col filtro di uomini che di fatto non concepiscono che le donne possano uscire dalla sfera privata cui dovrebbero essere relegate per svolgere attività politica in autonomia[5]. Non abbiamo fonti al momento che possano colmare i buchi, non siamo a conoscenza, ad esempio, se la donna sia attiva durante la guerra civile in Spagna o quale sia il suo percorso dagli anni Trenta ai Quaranta, ma sappiamo che nel 1942 torna a sua volta in Italia e che entro il 1944 ha maturato con determinazione la scelta resistente.
L’attività partigiana è perciò soltanto l’ultimo atto di un’antifascista di lungo corso, in cui la scelta di resistere imbracciando le armi è probabilmente una decisione vissuta come una necessità di fronte alle violenze del nemico[6]. Una scelta presa per sé, in autonomia, con convinzione e doppiamente in libertà perché, come pure per tutte le donne protagoniste delle varie forme di resistenza, svincolata dagli obblighi imposti agli uomini dai bandi di arruolamento della Rsi: la guerra civile, seppur fase di crisi, permette che si aprano spazi pubblici, politici e militari, che le donne possono occupare, sconfinando dalla sfera privata e al di fuori dal tracciato tradizionale per assumersi la responsabilità delle proprie azioni e trovare una diversa collocazione sociale[7]. Cristina Lenzini, come altre nella sua condizione, decide di resistere rompendo l’ordine naturale delle cose per il quale tradizionalmente la militarizzazione femminile è vista come un fenomeno eccezionale e di disturbo, poiché infrange la statica divisione dei ruoli per cui le armi sono attributi prettamente maschili, mentre alle donne è demandato l’onere riproduttivo. Quest’ultime, concepite “per natura” come più pacifiche rispetto agli uomini, nel momento in cui imbracciano le armi vengono viste come anomalie, dal comportamento sessuale in qualche modo irregolare, “sessualmente libere e disponibili, oppure dalla sessualità «sospesa>» o proibita come le vedove o le vergini”[8]. Ed effettivamente dalle testimonianze raccolte dall’Anpi Versilia e dal linguaggio utilizzato nella documentazione partigiana emerge che la figura della Lenzini è vista o come una eroina spersonalizzata, una combattente pronta all’estremo sacrificio con la mitragliatrice in mano per permettere la ritirata dei compagni, o una donna sola, al pari di una vedova, ricordata dal partigiano Moreno Costa come “una donna decisa, pareva come una mamma con i suoi quarant’anni, a noi che eravamo quasi tutti molto giovani”. Eppure, nonostante questa correlazione con il tradizionale ruolo di madre, ciò non sovrasta o riduce il suo operato, e Cristina è riconosciuta sia formalmente sia informalmente come una combattente dal contributo fondamentale[9]. A lei, che per tutta la vita è stata osservata e giudicata dalla pubblica sicurezza fascista perché antifascisti erano gli uomini con cui aveva relazioni affettive, le viene finalmente riconosciuto, in una singolare forma di giustizia postuma, il merito della scelta e la determinazione nell’averla portata avanti.
Ricostruire biografie fuor di retorica, tentando comunque di restituire un percorso individuale di partecipazione attiva all’antifascismo e alla Resistenza, ci permette oggi di avviare ricerche e approfondimenti che possano riportare alla luce storie personali per provare sia a ridare dignità a chi come singolo ha lottato contro i fascismi, sia ad aggiungere un tassello nella complessiva storia dei fenomeni di antifascismo e Resistenza.

Note:

