La liberazione di Pisa: chi entrò per primo in città?
Chi furono i primi a entrare a Pisa il 2 settembre 1944? Questa domanda ha sollevato negli anni passati un polverone di polemiche e discussioni: sono stati i partigiani della Nevilio Casarosa o i soldati alleati a fare i primi passi nella Pisa liberata? Sicuramente alla fine dell’agosto 1944 le truppe naziste arretrarono a causa della pressione dell’esercito alleato, così come la precedente scelta militare degli angloamericani di fermarsi sulla sponda sud dell’Arno dalla seconda metà del luglio 1944 era stata all’origine del periodo più duro per la popolazione pisana, che per 45 giorni visse in un incubo fatto di razzie, stragi e fame.
L’andamento della guerra dipende soprattutto dalle scelte degli eserciti armati fino ai denti e dotati di risorse per sostenere scontri e attese. Nell’Italia del 1944-1945 però fu spesso la Resistenza a risultare determinante per la liberazione delle città. A Firenze, ad esempio, i partigiani diedero il via alla riscossa e combatterono strada per strada contro fascisti e nazisti. Non così a Pisa, dove le formazioni partigiane erano mal ridotte e poco armate. La città era devastata, la popolazione, terrorizzata e affamata, era concentrata nella zona a nord dell’Arno, intorno all’Ospedale e alla Piazza dei Miracoli. Migliaia di sfollati sopravvivevano cercando giorno dopo giorno cibo e protezione. Le forze di occupazione naziste avevano imposto un rigido coprifuoco, che prevedeva la possibilità di uscire solo due ore al giorno, dalle 10 alle 12. Coloro che venivano trovati per strada fuori da questo orario rischiavano la fucilazione. Presso le caserme poco fuori dal centro abitato venivano condotti continuamente numerosi giovani rastrellati in città o per le campagne vicine e inviati ai lavori forzati. Il 4 agosto il Comando tedesco ordinò di adunare tutti gli uomini dai 16 ai 50 anni in piazza del Duomo, il successivo rastrellamento portò a un totale di circa 470 deportati. La notte tra il 5 e il 6 sopra Molina di Quosa, sulla porzione occidentale del Monte Pisano, un’azione tedesca catturò 200 uomini: di questi, una settantina di imprigionati fu in seguito fucilata a gruppetti nelle campagne tra Pisa e Lucca.
Ma non erano solo i tedeschi a terrorizzare la popolazione. Alla fine di luglio 1944, il commissario straordinario Mario Gattai, rappresentante civile della città, annotava sul suo diario:
La vita cittadina è rimasta completamente paralizzata perché i proiettili arrivano ovunque e ormai non c’è più uno spazio di cento metri imbattuto. Fare un tratto di strada anche breve significa affrontare la morte. Nell’Ospedale, che ieri ho visitato, gli ammalati e i rifugiati si affollano promiscuamente nelle corsie basse e negli scantinati. In città tutti hanno lasciato i piani superiori e le parti della casa che guardano l’Arno.
In questo contesto, dunque, la disputa su chi entrò per primo a Pisa e si rese protagonista della Liberazione riguarda soprattutto gli attori simbolici di un evento decisivo per la vita della popolazione. È necessario immaginare l’attesa spasmodica del passaggio del fronte, in quanto termine di una quotidianità intrisa di terrore e ansia, conclusione cosciente di un incubo terrorizzante.
Da parte delle forze della Resistenza armata si trattava anche di dimostrare la presenza di un soggetto organizzato, che aveva dato prova di sé nella lotta antifascista e pronto a diventare un interlocutore affidabile per i comandi alleati. La versione più affidabile finora è stata che un drappello di membri della formazione Nevilio Casarosa entrò a Pisa prima dei militari alleati, la mattina del 2 settembre 1944, e si fermarono presso la Piazza del Duomo.
Adesso però emergono delle nuove informazioni, che potrebbero cambiare – e non di poco – la nostra conoscenza dei fatti. Grazie a una documentazione inedita è di recente emersa l’esistenza di un’altra piccola formazione partigiana, la squadra Audace di Coltano, che sarebbe entrata a Pisa il giorno precedente, il 1º settembre. Non si tratta solo di una gara simbolica: si tratta di restituire un quadro più complesso e articolato degli attori in gioco, dell’impegno a vario titolo che gruppi di persone si assunsero per contribuire alla lotta contro tedeschi e fascisti. Seguendo ancora le parole di Gattai, è importante ricostruire la storia di tutti coloro che stavano andando nella direzione di un recupero di una moralità attiva che sarebbe stata alla base della ricostruzione politica del paese:
occorre che il pubblico collabori, che metta da parte quel losco egoismo che ha fatto di questa disgraziata gente pisana quasi un branco di pecore matte. Solo uscendo dalla propria cerchia personale e prendendo parte attiva alle cose cittadine, alla vita comunale, si può sperare di rifare un’Italia indipendente che si governi da sé libera da qualunque da qualunque gioco [recte: giogo] straniero.
