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Olocausto e finzione filmica.

Diciamolo subito: in questo articolo non si parla del (trascurabile) carrarmato americano, né si mette in dubbio che sequenze come l’ispezione scolastica con lezione sull’ombelico ariano, o la traduzione strampalata delle regole del lager (durante la quale si ride e si prova angoscia allo stesso tempo) possano entrare a buon diritto nella storia del cinema e della comicità. Si tenta piuttosto di inquadrare, argomentandoli il più lucidamente possibile, gli aspetti più problematici di un’opera che, come il suo autore, ha spesso suscitato polarizzazioni istintive e irragionevoli, tra la celebrazione acritica e la condanna sprezzante.

Sembra impossibile parlare del film del 1997 La vita è bella (regia di Roberto Benigni, sceneggiatura di Benigni e Vincenzo Cerami, Grand Prix Speciale a Cannes 1998, tre Premi Oscar nel 1999) senza incappare in un doppio circolo vizioso. Ci sono appunto due questioni di fondo, essenzialmente irrisolvibili, che come tali hanno spesso finito per paralizzare il dibattito: la prima, su cui non credo abbia molto senso soffermarsi, è la necessità di una totale libertà creativa ed espressiva di qualunque artista, anche quando si tratta di scherzare sulla Shoah; la seconda, che ritengo più interessante, è l’assunto per cui un film, non avendo la funzione né la responsabilità di offrire una ricostruzione storicamente coerente (bensì di proporre un racconto di finzione, una favola immaginaria in cui l’incredulità viene sospesa) non possa e non debba essere giudicato per le inverosimiglianze della sceneggiatura. Assunto non scritto da nessuna parte, ma che sembrerebbe comune e largamente condiviso, ripreso di recente in varie occasioni pubbliche dallo storico Miguel Gotor, consulente del regista Marco Bellocchio per il film Esterno Notte (2022), sul caso Moro.

Su questo secondo punto La vita è bella ha ricevuto aspre e rilevanti stroncature da Claude Lanzmann (Il Fatto Quotidiano, 2014), Simone Veil (Corriere della Sera, 2009), Liliana Segre (La memoria rende liberi, Rizzoli 2019), Daniel Vogelmann (contributo presente su www.deportati.it) – mentre è stato valutato positivamente ad esempio da Shlomo Venezia, da Marcello Pezzetti, da Nedo Fiano, per non parlare dell’accoglienza a dir poco trionfale da parte della comunità ebraica americana.

Benigni non aiuta a fare chiarezza. Nella Presentazione che introduce l’edizione a stampa della sceneggiatura (da cui citeremo anche di seguito a più riprese) il regista afferma chiaramente di aver realizzato:

“un film fantastico, quasi di fantascienza, una favola in cui non c’è niente di reale […]. Chissà se un po’ dello sguardo di Giosuè riuscirà a penetrare nello spettatore: certe cose che a forza di nominarle si sono a volte un po’ consumate, come appunto i campi di concentramento e l’orrore dello sterminio degli ebrei, attraverso questo paradosso, attraverso questo gioco dell’irrealtà, potrebbero tornare a stupire, meravigliare, tornare appunto a sembrare, giustamente, impossibili” (ed. 1998, pagine VII – X).

Poche righe più avanti però si contraddice (è diventato col tempo, questo dire contemporaneamente di sì e di no, uno standard della sua affabulatoria comunicazione). La storia narrata dal film, di per sé inventata, pretende però di inserirsi in una ricostruzione storica, non “fantastorica” né fantascientifica:

“Quello che voglio è che il bambino resti sano, integro, e ce la metto tutta e riesco a non farmi piegare fino alla fine, perché quello è proprio un campo di sterminio dove i bambini venivano uccisi pochi giorni dopo l’arrivo, se non addirittura il giorno stesso […]. Noi ricostruiamo perfettamente cosa succedeva in quei luoghi spaventosi”