1. AISRECLU, Ricompart, b. 237, L. Bandelloni, fasc. Ardemanni Cristina.
2. F. Bergamini, G. Bimbi, «Per chi non crede». Antifascismo e Resistenza in Versilia, a cura dell’ANPI Versilia, 1983.
3. Sono i luoghi lungo il versante occidentale della linea Gotica in cui la ritirata aggressiva di nazisti e fascisti è caratterizzata dalle stragi e da episodi di violenza che risulterebbero essere 49 soltanto in Versilia e nelle aree collinari e montane, tra cui citiamo la strage di tipo eliminazionista di Sant’Anna di Stazzema. Cfr. G. Fulvetti, P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016; Cfr. M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; Cfr. P. Pezzino, Sant’anna di Stazzema. Storia di una strage, Bologna, Il Mulino, 2013; Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; Cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
4. ACS, Cpc, b. 877, fasc. Bucchioni Azelio; http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=852 [ultima consultazione: 31/03/2023]. Bucchioni Azelio emigra in Francia, in Belgio e poi in Corsica, immerso in una discreta rete di antifascisti comunisti, fa attività di propaganda e nel 1936 durante la guerra civile in Spagna partecipa come combattente nella Sezione italiana. Nel 1941 è in Francia nuovamente dove pare svolgere “attività politica di orientamento anarchico” e poi arrestato in Belgio nel 1943, da cui viene deportato dalle autorità tedesche prima nel campo di concentramento di detenzione temporanea e di transito di Herzogenbusch in Olanda e successivamente a Neuengamme (Amburgo), dove muore il 18 febbraio 1945. Su Bucchioni Azelio si v. anche la voce nel Dizionario biografico degli anarchici italiani online: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13256-bucchioni-azelio?i=0 [ultima consultazione: 31/03/2023]
5. M. Guerrini, Donne contro. Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale, Milano, Zero in condotta, 2013; G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
6. Cfr. L. Martin, «Come ti ho fatto ti disfo». Intorno a donne e violenza agita nella Resistenza, «Zapruder», n. 32, 2013,
7. Cfr. D. Gagliani, E. Guerra, L. Mariani, F. Tarozzi (a cura di), Donne, guerra, politica. Esperienze e memorie della Resistenza, Clueb, Bologna 2000; R. Fossati, Donne guerra e Resistenza tra scelta politica e vita quotidiana, «Italia contemporanea», n. 199, 1995.
8. P. Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico in (a cura di) G. Ranzato, Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Ead., Donne armate e donne inermi. Questioni di identità sessuale e di rapporto tra le generazioni in Laura Derossi (a cura di), 1945. Il voto alle donne, Milano, F. Angeli, 1998.
9. A. Bravo, Resistenza armata, resistenza civile in ivi.




“Strage al masso delle fate” Presentazione a Tavarnelle.

Venerdì 21 Aprile 2023 ore 18.00
Biblioteca Ernesto Balducci Tavarnelle Val di Pesa

Presentazione del libro di Nicola Coccia
Strage al Masso delle Fate
Ottone Rosai, Bogardo Buricchi ed Enzo Faraoni dal 1933 alla Liberazione di Firenze
ETS Edizioni 2021

Intervengono insieme all’autore:
David Baroncelli, Sindaco Barberino Tavarnelle
Matteo Mazzoni, Direttore dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea

Una linea ferroviaria e una fabbrica di esplosivi. Vasco Pratolini attore e giornalista pagato con buoni pasto. Bruno Fanciullacci, il gappista più ricercato, e l’uccisione di Giovanni Gentile. La cattura del famigerato Mario Carità e del suo degno allievo Pietro Koch che per una settimana aveva rinchiuso in un armadio Luchino Visconti. Un seminarista, compagno di studio del futuro cardinale Giovanni Benelli, e uno studente della scuola d’arte di Porta Romana, diventato pittore davanti ai quadri di Lorenzo Viani. L’ospitale casa di Ottone Rosai. Vite e fatti che si intrecciano in una Firenze affamata d’arte, poesia e libertà. Quindici anni di interviste e ricerche fino al ritrovamento di un documento inedito all’Archivio centrale dello Stato.




Streaming della presentazione di “Il tifo violento in Italia”




79° anniversario della strage di Montemaggio: la commemorazione

Domenica 26 marzo si è commemorata la strage di Montemaggio (Comune di Monteriggioni, Provincia di Siena), avvenuta il 28 marzo 1944, nella quale 19 giovani partigiani persero la vita per mano dei fascisti.
Le vittime appartengono ufficialmente al distaccamento della “Spartaco Lavagnini” e a Montemaggio hanno base a “Casa Giubileo”. Attaccati dai fascisti, dopo solo un’ora il combattimento è concluso: un partigiano rimane ucciso nello scontro armato, un secondo è ferito mentre tenta di fuggire e viene finito subito dopo. Gli altri 17 si arrendono con la promessa di aver salva la vita ma i fascisti prima si sfogano iniziando a picchiare i prigionieri, poi, privati alcuni delle scarpe, li fanno salire su di un camion. Arrivati nello spiazzo della strada detto “La Porcareccia”, i partigiani vengono fucilati con l’ausilio di una mitragliatrice.
Tutti i responsabili della strage sono stati liberati perché amnistiati a metà degli anni ’50.

