“…all’infuori di un immenso amore”: per un profilo intellettuale di don Aldo Mei a 75 anni dalla morte

L’autore ringrazia la Chiesa parrocchiale di Fiano per l’accoglienza e la disponibilità dimostrate durate la redazione del presente articolo.

Si trova ai piedi delle mura di Lucca, venendo da Porta Elisa, a pochi passi dal baluardo San Salvatore, in uno scenario idealmente coronato dai rami degli alberi della verde passeggiata pedonale voluta da Maria Luisa di Borbone che si snoda lungo tutto il perimetro del monumento-simbolo della città: un’alta pietra squadrata – decorata unicamente da una croce bianca e da un’epigrafe – fatta erigere dalla Misericordia di Lucca per onorare la memoria di don Aldo Mei, “indegno parroco di Fiano” (così si firma nella sua ultima lettera-testamento), fucilato in quello stesso luogo dai tedeschi la sera del 4 agosto 1944 dopo esser stato costretto a scavare la propria fossa, oggi delimitata da un filare di pietre e ricoperta da bianca ghiaia. Da allora non è passato anno senza che la comunità locale non si sia riunita per ricordare la figura del giovane parroco – trentaduenne al momento della condanna a morte, essendo nato a Ruota (Capannori) il 5 marzo 1912 – a cominciare da quel 5 agosto 1945 quando, dopo una solenne e partecipata messa, l’arcivescovo Antonio Torrini (dalle cui mani dieci anni prima Aldo aveva ricevuto l’ordinazione presbiterale) benedice il cippo in memoria del parroco.

Una vicenda, ha scritto don Marcello Brunini, che “inizia nel silenzio e nell’umiltà […], si nutre di Vangelo […], si completa nell’offerta totale della vita, nel martirio non cercato, ma accettato come dono”: una vita breve (ma del resto don Aldo sa bene che essa è solo una preparazione alla “vera patria”, alla presenza di Dio), che una malattia scheletrica segnerà profondamente costringendo Aldo a indossare un busto di ferro, vissuta all’impronta di una fortissima fede, come emerge dagli scritti pubblicati nell’antologia Testimone sempre, editi da Maria Pacini Fazzi nell’ormai lontano 1987. Fede e amore: quell’amore che solo può essere accettato come “totalitario”, come il parroco scrive nel suo diario nel dicembre 1942, quando la guerra e i suoi effetti sulla popolazione fianese cominciano a incidere sempre più sulla comunità, con la partenza per il fronte di numerosi giovani; quella guerra definita come “la più atroce che ci ricorda la storia”, dove “si contano i carri armati, gli aereoplani, gli ordigni di guerra, ma gli uomini morti o feriti o dispersi, non si contano, affatto!”. E in questa guerra dove “funeste ideologie […] peggio delle antiche ideologie pagane”, scrive ancora don Aldo nel gennaio 1943, spingono gli uomini nelle braccia dei nuovi Moloch (lo Stato, il partito, il duce), non ci si può sottrarre ad una scelta, e “l’indegno parroco” non si tira indietro: la sua è una scelta dettata dalla carità verso le vittime. Amare e ad aiutare dunque le vittime, “i poveri, i reietti, i rifiuti della società” (i partigiani cui somministra i sacramenti, i renitenti e i perseguitati che nasconde) non meno che gli avversari: quanto a questi ultimi“amarli sempre”, in completa aderenza al dettato evangelico, “soprattutto quando insultano, quando avviliscono, quando perseguitano, quando crocifiggono”. Amare fino in fondo, come quella sera del 4 agosto sotto gli spalti delle mura, quando don Mei muore benedicendo i propri carnefici, e una pallottola trafigge la mano alzata a benedire.

