“Altri muri sono sorti…”

Virginio Monti (Lucca, 1947) negli anni ’60 milita nel movimento studentesco lucchese e nelle file della sinistra extraparlamentare marxista-leninista; dopo la militanza in Democrazia proletaria si iscrive a Rifondazione comunista, dalla quale esce per aderire al Movimento per la confederazione dei comunisti. Studioso della storia della Resistenza e del movimento operaio, argomenti ai quali ha dedicato numerose pubblicazioni per la casa editrice lucchese Tra Le Righe; il suo ultimo libro è “La questione ebraica in provincia di Lucca e il campo di concentramento di Bagni di Lucca” (2021).

Quali sono state le tue prime esperienze di militanza politica?

Quando ti sei avvicinato a Democrazia proletaria? E perché proprio DP e non il PCI?

Cosa significava la scelta comunista in un territorio tradizionalmente conservatore come la Lucchesia?

con la politica del PCI e della CGIL, scivolata verso strade concertative con il sistema capitalistico e i suoi tradizionali referenti politici.

della sinistra extraparlamentare e anarchica). Ambienti dove il cuore almeno si rifocillava.

perché la precarizzazione è aumentata e alla scadenza del contratto la storia lavorativa si conclude quasi sempre e senza bisogno di giustificazioni particolari.

DP si è sempre dichiarata contraria al modello di socialismo proposto dall’Unione Sovietica. Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino, e due anni dopo l’URSS si scioglie: il tuo pensiero su questi eventi?

Negli stessi anni il Partito comunista italiano avvia quel processo di trasformazione che nel 1991 porterà alla fondazione del PDS (Partito democratico della sinistra). Come studioso e militante di una formazione marxista ma critica nei confronti del PCI, qual è il tuo pensiero sulla svolta della Bolognina?

[1] A titolo di approfondimento si rimanda al volume AA. VV., E la vita cambiò. Il ’68 a Lucca (Carmignani, Pisa 2018), che raccoglie numerosi scritti di militanti del ’68 lucchese; la testimonianza di Virginio Monti, allora giovane studente dell’ITIS, si trova alle pagine 139-148, ed è tratta dal libro scritto da Monti stesso Il futuro passato. Gli anni ’60 e l’imperdibile ’68 (Tra Le Righe, Lucca 2018).




A sinistra del PCI di fronte all’89: memorie di un “eretico” demoproletario

Eugenio Baronti (Capannori, 1954) ha ricoperto il ruolo di segretario provinciale di DP dal 1980, del quale è uno dei membri fondatori a Lucca; nel 1991 aderisce al PRC, prima di uscire dal partito nel 2010; è stato anche consigliere comunale e assessore all’ambiente per il comune di Capannori, nonché assessore regionale con delega alla ricerca, all’università e al diritto alla casa.

Quando ti sei avvicinato a Democrazia Proletaria?

Mi sono avvicinato a DP fin dall’inizio della sua costituzione come cartello elettorale della sinistra extraparlamentare per le elezioni amministrative del 1975 e poi per le politiche del giugno 1976. Io militavo allora nella Lega dei comunisti, e per me quella fu una campagna elettorale che vissi con grande entusiasmo e un estenuante impegno quotidiano. Nel mio paese a Lammari, dove c’era un bel nucleo forte, riuscimmo a organizzare la prima festa politica nella sua storia di paese rurale, democristiano e conservatore – la Festa d’Estate, a sostegno della lista. Un evento straordinario, costruimmo il villaggio con le nostre mani lavorandoci fino a notte: una grande festa e un gran successo, l’unica a livello lucchese. Alla fine lasciammo la struttura ai compagni del PCI, che vi tennero la prima festa dell’Unità.

Il risultato elettorale fu pessimo, un magrissimo 1,5% che però bastò a eleggere un piccolo drappello di 6 deputati. Fu una grande delusione, mi servì qualche settimana a metabolizzarla. Subito dopo aderii alla costituente del partito, obiettivo per la quale mi impegnai molto, non senza scontri politici interni. Il 13 aprile 1978 ero tra i fondatori al cinema Jolly di Roma dove nacque DP.