La prima parte della commemorazione si svolge accanto al cippo che reca i nomi delle 19 vittime, di fronte ad una statua realizzata nel 1979 dallo scultore Nelson Salvestrini. Essa rappresenta un uomo che dorme e che pare uscito dal blocco di travertino in cui è scolpito. L’artista spiega che nelle sue intenzioni quel giovane partigiano non è morto ma dice “io morirò quel giorno in cui voi smetterete di lottare per tutto ciò per cui io ho lottato e per cui sono morto”.
Poi la commemorazione di sposta in un prato limitrofo.

Salgono sul palco il Sindaco di Colle Val D’Elsa, Alessandro Donati, una rappresentante dell’ANPI in sostituzione della vicepresidente nazionale Albertina Soliani, e il Professor Paolo Pezzino, Presidente dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri.
Il Sindaco esordisce citando il Discorso agli studenti milanesi di Piero Calamandrei nel 1955: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, oh giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione.” Cita poi un estratto della circolare ai suoi studenti della Preside fiorentina Annalisa Savino, in seguito al pestaggio fascista avvenuto davanti al Liceo Michelangelo: “Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti. ‘Odio gli indifferenti’”. E il sindaco così proclama “Noi che siamo qui, non siamo indifferenti. Gramsci non ce l’avrebbe con noi”.
E’ poi il turno della delegata ANPI: “i partigiani non sono stati uccisi in quanto italiani (e qui è chiaro il riferimento alle parole di Meloni alla commemorazione di qualche giorno fa alle Fosse Ardeatine) ma come combattenti contro il fascismo, e non sono stati uccisi da un nemico esterno, ma da altri italiani, fascisti”. E, in modo commovente, aggiunge: “Il sorbo che è stato falciato dalle mitragliate fasciste contro i partigiani di Montemaggio è stato ripiantato davanti a Casa Giubileo”.
È poi il turno di Pezzino che ricorda che “l’eccidio di Montemaggio è la più grave strage di partigiani in provincia di Siena e la seconda in Toscana dopo quella di Figline di Prato”. E asserisce: “attraverso il sacrificio dei giovani di Montemaggio la Resistenza è riuscita a riorganizzarsi, a progredire e avviarsi verso la Liberazione del paese. In Toscana alcune città sono liberate totalmente da parte dei partigiani: Arezzo, Firenze, altre da partigiani e alleati insieme, Siena e Livorno. La Resistenza non è stato solo un insieme di martiri ma un insieme di atti militari e civili, di impegni che hanno ottenuto la vittoria”. Poi legge la data di nascita dei partigiani uccisi a Montemaggio, tutti giovanissimi e tuona: “Sono questi i ragazzi che vogliamo ricordare e celebrare, oggi e tutti i giorni, come fondatori della nostra patria, non i ragazzi di Salò. E lo faremo con le commemorazioni e con lo studio della verità storica contro gli oblii e le false notizie che sempre più spesso ci vengono propinate”.
Alla fine dei discorsi ufficiali, la banda di Colle val d’Elsa suona Bella Ciao e Fischia il vento.
La commemorazione poi si sposta più in alto, di fronte a “Casa Giubileo”, dove viene posta la corona di alloro.
La celebrazione è allegra: c’è gente di ogni età, da un anziano partigiano ai giovani, e tanti bambini.
E, parafrando Benigni, “dopo il cuRturale principia il ricreativo”: in Casa Giubileo dall’ANPI è preparata una merenda con panini e vino. Offerta libera.
Preservare la memoria è anche questo: la gioia di persone di ogni età che si ritrovano a discutere, a cantare, a bere e a non dimenticare.




Presentazione del libro “Piombo con piombo. Il 1921 e la guerra civile italiana”, a cura di Giorgio Sacchetti

Sabato 24 marzo, dalle ore 16.30 alle 19, presso la Sala della Cultura -che un tempo fu Casa del Fascio- Palomar di San Giovanni Valdarno si è tenuta la presentazione del libro Piombo con piombo. Il 1921 e la guerra civile italiana, a cura di Giorgio Sacchetti, Carocci editore, uscito a febbraio di questo anno.
Sono presenti il curatore, docente di Storia culturale e sociale dell’età contemporanea all’Università degli Studi di Firenze, e gli autori di alcuni contributi: Paolo Pezzino, Presidente dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, e Giovanna Procacci, Professoressa di storia sociale contemporanea e storia contemporanea presso l’Università di Modena e Reggio Emilia.