Negli anni la figura del giovane parroco fianese è divenuta un simbolo di quella rete di resistenza civile e disarmata che proprio nella provincia di Lucca ebbe il suo fulcro nella Chiesa, vedendo la partecipazione di numerosi protagonisti – da Arturo Paoli a Sirio Niccolai fino a Guido Staderini, senza dimenticare i monaci certosini di Farneta (trucidati e deportati ai primi del mese di settembre 1944 per aver nascosto una ventina di persone di religione ebraica): fin dal primo anniversario della morte gli scritti di don Aldo – in particolare il testamento – vengono stampati e diffusi, seguiti da una biografia redatta da Mansueto Lotti i cui proventi servono a coprire le spese del monumento eretto a Fiano. A far conoscere su scala nazionale Aldo sarà però la raccolta Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (1952), più volte ristampata nel corso degli anni da Einaudi; un anno dopo viene citato nella Storia della Resistenza Italiana di Roberto Battaglia. In tutti questi anni e in quelli successivi non si interrompono inoltre i pellegrinaggi alla tomba (che dal 1987 si trova nella chiesa di Fiano), .le commemorazioni e i cortei, come quello imponente che nel 1964, ventesimo anniversario della morte, attraversa la città partendo dalla Pia Casa – dove Aldo era stato imprigionato dopo l’arresto – e si conclude sul luogo del martirio, alla presenza dei fratelli e della madre del parroco (itinerario più volte riproposto e che negli ultimi anni ha visto la partecipazione dell’attore lucchese Marco Brinzi nei panni ideali di Aldo); infine le numerose pubblicazioni, come il Martirologio del clero italiano edito dall’Azione Cattolica sempre nel ’64 (in concomitanza con l’avvio del processo di beatificazione e canonizzazione), la già citata antologia di scritti editi da Maria Pacini Fazzi e i numerosi contributi dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Lucca, che hanno ulteriormente approfondito tanto la figura di Aldo Mei quanto il ruolo dei religiosi nella Resistenza e ai quali recentemente sono andati ad aggiungersi, in occasione del settantacinquesimo anniversario, mostre fotografiche (L’amore non muore. Don Aldo Mei martire della carità,curata da Emmanuel Pesi) film-documentari (Questa terra impastata di sangue, per la regia di Stefano Ceccarelli e la sceneggiatura di Marco Brinzi e Luciano Luciani) e persino fumetti (Come into my house. Nove storie di Fuga e Resistenza, scritto e disegnato da Emmanuel Pesi e Luca Lenci).

Non ha mai smesso di affascinare don Aldo, con la sua figura esile, l’aria mite, i grandi occhiali sfoggiati nelle fotografie d’epoca, resistente disarmato che sacrifica la propria vita nel nome del Vangelo (“Mio Dio”, scrive il 13 novembre 1942, “datemi di guardare con sereno coraggio all’Eroismo Evangelico”) e dell’amore – “muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio”, recita quello che è forse il più celebre passo tratto da una delle sue ultime lettere, quella indirizzata ai genitori, “io che non ho voluto vivere che per l’amore!”. Questa in ultima analisi l’eredità di Aldo Mei, che altro non ha avuto da lasciare che il proprio esempio, impossibile da rinchiudere entro i confini dell’agiografia, trasversale fino all’universalità, che parla a credenti e non credenti:”nulla da lasciare”, come recitano le righe tracciate a lapis sul breviario poco prima dell’esecuzione, “all’infuori di un immenso amore”.

Gli abiti indossati al momento della fucilazione, conservati presso la chiesa parrocchiale di Fiano (foto di S. Lazzari)

Articolo pubblicato nell’agosto del 2019.




Un mese con Don Aldo

Depliant 2 (retro)




A Lucca la presentazione del libro “Donne in guerra scrivono”

Si terrà oggi pomeriggio a Lucca presso la sala “Maria Eletta Martini” in via Sant’Andrea 33 la presentazione del libro “Donne in guerra scrivono. Generazioni a confronto tra persecuzioni razziali e Resistenza (1943-1944)”, edito da ASKA Edizioni e scritto a sei mani da Camilla Benaim, Elisa Rosselli e Valentina Supino (che sarà anche presente per parlare del libro, curato da Marta Baiardi). Porteranno il saluto delle istituzioni il sindaco di Lucca, Alessandro Tambellini, e Ilaria Vietina, assessore alle politiche formative e alla continuità della memoria storica. Converserà con l’autrice la giornalista Margherita Loy.

17 giugno 2019 Donne in guerra scrivono Lucca presentazione




“Guerra totale, collaborazionismi, resistenze”: da marzo il corso di formazione per docenti promosso da ISREC Lucca

L’Istituto Nazionale “Ferruccio Parri” e l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca, in collaborazione con Domus Mazziniana, organizzano due corsi di aggiornamento a Lucca e Pisa, rivolti ai docenti di storia ma aperti anche ad uditori esterni: ogni corso prevede quattro incontri della durata di tre ore ciascuno (dalle 15.00 alle 18.00); la partecipazione ai corsi da parte dei docenti sarà riconosciuta con attestato valido ai fini della formazione in servizio. Obiettivo del corso è quello di fornire spunti di riflessione utili all’elaborazione di percorsi didattici relativi alla storia della Seconda guerra mondiale.