Perché proprio DP e non il Partito comunista? Quali ragioni hanno guidato questa tua scelta di militanza?

Perché DP e non il grande e potente PCI? Semplice: la mia militanza movimentista, il mio antimilitarismo, la mia innata riluttanza a ogni autoritarismo, non mi lasciava alternativa. Il PCI era industrialista, sviluppista, nuclearista, molto arretrato in materia di diritti civili. Inoltre non sono mai stato filosovietico: Breznev e tutti quei burocrati e militari impataccati sulla Piazza rossa il 1° Maggio mi sembravano delle insopportabili mummie, fuori dal tempo.

Veniamo agli anni ’80: quale ruolo ricoprivi allora in DP? In che condizioni si trovava il partito in Lucchesia in quel momento?

Essendo stato tra i fondatori nella provincia di Lucca, fui eletto già al I congresso di federazione segretario provinciale, ed ero nel comitato politico regionale e in quello nazionale. La seconda metà degli anni ’80 furono per DP sicuramente i migliori in termini di impegno politico e risultati.

All’inizio del 1984 aprimmo la sede federale in via S. Tommaso in Pelleria, avviando un processo di strutturazione a livello provinciale in tutte le aree geografiche della nostra provincia, e una più limitata presenza istituzionale. Avevamo però una grande capacità di mobilitazione e una buona visibilità politica: in sede avevamo una offset con la quale stampavamo il Quaderno di Dippì, che inviavamo a iscritti e simpatizzanti.

Nell’86 la sede si trasferì in via Fillungo 88, dove tenemmo il I congresso provinciale, aperto da una mia relazione introduttiva dal titolo “Al bivio del 2000. Idee e progetti per l’alternativa”. Erano anni di grandi battaglie sulle questioni nazionali (dall’impegno antinuclearista alle 35 ore lavorative) e locali (la denuncia del malaffare nella gestione dei rifiuti industriali, culminata con l’occupazione del consiglio provinciale, e la vittoriosa lotta referendaria per la chiusura delle Mura urbane e del centro storico al traffico), che alle elezioni dell’87 – dove ero candidato alla Camera – portarono a DP i migliori risultati elettorali: 5.372 voti in provincia, in città siamo al 3,5%, nonché buoni risultati in tanti comuni della Versilia e della Garfagnana. Poi nel 1988, al VI congresso nazionale, si consumò la rottura fra Mario Capanna e quei dirigenti che lasceranno il partito per fondare i Verdi Arcobaleno.

La scissione e l’89 segneranno la fine del progetto di DP, la cui eredità ha avuto però un vasto impatto sulla sinistra italiana. Una formazione marxista eretica e antisovietica, che ha portato nel dibattito politico tematiche fino ad allora inesistenti: la critica radicale dell’idea della crescita infinita e del nostro modello di consumi e sviluppo; le battaglie per i diritti civili e sociali tenuti inscindibilmente assieme; le campagne antinucleariste (quando tutti erano affascinati dalle prospettive dell’energia nucleare); la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario – lavorare meno e lavorare tutti, tratto distintivo di DP.

Ripensando a quella bella esperienza non posso che rilevare che era un piccolo partito elitario, zeppo di personalità, competenze e intelligenze, un bel numero di militanti con livelli di cultura politica estremamente elevati, molto superiori alla media dei militanti delle altre forze compreso il PCI. Per me DP è stata prima di tutto una scuola di vita e una straordinaria opportunità di crescita culturale e politica.

DP si è sempre posta criticamente nei confronti dei paesi del socialismo reale: quali erano le tue posizioni in materia? E come hai reagito di fronte al crollo del Muro nell’89? Quali ricordi hai di quella giornata, e quali riflessioni ha scatenato in te?