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A questo punto ci troviamo di fronte a un bivio: o scegliamo di goderci passivamente il racconto, l’immaginario che gli autori dichiarano di aver ricostruito a partire dai fatti storici – in tal caso gli stessi lettori di questo articolo possono evitare di andare oltre – oppure seguiamo Benigni quando ci dice di aver ricostruito perfettamente cosa accadeva in un lager, e in tal caso le domande sono almeno due. Prima domanda: come giudicheremmo un film che raccontasse, ad esempio, la storia di come Anna Frank è avventurosamente sopravvissuta alla deportazione? Certo daremmo per scontato che un tale film si palesasse come totalmente falso, perché altrimenti – se avanzasse pretese di verità storica – nessuno troverebbe stupefacente la stroncatura da parte non solo dello studioso, ma dello spettatore comune.

Seconda e conseguente domanda: come si colloca il film rispetto alla realtà storica? Possiamo scartare l’ipotesi che La vita è bella sia un film ucronico, di quelli che si divertono a fantasticare su come le cose sarebbero potute andare (Inglourious Basterds o Once upon a time in Hollywood, entrambi di Quentin Tarantino); altrimenti, salvo equivoci, non sarebbe tra i film più comunemente replicati in TV o proiettati nelle scuole in occasione del Giorno della Memoria, stabilito proprio “per non dimenticare” ciò che effettivamente è accaduto. Dovremmo anche allontanare il sospetto che determinate situazioni esistano solo nella mente del bambino – come accade, ad esempio, in Jojo Rabbit (Taika Waititi, 2019) – dal momento che il montaggio del film mostra chiaramente l’alternarsi di varie soggettive (di Dora, dello stesso Guido), facendo sì che il pubblico adotti il punto di vista di tutti i personaggi, non solo di Giosuè. Dora, ad esempio, perde ogni speranza quando viene a sapere da un’altra detenuta che i bambini verranno tutti mandati al gas; la ritrova quando sente la voce di Giosuè dall’altoparlante. Non ci troviamo in un sogno, in una dimensione parallela, in un’illusione fallace: il film propone una semplice ed esplicitata divisione tra le cose come stanno e come Giosuè le vede. Un chiaro esempio a conferma di questa impostazione è la celebre scena in cui il bimbo, nascosto in una cabina, guarda il padre attraverso la feritoia; Giosuè resta ancora convinto che tutti stiano giocando, mentre Guido, ben conscio del pericolo, teme che il cane che abbaia sveli ai soldati il nascondiglio improvvisato.

Ma soprattutto, quale interesse avrebbero avuto il pubblico e la giuria dell’Academy Award per un film che non si ricollega alla memoria dell’Olocausto, o che lo fa solo per ingenua ispirazione? Il film – e l’ottimismo da esso veicolato – sembrano avere senso soltanto se noi pensiamo che davvero,  storicamente, un Giosuè si sarebbe potuto salvare (attenzione: non salvarsi dalla deportazione, magari fuggendo dal ghetto o venendo nascosto da qualche parte, come sappiamo essere qualche volta accaduto, ma salvarsi nel lager). È per questo che parlare di “favole” e di sospensione dell’incredulità non è sufficiente a dissipare le critiche rivolte al film; l’analisi di come Benigni e Cerami hanno giocato con i fatti storici per adattarli alla sceneggiatura non è una puntigliosità fine a sé stessa, ma lascia intravedere ambiguità che pesano direttamente sulla ricezione del racconto. Vediamole di seguito.

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Centinaia di articoli e recensioni hanno ribadito, nel corso di venticinque anni, che in questo film un padre fa di tutto per salvare il figlio, nascondendolo dai nazisti; ma questo non è del tutto vero.

In lager, subito dopo il terribile viaggio in treno – che nel film non è evidentemente così terribile, dato che quasi non lascia traccia sui protagonisti – i bambini, direttamente all’uscita dal mezzo, venivano smistati con le femmine e gli anziani,  facendoli uscire dal lato opposto rispetto a quello dei maschi ed immettendo i due gruppi di detenuti in due aree diverse, non comunicanti; Giosuè, invece, viene inspiegabilmente lasciato nel gruppo degli uomini considerati abili al lavoro, perfettamente visibile da tutte le SS (parla ad alta voce del carro armato col babbo e con lo zio, nel bel mezzo del cortile assolato). Le SS possono vederlo chiaramente anche nella baracca, mentre Guido traduce a modo suo le regole del lager; in questa fase Giosuè si salva non perché Guido lo nasconda, ma perché i nazisti non sono poi così cattivi, lo lasciano scorrazzare in giro per un po’. Aspettano.