Il 21 luglio gli americani erano arrivati da Livorno a Coltano, in una tenuta agricola frutto di una bonifica condotta dall’Opera Nazionale Combattenti. Qui alcuni uomini, coordinati da Giuseppe Batazzi, si organizzarono in una formazione partigiana per supportare le attività militari di controllo del territorio e organizzare l’alimentazione della popolazione sfollata (la documentazione relativa a questa formazione, di cui non si hanno ancora ricostruzioni a livello storiografico, è custodita nelle carte personali di Rossana Bernardini, figlia del partigiano Pietro Nello Bernardini). Conoscevano perfettamente il territorio e potevano svolgere dei compiti di gestione territoriale, tra cui reperire cibo, ovvero recarsi ai mulini funzionanti per macinare il grano e far preparare il pane, curarsi degli sfollati e controllare i movimenti delle persone di passaggio. Si creava così una sorta di cordone di collegamento tra i comandi alleati piazzati a Collesalvetti e le strisce di terreno che arrivavano fino alla cerchia urbana di Pisa.
La mattina del 1º settembre ricevettero una richiesta straordinaria: fare una ricognizione dentro la città per verificare se erano vere le informazioni sulla ritirata dei tedeschi. Furono accompagnati alla Saint Gobain, dove alle nove di sera riuscirono ad attraversare il fiume all’altezza del Ponte della ferrovia, a Porta a Mare, mentre le batterie alleate sparavano colpi di copertura. Divisi in due gruppi, gli uomini perlustrarono la Cittadella e i Vecchi Macelli, percorsero i tratti dalla Caserma alle vicinanze dell’Ospedale Santa Chiara e dai Macelli Pubblici fino all’ingresso di Piazza del Duomo, senza incontrare forze nemiche. A mezzanotte tornavano quindi euforici verso Mezzogiorno, «intonando inni patriottici». Il giorno dopo, la stessa squadra rientrò all’alba in città e si incontrò in Piazza del Duomo con un gruppo partigiano della formazione “Nevilio Casarosa”, attiva sui Monti Pisani tra il luglio e l’agosto. Entrambi diffidarono della sincerità reciproca, impossibilitati a capirsi dalla distanza delle esperienze e dalla difficoltà delle comunicazioni. In ogni caso vennero acclamanti dalla popolazione come se fossero i veri liberatori della città, simboli concreti della fine di un incubo.
Dal giorno successivo sarebbe potuta iniziare un’altra storia, in cui la guerra tornava a essere una realtà drammatica, ancora presente, ma svolta lontano da casa. Adesso era il momento di rimettere insieme i frammenti e provare a tracciare una strada di convivenza e ripristino di una quotidianità ordinaria.
Un paio di mesi dopo i sopravvissuti potevano girarsi indietro e iniziare a fare i conti con quanto era successo: «La guerra ha schiantato la nostra città, è vero. Non c’è strada che non mostri le sue ferite, non c’è piazza senza piaga. Non abbiamo più ponti, né luce, né acqua e questo da mesi. Quarantacinque giorni di assedio hanno permesso alle artiglierie di frugare nelle più gelose strade della nostra Pisa. I biondi barbari hanno frantumato con la dinamite le case e le difese sul fiume. L’Arno ci ha inondato e ancor oggi sono visibili le nuove rovine. Tutta la città è un triste scenario di case crollate, di interi quartieri rasi al suolo, di ingabbiature annerite, di pareti smozzicate e rose dagli incendi. Il Mezzogiorno non può più comunicare con Tramontana, una delle ultime nostre torri è crollata in Arno, il Camposanto vecchio è stato incendiato, le antiche mura violate dalle esplosioni. Ma Pisa non è morta. Ha solo chiuso gli stanchi occhi per non vedere tanto scempio, per non contare le troppe ferite» (Monatti intellettuali, in «Corriere dell’Arno. Giornale d’informazione della provincia di Pisa», a. 1, n. 12, 23 novembre 1944).