Nessuno allora pensava che un giorno sarebbe crollato il Muro di Berlino, sconvolgendo gli equilibri politici usciti da Yalta e che alla mia generazione sembrava dovessero durare per sempre1, il cui superamento per decenni è rimasto un’utopia perseguita da piccole e istituzionalmente marginali minoranze come DP, che osavano immaginare, per il continente europeo, un futuro non più fondato sull’equilibrio del terrore atomico. Quegli accadimenti storici si incaricarono di ricordare a tutti che niente in questo mondo è eterno, tutto ha un inizio e prima o poi anche una fine.

Fra il 1989 e il 1991 illustri ed entusiasti opinion leader – colti di sorpresa dall’evento – sostennero che la Storia era finita poiché “l’impero del male” sovietico era finalmente caduto, aprendo all’umanità prospettive di pace e benessere globali. Sciocchezze colossali, affermate senza il minimo pudore nei dibattiti pubblici che affollavano i palinsesti radiotelevisivi e le colonne dei giornali. Altro che pace! Di lì a poco, nel cuore dell’Europa, si sarebbe scatenata una delle più cruente guerre civili che trasformò l’intera Jugoslavia in un grande teatro di guerra. Parliamoci chiaro, nessun osservatore aveva allora previsto niente di tutto ciò che sarebbe accaduto.

Quella sere del 9 novembre 1989 una folla festosa di uomini e donne presero a picconate e martellate quel muro simbolo di un’Europa divisa in due, che aveva tenuto forzatamente separato un popolo; famiglie costrette a salutarsi a distanza, oltre le reti e i fili spinati, guardandosi con potenti cannocchiali, su versanti opposti e distanti, oltre la maestosa porta chiusa e proibita di Brandeburgo. Io l’ho vista da turista e ho sentito dentro di me tutto il peso soffocante e oppressivo di quel muro. La cosa che più mi amareggiò fu vedere che quei regimi crollarono indecorosamente lasciando dietro di sé una montagna di rovine e miserie a livello culturale e sociale.

Quali furono le reazioni interne al partito a livello locale, fra i tuoi compagni di militanza, di fronte all’89 e alla fine dell’esperienza comunista dell’Est?

Intanto una precisazione: noi di DP non abbiamo mai considerato socialisti e tantomeno comunisti quei regimi, che con la loro presenza infangavano l’immagine stessa del comunismo. DP era una forza antistalinista, antiautoritaria, in sintonia con quel filone marxista “caldo”, non riduzionista e meccanicista come il marxismo ufficiale che pensava che una volta abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione sarebbero nati di conseguenza la società e l’uomo nuovo socialista. Pochi giorni dopo quelle vicende si svolse il 3° congresso della federazione lucchese, aperto da una mia relazione che non poteva non iniziare con un’analisi di ciò che stava avvenendo a Est:

“Gli sconvolgenti avvenimenti che stanno maturando in questi giorni nell’Est europeo sono stati da noi auspicati e desiderati fin dall’inizio della nostra storia. Essi costituiscono la fine di un’ambiguità e di una mistificazione che volevano identificati il socialismo e il comunismo in regimi che si sono caratterizzati per l’onnipotenza della burocrazia di partito e della polizia segreta, per le deportazioni di massa e dei carri armati utilizzati come mezzo di risoluzione dei conflitti sociali al proprio interno e nei confronti dei paesi alleati.”

Il giudizio era estremamente positivo, consapevole che queste vicende avrebbero rimesso in moto la Storia ferma a Yalta. Avvertivo però il pericolo di una forte strumentalizzazione da parte delle destre e degli anticomunisti, allo scopo di dimostrare che il capitalismo era l’unico e il migliore dei mondi possibili.

Nello stesso anno anche il PCI imbocca un cammino che lo porterà a mutare profondamente la propria fisionomia. Cosa pensasti di quel cambiamento in atto, sfociato nella fondazione del PDS? E cosa guidò la tua adesione alla neonata Rifondazione comunista, nella quale DP confluisce nel 1991?