Il volume mette insieme due convegni sul 1921, un anno parecchio significativo e cruciale per la storia del nostro paese: anno dello squadrismo fascista, dell’attentato anarchico al teatro Diana di Milano, delle insorgenze operaie e contadine, degli Arditi del popolo. Non a caso, una sezione del volume -la terza- è intitolata “Rappresentare il 1921”.

Procacci elogia l’immensa quantità documentaria presente in questo volume. Di grande importanza la parte sull’Anarchismo, che rientra nella prima sezione del volume, intitolata temi/questioni di metodo. A tale proposito sottolinea che gli anarchici usavano la violenza per conquistare la libertà, mentre la violenza fascista era per acquisire il potere. La Professoressa sottolinea anche che nell’immediato dopoguerra si è trattato di violenza popolare, poi è diventata di difesa, una volta avvenuto l’attacco alla democrazia.

Sull’anarchismo da remoto è intervenuto anche Enrico Acciai, attualmente visiting researcher alla Columbia University di New York. Nel suo intervento si sofferma sulla scelta volontaria delle armi legata a Garibaldi, in una sorta di guerra di guerriglia.

La seconda parte del volume, non a caso intitolata “Territori/Casi di studio”, ha il pregio di fornire uno spaccato dei fatti del ‘21 nell’intera nazione: Milano, Bologna, Parma e Imola, Empoli, Arezzo e Valdarno, Roma.

Pezzino sottolinea che la locuzione “guerra civile” è impropria per il ’21 perché i due contendenti non hanno la stessa forza. Il termine è dunque usato lato sensu per indicare un conflitto sociale acceso.
Riprendendo Claudio Pavone, sostiene che nel caso del ’21 sarebbe più opportuno parlare di conflitto di classe.

“Sarebbe più corretto, parlare di una guerra civile asimmetrica”, dice Salvatore Mannino nel suo breve intervento.

Questi gli autori del volume: Enrico Acciai, Francesco Bellacci, Paola Bertoncini, Lorenzo Bertucelli, Marco Betti, Giulio Bigozzi, Laura Bottai, Roberto Carocci, Mirco Carrattieri, Paul Corner, Fabio Degli Esposti, Pietro Di Paola, Fabio Fabbri, John Foot, Andrea Giaconi, Ivano Granata, Salvatore Mannino, Pietro Masiello, Iara Meloni, Luigi Nepi, Guido Panvini, Elena Papadia, Paolo Pezzino, Andrea Rapini, Giorgio Sacchetti, Antonio Senta, Emanuele Upini, Andrea Ventura, Rodolfo Vittori.




Sport, società, violenza: la rivolta di Viareggio

Lo sport è una realtà organica che si è modificata al cambiare delle società. È una pratica viva, non solo per l’attività sul campo da gioco degli sportivi. Gli uomini e le donne dello sport, infatti, sono entità che nascono e crescono in determinati ambienti sociali con propri linguaggi e modi di rappresentarsi; sono loro che tratteggiano lo sport, perché inseriscono nelle istituzioni e nelle società sportive le complessità delle società a cui appartengono.

Questo è un dato trasversale gli attori in campo, nel senso che sia i giocatori sia gli spettatori partecipano attivamente nel mostrare la propria cultura e il momento socio-politico d’appartenenza. Per esempio, ai Mondiali in Francia del 1938 la nazionale italiana fece due volte il saluto fascista per rispondere provocatoriamente ai fischi degli spettatori – molti erano italiani antifascisti in esilio[1].

Alcuni episodi sono il frutto momentaneo della veemenza dell’agonismo. La Rivolta di Viareggio del 2-4 maggio 1920 presenta questo elemento, nel senso che nella partita di calcio tra lo Sporting Club Viareggio e l’Unione Sportiva Lucchese emerse il clima di incertezza e di violenza del primo dopoguerra italiano. Lo sport era diventato nel primo dopoguerra un fatto sociale, perché riverbera le sensazioni e i modi d’intendere dei partecipanti. E la Rivolta di Viareggio rientra in pieno nella rappresentazione concreta di quei problemi e di quei valori che passano anche attraverso il fatto sportivo, determinando atti esterni al campo da gioco[2].