Per iscriversi: l’iscrizione è libera e gratuita, da effettuarsi inviando un’email all’indirizzo isreclucca@gmail.com entro e non oltre martedì 12 marzo 2019.

Per maggiori informazioni: tel. 0583 55540 – web www.isreclucca.it




Corso di formazione docenti organizzato dall’Istituto storico per la Resistenza di Pistoia

A 75 anni dal passaggio della guerra e dalla Liberazione del nostro territorio, l’I.S.R.Pt. organizza un corso per approfondire aspetti del conflitto a livello continentale e locale, alla luce della più recente storiografia. Saraà anche un’occasione per riflettere sugli strumenti e le metodologie più adatti per affrontare tematiche cruciali ma ormai sempre più distanti nel tempo.

A chi si rivolge: docenti di scuole secondarie di primo e secondo grado.

Il corso di aggiornamento prevede 3 incontri di 3 ore ciascuno, per un totale di nove ore, oltre 7 ore di studio individuale. Il materiale sarà fornito dai relatori di ogni lezione. A conclusione del corso ci sarà una verifica finale. Al termine del corso di 16 ore sarà rilasciato un attestato di frequenza valido per il proprio curriculum come corso di aggiornamento.

Costo iscrizione: 50 euro. il versamento della quota dovrà essere effettuato prima dell’inizio del corso. È possibile utilizzare il bonus della Carta docente sulla piattaforma Sofia.

Date: 14, 21, 28 marzo 2019

Orario: 15:00-18:00

Sede: Sala Luciano Lama, CGIL Pistoia, Via Puccini 104

Per iscrizioni e info (entro 28 febbraio):

ispresistenza@tiscali.it

Tel. Sede 0573 359399

 

GIOVEDÌ 14 MARZO 2019

  1. Guerra Totale

Ore 15:00 – Apertura dei lavori

Ore 15.15 – La guerra nazista in Italia. Violenze sui civili e crimini impuniti, Marco Conti

Ore 16:00 – Discussione

Ore 16:15 – «Bono ‘taliano»: l’occupazione italiana dei Balcani (1941-1943), Lorenzo Pera (Università degli Studi di Firenze)

Ore 17:00 – Discussione

Ore 17:15 – Studiare la guerra totale oggi: laboratorio didattico a cura di Filippo Mazzoni (Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia)

Ore 17:45 – Discussione

Ore 18:00 – Chiusura lavori

 

GIOVEDÌ 21 MARZO 2019

  1. Collaborazionismi

Ore 15:00 – Apertura dei lavori

Ore 15.15 –  I conti con il fascismo. I processi delle Corti d’assise straordinarie 1945-1947, Fabio Verardo (Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia)

Ore 16:00 – Discussione

Ore 16:15 – “Collaborare col tedesco invasore”: culture e pratiche della RSI in Toscana, Marta Baiardi (Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea)

Ore 17:00 – Discussione

Ore 17:15 – Tecnologie e didattica della storia: laboratorio didattico a cura di Alice Vannucchi (Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia)

Ore 17:45 – Discussione

Ore 18:00 – Chiusura lavori

 

GIOVEDÌ 28 MARZO 2019

  1. Resistenze

Ore 15:00 – Apertura dei lavori

Ore 15.15 –   La Resistenza italiana nel contesto europeo, Claudio Silingardi (Istituto Nazionale Ferruccio Parri)

Ore 16:00 – Discussione

Ore 16:15 – Esperienze resistenziali toscane, Matteo Mazzoni (Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea)

Ore 17:00 – Discussione

Ore 17:15 – Insegnare la Resistenza: a cura di Alice Vannucchi (Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia)

Ore 17:45 – Discussione

Ore 18:00 – Chiusura lavori




Dal Serchio al Piva: i lucchesi della “Garibaldi”