Il nostro giudizio sulla svolta della Bolognina fu duramente critico: le modalità e il dibattito politico di allora tendevano a gettare via il bambino con l’acqua sporca. In quegli anni in molti, anche dirigenti di primo piano, facevano a gara nel dire: mai stati comunisti. Un’indegna e vergognosa liquidazione di una storia che non è mai stata la mia, ma che mi infastidiva per le conseguenze negative che aveva su tutta la sinistra noi compresi, che all’inizio ci pensammo al riparo da quella rovinosa frana poiché venivamo da un’altra storia, radicalmente critica rispetto ai regimi dell’Est; ma come spesso avviene nella storia non si fanno troppe distinzioni, e lo smottamento non risparmiò nessuno. Il senso comune fu quello di dire: il comunismo ha fallito, non c’è alcuna possibilità di rifondarlo. Poi nacque Rifondazione, e siccome io sono sempre attratto dalle sfide impossibili, l’idea di rifondare una nuova cultura comunista per il XXI secolo mi coinvolse. C’era però un ostacolo enorme: quella parte del PCI che non aveva accettato la Bolognina era quella legata a Cossutta, la più conservatrice e filosovietica. Furono mesi di dubbi e perplessità: io in un partito insieme a Cossutta mai! Il pressing su di me a livello locale e nazionale fu estenuante: l’impegno era quello di entrare con la nostra visione per mutare profondamente una prospettiva ormai morta e sconfitta.

Eravamo un gruppo di militanti preparati e determinati, certi che una volta entrati avremmo potuto condizionare lo sviluppo di RC, dando una dimensione di massa al nostro progetto di una sinistra moderna alternativa al PDS. Pochi anni dopo, con la segreteria Bertinotti, si avviò effettivamente un grande processo di rifondazione culturale che integrò la nostra cultura pacifista e ambientalista: non ci divise la battaglia culturale ma, come sempre è avvenuto nella storia della sinistra, questo processo fu interrotto per una divisione profonda rispetto al ruolo del partito nei confronti del governo. Il calvario della sinistra fino ai giorni nostri, con l’ultima divisione consumatasi alle recenti elezioni regionali toscane.

1 Così ad esempio lo storico Robert Service: “Anche se il mondo comunista era percorso da profonde divisioni interne, gli Stati comunisti coprivano un terzo delle terre emerse del pianeta. La maggior parte delle persone dava per scontato che le cose sarebbero andate avanti così per molti anni.” (in Compagni. Storia globale del comunismo nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 523)




Mohicani all’ombra delle mura: la Democrazia proletaria lucchese dal “Manifesto” all’89

A partire dalla fine degli anni ’60, a sinistra del Pci – anche sull’onda delle esperienze movimentiste del ’68 – nascono numerose formazioni politiche di ispirazione marxista, da Lotta continua a Potere operaio passando per il Manifesto (nato proprio da una corrente interna del Partito comunista), il PdUP e Avanguardia operaia: decine di sigle e un tratto in comune ben preciso, la critica al Partito comunista – colpevole agli occhi di alcuni militanti e simpatizzanti più giovani, molti dei quali provenienti da ambienti universitari, di aver abbandonato qualsiasi strategia rivoluzionaria1 – e di conseguenza all’Unione sovietica e ai regimi del blocco socialista in Europa orientale, accusati di essere paesi capitalisti mascherati da “falso socialismo”2 e scalzati nell’immaginario collettivo dai miti di Che Guevara e della Cina maoista.

Fra tante formazioni, una in particolare spicca per l’originalità dei contenuti e della proposta politica (che nel corso degli anni si configurerà sempre più come una sintesi di pacifismo, ambientalismo, marxismo libertario e cattolicesimo progressista), un partito – o meglio un cartello elettorale, almeno nei suoi primissimi anni di attività a partire dalla fondazione nel 1975 – che riunisce vari soggetti dell’area della sinistra rivoluzionaria (PdUP, AO, Movimento lavoratori per il socialismo e altri gruppi minori): è Democrazia proletaria, “uno strano gruppo di protocristiani” (così l’avrebbe definita nel 1987 l’attore Paolo Villaggio, allora candidato nelle liste di Dp3) che nel corso dei suoi circa sedici anni di vita fino alla confluenza in Rifondazione comunista avrebbe costituito la principale forza politica a sinistra del Pci.