 

Il contesto

 

La Grande Guerra lacerò l’Italia sotto ogni punto di vista. Nonostante la vittoria, il popolo italiano ne uscì traumatizzato per le centinaia di migliaia di morti e per la recessione economica causata dal conflitto. Era una società che aveva convissuto con la morte e la sua narrazione per tre lunghi anni, tanto che durante il conflitto anche la stampa sportiva divenne un mezzo di cronaca e di propaganda bellica.

Fu un processo che influenzò la società, perché se da un lato i valori della trincea come il cameratismo e la virilità passarono nella sfera sociale e culturale – tra cui lo sport -, dall’altro ci fu la normalizzazione degli aspetti cruenti della guerra. La violenza divenne, infatti, la normalità per quelle società che uscirono malconce dal conflitto. In alcuni luoghi d’Europa, come Germania e Italia, vi fu un certo grado d’assuefazione verso la violenza, tanto che il suo uso venne banalizzato al pari di un qualsiasi gesto quotidiano. E, come ha mostrato George Mosse, si è trattato di un dato che ha influenzato ogni pratica sociale, dal gioco al confronto tra le persone[3]. Lo sport non era esente da questo processo, proprio perché, come una spugna, assorbe tutti i sentimenti e i valori presenti nella società che lo praticano.

Tutto questo, in Italia, coincise con un momento di sviluppo e di rinnovata attenzione della popolazione italiana verso lo sport. Prima della guerra lo sport era, in generale, esclusivo a chi poteva permettersi di avere il tempo libero per l’attività fisica e a chi viveva in determinate zone geografiche. La Grande Guerra fu propedeutica alla conoscenza e alla crescita dello sport in tutta la Penisola, perché lo sport venne conosciuto e praticato dalla massa di soldati proveniente da ogni luogo d’Italia. Non è un caso se nel primo dopoguerra gli sport incontrarono un accentuato interesse, tanto che il calcio iniziò la propria rincorsa nei cuori degli italiani verso il popolarissimo ciclismo[4].

Una delle conseguenze della popolarizzazione dello sport fu l’incremento degli spettatori, che, specialmente tra il 1919-20, venne accompagnato da un aumento verticale dei casi di violenza tra tifosi e i giocatori. Le questioni socio-politiche coeve non necessariamente avevano a che fare con questi atti di violenza, perché forme di maggior aggressività avevano attecchito trasversalmente ogni ambito della socialità. Nello sport, e nel calcio in particolare, questo aspetto venne ulteriormente accentuato dalle rivalità e dal campanilismo. Il caso della Rivolta di Viareggio del maggio 1920, il primo evento calcistico in Italia dove è morta una persona, rientra proprio in questo contesto.

 

Sporting Club Viareggio contro l’Unione Sportiva Lucchese: l’inizio della Rivolta

 

La partita si svolse il 2 maggio a Viareggio sul campo da gioco di Villa Rigutti. Era la quarta giornata della Coppa del Comitato Regionale Toscano, una competizione locale minore nata dalla generale riorganizzazione del calcio nel primo dopoguerra.

C’era molta tensione nell’aria quel giorno, non solo per il campanilismo acceso tra le due società, ma per gli strascichi dell’ultima gara a Lucca tra US Lucchese e SC Viareggio dell’11 aprile finita 2-1. Il risultato poteva di certo creare dispiacere e un sentimento di rivalsa nella squadra viareggina; però, rimase impresso il sentimento d’ingiustizia sportiva di aver subito alcuni infortuni, tanto che già al termine della partita a Lucca scoppiò un tafferuglio.

Il precedente giustifica ulteriormente la presenza dei carabinieri a Villa Rigutti, perché il calcio erano state individuate come un potenziale luogo di disordine pubblico sociale. Il 2 maggio le forze dell’ordine dovevano controllare il comportamento di quasi 300 persone, per la quasi totalità composta da viareggini, soprattutto operai e lavoratori.

La partita stava andando molto bene allo SC Viareggio, che alla fine del primo tempo stava vincendo per 2-0. Nel secondo tempo tutto cambiò: la gara si fece man mano più fisica e tesa, con molti interventi di gioco duri e una forte progressione di insulti dei tifosi locali verso l’avversario. In tutto questo, l’US Lucchese arrivò a pareggiare l’incontro; fu in quel momento che il guardialinee Augusto Morganti, della squadra viareggina, colpì un giocatore lucchese con la bandierina, azionando così l’invasione di campo e un grande tafferuglio.