Dal settembre 1943 al marzo 1945 nei Balcani migliaia di soldati italiani provenienti dal disciolto Regio esercito combattono contro i tedeschi nelle file di quegli stessi movimenti di resistenza sino ad allora ferocemente cacciati e repressi: brigate partigiane interamente composte da italiani si formano in tutti i paesi precedentemente occupati dalle nostre truppe e soprattutto in Jugoslavia, dove il fenomeno assume una particolare consistenza e si registra la presenza di numerosi combattenti toscani. Come il fiorentino Brunetto Parri, militante comunista e disertore in Croazia al fianco dei partigiani di Tito, nome di battaglia “Spartaco” (in memoria dell’omonimo ferroviere Lavagnini, ucciso dagli squadristi nel 1921); o il carabiniere massese Mazzino Ricci, il “Ridji” protagonista di una canzone popolare montenegrina che ne canta l’abilità con la mitragliatrice Breda.

È proprio in Montenegro che ci imbattiamo in numerosi soldati originari della provincia di Lucca, appartenenti ai reparti della divisione di fanteria da montagna “Venezia”: inviata nel paese nel luglio 1941 allo scopo di reprimere l’insurrezione che minaccia di compromettere il controllo italiano sulla regione, dopo l’otto settembre – con i suoi oltre 12mila effettivi – costituirà assieme ai reparti alpini della “Taurinense” il nucleo principale della divisione italiana partigiana “Garibaldi”, costituita ufficialmente il 2 dicembre 1943. Di alcuni di questi soldati perdiamo ogni traccia prima dell’armistizio: come i massarosesi Attilio Lipparelli di Quiesa (classe 1921) e Idilio Albiani di Pieve a Elici (1912), le cui ultime notizie risalgono rispettivamente al mese di agosto e al 3 settembre 1943 (sebbene per Albiani si parli di una sua presenza non confermata a Belgrado nel 1944). Più fortunati saranno i loro concittadini Francesco Coppedè e Angelo Cosci, rientrati in Italia nel giugno 1945 il primo e in aprile il secondo: quello di Cosci è un caso più unico che raro, essendo egli approdato alla “Garibaldi” dopo aver servito nel LXXXVI battaglione delle camice nere, rimaste alleate dei tedeschi. Restano ignoti i motivi dietro la sua scelta.

Al momento dell’armistizio la “Venezia” presidia l’area orientale del paese ai confini con il Kosovo, dove le truppe tedesche ancora non sono giunte: il comandante della divisione, generale Oxilia, si pronuncia fin da subito per la resistenza, ma è incerto rispetto alla condotta da adottare nei confronti dei partigiani così come dei reparti collaborazionisti cetnici, ferocemente anticomunisti. Mentre l’azione del generale è paralizzata dalla questione delle alleanze, i tedeschi cominciano a muoversi: uno dei primi tentativi di infiltrazione delle linee di difesa italiane è sventato dalla XI compagnia del capitano Paolo Bardini di Seravezza, che fa aprire il fuoco su una colonna di autocarri tedeschi che si erano messi in movimento col favore della notte.

Nel mese di novembre la “Venezia” è ormai convertita alla guerra partigiana, dopo gli accordi di Kolasin fra il capitano Mario Riva e il comandante partigiano Peko Dapcevich stipulati alla fine di settembre (e ratificati in ottobre dai comandi italiani). Non è una facile convivenza per soldati nati e cresciuti sotto il fascismo, nutriti da anni di propaganda anticomunista: come scriverà il reduce Enrico Bedini, di Gombitelli, “la parola comunista mi dava un senso di terrore. Avevo sentito parlare di loro come degli orchi delle fiabe e il mio animo era impressionabile come quello di un fanciulletto”. Numerosi soldati cadono in combattimento in quelle settimane: l’ufficiale Lando Mannucci, allora a capo del I battaglione che difende Kremna dall’assedio di reparti tedeschi e bulgari, ricorda la presenza di tre lucchesi fra i caduti (Guido Mencacci, Bruno Munari e Giovanni Salvietti, decorati alla memoria). Il 30 novembre, pochi giorni prima della fondazione della “Garibaldi”, cade invece durante l’assalto ad un caposaldo tedesco, colpito da una bomba nemica, Ottavio Cavalzani (nato a San Gennaro di Lucca nel 1914).