Anche a Lucca – “città bianca” per eccellenza nella rossa Toscana – la tribù dei “mohicani”4 demoproletari riesce a piantare le proprie tende: una “piccola comunità” – così la descrive Eugenio Baronti – “di militanti superattivi, preparati, colti; alti livelli di scolarizzazione, elevata qualità del dibattito e del confronto politico”, quasi il partito di una élite intellettuale – nonostante l’obiettivo prefissato della costruzione di un partito di massa5. Fra loro c’è Gian Paolo Marcucci, allora giovane studente e militante della sinistra marxista, già vicino al locale circolo del Manifesto, assieme al quale abbiamo ripercorso alcune delle tappe più significative della storia di Dp a Lucca.

Quando ti sei avvicinato a Democrazia proletaria? Avevi già militato in precedenza in altri partiti o movimenti?

Sì, a 17 anni , nel 1971, proprio in concomitanza con l’uscita dell’omonimo quotidiano, mi avvicinai al circolo locale de Il Manifesto. Iniziai praticamente con la diffusione del giornale davanti alla scuola – Istituto magistrale – che frequentavo a Lucca. In seguito, dopo il mancato successo elettorale del 1972 iniziò il progetto di unificazione con i compagni dello Psiup che avevano deciso di non confluire nel Pci o nel Psi e che insieme ai compagni del Movimento politico dei lavoratori (cattolici di sinistra) avevano dato vita al PdUP. Se nel gruppo lucchese del Manifesto vi erano prevalentemente studenti e insegnanti, nel Pdup vi era una discreta presenza operaia di quadri di fabbrica.

Nel 1975, si arrivò all’unificazione e nacque il Partito di unità proletaria per il comunismo, fra i cui esponenti maggiori erano Lucio Magri, Vittorio Foa e Rossana Rossanda. Nel frattempo si era aperto un dialogo con altre formazioni della sinistra extraparlamentare, come Avanguardia operaia e il Movimento studentesco di Mario Capanna, che ebbero come primo risultato la presentazione alle elezioni amministrative del 1975 di liste denominate “Democrazia proletaria” in alcune regioni. In Lombardia , dove il successo fu più marcato fu eletto consigliere Capanna. In Toscana fu presentata la lista Pdup per il comunismo ma intanto, a livello locale, iniziarono gli incontri con AO e con la Lega dei comunisti, altra organizzazione con un certo radicamento in regione.

Nel 1976, in occasione delle elezioni politiche anticipate, dopo travagliati tira e molla si arrivò ad un cartello elettorale (da non confondere con il futuro partito) ribattezzato “Democrazia proletaria”, che raggruppava le tre forze più consistenti alla sinistra del Pci: Pdup, AO e Lotta continua. C’era l’auspicio da un lato del sorpasso della Dc da parte del Pci e di una tenuta del Partito socialista, dall’altro di un buon successo delle forze della nuova sinistra, riuscendo a superare il 50% del consenso elettorale in modo da rendere possibile la formazione di un governo di sinistra, nonostante la politica indirizzata al compromesso storico dei comunisti.

Perché proprio Dp e non il Pci, allora la principale forza politica a sinistra? Cosa differenziava Democrazia proletaria dal Partito comunista “ufficiale”?

