Luisa Ballocci (1933-2020)

Nata nel 1930 a Trequanda, in provincia di Siena, fin da piccola respira un clima familiare profondamente antifascista: il padre Luigi, ex impiegato pubblico, non ha più un lavoro stabile a causa della sua opposizione al regime, mentre la madre Giuseppina Dini è maestra elementare a Pergine.
Dopo l’8 settembre 1943 il fratello Raul è catturato dalle truppe tedesche e caricato su una camionetta diretta verso il Nord Italia; giunti a Firenze, in un momento di distrazione dei carcerieri, riesce a scappare. Tornato a casa è richiamato per la leva e, con altri, si nasconde sulle colline limitrofe ad Arezzo. Si rifugia in un capanno di frasche e Luisa, assieme alle due sorelle maggiori, è incaricata di portargli coperte e cibo. Inizia così anche per lei, che ha circa tredici anni, l’attività di staffetta.

Luisa Ballocci
La casa di Luisa è frequentata da allievi che vanno a lezione per prendere la licenza elementare, cosicché la madre può ricevere lettere senza destare sospetti; i messaggi sono poi affidati alle figlie che devono consegnarli nella zona di Badia Agnano, dove alcune famiglie contadine ospitano dei partigiani.
Dopo che la sorella Silvia è stata avvicinata da un soldato tedesco, la madre cuce loro una tasca di stoffa che può essere legata alla vita, in modo da poter disporre di un nascondiglio più sicuro. Quando la famiglia viene avvertita che i movimenti di Silvia sono seguiti dai militi fascisti, sono Luisa e la sorella Ernesta (Nenne) a continuare da sole questa attività, che si svolge anche più volte a settimana. Un giorno, probabilmente il 9 luglio 1944, si vedono correre incontro i contadini che le esortano a scappare; in seguito ad uno scontro fra partigiani e tedeschi il casolare è stato incendiato e si conta almeno una vittima, un’anziana donna paralitica lasciata a casa con la speranza che fosse risparmiata1. Dopo l’accaduto anche la famiglia di Luisa è costretta ad allontanarsi da Pergine per farvi ritorno nei giorni successivi alla Liberazione, avvenuta fra il 17 e il 18 luglio.
Insieme a Nara Scaloncini (1931-2018)2, Luisa sarà la più giovane in tutta la Regione a ricevere il riconoscimento di partigiana combattente; la stessa qualifica verrà attribuita al padre, alla madre e al fratello, comandante dell’8a banda del Raggruppamento Monte Amiata che verrà insignito nel 1952 della Medaglia d’argento.

Luisa Ballocci
NOTE
1 Episodio riportato in Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia.
2 Anche Nara Scaloncini fu attiva nel Raggruppamento Monte Amiata, nell’area fra il senese e il grossetano.
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🟥Intervista a LUISA BALLOCCI, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, pp. 130-132
…la mia mamma diceva che bisognava fare tutto quello che era necessario fare, non c’era scelta, nessuno di noi poteva avere la scelta di dire: – io questo non lo faccio -. Perché era troppo importante, era veramente fondamentale che i collegamenti ci fossero e lo doveva fare chi era dentro ad una specie di sistema che non poteva permettere di essere allargato così. La sicurezza, allargare troppo era rischioso. E la mia mamma era convintissima di quello che faceva, era una donna molto forte.
[…] Io pensavo di fare una cosa molto importante, ero convintissima, sentivo che la mia funzione, per quanto di bambina, era importante e anzi mi sentivo, come posso dire, ripagata dal fatto che non si immaginassero che una bambina poteva fare da tramite. Mi sentivo importante e soprattutto io ho acquistato in quel periodo il senso del dovere, un senso del dovere quasi patologico però, […] mi è rimasto appiccicato, l’ho assimilato, come una cosa tanto importante più della vita.
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🟥Intervista in Enzo Gradassi (a cura di), Donne aretine. Guerra pace ricostruzione libertà. Mostra documentaria, Montepulciano, Le Balze, 2006, pp. 34-5.
E allora si continuò noi: io, la Nenne e il cane. Ci legava questo nastro con la tasca in vita, sotto i vestiti, noi si arrivava da queste famiglie, si consegnava soltanto a uno, che era un capoccia piuttosto anziano (del quale non saprei dire l’età, perché quando siamo bambini ci sembrano tutti vecchi, magari avrà avuto cinquant’anni). Questo succedeva due-tre e talvolta quattro volte la settimana. Lo abbiamo fatto decine e decine di volte. Per un mese e mezzo l’ho fatto anche da sola: io e il mio cane, perché Nenne, che era più gracilina, si ammalò. A lei queste camminate non facevano bene o forse era in un’età un po’ delicata. Poi venne il bel giorno che i contadini ci vennero incontro a dire “Scappate!”. C’era stato uno scontro tra partigiani e tedeschi. Per fortuna la gente era scappata… ma loro prima ammazzarono le bestie nelle stalle, poi dettero fuoco ad ogni cosa. Questi contadini avevano lasciato in casa una vecchia paralitica pensando che a lei non avrebbero fatto niente e invece questa povera vecchia fu bruciata viva. Perché dico che noi eravamo coscienti di quello che facevamo? La mia mamma ci aveva raccontato e spiegato tutte le sofferenze… questa impossibilità del mio babbo di avere un lavoro remunerativo, tutte le ingiustizie che le famiglie meno abbienti subivano […].
Dunque sapevamo di svolgere un lavoro illegale e rischioso.
Pensa che, finita la guerra, per almeno tre anni ogni volta che sentivo suonare il campanello alla porta, sobbalzavo sulla sedia. Non era stato un lavoro inconsapevole. Del resto avevamo visto tante volte i tedeschi tentare di buttare giù la porta di casa per entrare. Tanto è vero che dopo l’episodio dello scontro di San Donato, la mia mamma ci portò via, ci portò in casa di contadini. Cambiammo diverse case di contadini perché capitava che ci fermavamo in una casa dove – per carità! – ci accettavano a braccia aperte. Ma dopo un po’ veniva una pattuglia tedesca, si piazzava lì vicino, magari con i cannoni… e allora si doveva cambiare, spostarsi altrove.
Fin dall’inizio mi era stato raccomandato di non aprire mai le missive, a rischio della vita di tante persone. Persone che facevano questa lotta importantissima per il nostro paese. La mamma diceva che non dovevamo sapere niente. Quindi questo è stato fatto senza nessun merito, senza nessun merito personale: certo per i ragazzi che a vent’anni scelsero invece di imbracciare il fucile fu una cosa molto diversa… o per le donne che proteggevano e curavano i partigiani quando erano feriti, o quelle che nascondevano i prigionieri, quelli evasi dai campi di concentramento: quelle rischiavano la vita. Ne ricordo ancora uno che si chiamava Smith. Quasi in ogni famiglia ce n’era uno, famiglie di contadini. Specialmente quelle vicino al bosco, perché scappavano e si nascondevano nel bosco…