Alla domanda “come sfugge il bambino alla doccia?” gli autori preparano la risposta – surreale – già nella prima parte, prevalentemente comica e ambientata ad Arezzo: Giosuè detesta farsi il bagno («Non ci voglio andare!»), ragion per cui, quando in lager gli altri bambini vengono chiamati per la “doccia”, lui non ci sta e corre svelto dal padre, presso la fonderia:

GUIDO Che fai? Non ci puoi venire qua! Mettiti lì dietro. Che ci fai qua? Perché non stai coi bambini? […]

GIOSUÈ …Perché hanno detto che oggi i bambini dovevano fare tutti la  doccia! Io non la voglio fare la doccia!

Ma chi sono questi bambini con cui Giosuè dovrebbe stare? Non si tratta dei bimbi tedeschi, figli dei nazisti; Guido riuscirà a infiltrarlo tra loro solo in una fase successiva del film, quella in cui il dottor Lessing lo assume come cameriere. A questi altri bambini si fa riferimento sin dalle prime scene in lager, subito dopo l’arrivo, evocando una dimensione che è divenuta quotidiana: «Che c’è Giosuè, hai giocato con i bambini oggi […] «Sì, ma i bambini non sanno proprio le regole. Hanno detto che non è vero che si vince il carro armato. Non sanno che bisogna fare i punti».

Sono bambini con cui Giosuè può parlare, intendersi; sono gli altri bambini ebrei, che il film non mostra mai e a cui non viene l’idea geniale di sgattaiolare via dalla baracca fino al posto in cui lavorano i padri, magari per escogitare un bel piano di fuga. Anche in questo momento Guido non sta affatto nascondendo il figlio: c’è un luogo, non meglio precisato, in cui è previsto che tutti i bambini ebrei vengano lasciati così, a giocare. Giosuè è ancora vivo perché i nazisti aspettano ancora, aspettano che arrivi il momento della doccia.

Cosa ci ricorda questo aspettare, dove lo abbiamo già visto? Sono le stesse, inspiegabili esitazioni del villain del cinema di ogni tempo, che trovandosi di fronte l’eroe inerme, disarmato e indifeso – da James Bond ad Avatar 2 – potrebbe ucciderlo in ogni momento e tuttavia, seguendo un cliché ormai abusato dagli sceneggiatori, aspetta e fa sì che l’eroe abbia il tempo di riorganizzarsi e vincere; ma il lager non è Pandora, i nazisti non sono Ernst Stavro Blofeld.

Dopo che Giosuè è “miracolosamente” sfuggito alla camera a gas, il padre – adesso sì – inizia effettivamente a “nasconderlo” e gli ordina di non muoversi mai dalla baracca: ora ogni sua azione dovrà muovere dall’imperativo categorico di proteggere il bambino. Subito dopo, però, lo carica sulla carriola e se lo porta nel luogo più pericoloso – una casupola provvisoriamente abbandonata dai tedeschi – per “telefonare” alla mamma tramite gli altoparlanti, rivelando così la sua presenza a tutto il campo (altre domande sorgerebbero spontanee allo spettatore, se il montaggio e la sospensione dell’incredulità non lo trascinassero in un lager fantasioso: ad esempio come può il bambino, dopo giorni, non soffrire la malnutrizione? La sceneggiatura permette a Guido di far cenare Giosuè assieme ai figli dei gerarchi, dall’antipasto al dolce)!