C’era la convinzione della “rivoluzione dietro l’angolo”, considerati gli eventi che in parte si intrecciavano sul piano nazionale e internazionale: la resistenza del popolo vietnamita, Cuba e i fermenti in America latina, le lotte di liberazione anticoloniali in Africa, le ribellioni studentesche e le lotte operaie in tutta Europa – sia a est che ad ovest – e per ultimo la caduta del fascismo in Portogallo ad opera dei militari democratici; parafrasando Dylan, i tempi stavano cambiando. E così avveniva anche in Italia dove il Partito comunista sicuramente dava un fondamentale contributo dall’opposizione con la sua forza istituzionale, supportando di fatto anche i socialisti nel contraltare governativo rispetto alla Dc, all’attuarsi delle riforme in questo periodo. Non convinceva però, soprattutto alla luce della strategia della tensione – portata avanti da gangli importanti della Dc unitamente a servizi segreti ed estrema destra per bloccare le conquiste del movimento operaio e studentesco – la proposta del compromesso storico. Fra l’altro in quegli anni era emersa una piccola ma significativa area militante di cattolici di sinistra che respingeva il collateralismo con la Dc come partito dei cattolici.

Per questi motivi, nonostante i risultati elettorali del 1976 fossero stati al di sotto della aspettative per le sinistre, l’ipotesi su cui intendeva muoversi il Partito comunista non mi convinceva, tanto più quanto all’allontanamento da Mosca non corrispondeva una posizione di autonomia e non allineamento, bensì si accettava la protezione dell”ombrello della Nato”. Quando poi nel corso dell’estate del ’76 fu varato il governo monocolore democristiano di Andreotti con l’astensione del Pci, fu chiara la direzione che stava prendendo quest’ultimo e che avrebbe poi indebolito le lotte sindacali e ridato ossigeno alla Dc in difficoltà. Fu per questo che, pur nel subbuglio creato dalla delusione elettorale che portò a scissioni e abbandoni della politica, e nonostante a livello nazionale come a Lucca la componente Manifesto conservasse il marchio Pdup per il comunismo, personalmente aderii al processo di formazione di Democrazia proletaria che tenne il suo primo congresso due anni dopo, nel 1978, in un clima fortemente deteriorato a causa del terrorismo brigatista e delle politiche securitarie appoggiate anche dal Pci. Democrazia Proletaria chiaramente non riteneva più la rivoluzione dietro l’angolo, però non si rassegnava né alle scorciatoie della lotta armata né al blocco delle rivendicazioni operaie.

Chi sono i principali esponenti di Democrazia proletaria a Lucca? Quali sono le loro storie politiche?

Prima di rispondere a questa domanda vorrei fare una distinzione fra le tre fasi della vita di Dp a Lucca e nel paese. La prima è quella che va dalla sua costituzione fino alla debacle elettorale con il cartello Nuova sinistra unita (1975/1979) ; la seconda fase, dalla ricostruzione dalle macerie fino al rientro in Parlamento (1980/1983); la terza, che passando per la scissione dei Verdi arcobaleno arriva fino allo scioglimento di Dp (1983/1991). Del primo periodo ricordo soprattutto Gildo Tognetti, già dirigente di rilievo nello Psiup a livello nazionale, che poi si allontanerà nell’80. Altri compagni furono Claudio Orsi, già dirigente sindacale lucchese, proveniente da AO che resterà attivo fino alle elezioni dell’83; poi Eugenio Baronti e Danilo Ascareggi (ex Lega dei comunisti), Marcello Nelli (ex Pdup e Acli) e, dalla valle del Serchio, Leonardo Mazzei e Mario Regoli (ex Stella rossa se non sbaglio); tutti resteranno più o meno in Dp fino alla fine, confluendo in Rifondazione.

La terza fase fu quella di maggiore espansione in termini di iscritti e militanti: soprattutto dopo le amministrative del 1985, in cui ottenemmo un buon risultato – considerando le nostre forze – livello locale (un consigliere provinciale e un consigliere nella circoscrizione Lucca-Centro) entrarono compagni storici del movimento lucchese del ’68, come Francesco Giuntoli, Daniele Squaglia, Virginio Monti, Tommaso Panigada e Luca Franceschi, oltre ad altri compagni e compagne (seppur poche purtroppo) più giovani.

Dp è sempre stata molto critica verso l’Urss e i paesi del “socialismo reale”. In cosa consisteva questa critica?

