Natalina Marrocchesi (1920-2000)


Natalina Marrocchesi
Nasce il 26 marzo 1920 in una famiglia contadina che vive nei pressi di Torri, un paese nel Comune di Sovicille. Il padre non si piega alla richiesta di iscriversi al partito fascista, con la conseguenza di non riuscire ad avere un lavoro stabile né a trovare opportunità saltuarie. La famiglia, dopo alcuni anni di miseria, trova ospitalità dal prete del vicino paese di Rosia, sempre nel Comune di Sovicille. Qui Natalina frequenta la scuola e svolge le mansioni domestiche, impegnandosi con grande sacrificio nel rifornimento di acqua per il fabbisogno quotidiano della casa. Sa che il padre è stato in più occasioni prelevato e picchiato, ma gli adulti non ne parlano per paura che i “tetti bassi”, i bambini, possano raccontare fuori o fare domande aggravando una situazione già penosa. Una notte, agli inizi del 1944, un contingente di fascisti entra in casa con l’intenzione di prelevare il padre che riesce fortunosamente a mettersi in salvo, ma le minacce di morte e di incendio della casa, la distruzione operata negli ambienti domestici convincono ancor di più la giovane Natalina, che ormai è diventata sarta, ad essere parte attiva nella lotta di liberazione.
L’area di Sovicille è uno dei luoghi nevralgici per l’organizzazione della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, snodo strategico per le comunicazioni che il servizio delle staffette garantisce ai vari distaccamenti partigiani dislocati tra più territori limitrofi.
Della brigata entrano a far parte il fratello Giorgio, nome di battaglia “Scorretto”, e, dopo l’incursione subita, anche il padre Remigio. Natalina diviene una fidata staffetta: usa strategicamente la sua macchina da cucire per servire al meglio le richieste vere o

Matrimonio di Natalina Marrocchesi
presunte delle donne che abitano la fitta rete poderale della zona. Si muove tra le case sia in paese che nelle campagne, raccoglie per i combattenti vestiario, calze e maglie di lana, si sposta fino ai poderi più prossimi ai rifugi per cucire e rammendare gli indumenti dei partigiani e porta loro informazioni e messaggi celati ad arte in mezzo agli strumenti del mestiere. In diverse occasioni queste uscite sono concordate con una o due amiche; insieme si fermano per più giorni ad aiutare le massaie a fare il pane e rifornire i partigiani nei luoghi convenuti.
Con l’approssimarsi del fronte di guerra Natalina si trova nei pressi di Molli, teatro dell’ultimo scontro cruento tra partigiani e forze naziste prima della Liberazione di Siena: sta cucinando per la banda quando all’improvviso inizia la sparatoria ed è costretta ad allontanarsi per non perire sotto i colpi dell’artiglieria nemica. Subito dopo la Liberazione sarà attiva nel PCI e nell’UDI; otterrà la qualifica di patriota.
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🟪Stralcio da un’intervista realizzata nel 1992, in Folchi, Frau, “La memoria e l’ascolto”, pp. 102-103. L’episodio si riferisce allo scontro nella zona di Molli avvenuto il 24 giugno 1944.
Come si fu buio noi si prese i nostri fagotti, ecco. Sicché e fu tutto un giorno un combattimento che ogni pochino chi sparava di qui chi sparava di là, le pallottole ci fischiava tra le gambe mentre si veniva via, c’era un marroneto: via senza sape’ da che parte venivano e dove andavano. Sicché piano piano ci si ritrovò a Meleto. Quando s’arrivò a Meleto ma noi donne così, poi c’era arrivato anche il mi’ babbo, ecco, in quel momento poi ritornò […] anche la mi’ povera mamma e c’erano tutti, allora dissi: “Ora noi si muore tutti, si muore tutti insieme, siamo tutti per qui”. Quando s’arrivò a Meleto c’era solo due vecchi in casa: uno era di qua e una era di là. Litigavano questi poveri vecchi, mi pare di vederli ora. Lui le diceva: “Maria ti do una bastonata”. E noi s’era lì di fori: “Aprite Nicchino! – si chiamava Nicchino quest’omo – o Nicchino apriteci, e so’ Remigio!” Diceva il babbo. E questi niente ’unn’apriva nessuno e ’un c’era nessuno, la chiave nell’uscio ’un c’era, erano spariti tutti perché con quella battaglia che c’era dicevano che venivano a brucia’ Meleto: erano scappati e avevano lasciato in casa questi du’ vecchi. Allora, uno di qua uno di là litigavano parevan diavoli, allora poi da ultimo aprirono, ma noi ’un se ne poteva più, e si rimase lì. Dopo un po’ arrivò Aldo il Minacci, eramo a casa sua, venne su a vede’ che faceva ’sti du’ vecchi e ci ritrovò tutti a quel modo e dice: “Guardate, noi siamo scappati, hanno detto che vengono a brucia’”. Ci si affacciò a una finestra e bruciava Tegoia, gli avevan dato fuoco. “Noi non si viene”. Noi non se ne poteva più e si rimase tutti lì […]. Ad ogni modo si fece giorno. Ecco, ora poi questi partigiani, questi partigiani che c’erano rimasti erano laggiù a questo fosso e noi si stette lì, poi c’era da fargli anche il pane e allora si fece anche il pane. Si misero in du’ forni, si accese il forno di Meleto e quello di Meletino. Si fece il pane di qua e si portò di là, poi a mezzogiorno con un caldo che ’un se ne poteva più si mise questo pane dentro un sacco e via a corsa si arrivò qua alle Reniere. Poi qualche giorno noi siamo stati anche lì alle Reniere, però quando si arrivò a fare il pane c’era il guardia, non si sapeva come fa’ perché veniva sempre a vede’, era sempre intorno i’ forno. Il pane, capirai, eran tanti, eramo in tanti anche noi per là, fra quelli di Meleto e quelli che arrivavano. Capirai, con quelli che c’era si capiva, si vedeva che era tanto, era troppo il pane, ma insomma giù, in ogni modo s’ebbe fortuna: non disse niente.