La neo-costituita divisione vive subito un duro battesimo del fuoco: il 5 dicembre i tedeschi scatenano quella che nella storiografia jugoslava viene ricordata come la “VI offensiva”, giunta tanto più inaspettata in quanto avviata alle soglie di quello che si preannuncia come un inverno particolarmente rigido; è probabilmente nelle primissime fasi di questa operazione che viene fatto prigioniero Luigi Gemignani – classe 1921, di Massarosa – per il quale si apre la dura stagione dell’internamento (dapprima per mano dei tedeschi, che lo deportano forse in Bielorussia, quindi nuovamente quando i sovietici liberano il campo dove era stato internato, reclamando gli italiani come prigionieri di guerra, prima di tornare in Italia nel novembre 1945).

Nelle settimane successive all’attacco tedesco le brigate sono divise, e devono combattere duramente contro il clima, la fame e i ripetuti agguati nemici: a tutto questo si aggiunge, nel gennaio 1944, un’epidemia di tifo. I comandi partigiani, a fronte della situazione sempre più drammatica, decidono in febbraio di inviare parte delle forze italiane in Bosnia, anche alla luce della carestia che ha colpito il Montenegro, la cui popolazione non può più sostentare i combattenti: è probabilmente durante una di queste marce interminabili attraverso il territorio bosniaco – vera e propria epopea del dolore che segna indelebilmente la memoria della “Garibaldi” – che il fante Giovanni Paladini, nato a Mutigliano nel 1921, subisce il congelamento di entrambe le gambe, fortunatamente non grave al punto da richiederne l’amputazione, ma che gli lascerà problemi di circolazione che lo tormenteranno tutta la vita. Sono mesi durissimi, durante i quali, ricorderà ancora Paladini in uno dei rari racconti che farà alla famiglia degli anni di guerra, il cibo scarseggia al punto che i soldati debbono nutrirsi di bucce di patate: la drammaticità di quei frangenti non incrina però l’affetto di Paladini per la popolazione locale, che raramente nega la propria solidarietà e assistenza agli italiani. Nello stesso anno sempre in Bosnia nel mese di maggio cade, dopo una strenua resistenza allo scopo di favorire l’arretramento dei propri uomini su posizioni più facilmente difendibili, Giovanni Giuliani, nato a Barga nel 1921, già caporale di reggimento nella “Venezia”. Solo poche settimane prima la Bosnia è stata il teatro della tragedia del capitano Pietro Marchisio, ucciso dal tifo e dalle marce estenuanti per riportare nel più sicuro Montenegro i propri uomini: è un lucchese, il sergente maggiore Emilio Boy, ad aiutare Marchisio ad attraversare la pericolante e malridotta passerella di assi e corda sul fiume Piva, trasportando il capitano e molti altri soldati ammalati sulle sue spalle.

Spostandoci dalla Bosnia alla Serbia troviamo Amadeo Paolettoni, lucchese, classe 1921, già della “Venezia” e poi attivo nella brigata “Italia” (l’altra grande formazione partigiana interamente italiana attiva in Jugoslavia), caduto a Belgrado nell’ottobre 1944 durante una missione di rifornimento munizioni. Poco più di due mesi dopo, il 1° gennaio 1945, il Montenegro è completamente liberato, e verso la metà di febbraio i reparti garibaldini – reduci dalla battaglia per la liberazione di Mostar in Erzegovina combattuta quello stesso mese – ricevono l’ordine di concentrarsi a Dubrovnik in vista del rimpatrio, che avviene a partire dall’otto marzo: non tutti i soldati però rientrano immediatamente. Numerosi sono i dispersi che per quasi un anno continueranno ad affluire alla base italiana di Dubrovnik, così come non mancano i casi nei quali gli stessi jugoslavi, ancora in guerra, trattengono gli italiani – soprattutto il personale sanitario – presso le proprie brigate: è quello che accade all’ufficiale medico Giuseppe Marchetti, nativo di Pescaglia, rimasto in servizio in qualità di direttore chirurgico dell’ospedale militare della XXIX divisione d’assalto Erzegovina fino al 24 maggio 1945.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2018.