Personalmente a 14 anni, pur orientato vagamente a sinistra ho dovuto fare i conti – oltre che con la guerra del Vietnam e la sfortunata impresa del Che in Bolivia – con la Primavera di Praga e la sua repressione ad opera del Patto di Varsavia. Quindi fra il difendere a spada tratta la “Patria del Comunismo” anche quando andava contro altre esperienze che pure non rinnegavano il socialismo, e sposare tesi che bollavano come totalitario a prescindere il pensiero comunista, ho dovuto cercare progressivamente di approfondire le ragioni di questa deriva autoritaria dei sistemi socialisti e delle possibili alternative senza rassegnarsi al “migliore dei mondi possibili” rappresentato dal capitalismo. Anche per questo avevo aderito al Manifesto e mi trovai a mio agio in Dp. Fra le critiche maggiori al socialismo reale, pur riconoscendone la capacità di assicurare – a differenza dell’Occidente e dei paesi in via di sviluppo sotto il suo tallone – la soddisfazione generalizzata dei bisogni primari (sanità, occupazione, istruzione), era l’identificazione fra Partito e Stato, la burocratizzazione dei rapporti sociali, la mortificazione delle spinte dal basso, la bollatura di ogni dissenso come complotto e infine un’organizzazione del lavoro che non si discostava nei meccanismi fondamentali da quella alienante capitalistica. Per non parlare delle purghe staliniane e del sistema dei gulag, sebbene l’Occidente stesso – che favoriva i golpe in Grecia e America Latina, sosteneva il Franchismo spagnolo e la strategia della tensione in Italia – non fosse da meno.

Nel 1989 cade il muro di Berlino, e da lì a pochi anni scompare la stessa Unione sovietica. Quali furono le reazioni dentro la Democrazia proletaria lucchese?

Riprendendo quanto detto sopra, c’era stata una certa attenzione da parte di Dp verso l’area del dissenso all’Est (ricordo un numero di “Unità Proletaria” dei primi anni ’80 dedicato a Solidarnosc e, se ben rammento, la candidatura del dissidente polacco Wlodek Goldkorn alle elezioni europee dell’89), ed anche sulla repressione di piazza Tienanmen ci fu sconcerto. In merito al crollo del muro di Berlino non ricordo le posizioni del partito (ma sicuramente ve ne furono, in questo caso fallano le mie memorie); personalmente vidi con favore ciò che avveniva, sperai che l’esito fosse una liberazione del socialismo dalla cappa burocratica in cui era stato ingabbiato, senza – come è successo – cadere dalla padella nella brace di una riunificazione delle due Germanie all’insegna di una sorta di colonizzazione neoliberista. Ciò purtroppo è avvenuto in varie forme in tutti i paesi dell’Est, dove spesso una parte della vecchia classe dirigente “comunista” si è riciclata per governare la nuova situazione.

Il 1989 è anche l’anno della “svolta della Bolognina” e dell’avvio di quel processo che porterà alla trasformazione del Pci in Partito democratico della sinistra (Pds). Questa scelta suscita stupore all’interno di Dp?

Diciamo parzialmente stupiti (perlomeno nel mio caso) non tanto perché non vedessimo una certa mutazione genetica avvenuta nel tempo (da anni parlavamo di “socialdemocratizzazione”) soprattutto in parte del gruppo dirigente del Pci, quanto per la decisione di scioglierlo cambiando il nome. Se dopo a fuoriuscirne oltre agli ingraiani furono i cossuttiani, pareva che i più dipendenti dal filosovietismo non fossero questi ultimi ma proprio chi voleva rimuovere la parola “comunista” dal nome. Come a dire: la fine dell’esperienza sovietica equivale alla fine del comunismo stesso, dunque si cambia nome. Chiaramente iniziò ad esserci attenzione nei confronti di chi dissentiva da quella scelta; fra l’altro Dp aveva già subito l’uscita di Capanna (che aderisce ai Verdi), Ronchi Tamino, Franco Russo (metà del gruppo parlamentare) e Molinari con loro vari consiglieri amministrativi, per cui l’eventualità di nuove aggregazioni poteva essere benvenuta.