 

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La principale funzione delle invenzioni sinora descritte è quella di salvare il bambino fisicamente; ma la vera ragione per cui il lager in La vita è bella non è storicamente verosimile è che, per avverare il messaggio che gli autori vogliono passare, il bambino non può e non deve mai vedere la morte; è questo l’elemento che più stride con il valore di rievocazione storica che La vita è bella, pure tramite un meccanismo di finzione e invenzione («Come in una favola c’è dolore») pretende comunque di portare con sé («Questa è la mia storia. Questo è il sacrificio che mio padre ha fatto»).

L’unica volta in cui il bambino si trova davanti a uno degli enormi mucchi di cadaveri (la cui apparizione agghiacciante è indelebile nella memoria di chi ha liberato i campi) non li vede, essendo addormentato tra le braccia del padre. Nelle varie occasioni in cui trotterella da solo qua e là per il campo, senza quindi che agisca la protezione del padre, Giosuè non vede nulla di brutto – non necessariamente un cadavere o un’esecuzione sommaria, ma nemmeno un detenuto che riceve una percossa; nulla che possa spezzare l’illusione creata da Guido.

Nel secondo capitolo di Se questo è un uomo, Sul fondo (1947), Primo Levi racconta di come le nuove matricole del lager venissero dileggiate da personaggi come “il dentista”; costui diceva che «tutte le domeniche ci sono concerti e partite di calcio», che «chi tira bene di boxe può diventare un cuoco», che «chi lavora bene riceve dei buoni-premio». Nel film di Benigni il disagio reale dev’essere occultato al bambino, invenzioni simili a quelle del “dentista” devono essere credute. Ribadiamo ancora una volta la contraddizione di partenza: da un certo punto di vista non ha senso impostare un confronto ad armi pari tra un racconto filmico e una testimonianza storica. D’altro canto questo film si mette in una posizione talmente ambigua da rendere inevitabile la riflessione. Basti pensare che proprio dal capitolo finale di Se questo è un uomo, oltre che da un brano del testamento di Lev Trockij, Benigni e Cerami hanno tratto spunto per il titolo definitivo: «Io pensavo che la vita fuori era bella, e sarebbe ancora stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato lasciarsi sommergere adesso»; ma Levi si riferiva alla vita fuori dal lager.

Benigni, senza forse rendersene conto, ha pure detto – Nella Presentazione già citata – che la sua intenzione era proprio quella di far sì che l’Olocausto tornasse a sembrare qualcosa di irreale e impossibile: «[…] certe cose […] come appunto i campi di concentramento e l’orrore dello sterminio degli ebrei, attraverso questo paradosso, attraverso questo gioco dell’irrealtà, potrebbero tornare a stupire, meravigliare, tornare appunto a sembrare, giustamente, impossibili». L’incredibile affermazione si pone in evidente contrasto con tutto ciò che un testimone della Shoah può dire o rappresentare: equivale a rimpiazzare il Meditate che è questo è stato di Levi con uno stupefatto e incredulo «Possibile che sia stato?». Evidenti le ragioni per cui Segre, Veil, Lanzmann hanno parlato di una menzogna e di una storia «senza senso».

Benigni, dal canto suo, risponde – con una certa assertività – che:

“La storia è esattamente quella che si vede: una famiglia spezzata che cerca disperatamente di sopravvivere in mezzo allo sterminio […] la violenza non viene negata, i morti ci sono e ci sono le camere a gas […]. Sullo schermo c’è un padre con un figlioletto. Ridere ci salva, vedere l’altro lato delle cose, il lato surreale e divertente, o riuscire a immaginarlo, ci aiuta a non essere spezzati, trascinati via come fuscelli, a resistere per riuscire a passare la notte, anche quando appare lunga lunga… e si può far ridere senza offendere nessuno: c’è tutto un umorismo ebraico molto spericolato a questo proposito” (ed. 1998, pagine VII – X).

Di nuovo la botte piena con la moglie ubriaca: nello stesso momento in cui evoca gli aspetti surreali e immaginari – invitando così gli spiettatori ad accettare questo lager così come avevano accettato la Sicilia di Johnny Stecchino – il regista li chiama anche a figurarsi una famiglia che «cerca disperatamente di sopravvivere in mezzo allo sterminio». È Benigni a presupporre che il film si rifaccia alla realtà storica, quando afferma che il lager del film «rappresenta tutti i campi di concentramento del mondo» e che «ridere ci salva, vedere l’altro lato delle cose»; purtroppo nei campi di concentramento non esisteva alcun altro lato delle cose.