Le forze dell’ordine chiamarono dei rinforzi e si sbarrarono in protezione della squadra avversaria – rinchiusa negli spogliatoi -, anche se le minacce di violenza verso i lucchesi non si trasformarono in reali tentativi di assalto. Alcuni membri delle forze dell’ordine impugnavano armi bianche, mentre altri, come il carabiniere Natale De Carli, una rivoltella; e fu proprio contro Augusto Morganti che usò la sua arma, perché il militare, arrivato a faccia a faccia col guardialinee, gli sparò un colpo a bruciapelo ammazzandolo sul colpo. Tutti, compreso De Carli, avevano immediatamente compreso la gravità della reazione, tanto che il carabiniere proverà a giustificarsi in tribunale sostenendo di essersi sentito minacciato dalla folla di tifosi.

Dopo pochi secondi la folla portò via il corpo di Morganti e caricò le forze dell’ordine, che, dopo una breve resistenza, ruppero in ritirata. I giocatori e i dirigenti della Lucchese scapparono verso i binari della tratta Lucca – Viareggio; arrivarono a piedi fino alla frazione di Quiesa, dove vennero portati a Lucca da alcune carrozze che sopraggiunsero a prenderli.

A Viareggio scoppiò un tumulto generale e i rivoltosi presero con la forza e con l’intimidazione le armi dal Tiro a Segno locale e dalle caserme. Alcuni luoghi chiave della comunicazione vennero occupati per frenare ogni tentativo di arrivo di rinforzi dalle città limitrofe.

Nei due giorni successivi nella città ci furono alcuni atti di violenza verso le forze armate, che condivisero l’odio sociale assieme ai loro familiari che abitavano a Viareggio. Fu con la complessa trattativa tra il deputato socialista Luigi Salvatori e il generale Carlo Castellazzi che venne trovato un accordo per calmare gli animi dei rivoltosi, a condizione di evitare l’arrivo dell’esercito prima del funerale di Morganti e cacciando i carabinieri accusati della mala gestione della partita di calcio.

Ristabilito l’ordine, Viareggio rimase per qualche tempo sotto l’occhio del ciclone delle autorità per timore di altre possibili rivolte, per trovare i responsabili o i fomentatori dell’accaduto e per ritrovare le armi sequestrate alle autorità[5].

 

Conclusione

 

La morte di Augusto Morganti avvenne nel contesto sportivo; anche se il momento agonistico era concluso, lo strascico emotivo che culminò con lo sparo di De Carli deriva dal pathos della partita tra SC Viareggio e US Lucchese. È vero che la Camera del Lavoro di Viareggio e il deputato socialista Salvatori assunsero un ruolo centrale di dialogo con lo Stato, ma né l’inizio della rivolta né i fatti delle ore successive assunsero dei connotati politici.

In conclusione, lo sport nei primi decenni del Novecento era diventato un fatto sociale da cui potevano nascere azioni ritenute importanti per le soggettività o per la collettività. Sono manifestazioni che determinano alcuni comportamenti delle persone, sia nel periodo riportato sia nella quotidianità. Anche un solo evento sportivo poteva – e può – assumere un significato valoriale e una rilevanza pratica decisiva nell’economia dei fatti, perché sono le individualità che compongono la società a darle più o meno importanza. A Viareggio, effettivamente, l’eccesso di emotività nella partita di calcio contro la Lucchese accese molto facilmente la miccia della violenza, un tratto quasi normalizzato che permeava la società italiana nell’incertezza e nell’instabilità del primo dopoguerra.

 

 

NOTE

[1] P. Dietschy, Storia del calcio, Paginauno, Vedano al Lambro (MB), 2014, pp. 159-160

[2] D. Marchesini, S. Pivato, Tifo. La passione sportiva italiana, il Mulino, Bologna, 2022, pp. 136-137

[3] G. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Editori Laterza, Roma-Bari, edizione “Economica Laterza”, 2002, pp. 139-172

[4] A. Papa, G. Panico, Storia sociale del calcio in Italia, il Mulino, Bologna, nuova edizione 2002, p. 105

[5] A. Ventura, Italia ribelle. Sommosse popolari e rivolte militari nel 1920, Carocci, Roma, novembre 2020, pp. 17-60; 1920: le giornate rosse di Viareggio, in Almanacco, Rai, RaiTeche, 1968, https://www.teche.rai.it/2018/05/1920-le-giornate-rosse-viareggio/