A distanza di pochi anni dalla fine del Pci, anche la storia di Democrazia proletaria giunge al termine: nel 1991 infatti il partito confluisce nella neonata Rifondazione comunista. Quale strada scegliesti allora, e perché? Quale fu il dibattito sul territorio circa l’adesione al Prc?

Praticamente, se nel 1989 eravamo riusciti alle Europee a confermare un deputato – Eugenio Melandri – la scissione dell’area interna verde, che aderì alla lista Verdi Arcobaleno, indebolì l’immagine del partito sebbene, esclusi i non pochi rappresentanti nelle istituzioni, la maggior parte del corpo militante fosse rimasto in Dp. Anche a Lucca fu così: a livello provinciale uscirono  soprattutto i viareggini. Comunque il dato nuovo della formazione, sul finire del 1990 del Movimento per la Rifondazione comunista riaccese -pur fra i dubbi- le speranze per una nuova aggregazione . Ricordo una manifestazione a Camp Derby nel febbraio-marzo 1991, contro la Prima guerra del Golfo ancora in corso, cui parteciparono anche loro. Io, come la grande maggioranza degli iscritti lucchesi, decisi di aderire al Movimento (non ancora partito). Mi ricordo che la prima sede era una stanzetta, a Lucca, in Via Santa Chiara e la prima riunione cui partecipai mi sembra fu nell’autunno del ’91: le perplessità riguardavano soprattutto il rapporto con l’area cossuttiana (considerando le posizioni critiche sul socialismo reale) ma trovammo comunque abbastanza disponibilità, ho un buon ricordo dei primi anni. Per circa tre anni continuammo però a tenere la sede che avevamo in Via Fillungo, trasformandola in una piccola casa della sinistra, il “Circolo Utopia”.

1Critiche nei confronti della progressiva “istituzionalizzazione” del Pci erano già emerse in seno al partito stesso nel corso degli anni ’50, ad esempio con Pietro Secchia (vedi anche Vittoria, A., Storia del Pci, 1921-1991, Carocci, Roma 2007); l’episodio più emblematico resta però quello che vide protagonisti Adriano Sofri e Gian Mario Cazzaniga nel marzo 1964 alla Scuola Normale di Pisa, che contestarono a Palmiro Togliatti la mancata presa del potere rivoluzionaria in Italia nell’immediato dopoguerra, nonché il voto favorevole del Pci all’articolo 7 della Costituzione, che recepiva i Patti Lateranensi del ’29 (vedi anche Meucci, G., “Dalle aule alle piazze”, in Meucci G., Renzoni S., Il Sessantotto. Immagini di una stagione pisana, Pacini, Pisa 2017, pp. 39)

2Così un verso de “L’ora del fucile” (1971), del Canzoniere pisano: “In Spagna e in Polonia gli operai | dimostran che la lotta non si è fermata mai | contro i padroni uniti, contro il capitalismo | anche se mascherato da un falso socialismo. | Gli operai polacchi che hanno scioperato | gridavano in corteo: Polizia Gestapo! | Gridavano: Gomulka, per te finisce male! | Marciavano cantando l’Internazionale!” (vedi anche https://www.ildeposito.org/canti/lora-del-fucile)

4Il riferimento è al titolo del libro di Pucciarelli, M., Gli ultimi mohicani. Una storia di Democrazia proletaria, edito da Alegre nel 2011.

5Baronti, E., Con il piombo sulle ali, EDL, Lucca 2011, pp. 46-47; Eugenio Baronti (1954) ha ricoperto il ruolo di segretario provinciale di Dp dal 1980, dopo esserne stato uno dei fondatori; nel 1991 aderisce al Prc, prima di uscire dal partito nel 2010; è stato anche consigliere comunale e assessore all’ambiente nel comune di Capannori.

Articolo pubblicato nel marzo del 2020.