“Curare la guerra a Lucca”: uomini, medici, partigiani

Guglielmo Lippi Francesconi, direttore del manicomio di Maggiano e oppositore del progetto
nazista di sterminio dei malati di mente, nonché amante dell’arte (fu amico di Lorenzo Viani e si
cimentò egli stesso come disegnatore, realizzando il manifesto del Carnevale di Viareggio del
1925); Carlo Romboni, il “dottorino dei poveri”, come era stato soprannominato nella sua città
natale di Camaiore per l’opera di assistenza – anche finanziaria – prestata alle famiglie più povere;
Mario Tobino, medico, scrittore e partigiano, formatosi agli ideali di libertà nelle frenetiche “tre
giornate” di Viareggio del 1920 che videro la proclamazione di un’effimera repubblica popolare; e
ancora tanti altri protagonisti, dal capitano Felice Montesanti – della cui partecipazione alla
Resistenza la famiglia verrà a sapere soltanto molti anni dopo la sua scomparsa – ai medici di
formazione mazziniana – come Enea Melosi, il “dottor Palmieri” del romanzo Il clandestino di
Mario Tobino – fino agli studenti provenienti dal liceo classico “Carducci” di Viareggio,
avvicinatisi all’antifascismo grazie alla figura del professor Giuseppe Del Freo. Persino un fascista,
il medico garfagnino Mario Bianchini, che cura i partigiani ma non li denuncerà mai ai tedeschi e
alla RSI. Senza dimenticare, come ha ricordato la professoressa Simonetta Simonetti
(ATVL/Società delle storiche), le donne, operatrici sanitarie al fianco dei medici e protagoniste
spesso silenziose e dimenticate loro malgrado.

Dalla Versilia alla Lucchesia alla Garfagnana: medici e studenti, partigiani combattenti e resistenti
civili, antifascisti, socialisti umanitari, laici di sinistra, comunisti, addirittura il fascista Bianchini;
storie attraversate da un filo rosso che ha accomunato tutti gli interventi del convegno promosso
dall’Istituto storico della Resistenza in collaborazione con l’Ordine dei medici e la Fondazione
“Mario Tobino”, tenutosi a Lucca in San Micheletto venerdì 5 ottobre; filo rosso che il
moderatore della serata, il professor Luciano Luciani (ISREC) ha individuato nella fedeltà al
giuramento di Ippocrate in un contesto disumanizzante come la guerra, dove la professione medica
diventa – per dirla con le parole del professor Roberto Rossetti – “cura della dignità umana offesa
dal nazifascismo”. Una scelta vissuta fino in fondo, spesso pagata al prezzo della propria vita: non a
caso infatti ancora Luciani, nel suo intervento conclusivo, ha ricordato la figura del comandante
Felice Cascione, autore delle parole della celebre canzone partigiana “Fischia il vento” e medico
chirurgo egli stesso, tradito dal fascista Michele Dogliotti, che durante la prigionia presso la banda
di Cascione era stato da questi curato e nutrito (“Ho studiato venti anni per salvare la vita di uomo e
ora voi volete che io permetta di uccidere?”, avrebbe detto “U megu” ai suoi compagni che
volevano giustiziare Dogliotti).

La scelta dei valori di umanità e fratellanza – “la parola fratello mai fu così viva”, scriverà Tobino –
contro la spirale di violenza e disumanizzazione prospettata dal Nuovo ordine europeo di Hitler e
Mussolini: una scelta rivolta a salvare, a risparmiare quante più vite possibile (il tratto essenziale, ha
scritto Ercole Ongaro, che distingue la Resistenza dalla guerra “scialo di morte”); soprattutto,
l’importanza di quella scelta che ci chiama a riflettere sull’oggi, sul nostro tempo, dove – ha
sottolineato l’assessore alla memoria Ilaria Vietina portando il saluto del comune di Lucca – la
violenza, il razzismo e l’esclusione sono rischi ancora presenti, rendendo impellente la necessità
da parte di tutti di attivarsi in direzione di una cittadinanza responsabile, base della democrazia.




Festa della Liberazione di Pistoia

In occasione della Festa della Liberazione di Pistoia (8 settembre 1944), il Cudir (comitato unitario di difesa delle istituzioni repubblicane) organizza le seguenti attività:

8 settembre ore 11 – Omaggio alla resistenza, Piazza della Resistenza

8 settembre ore 12 – Deposizione di una corona in memoria degli internati nei campi di concentramento, Stazione di Pistoia

10 settembre ore 11 – Deposizione di una corona in memoria della piccola Jone Pacini, uccisa da un bombardamento tedesco a soli 5 anni – Palazzo di Giano

12 settembre ore 11 – Deposizione di una corona in ricordo della strage di Piazza San Lorenzo – Piazza San Lorenzo