Giosuè non sarebbe sopravvissuto: non solo non conosce le vere regole, ma gliene sono state fornite altre, fantasiose e insensate, con l’obbedienza al padre come unico riferimento – il che avrebbe costituito tutt’altro che un vantaggio nel darwinismo spietato del lager, dato che il padre stesso le infrange o le cambia di continuo, anche mettendo a repentaglio l’incolumità del figlio. Non essendo scemo, il bambino ha finalmente capito qualcosa: «ci bruciano tutti nel forno», dice un giorno a Guido; il padre si affretta a rassicurarlo che è tutto un gioco, lì non c’è alcun pericolo, devono tenere duro e accumulare punti per vincere il carro armato. È come se il film obbligasse il pubblico a un salto di fede: dobbiamo credere a tutto quanto avviene, perché se non ci crediamo, ciò significa che il bambino è morto.

La scena più forzata di tutte è forse proprio la morte di Guido, nel finale: i nazisti scoprono che sta fuggendo, lo individuano appeso al muro, gli puntano addosso un enorme faro segnaletico: è un bersaglio facile. Perché non gli sparano e basta? Dato che ci troviamo nelle fasi finali dell’evacuazione del campo, le SS in fuga non hanno letteralmente un secondo da perdere, certo non per farsi scrupoli a eliminare un detenuto ribelle. Invece il soldato esita con il mitra puntato, aspetta una buona manciata di secondi, finché un superiore (che spunta dal lato sinistro dell’inquadratura, dice la sua battuta e subito scompare, provvidenziale Deus ex machina) gli intima in tedesco: «Non qui….portalo al solito posto!». Allora il soldato accompagna Guido, sempre con una certa lentezza (l’attesa già descritta) dietro un muro distante dal cortile centrale, dove infine gli spara. A una prima visione si può pensare che il «solito posto» dietro il muro sia una fossa comune, o che vi sia allocato uno di quegli spaventosi assembramenti di cadaveri destinati a essere bruciati in fretta e furia, durante lo smantellamento atto a cancellare le tracce dell’orrore; però il luogo della morte di Guido si palesa come un vicolo isolato, una zona neutra che le esigenze della narrazione vogliono distante non dal cortile centrale, ma dagli occhi del bambino. Ciò che richiede il tributo emotivo, la scommessa a favore della vita, la commozione sarà facilmente accettato come verosimile dagli spettatori, senza che nulla li obblighi al riscontro storico; mentre, per ogni elemento che palesemente non torna, il regista è pronto a rispondere: «chi ha mai parlato di un lager? È tutta finzione!». Se un film riceve critiche per la sua inverosimiglianza, queste critiche sono sciocche e ingenue, perché il film è una favola; se però vince l’Oscar evidentemente il film parlava dell’Olocausto, storicamente inteso.

Alfredo Marasti è nato a Pescia nel 1990. Laureato in Scienze dello Spettacolo, abbina alla scrittura (Storia e rappresentazione. Come il cinema italiano ha raccontato il fascismo, 2015), l’attività di cantautore (Premio De André 2006, Premio Miglior Testo Musicultura 2013). Ha diretto due lungometraggi indipendenti (Ivardùsh, 2013 e Due per due, 2016) e tutti i suoi videoclip. Ha pubblicato gli albumAltri Tempi (2020) e Ultimo D’Annunzio (2022), concept album epico-drammatico sul celebre poeta, insieme al cortometraggio omonimo (trilogia di videoclip co-diretti con Chris Mazzoncini). Nel 2021 è tra i vincitori del premio Adelio Ferrero per la critica cinematografica. Nel Novembre 2022 è uscita per Edizioni Falsopiano il suo secondo libro, una monografia su Roberto Benigni intitolata Il piccolo diavolo e l’acqua santa – Roberto Benigni dalla dissacrazione al politicamente corretto.